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Gianluca Ricci

IL MICIO CURANDERO

e a seguire

I DIALOGHI DEL MICIO CURANDERO

      

 

   

Il micio curandero

Quando scrissi per la prima volta questo appunto tenevo sulla mia scrivania a mo’ di fermacarte un grosso ciottolo di fiume, tutto decorato a mano e con una dedica personalizzata. Ora che la confusione è aumentata sul mio tavolo di lavoro sono stato costretto a confinare la piccola opera d’arte dietro il vetro della credenza della sala da pranzo, ma ogni giorno, quando ci passo davanti, ho come un appuntamento con lui.
Un’amica lo ha dipinto per potermelo regalare, un’amica davvero cara, ora molto lontana da qui, ma non dal mio cuore. 

Il sasso è grigio, pesante e la sua forma ricorda, quando è adagiato in piano, un trapezio rettangolo. Ha, però, degli spigoli dolcemente arrotondati, ma voi immaginatelo come volete, perché non voglio perdermi in superflue note di mineralogia. Dico solo che è molto adatto a dipingervi sopra. Infatti su di esso è stato disegnato e colorato un bel micio dal pelo fulvo, rossiccio, che, per nulla spaventato dai nostri discorsi, riposa e magari se lo prendi in mano è disposto a farti le fusa. Intanto dorme senza dare l’impressione di soffrire nella posizione in cui è stato disegnato. La mia amica, che è anche un bravo medico, si diverte nell’uso dei pennelli e mi ha regalato questo piccolo capolavoro come si fa tra persone che si scambiano emozioni e ricordi. O come fa uno sciamano che porge allo sguardo del suo paziente il proprio animale guida.

Sul retro, sulla faccia nascosta della pietra, c’è una scritta a mano, una dedica personale ed una firma, la sua. La grafia è elegante e segue sinuosamente il bordo del trapezio. Le parole si inseguono, si espandono e nella mente di chi legge si forma poco a poco l’immagine di una grande goccia, come se le parole si fossero rapprese ai margini. Non sono parole pesanti o retoriche anzi quella che si snoda attraverso esse è solo una cantilena, una formula d’augurio per la mia salute e questo pour cause.

Quando giro e rigiro il sasso mi stupisce la luce riflessa dalla vernice rappresa da tempo. Nella sottile pellicola di segni e di pigmento si è fissata una realtà, un’essenza, un carattere originale. Tutto allude ad una vita che è stata, che sarà e che è lì pronta a balzare fuori. Il micio riposa raggomitolato su se stesso, ma non ne sono sicuro, mi sembra piuttosto che stia preparandosi a srotolarsi d’improvviso e a saltarmi addosso. Forse sono io la preda o forse vuole solo salirmi in grembo per farmi festa. Potrebbe decidere di alzarsi ed andarsene via sdegnato o restare lì nonostante tutto, chissà forse gli sono indifferente. In ogni caso lo sguardo è dritto, franco ed attraverso il giallo dei suoi occhi riesco a leggere secoli e secoli, anzi millenni di saggezza felina.

Se lo accarezzassi non protesterebbe e non svenderebbe la sua dignità mettendosi a giocare con le mie dita come se fossero prede immaginarie o saporiti salsicciotti. Non ha bisogno di addestrarsi inutilmente. Solo che, carezza dopo carezza, anche la pietra comincia a riscaldarsi e rilascia sulla mia pelle l’ultimo sentore del solvente per vernici utilizzato nella diluizione dei colori. Anche l’idea di felinità ha i suoi limiti.

Mia madre, una persona molto anziana, ma molto pratica, mi aveva chiesto a suo tempo quale fosse il nome del gatto e addirittura il sesso. Io non mi ero posto il problema. Credevo che l’animale fosse un alter ego, un doppio dell’autrice o addirittura di me stesso. Senz’altro un sogno, realizzato in una notte insonne, per combattere il silenzio della camera degli ospiti. Il fatto di doverlo chiamare in qualche modo ora mi imbarazza davvero. Per me è solo e soltanto, come scritto sul retro, il micio curandero e non voglio trovare altri appellativi.

Piuttosto c’è un’altra cosa che mi turba. Quasi per fare l’oggetto più mio o per contraccambiare l’emozione che ho provato nel riceverlo, mi piacerebbe scrivere una storia, una fiaba in cui il micio sia l’eroe o l’aiutante magico del protagonista. 

Queste vicende cominciano sempre con la formula rituale “C’era una volta…” ed io me la sono già ripetuta mentalmente più volte, ma la trama non si compone ancora attraverso la mia fantasia. Le avventure più belle sono già state scritte. Appaiono solo brandelli di ispirazione, principesse romantiche e principi svagati che guardano nuvole a forma di micio o pietre magiche sulle quali posare la testa per avere visioni in sogno, ma alla fine la mia penna si posa quasi da sola sul tavolo di lavoro. Mi cade addosso tutta la stanchezza della vita e sento il desiderio di pensare ad altro, dormire forse e forse sognare la mia amica che dopo avermi regalato questo talismano si è messa in viaggio da sola sotto la pioggia di inverno di qualche anno fa, verso casa sua, che è davvero molto lontana.

E anche questa, a modo suo, è una favola.

   

I dialoghi del micio curandero

Da molto tempo ormai si conoscono gli effetti dei raggi della Luna piena sugli uomini. Alterazioni mentali, crisi di malinconia, desideri irrequieti e voglia di fuggire: così reagiscono le creature più sensibili della nostra specie allo splendore dell’unico satellite della Terra. Costoro credono addirittura che in particolari notti, quelle del plenilunio, le ombre possano prendere forma e muoversi per vita propria come creature spinte sulle ali del vento. Ciò che non si sa, perché tutti si rifiutano testardamente e categoricamente di credervi, è che persino cammei, pietre preziose intagliate, piccoli e grandi coralli ed ogni pittura realizzata con minerali più o meno rari possano prendere vita, animarsi, rappresentare il proprio dramma o la propria felicità per il diletto dell’impassibile astro d’argento.

Lo dico per cognizione di causa, dato che ho avuto la fortuna di verificare quanto sia vera questa vita segreta delle cose proprio ieri notte. Stentavo ad addormentarmi ed avendo lasciato la finestra semiaperta i raggi della Luna cadevano direttamente dentro la mia camera illuminandone una buona parte. In particolare riuscivo a vedere con chiarezza l’angolo della scrivania dove ho posto il computer e la stampante. Accanto ad essi un mucchietto di fogli ed opuscoli tenuti fermi da un grosso ciottolo che una mia amica, pure lei creatura sublunare, mi ha regalato dopo averlo decorato con le delicate fattezze di un bel micio, dal pelo rossiccio, un micio curandero, capace di donare energie positive e proteggere il proprio padrone. Il suo nome è Isidoro, il dono caro alla dea Iside, colei che infonde vita alla natura, che produce e nutre le piante, gli animali, gli uomini, ma che come regina dell’Averno giudica i morti e manda sogni e visioni.

Ebbene, ieri notte il sasso è sembrato muoversi lentamente e levitare con soffice grazia. In realtà era il gatto che stava allungandosi provando l’elasticità dei propri muscoli. Dopo una breve toeletta, è balzato sul mobile più vicino, un comò e, disdegnando di fare l’inventario delle cianfrusaglie che vi abbandono solitamente sopra, è sceso a terra approfittando dei cassetti socchiusi come se fossero dei gradini. Con leggerezza incredibile è balzato sul mio letto e si è acciambellato accanto a me che fingevo di dormire disteso sul fianco. Non mi ricordo se alla fine io sia ricaduto nel sonno, ma non può essere stato diversamente, perché stando ai miei ricordi il gatto si metteva a parlare con la Luna ignorandomi completamente. Per mia fortuna ho ancora presente il senso di quel dialogo e ricordo anche alcune frasi così come sono state pronunciate dai due fantastici interlocutori.

Isidoro, fissando lo sguardo al cielo, stava meditando come davanti ad uno specchio scuro e ciò evidentemente dava fastidio alla vecchia Luna, che si sentiva fissata troppo direttamente. I suoi occhi si andavano sempre più arrossando, finché con una voce, delicata e sottile come una nota di flauto appena accennata, chiese alla bestiola se avesse per caso da avanzare una richiesta, un favore per sé o per il suo padrone.

«Non ho padroni, io! – miagolò irritato il gatto – E quanto a me non credo di aver bisogno di aiuto per catturare i miei topolini. Anzi, il tuo chiarore mi disturba fin troppo nella caccia, facendo brillare i miei occhi al buio!»

«Sei assetato di punizioni, piccolo amico! – borbottò la voce sovrannaturale ed un’improvvisa sensazione di freddo si sparse rapidamente tra cielo e terra, raggelando tutti i viventi che pure si erano abbandonati al sonno – Questa notte, però, non ho bisogno di dimostrare la mia potenza. Non una nube scivola, infatti, sul mio volto o l’incornicia. Il mio chiarore non è calpestato dagli uomini, che pur essendo empi per natura a quest’ora si sono prudentemente ritirati.

«L’uomo che dorme al mio fianco non è un malvagio, parola di Isidoro! Forse è più malato di quanto meriterebbe, malato nel corpo e, di conseguenza, stanco nello spirito. Convengo senza fatica che in questa condizione egli non è solo e condivide una sorte fin troppo comune alla sua gente, ma in lui uno stato miserevole non ha causato un animo misero».

«Sei anche filosofo… Ah, ho incontrato un micio filosofo! Che notte fortunata ed interessante!»

«A te, Luna, invece, piace solo il popolo dei morti. Indugi da sempre con eccessiva lentezza sui cimiteri, dai quali bisognerebbe fuggire molto velocemente. Non contenta, ami nasconderti oltre le mura delle case della gente per bene quasi per non farti scorgere».

«In realtà anche la notte, di cui sono figlia, madre e signora, nasce (paradosso di una parola!) quando il giorno muore. Se il sonno a volte rifugge gli occhi dei viventi più sensibili, o addirittura più stanchi, è perché essi temono di precipitare nella morte stessa o perché si sono illusi assai a causa delle troppe emozioni o riguardo al senso reale della vita. La mia eterna vicenda, mese dopo mese, è solo un simbolo di scomparsa e rinascita, del flusso continuo delle cose, una serie infinita di viaggi tra l’essere e il non essere».

«Il mio amico spesse volte ha il mal di pancia, – sbuffò il felino, quasi volendo, con un problema terra terra, azzittire la vena misticheggiante dell’improbabile interlocutrice – una conseguenza della quantità enorme di medicinali che deve mandar giù per curare i suoi malanni. Lo puoi guarire da questo problema?»

«Ho bisogno del suo nome autentico, quello segreto, per pronunciare validamente l’incantesimo. Anche io devo rispettare i riti, altrimenti sai che sforzo, ogni ciarlatano sarebbe un mago! Ma sei sicuro che non abbia bisogno di sollievo in qualche altra parte del corpo, che ne so? Nelle sue braccia, sulle labbra e in ciò per cui uno si sente uomo… Non credi che un sortilegio d’amore potrebbe aiutarlo a ristabilirsi più in fretta e farlo felice? Bada, che io ho il grande potere di legare e sciogliere. Dopo, lui sarebbe più felice, glielo leggo anche nei sogni. In questo momento…»

«No, non importa! – miagolò frettolosamente Isidoro – Lui è gelosissimo delle sue cose quanto ostinato. Non accetterebbe l’aiuto di nessuno, al quale poi dover rendere conto come ad un giudice. È vero che qualche volta ama parlare delle sue vicende, ma solo dopo, quando sono finite. Ha sempre bisogno di capirsi, di conoscere i motivi profondi dei comportamenti che sul momento gli sfuggono. Poi, diventa come il paguro e, consapevole di avere un ventre fin troppo molle e vulnerabile (ma sai bene che questa è solo una metafora), si rifugia in una corazza che non è da lui, isolandosi dal mondo e dai suoi simili».

«Ma va’… I suoi antenati erano gente molto più pratica! Sapessi quante implorazioni ho sentito rivolgersi alla mia deità con una crudezza di termini ed una sfacciataggine senza pari! Forse che gli uomini di questo secolo non sanno più chi sono o soffrono di una timidezza senza senso?»

«Ti sbagli, Luna, oggi è, piuttosto, il troppo che turba ed affanna e al tal punto che la semplice amicizia, non dico l’amore, è diventato un valore d’uso, un guadagno. Se si scansa la crosta delle comodità personali, l’andare al fondo di se stessi può rivelarsi una perdita, un danno, un rischio mortale o pensato come tale, il che alla fine è la stessa cosa».

«E tu, pur essendo consapevole di tutto questo, gli resti amico e l’osservi senza timore? Che ne so? Potrebbe impazzire, schiacciarti con la sua indifferenza, non curarsi più di te, solo perché si è stancato della tua presenza o per il fatto che puoi ricordargli ancora affanni, altre situazioni, per esempio la persona che ti ha creato. Davvero, la sua incostanza potrebbe superare la molteplicità delle mie forme».

«È il rischio di noi viventi, tutti, ma anche degli dei, ai quali ti picchi di appartenere. Nessuna cosa è per sempre e neppure la morte con la quale torni a minacciarmi, come se non l’avessi ancora capito... Vedi, Luna? Quella è la tua vera vocazione, tu puoi vivere solo dopo aver eliminato il tuo sposo solare, il giorno, che mai cessa di accoglierti e mai vuole oscurarti del tutto; anzi a lui, che ti ama fino al punto di trasfigurarti in un ricamo d’argento già dalle prime ore del mattino, tu opponi un silenzio obbligatorio, privo di calore e puramente vegetativo. Quindi, che aiuto potresti dare al mio amico che lui non l’abbia già chiesto all’infuocato tuo compagno?»

«Eppure la mia luce spinge lo sguardo verso l’alto e dissolve ombre e chimere, sì, lo ammetto, dopo averle create. Al buio puoi vedere solo grazie ai miei raggi che ti accompagnano come in un cammino di pensieri chiarificati. La vista che ti dono non è più oscurata da vapori e fumi resinosi. E ricordati che non sempre, per capire le cose, puoi ricrearle dentro di te in un continuo movimento di idee e ricordi. Che poi sia il destino ad unire l’amore che salva a quello che perde, è evidente come il fatto che la terra che vi sostiene tutti sia anche quella che vi nasconde nella tomba. Non un aiuto promettevo al tuo amico, ma la garanzia dello scorrere regolare degli eventi. L’inutile resistenza che mi fate entrambi non ha più senso, non l’ha mai avuto.

Vedi? Già si annuncia la fiamma del nuovo giorno: obbligatoriamente tornerete a sperimentare i capricci del caso e del bisogno, ai quali non basta l’orgoglio né la ragione che ferisce e separa; inutilmente scoprirete il senso della vostra vita solo alla svolta dei vostri anni e delle vostre possibilità fisiche.

Ad illuminarvi, però, io sarò sempre qui e vi basterà sollevare i vostri occhi verso di me, perché le vostre lacrime siano asciugate, sempre che non le amiate più di voi stessi.

Ma ora è tardi, devo andare, addio, micio filosofo!»

   [dicembre 2009]

   


Gianluca Ricci è nato il 17 novembre 1950 a Perugia dove attualmente risiede. Dopo essersi laureato in lettere moderne si è trasferito per motivi di lavoro per circa un decennio in provincia di Bergamo. Ha insegnato italiano, storia e geografia nella scuola secondaria di I e II grado. 

Sono stati pubblicati alcuni suoi volumi di poesia:

Su SuperZeko, poi, sono riproposte con il consenso dell'autore alcune Poesie inedite degli anni 2005-2007, già pubblicate da Enrico Cerquiglini nel suo blog «Tra nebbia e fango» (http://enricocerquiglini.splinder.com/tag/gianluca_ricci), e Vigoroso è il moto del cielo (Poesie 2010-2012), già pubblicato da Midgard Editrice, mentre sono pubblicate in prima edizione la raccolta del 2008 Nova. Amor sacro ed amor profano ed altre cose ancora, quella del 2009 L'Uno vacante. Ancora citazioni, haiku, koan, aforismi e quant'altro..., Avessi ancora qualcuno (2011-2012), e le opere in prosa Koan all'italiana (2009), Il micio curandero & altri racconti (2009-2010), Le fiabe svoltate (cioè all'incontrario) (2010), Quando i ragazzi raccontano (2010), Tre viaggiatori (2010). Vi ha inoltre pubblicato Me le ha raccontate la mamma..., una raccolta di storielle e filastrocche apprese da sua madre Alda Rebecchi.

Il suo indirizzo di posta elettronica è etsi.omnes.non.ego@gmail.com.

   

 

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