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Gianluca Ricci
IL SUBLIME COMPIMENTO
Per tutto il giorno le sentinelle erano rimaste ferme, lì, al loro posto a scrutare l'orizzonte. Veloci ordinanze raggiungevano gli avamposti tormentando le proprie cavalcature con una corsa sfrenata. Rabbia ed angoscia stravolgevano i volti bruciati dal sole dei soldati più giovani. La linea di congiunzione degli elementi, il punto di fuga tra il mare ed il cielo emanava, al contrario, un luminoso ed indifferente senso di quiete. Non un filo di vento ad increspare le onde, piatto l'orizzonte, non un nembo o un cirro a promettere tempesta. Il mare, davanti agli avamposti militari, rifletteva la luce del sole pigramente, come uno specchio antico e maculato, intenzionato ad impedire a chiunque una visione perfetta e rassicurante.
La prima fila delle truppe era stata acquartierata all'ombra di ampie tende sistemate a ridosso dei villaggi dei pescatori, mentre il resto dell'esercito dilagava in un turbinio di teli scossi appena dalla brezza al di là delle colline. Uno spettacolo formidabile e pauroso si sarebbe offerto a chi avesse potuto sorvolare quell'immensa scacchiera, quel groviglio di padiglioni, al cui interno gli ufficiali superiori meditavano opportuni ordini di servizio e i soldati impigrivano nel sonno o nel gioco.
Il più formidabile degli eserciti, che la città di Fenizia aveva potuto raccogliere, era dislocato in campagna già da parecchi giorni. Se ne lamentavano i bifolchi della zona che avevano visto all'improvviso le proprie taverne riempite da una ciurma della peggiore specie, aumentati di colpo i prezzi del vino e d'ogni merce e le donne, poi, insidiate se non prevaricate quotidianamente.
Imprecando ai venti caduti e alla proibizione di incrociare nei paraggi, i pescatori restavano chiusi tutto il giorno nelle loro case a bere un vino sempre più inacidito. Ai contadini non restava altro che contendere ai quadrupedi degli intrusi, come cibo, le poche radici, ancora non estratte dal terreno sconvolto dal continuo scalpiccio. Si annunciava già, in tal modo, una futura, terribile pestilenza che la sorte si sarebbe incaricata di trasferire in ogni regione del vasto impero. Gli unici a non accorgersi di nulla, incapaci di temere e prevedere alcunché, fiduciosi nel proprio luminoso avvenire, erano i quadri più elevati della milizia. Tanta pazienza imponeva la fedeltà dovuta al sovrano e alla propria carriera.
Una piccola schiera di manutengoli, di poeti laureati e vati professionisti andava magnificando quel congresso di fannulloni, quell'insieme di cavallette devastatrici, che sembrava aver perso definitivamente il senso del proprio fare, il motivo di quel bivacco. La vita al campo si svolgeva tra l'esaurirsi di ondate di entusiasmo più o meno prezzolato e lugubri momenti di accidia. Una sapiente distribuzione di premi e punizioni teneva sotto controllo il morale delle truppe e rendeva piacevole l'esercizio del potere.
Così, prima tra i signori ufficiali e poi tra gli altri gradi della truppa fino ai soldati semplici, si andavano diffondendo stili di vita rilassata, abitudini perniciose, quali il gioco e le scommesse, la frequentazione di donne di malaffare, l'esplosione di risse, il rammollimento della disciplina e la caduta dello spirito gerarchico. Il luogotenente generale, da parte sua, sembrava disinteressarsi di quanto avveniva quotidianamente sotto i suoi occhi, preoccupato di intuire ed intendere i motivi del ritardo con cui giungevano gli ordini del Re. Un'opportuna e spettacolare decimazione, a tempo debito, avrebbe rimesso tutto a posto ed i soldati si sarebbero convinti di nuovo a rientrare nei ranghi e a sopportare i sacrifici necessari alla vittoria. Ora, meglio chiamare l'astrologo e con lui gettare ancora una volta gli astragali, interpretarne le combinazioni, prevedere il futuro: il Re richiamerà le truppe ai quartieri d’inverno... il Re farà tagliare la testa al luogotenente... l'esercito marcerà e vittorioso tornerà... il luogotenente spodesterà l'inetto Re e ne sposerà la giovane figlia... l'esercito sarà sconfitto e ci saranno pianti e stridore di denti...
Fenizia, l'immortale, la potente, la rocca sublime, la custode del golfo, la perla d'Oriente, la città più ricca sotto il cammino del sole, non viveva più da molti anni in pace con se stessa. La profezia del Sublime compimento era oramai conosciuta anche di là dei Monti Rossi. Dopo essere uscito dalle sagrestie della grande Ziqqurat, il vaticinio si era impadronito delle lingue dei mercanti per finire bisbigliato da masseria a masseria. Difficile dire se le profezie si compiono nel tempo o se il tempo che si compie è già di per sé un evento prodigioso; a volte anche il presente sul quale giuriamo e testimoniamo è più oscuro delle parole della Sibilla. Così a Fenizia nobili, sacerdoti, guerrieri ed avventurieri d'ogni risma credevano che il loro momento fosse già venuto e che l'esaltazione della propria virtù dovesse necessariamente avere eco nel malumore del popolo, nel pianto delle vedove e nel sudore non ricompensato dei servi. Gioivano anche i capi dei ribelli, che s’indaffaravano a tessere trame e ad immaginare nuovi titoli per sé più che a porre termine alla vita del tiranno e a lenire le sofferenze più comuni.
I tempi urgevano, ma guai a dimenticarsi dei riscontri offerti attraverso le effemeridi, guai a perdersi nel gorgo della disperazione e nella putredine dell'inedia. Spesso a Fenizia si aprivano i Libri sacri per risolvere la crisi dello stato, anche se le interpretazioni non erano mai univoche, perché anche la verità era molteplice e frutto di una contrattazione. Rischioso sostenere un unico senso, un unico responso. Le vie rigide non si confacevano ai tanti metodi di divinazione, alle tante corporazioni sacre.
Manipolare visceri, osservare folgori, interpretare congiunzioni astrali, dare senso a sogni ed incubi era, invece, diventato un modo per farsi cooptare nelle più esclusive corporazioni dell'oligarchia, da quando la lotta politica, implosa su se stessa ed esaltata da mille ed un particolarismo, era diventata feroce, incomprensibile, profondamente egoistica. Solo gli ultimi, i poveri, gli intoccabili sembravano essere esclusi da ogni profezia, condannati persino a non avere speranze, a non partecipare alla compravendita del futuro. A costoro era permessa solo una fuga discreta di là dei Monti Rossi all’interno delle province più arretrate, un'emigrazione anonima verso una morte civile, se non verso una vera e propria morte fisica.
Sui moli, invece, veniva caricato e scaricato di tutto. Spade, collane, vasellame e stoviglie, arte votiva, avori, saponi e profumi, granaglie, tinture e fibre da tessere. Il porto con i suoi magazzini era il cuore pulsante, il ventre ed il cervello della città anzi dell’impero stesso. Attraverso esso si intrattenevano rapporti con tutte le parti del mondo e si delineavano le basi della politica estera dello stato. Così Fenizia era diventata ricca soprattutto d’orgoglio e poi di corruzione e l'uno e l'altra si contemperavano, si equilibravano fino al naturale, periodico scatenamento di violentissime campagne di epurazione, le uniche capaci di garantire la rinascita periodica dello stesso gioco politico.
Per quanto fosse considerato disdicevole l'evadere dai propri obblighi sociali, il non pagare le tasse, il non rispettare le regole dell'ordinato commercio, il manifestare una mentalità predatoria nel godere dei piaceri della vita, proprio queste, singolarmente, erano considerate le più ammirate qualità del cittadino, tanto che se ne faceva esplicito permesso a quegli stranieri intenzionati a trasportare le proprie fortune ed attività nei territori metropolitani. Residuo, forse, di un'antica origine piratesca della città.
Mollezza e profonda ferocia, dunque, governavano l'animo degli abitanti di Fenizia, ma in genere ogni sentimento, ogni idea non poteva fare a meno di albergare nell'animo di questa gente senza il suo doppio o il suo contrario. Quello che poteva sembrare un inevitabile arricchimento era in realtà ambiguità, incapacità di scegliere, particolarismo esasperato.
In tale temperie morale, dopo essere sfuggita ai sapienti, la profezia del Sublime compimento correva il rischio di una progressiva dimenticanza o peggio di una strumentale interpretazione. Eppure era stata formulata in modo chiaro ed evidente:
«Verrà il nemico dal mare e coglierà tutti inermi».
Come la legge che genera prima il reato e poi una teoria infinita di colpevoli, così il vaticinio aveva dato vita ad una schiera illimitata di increduli e scettici. Era forse da considerarsi nuovo il dolore di un'altra sconfitta, il bisogno e la fame, l'inganno ed il tradimento? E poi quando? Le migliori profezie non erano forse quelle che parlavano del passato? Così anche questa era rimasta ad ingiallire sotto la luce dorata che cadeva dalle lucerne e dalle lampade del Tempio.
Fu così che al compimento della decima luna dell'anno, un giorno qualsiasi del mese, ad una semplice sentinella, che aveva disatteso le consegne, fu dato di capire il senso della profezia.
Giunto il sole allo zenit, l'aria si tese e rimase come immobile, senza che gli uccelli osassero volare nel vuoto né gli altri animali emanare alcun verso. In fretta la volta del cielo si ritirò su se stessa come una pergamena e si oscurò completamente. L'orizzonte sul mare diventò una sottile e rutilante lama di luce e la terra cominciò a tremare spaccandosi in profondità. Il centro della pianura sprofondò e Fenizia fu travolta esalando un’enorme nube di vapori. Una massa di magma l'intrappolò in una bolla vitrea, mentre dal mare, mugghiando spaventosamente, saliva un muro d'acqua incommensurabile. La distruzione della città fu rapida e sotto uno specchio di acque, appena intorbidate, rimase ogni memoria dell'abitato.
L’ultima sentinella, raggomitolata in cima all’ultimo faro residuo sul limitare della costa, non condivise l'idea di una solitudine così radicale né l'obbligo della memoria. Estrasse dal fodero la corta spada di cui era munito e vi si gettò sopra impetuosamente. In qualche modo volle meritare anche lui l'ira degli dei.
[dicembre 2009]
Gianluca Ricci è nato il 17 novembre 1950 a Perugia dove attualmente risiede. Dopo essersi laureato in lettere moderne si è trasferito per motivi di lavoro per circa un decennio in provincia di Bergamo. Ha insegnato italiano, storia e geografia nella scuola secondaria di I e II grado.
Sono stati pubblicati alcuni suoi volumi di poesia:
Comunicazione di servizio, Umbria Editrice, 1979 (un'antologia di questo libro è ora on line su SuperZeko);
Anbar, Midgard Editrice, 2004 (ora on line su SuperZeko);
Exergo. Navigando intorno e oltre le Quartine di Omar Khayyâm, Midgard Editrice, 2007, con una presentazione di Paola Ricci Kholousi (ora on line su SuperZeko);
Il Tao delle piccole cose, Midgard Editrice, 2009, con una nota introduttiva di Carlo Guerrini (ora on line su SuperZeko);
L'Uno vacante (ancora citazioni, haiku, koan, aforismi, ricette e quant'altro immaginando Sisifo felice...), Midgard Editrice, 2010, con una nota introduttiva di Dario Chioli (uscito in anteprima su SuperZeko);
Vigoroso è il moto del cielo (Poesie 2010-2012), Midgard Editrice, 2013, con una presentazione di Walter Cremonte (poesie in parte già pubblicate su SuperZeko in Avessi ancora qualcuno).
Su SuperZeko, poi, sono riproposte con il consenso dell'autore alcune Poesie inedite degli anni 2005-2007, già pubblicate da Enrico Cerquiglini nel suo blog «Tra nebbia e fango» (http://enricocerquiglini.splinder.com/tag/gianluca_ricci), e Vigoroso è il moto del cielo (Poesie 2010-2012), già pubblicato da Midgard Editrice, mentre sono pubblicate in prima edizione la raccolta del 2008 Nova. Amor sacro ed amor profano ed altre cose ancora, quella del 2009 L'Uno vacante. Ancora citazioni, haiku, koan, aforismi e quant'altro..., Avessi ancora qualcuno (2011-2012), e le opere in prosa Koan all'italiana (2009), Il micio curandero & altri racconti (2009-2010), Le fiabe svoltate (cioè all'incontrario) (2010), Quando i ragazzi raccontano (2010), Tre viaggiatori (2010). Vi ha inoltre pubblicato Me le ha raccontate la mamma..., una raccolta di storielle e filastrocche apprese da sua madre Alda Rebecchi.
Il suo indirizzo di posta elettronica è etsi.omnes.non.ego@gmail.com.
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