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Gianluca Ricci

LA FRECCIA E LA LAMINA

      

      

«L’uomo colto è stimato in qualunque luogo o condizione egli si trovi, e incontra sempre persone ben disposte verso di lui, le quali lo avvicinano e cercano la sua compagnia, appagati dalla sua vicinanza».
‘Abd al-Latif al Baghdadi

«La cultura di uno studioso trae grande giovamento dal viaggiare alla ricerca del sapere e dall’incontro con gli autorevoli maestri del suo tempo».
Ibn Khaldun

 

Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso.

Sia lode all’Altissimo, l’Unico che si è rivelato nel tempo come Giusto e Previdente. È Lui, infatti, sempre sia benedetto il Suo nome, che ha voluto fin dall’inizio dei giorni dotare tutte le creature di semplici armi di difesa, ma talmente preziose da rivelarsi adatte in ogni momento alle più diverse necessità della sopravvivenza. Sia sempre lode a Lui, il Perfetto ed il Consapevole, il cui dono è stato tanto saggio che nessun vivente ha mai potuto sfruttare i propri artigli, zanne, muscoli o veleni per respingere o sopraffare più di un avversario alla volta anche se il corpo dell’altro fosse stato necessario per il diretto sostentamento. 

Anzi, proprio per questi motivi, nessuna morte nei piani dell’Altissimo è stata mai inutile o futile oppure occasione di gioia per il suo responsabile. Tutti, grazie alla voce che Egli ha posto nel nostro cuore, rabbrividiscono ogni qual volta una vita pur minima viene a cessare. Ed infatti, nel tempo che fu, popoli più primitivi dei nostri osavano elevare preghiere agli spiriti degli animali soccombenti nella caccia, stimando di essere sul punto di commettere un delitto di grave empietà. Nessuna guerra era indetta, a maggior ragione, se non per difendere un diritto collettivo o annullare gli effetti di un torto comune, per rendere libero un popolo dall’incombere della barbarie e dalla schiavitù. Qualcuno pretendeva addirittura di essere nel giusto difendendo con ostinata violenza le parole dell’Altissimo come se Egli, l’Onnipotente, non avesse a sua disposizione per difendersi dalla menzogna e dall’oltraggio altri mezzi che i nostri. Allora, però, le distruzioni erano limitate, perché non erano ancora nate persone che delle armi avevano fatto un mestiere e non esistevano uomini di scienza disposti a creare nuovi strumenti di morte. 

Nei disegni dell’Altissimo e Misericordioso non c’era l’intenzione di donare agli uomini la possibilità di distruggere le creature per mezzo di creature. Sono stati gli uomini che da soli si sono arrogati il diritto di sentirsi creatori ed hanno aggiunto artigli alle loro unghie, trasformato in lame affilate i propri bastoni, soggiogato la forza di nobilissimi animali quasi per incorporare la loro velocità e potenza. Non contenti di aver osato tanto, hanno voltato le spalle all’Eterno, rivolto preghiere al Satana, suo nemico fin dall’origine del mondo, per ottenerne nuovi favori ed ancora mezzi di sterminio. Accettando tali invocazioni scellerate il demone, la cui furbizia è mescolata alla ferocia, non solo ha corrotto ancor di più l’animo dei suoi nuovi fedeli, ma ha anche contribuito a diminuire il numero dei membri della nostra razza. Così sono nate le armi che di per sé sono sporche, maleodoranti, oscene perché spesso garantiscono facili vittorie solo a quanti sanno nascondersi nell’ombra per tramare agguati e tranelli. Nessuno, per natura, è capace di sostenere lo sguardo di chi muore per sua mano: non è per questo che il condannato alla pena capitale viene sottoposto al supplizio bendato o incappucciato?

Il molto venerabile maestro del mio maestro – siano onorati entrambi ora che dormono nell’ombra dell’Altissimo ed adornano la Sua corte celeste – l’antico esploratore Abu `Abdallah ibn Battuta, dopo una vita rallegrata da viaggi senza fine in tutte le dimore dell’Islam, era solito raccontare, avendola appresa alla corte del Sultano di Delhi, la storia di come gli uomini inventarono la loro prima arma d’offesa artificiale, la freccia. Ed io voglio che anche voi la conosciate ora, perché sia evidente come una cosa semplice sia invece veramente complessa e piena di nodi e ragionamenti inestricabili così che da uno sempre un altro ne nasce più stringente.

Quando gli uomini si resero conto che alla loro sicurezza non era più sufficiente né la forza dei propri pugni né quella dei rozzi bastoni usati per tenere a bada i propri nemici e le belve, fu necessario rivolgere l’attenzione alle manifestazioni più distruttive della natura. Il precipitare delle cose dall’alto, l’azione degli elementi naturali, il fuoco che riscalda e brucia, l’acqua che ristora, ma spazza via: come governare tali elementi e trattenerli a propria disposizione? Impossibile catturare la violenza improvvisa del fulmine, eppure la folgore suggeriva l’idea di un colpo improvviso, di una penetrazione rapida decisa da lontano. Nessuno aveva visto da vivo la punta di un fulmine o la mano dell’Altissimo che lo impugnava. Quando il fuoco celeste devastava i boschi tutto rimaneva deserto e distrutto. Così con il fuoco ci si era limitati ad aumentare la semplice resistenza dei bastoni da caccia indurendoli alla fiamma.

Allora fu chiesto ai migliori fabbri di imitare quello che tutti potevano osservare e di predisporre accorgimenti o strumenti metallici da applicare alle punte dei bastoni e delle più rozze lance. Due furono le soluzioni giudicate migliori di tutte e sulle quali si concentrarono le ulteriori discussioni ed esperimenti. La prima consisteva in una scheggia triangolare di metallo, l’altra in una banda rettangolare, ma con i lati più lungi resi per l’occasione affilatissimi e taglienti. Con il primo strumento si poteva penetrare, forare, bucare, con il secondo troncare di colpo e di netto, separare tessuti e corpi, battere violentemente. Erano nate così le frecce, ma anche la spada, l’ascia. Le due forme si sarebbero potute combinare tra loro e se ne sarebbe ricavata un’arma spettacolare anche nel maneggio: l’alabarda.

Furono convocati guerrieri, sapienti e medici per verificare la maggiore efficacia dell’ascia rispetto alla freccia, della spada rispetto alla lancia, ma la cosa più facile da assegnare, su due piedi, ai due attrezzi fu solo il nome con il quale fin da allora li chiamiamo.

Vi risparmio il gran dibattito che se ne fece riassumendolo brevemente. All’inizio si decise di stabilire alcuni criteri di merito. Sembrò più saggio che si potesse scegliere sulla base della maggiore penetrazione nel corpo del nemico, sulla minore dispersione della forza applicata, sulla possibilità di incastrarsi più a lungo nelle carni ferite, sull’ampiezza del taglio provocato, sull’aumento del danno grazie ad un impulso rotatorio da dare al vettore utilizzato, sulla capacità di non farsi fermare dal primo ostacolo incontrato sotto pelle, sulla stessa quantità di materiale da utilizzare (il buon metallo è sempre costato caro), sulla migliore gittabilità di tutta l’arma nel suo complesso.

La forma triangolare parve da preferirsi, perché capace di dividere fin da subito le forze oppositive, dopo aver superato l’attrito dell’aria, incanalandole in un doppio flusso a destra e sinistra della punta, come il pilone di un ponte ben aggettato che si oppone alla forte corrente di un fiume in piena. Invece la lama si metteva a vibrare rumorosamente durante il colpo, disperdendo ogni possibilità di giungere con precisione sul bersaglio; spesso una banale corazza ne limitava i danni.

Senza ricorrere a studi geometrici, con buona pace di Pitagora il filosofo greco, tutti sanno che la forma triangolare offre una maggiore penetrabilità e che una punta, così inserita nella carni di un nemico, difficilmente ne esce a causa della resistenza degli altri angoli. È la tecnica dell’arpione. Il sangue e con esso la vita fuoriescono in modo più veloce e definitivo. Inoltre da un’ascia di discreta dimensione si ricavano almeno molte punte di freccia. Per rendere più efficace la nuova arma bisognava risolvere il problema di aumentare la distanza di sicurezza da cui si utilizza. Sembrava un dettaglio da poco, ma non lo era affatto. Prima venne utilizzato un bastone moltiplicatore di forze, una specie di grande braccio di legno, quasi un prolungamento di quello naturale dell’uomo e poi l’arco, una specie di frusta gigante capace di colpire con un rumore simile a quello del vento.

L’arciere fu dapprima cacciatore ed imparò dal caso e dalla fortuna quanto fosse necessario addestrare la propria abilità e il proprio colpo d’occhio oltre il dovuto. Gli astronomi lo vollero confinare tra le stelle di notte non una, ma due volte, intravedendo nella gran volta prima un mostruoso essere saettante e poi il suo stesso strumento. Gli arcieri negli eserciti furono costituiti in reparti speciali e spesso sono stati risolutivi delle battaglie come ai tempi moderni l’artiglieria. Alcuni sovrani si sono vantati con sacrilega superbia di poter oscurare il sole con un nuvole di dardi, ma in questo modo la precisione dell’astuto cacciatore svanisce dietro un’alluvione di ferro e bronzo volante.

Che orrore tutto questo! Quale bellezza può nascondersi dietro a schiere infinite di uomini costretti a sterminarsi impugnando le armi? 

Ci sono popoli che, quasi rispondendo ad un ciclico richiamo degli astri, si scatenano sulle città degli altri e le distruggono e ne uccidono gli abitanti. Essi non sono mossi da parole di saggezza o dal bisogno di ristabilire diritti universali, ma da bramosia omicida per ciò che l’Altissimo, sempre sia onorato il suo nome, ha concesso a tutti, come la terra, le acque o l’aria stessa. Le armi sono solo il mezzo che hanno deciso di usare per bestemmiare con maggiore ferocia. Immagina quanti popoli furono costretti da governanti indomiti e crudeli a trascinarsi per le steppe polverose del mondo, ma non alla conquista di pianure fertili ed incolte, no, ma a togliere di mezzo altri fratelli, altri popoli, altri imperi saggi e ugualmente potenti. Come cani urlanti pretendono di liberare terre che non sono mai state le loro o come erbe infestanti si infiltrano oggi nelle coscienze, diffondono abitudini che sono servitù e preludio di morte. È questo il destino al quale ci porteranno le armi, tutte, e noi ne vedremo la durezza quando queste faranno più scandalo degli utili che se ne potranno trarre.

Ci consola, allora, riflettere su come l’Altissimo, quando compose il gran teatro del mondo, volle affiancare alla Vita sua sorella, la Fine, e, al contrario, ad ogni dolore, spesso, una doppia felicità.

   [dicembre 2009]

 

   


Gianluca Ricci è nato il 17 novembre 1950 a Perugia dove attualmente risiede. Dopo essersi laureato in lettere moderne si è trasferito per motivi di lavoro per circa un decennio in provincia di Bergamo. Ha insegnato italiano, storia e geografia nella scuola secondaria di I e II grado. 

Sono stati pubblicati alcuni suoi volumi di poesia:

Su SuperZeko, poi, sono riproposte con il consenso dell'autore alcune Poesie inedite degli anni 2005-2007, già pubblicate da Enrico Cerquiglini nel suo blog «Tra nebbia e fango» (http://enricocerquiglini.splinder.com/tag/gianluca_ricci), e Vigoroso è il moto del cielo (Poesie 2010-2012), già pubblicato da Midgard Editrice, mentre sono pubblicate in prima edizione la raccolta del 2008 Nova. Amor sacro ed amor profano ed altre cose ancora, quella del 2009 L'Uno vacante. Ancora citazioni, haiku, koan, aforismi e quant'altro..., Avessi ancora qualcuno (2011-2012), e le opere in prosa Koan all'italiana (2009), Il micio curandero & altri racconti (2009-2010), Le fiabe svoltate (cioè all'incontrario) (2010), Quando i ragazzi raccontano (2010), Tre viaggiatori (2010). Vi ha inoltre pubblicato Me le ha raccontate la mamma..., una raccolta di storielle e filastrocche apprese da sua madre Alda Rebecchi.

Il suo indirizzo di posta elettronica è etsi.omnes.non.ego@gmail.com.

   

 

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