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Gianluca Ricci

TRE VIAGGIATORI

      

      

1. Historia mongolorum

Quest’oggi ho sognato d’essere mongolo, figlio di mongoli, nipote di mongoli, cresciuto sopra uno di quei cavallini veloci come il lampo, sobri come formiche ed ebbri di vento come  bandiere lasciate a garrire sopra una pietraia.

Dalla Cina, lungo la Via della Seta, fino al Tigri e all’Eufrate sono stato a mangiar polvere e sputare sangue per il mio khan: la mia patria per un manto di stelle ed una luna mai piena, ma la sabbia è oro se scorre tra le mie dita e la tempesta il soffio caldo di un drago.

Come un fabbro il mio khan ha forgiato i suoi uomini, come in un oceano di luce ha raccolto le loro anime, come un falco ha sorvolato le terre dei suoi nemici. E i suoi figli ed i figli dei suoi figli non sono stati altro che l’eco della sua voce, il rimpianto del gesto che la sua mano tracciava nell’aria.

A saccheggiare città, a costruirne nuove, a vendere schiavi: che importa quante piume d’aquila il mio cappello portava o chi fosse la donna seduta alla mia destra. Io ho sempre varcato il confine con le nuvole, oltre quei monti, oltre lo scrosciare delle piogge.

Ho vissuto al riparo dei muri dei caravanserragli, ho pregato nelle moschee di Tabriz, Varamin  e Yazd, ho innalzato cupole e mausolei, ha creato meraviglie con stucchi e mattonelle di turchese e lapislazzuli, la luce celeste era al mio fianco.

Ed ora che resta di noi, di me? Frammenti di seta, ciotole d’oro e di ceramica, lo stesso grande spazio in cui le tende non vogliono più abitare, disturbate come sono dal suono di un transistor o dallo schiamazzo di uno scooter. Eppure se anche mancasse la mia anima non cesserebbe d’esistere la mia patria.

      

2. Ballata di un vecchio marinaio...

Non credo che sareste capaci di distinguere in alto mare se io sia fenicio, pirata etrusco o mercante greco. No. La mia carne è bruciata dalla salsedine e dal sole come quella di ogni abitante del grande mare e crespi e strinati dalla canicola sono i miei capelli. Asciutte le mie membra, tesa la mia pelle, cisposo il mio occhio sempre pronto a misurare la latitudine. Noi siamo di quelli tra le rane poste a gracidare sui bordi dello stagno – e che stagno! –, pronti a lasciarne le rive; anzi noi siamo di quelli che si sono già buttati in acqua, che hanno abbattuto alla bisogna querce e cedri del Libano, che hanno ricucito tra loro tele già di grandi dimensioni, che hanno imparato a vogare sul ritmo delle frustrate del capo-ciurma. E nessuno era stato obbligato a farlo: né una condanna né un debito da estinguere. Siamo nati sul mare, abbiamo il piede marino, respiriamo prima dell’ossigeno i sali che lenti evaporano giungendo al cielo.

Da quando abbiamo capito che gli uomini rimasti abbarbicati oltre le colline del litoraneo mancavano di tutto, perché di nessun valore era la ricchezza che accumulavano nelle cantine, mancavano di sale, di piombo d’Oltremanica, di stoviglie ateniesi, di soffice bisso e costosa porpora d’Oriente, d’olio d’Africa, di vetro egizio e tanto altro, che nel cambio vi era una gioia maggiore dell’ottenere le cose a tutti estranee, voglio dire, quando abbiamo capito che agli uni e agli altri noi riuscivamo a vendere l’idea di un altrove magico e sconosciuto, ecco allora abbiamo saputo quale fosse il nostro destino. E, non importa quale patria ci era capitato di abbandonare: abbiamo sempre dette le stesse cose, praticato gli stessi riti della compravendita, talvolta ecceduto nella furbizia e, un Dio ci perdoni, praticata perfino la pirateria.

Qualcuno di noi ha continuato a portare dentro di sé un lembo della vecchia patria e quando l’età ed il destino (nel nostro mestiere i vecchi non navigano) glielo hanno concesso sono sbarcati, ma non sempre, in una colonia della madrepatria. In una città, dove c’era un porto, perché nessuno di noi è benvisto in un luogo dove la ricchezza non produce ricchezza ed anzi dove tutto ti può essere tolto da una siccità o da una guerra con il vicino. Sì, in una città dove c’è un porto e tu puoi bestemmiare come vuoi e mai sarà il tuo Dio, dove puoi trovare una schiava e farla felice riscattandola ed onorarla come tua moglie. Anche a noi è permesso di illuderci, di crederci ancora vivi, magari allevando quattro marmocchi, che prima o poi ti abbandoneranno per il mare come uno sposo che rincorre la sposa.

      

3. Dei Novissimi, quello non scritto

So che stasera morirò. Sono troppo vecchio, ma gli anni, quanti anni effettivamente ho – perdonate questo mio vezzo – non ve li dirò. E non voglio neppure discutere da cosa traggo tanta certezza. Non ho bisogno di conforto e neanche mi sento disposto a sentire voi, lì, tutti pronti, gentilmente, ma atrocemente fastidiosi, a confutare la serietà dei miei sintomi, peggio, la necessità di una diversa diagnosi. In fondo siamo macchine e, come a queste, dopo un po’, se non cedono i materiali, prolassano i meccanismi. Avere paura, a questo punto, è solo un lusso che si può permettere chi ha sprecato la vita e le chance incontrate. Che dico? Neppure chi si è visto scivolare via la vita dovrebbe lamentarsi. In fin dei conti anche vivere d’accidia è stato farsi un bel regalo, un modo per riempirsi la vita, pretendendo di avere questo e quello, giustificando l’uno e l’altro, amando tutto e forse nessuno.

Vivere è come viaggiare, anzi è davvero un viaggio, ma non di quelli fatti a piedi, in cui non arrivi mai ed hai lo stesso monte, lo stesso fiume, la stessa città davanti, di fianco o dietro e non te li schiodi che dopo tre quattro giorni, forse dopo una settimana di cammino, con i piedi pieni di vesciche e i calzini che si bucano dopo l’ennesimo rattoppo. Che noia un pellegrinaggio così. C’è una mia amica di gioventù, sì, ebbene, una mia vecchia fiamma, che prima di conoscermi era andata a piedi a Santiago di Compostela: un fiore, capelli neri, occhi neri ed un piglio da soldato. Andata e tornata, giusto in tempo per farsi rimangiare dal tran tran della vita, lavoro, per lo più precario, amori, precari anche essi, passioni mescolate a incerte certezze…

No. Il viaggio non deve finire mai. È il viaggio che forma l’uomo e, quando esso finisce, finisce anche la formazione, la maturazione, l’identità della persona. È il nuovo che conta, il nuovo che ti viene incontro, anzi ti aggredisce, il ritmo con cui ti accorgi che la contingenza scompare, perché non hai più tempo di pensare che già devi decidere a proposito di qualcosa di diverso.  E soprattutto cercate di non perdere velocità. Se ci si ferma, se si rallenta, se si comincia a pensare a poco fa, a quel volto che ci ha commosso, a quegli occhi che ci hanno imprigionato per qualche attimo, all’avventura che abbiamo superato, è finita: non avremo più altri occhi in cui perderci, altri seni in cui tuffarci, altre mani da stringere. Avanti, assecondando casomai con tutto il corpo il ritmo possente che ci travolge, fischiettando la canzone che saremo stati noi ad inventare, ma che esiste da sempre, a deridere il bosco dove cade la notte ed il burrone che un ponte, ed un altro ancora, ci permetterà di saltare…

          

 [settembre 2010]

   


Gianluca Ricci è nato il 17 novembre 1950 a Perugia dove attualmente risiede. Dopo essersi laureato in lettere moderne si è trasferito per motivi di lavoro per circa un decennio in provincia di Bergamo. Ha insegnato italiano, storia e geografia nella scuola secondaria di I e II grado. 

Sono stati pubblicati alcuni suoi volumi di poesia:

Su SuperZeko, poi, sono riproposte con il consenso dell'autore alcune Poesie inedite degli anni 2005-2007, già pubblicate da Enrico Cerquiglini nel suo blog «Tra nebbia e fango» (http://enricocerquiglini.splinder.com/tag/gianluca_ricci), e sono pubblicate in prima edizione la raccolta del 2008 Nova. Amor sacro ed amor profano ed altre cose ancora, quella del 2009 L'Uno vacante. Ancora citazioni, haiku, koan, aforismi e quant'altro..., e le opere in prosa Koan all'italiana (2009), Il micio curandero & altri racconti (2009-2010), Le fiabe svoltate (cioè all'incontrario) (2010), Quando i ragazzi raccontano (2010) e Tre viaggiatori (2010). Vi ha inoltre pubblicato Me le ha raccontate la mamma..., una raccolta di storielle e filastrocche apprese da sua madre Alda Rebecchi.

Il suo indirizzo di posta elettronica è etsi.omnes.non.ego@gmail.com.

   

 

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