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GIANLUCA RICCI

UN BELLO SGUARDO SULLE COSE   

Dario Chioli

Nota introduttiva a:
Gianluca Ricci, L'Uno vacante (ancora citazioni, haiku, koan, aforismi, ricette e quant'altro immaginando Sisifo felice...),
Midgard Editrice, 2010

ISBN 978-88-95708-81-2 - Per ottenere una copia a stampa dell'opera scrivere all'editore: info@midgard.it oppure all'autore: etsi.omnes.non.ego@gmail.com

   

Leggere le poesie di Gianluca Ricci è sempre una gioia, vi si ravvisa la nitidezza dell’uomo che investiga, che assapora e riassapora, cercando di liberare la propria anima dal superfluo, e riuscendo così a spegnere talvolta, in un istante di sublime accecamento, il desiderio di quanto per tutta la vita è andato cercando: «Oh tu che cerchi e non hai trovato, | Trovando non saprai più cercare. | La notte è fatta solo per chi ha occhi».

Tuttavia bisogna occuparsi della vita presente: «Né morte né nascita, | Ci sono date per ricordo. | La memoria è nell’intervallo», ovvero bisogna operare nelle circostanze, luoghi e tempi che caratterizzano questa nostra esistenza, costituendo in noi una memoria di esperienze rivelative. È qui, in questa sosta tra la nascita e la morte, che la verità può essere ricevuta, la memoria può esserne illuminata.

Ed è qui che l’afferra il poeta, di tanto in tanto, nel suo oscillare dall’autoironia alla visione, dalla constatazione del proprio limite («Che cosa è mai l'uomo | Che debba sopravvivere | A se stesso?») alla esaltazione mistica («il Cielo | E la Terra non mi contengono»).

Mentre l’umanità propria e dei suoi propri simili gli è fin troppo presente, constatandola nelle debolezze della carne e della psiche, al tempo stesso se ne esce per mille rivoli fuori dal sentiero battuto, evocando partecipazioni inattese, luci di piccoli satori, coinvolgimenti ipersensoriali.

Se è vero, come scrive l’autore, che «La sapienza dei mistici | Non nutre più la parola dei poeti», è però anche vero che in ciò lui non è consenziente affatto, e seguita cercando per la sua via la comprensione della «lingua degli uccelli», ovvero delle parole con cui l’anima può comunicare con il cielo – e comunicare, per l’anima, come per i poeti, è volare.

Perché è questo il senso di tutto questo scrivere: ingenerare sensazioni d’interiore volo. Dalla quotidianità delle cose note a tutti, distillare un’essenza di non quotidiano, di sovramondano. Proprio contemplando il disagio, la debolezza, il decadimento degli anni, saperne trarre delle luminescenze immortali.

Abbiamo visto che il poeta, se è tale davvero, si confronta con la propria morte. La guarda, sa che cancellerà tutto ciò che ha prodotto e produrrà, che ne sperderà al vento il nome, ma al tempo stesso avverte che, attraverso la porta che essa gli apre, gli viene incontro un universo di sensi nuovi:

Non solcherai altri cieli ed altri mari,
Ma gli stessi cieli e gli stessi mari
In altro modo.

Di tutto ciò che ha composto nel corso della sua vita e nelle considerazioni della sua mente, nulla durerà:

Rosse foglie d'autunno.
La parola del poeta
Non ne salverà una.
Eppure bisogna andare:
Da un'alba all'altra,
Di giorno in giorno,
Di notte in notte.

Ed essere consapevoli che «nel profondo un frutto si dispone», che l’inaspettato si prepara per noi in un destino di sorpresa continua. Non ci è data la previsione, una finta pace goduta nell’attesa di qualcosa di noto. La vita è groviglio di sensi e significati, le strade e le ore congiungono destini innumerevoli l’uno con l’altro, la verità è sempre ricevuta e sofferta direttamente e imprevedibilmente:

Amore, amore è detto
Solo se nuovi imbrogli
Intesse.   

   

 

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