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RICORDI DI ALBONA

Mirjana Zarifovic

   

Sommario

I.

II.

La neve

Il mare

Il sole

III.

Mirjana Zarifovic da piccola

Mirjana Zarifovic
da piccola

 

  

   

I.

 

Angelo era tutto rotondo e liscio e passava per il paese una volta al giorno, sempre alla stessa ora.. Non parlava con nessuno e viveva con la madre e la sorella, che uscivano di rado  e vestivano solo di nero. Andavo a casa loro una o due volte alla settimana per comperare le uova, e mentre mi avvicinavo alla loro casa ero sempre presa da una strana forma di paura che sospendeva ogni altra emozione o pensiero e nella quale trovavo qualcosa che mi attraeva fortemente, in cui volevo stare, in cui volevo andare lontano. La paura scendeva nel mio essere ed io la accoglievo pronta e tersa.

Bussavo, attendevo un attimo e poi aprivo la porta della casa di Angelo. Nessuno nel paese chiudeva la porta della propria casa a chiave tranne che di notte. Entravo senza annunziarmi, senza essere invitata, nessuno aveva mai risposto al mio bussare, nessuno mi accoglieva. Attraversavo il lungo corridoio vuoto fino ad entrare nella cucina. In fondo alla cucina, vicino alla porta del ripostiglio dove conservavano le uova, stava una delle figure nere, esattamente nella stessa posizione di tutte le altre volte. Senza parlare, senza sorridere, si avvicinava al ripostiglio e con fare delicato e lentissimo prendeva un uovo dopo l’altro e li posava in un sacchetto di carta. Poi me lo porgeva. C’era in quel fare qualcosa di profondamente enigmatico, di quasi ipnotico, ed io mettevo nella sua mano le monete per le uova con lo stesso fare lento e scandito, poi mi giravo ancora più lentamente e mi avviavo verso il corridoio. Forse non volevo andarmene, forse volevo restare in quell’enigma di silenzi e figure. Il mio cuore voleva essere rapito, voleva essere reso vuoto e portato via da quelle mani senza bontà e senza vita.

  

* * *

  

Ma  ancora più affascinante era lei, la regina del sole e dei fiori di plastica, Luce. Luce - era proprio questo il suo nome - viveva sola all’ultimo piano di una casa uguale a tutte le altre del quartiere, alla fine del paese. Uno dei suoi lati, proprio quello della finestra dietro la quale viveva Luce, si sporgeva su un luogo a dir poco incredibile: il più bel roseto di rose selvatiche mai visto che cresceva indisturbato accanto a una discarica dove gli abitanti del quartiere gettavano tutto ciò che non serviva più: vecchie sedie, pentole, bambole rotte, tricicli, quaderni usati, coperte, vasi con piante rinsecchite, scarpe, ombrelli ed altri rifiuti.

Tutti nel paese dicevano che Luce era pazza, ma nessuno sapeva perché, né come le fosse successo. In autunno e in inverno le finestre della casa di Luce erano chiuse e non era possibile vederla né incontrarla in alcun modo. Fino a primavera. Allora Luce spalancava le finestre: i prati e i giardini attorno alla sua casa erano verdi e fioriti e Luce cantava. Cantava per ore intere dietro le finestre aperte, la gente lavorava negli orti, i bambini giocavano tra di loro e nessuno vi badava. Così sembrava. Ma in quelle ore il mondo era lì perché Luce potesse cantare, e  quel canto  svelava un segreto: il mondo era un sogno senza un mondo.

Nei pomeriggi, talvolta Luce usciva. Si vestiva di colori bellissimi, in gonne plissettate e leggere, metteva rose di plastica nei capelli e scendeva felice. Si sedeva al sole su qualche pietra nel prato, allargava la sua gonna a velo e posava la gabbia con gli uccelli accanto a sé. Chiudeva gli occhi e stava così al sole e sorrideva. Inutile a dirlo, i bambini le correvano attorno, la stuzzicavano, la importunavano, cercavano di sbirciare sotto le sue gonne poiché si diceva non portasse nulla sotto i vestiti, e alcuni non esitavano a buttarle pietre addosso. Ma tutto ciò non faceva che rallegrarla di più, lei rimaneva lì, e rideva. Talvolta si faceva pettinare dalle bambine, che la circondavano indaffarate e divertitissime brandendo grandi pettini e passandosi tra di loro con stupita curiosità i fiori di plastica tolti dalla capigliatura di Luce.

Una volta, credo fosse in sogno, vidi Luce seduta sotto il pergolato del nostro giardino. Era tutta azzurra e bianca e anche le bambine che la pettinavano erano così e i capelli di Luce erano lunghissimi e più le bambine li pettinavano più diventavano lunghi. Poi le bambine salivano sui capelli di Luce e diventavano farfalle e Luce ritirava i suoi capelli in se stessa e più i capelli si accorciavano più le farfalle diventavano tutte bianche e Luce era sempre meno lei e sempre più rotonda e alta nel cielo e le farfalle erano sempre meno farfalle e sempre più Luce, che non era più Luce ma era diventata la luna.

Se passava troppo tempo senza che Luce si facesse sentire o vedere, io salivo sul prato di fronte a casa sua e con discrezione guardavo verso le sue finestre cercando di sentire la sua voce o qualche suo movimento. Non di rado cercai di immaginarmi che cosa potesse fare lì dentro tutta sola, ma nessuna immagine appariva nella mia mente, come fosse resa inutile di fronte al mondo di Luce.

  

* * *

  

Poi c’era Giustino. Non posso dire che mi affascinasse, ma incuriosirmi questo sicuramente sì. Giustino era sposato con Tonina, una donna bislacca e assai trasandata, ma non tanto quanto Giustino. Erano tutti e due toccati e bizzarri, ma Giustino lo era molto di più. Non credo che fossero particolarmente poveri, tuttavia per una stranezza della sua natura Giustino aveva una vera passione per i bidoni dell’immondizia. Era proprio lì che lo si poteva incontrare più frequentemente. Quasi mai si portava via qualcosa, gli piaceva rastrellare i rifiuti e basta. Lo avvicinavano solo i bambini. Quando li vedeva ed era di buon umore sul suo viso appariva subito un ghigno un po’ diabolico. I bambini gli facevano una domanda, sempre la stessa: “Giustino, che ore sono?” E lui non aspettava altro. Guardava subito l’orologio, alzava lo sguardo divertito e diceva l’ora. Poi faceva una brevissima pausa di qualche secondo e pronunciava dei versi perfettamente in rima con le parole che indicavano l’ora. Il contenuto di quei versi era di un tal grado di oscenità che i bambini si mettevano a ridere a squarciagola e lui insieme a loro. Ma Giustino non era sempre di buon umore e quando non lo era era meglio non avvicinarglisi poiché diventava cattivo e scacciava via tutti a insulti e minacce. Si aggirava scuro in viso per i sentieri del paese e neanche i bidoni sembravano interessargli più.

  

* * *

  

Vi è poi un personaggio che ebbe un ruolo assai particolare nella mia infanzia. Quando avevo circa sei anni e ancora non andavo a scuola i miei avevano affittato una stanza del nostro non grande alloggio ad un conoscente di mio padre. Questi era un uomo elegantissimo. La sua grande ricercatezza nel vestire, talmente insolita per il nostro paese di provincia, lo rendeva, credo, troppo diverso, e questo alla gente non piaceva. A ciò si aggiungeva il fatto che egli fosse anche un furešt, come si diceva in dialetto, ovvero un forestiero, non nativo del paese né dei dintorni, e in ciò vi era già qualcosa che isolava automaticamente chi fosse così indicato. Così quest’uomo era un solitario. La domenica quando non lavorava e talvolta anche nei pomeriggi, se il tempo era bello, si vestiva come sempre con cura, si profumava, e usciva nella via centrale del paese. Lì entrava in uno dei caffè, beveva qualcosa e poi usciva. Raramente si sedeva con gli altri uomini che occupavano i tavolini dei bar e che spesso erano assai rozzi e rumorosi. Ma era gentile e niente affatto antipatico come forse qualcuno potrebbe pensare. Credo che semplicemente non si trovasse a suo agio con la mentalità della gente del posto e nemmeno con gli altri immigrati che come lui erano venuti numerosi nel paese a cercare un impiego. Non desidero usare il suo vero nome e quindi lo chiamerò lo Straniero.

Quando lo Straniero aveva bevuto il suo caffè o il suo bicchiere di vino bianco, usciva sulla via principale della città e come era d’uso si metteva su uno degli angoli della piazza o davanti a qualche negozio e stava così a lungo a guardare la gente, a salutare i passanti. Credo si possa dire che era un bell’uomo, ma il suo aspetto démodé aveva fatto sì che anche le donne lo considerassero troppo strano e poco semplice, ed era rimasto scapolo. Era però anche assai semplice. Quando iniziava la bella stagione io e lui diventavamo inseparabili. Se era libero, spesso già di primo mattino, io mi mettevo i pantaloncini corti, lui mi alzava in aria come fossi una piuma, mi faceva sedere sulle sue spalle gambe a penzoloni e mi prendeva le mani. Così partivamo. Attraversavamo prati, campi coltivati, vigneti, salivamo verso le colline, ci fermavamo a chiedere acqua nelle case sperdute di campagna dove i cani abbaiavano sempre da lontano, il sole era sempre alto e forte e dei contadini ci offrivano vino, pane e formaggio. Qualche volta accettavamo e ci fermavamo, e io allora correvo libera nei cortili delle case contadine guardando sempre dove era lo Straniero, aspettando un suo cenno con cui mi avrebbe chiamata perché era ora di ripartire. Nel mio ricordo non esistono parole che io abbia scambiato con lui, oserei dire che il mio rapporto con lo Straniero fosse di pura armonia. I campi dorati e selvaggi sono per me lo Straniero, i vigneti profumati sono lo Straniero, i prati bianchi di margherite sono lui, sono lui il vento che piega l’erba alta, i cieli immensi e azzurri , la penombra della sua stanza.

  

* * *

  

Avevo un’unica cugina, Senka, che in italiano sarebbe Ombretta. Per la verità di cugine ne avevo tante altre, ma vivevano lontano dalla mia città e la maggior parte non le avevo mai viste e non conoscevo nemmeno i loro nomi. Così Senka era importante. Aveva la mia stessa età ed era molto bella. Bionda di un biondo strano, come cupo e striato d’argento caldo, e simili aveva gli occhi, azzurri con scaglie d’argento. La sua pelle era leggermente più scura del normale ed era sempre perfetta. Tutto il suo corpo assomigliava ai suoi occhi e ai suoi capelli. Era magro e molto ossuto, con qualcosa di netto e essenziale nelle forme, quasi non fosse di una sessualità precisa. Quando la vedevo, spesso mi ricordava le capre, il mirto, le pietre.

Non eravamo simili. Almeno a me non sembrava. Lei viveva in campagna ed io in una città, anche se piccola; lei era agile e libera nei movimenti ed io statica e più paurosa. Ed era proprio per questo che mi affascinava. Talvolta mi portava in luoghi nascosti nei boschi fitti, che lei chiamava “le mie valli segrete”, e qui si esibiva davanti a me facendo ruote e piroette avanti e indietro lungo tutta la valle mentre io la guardavo piena di meraviglia. Lei sì che sapeva muoversi. E come saltava. Quando si doveva attraversare un ruscello quasi mai usava le pietre di mezzo per fermarsi e senza neanche prendere la rincorsa in un attimo era dall’altra parte. Che ragazzina straordinaria. Io invece dovevo sempre cercare i punti dove il ruscello era più stretto e poi, piano, mentre lei dall’altra parte mi incoraggiava o mi porgeva la mano, finalmente attraversavo.

Avevamo i nostri pozzi. Due. Uno era un classico pozzo in stile veneziano, molto bello e situato su una specie di terrazzo a cui si accedeva salendo una scala. Il pozzo odorava di ferro e acqua fredda ed era un luogo magico. Mi piaceva moltissimo e ci andavo anche quando Senka non ne aveva voglia. Era fantastico aprirlo e far scendere il secchio e la catena, sentire il rumore dell’acqua mentre il secchio la toccava e si immergeva, poi tirarlo su piano e, una volta fuori, bere acqua freddissima tenendo il secchio di ferro con ambedue le mani. Quell’acqua sapeva di buio e di profondità.

Su quel terrazzo di pietra ci passavo tantissimo tempo. Se ne stava ben protetto tra gli alti muri delle due case situate al lato nord e al lato sud, mentre sul lato est si ergeva un muro molto più basso. Il lato ovest era il lato della scalinata, e qui il terrazzo era completamente aperto. Era un luogo molto silenzioso, nessuno veniva ad attingervi l’acqua tranne noi, poiché le altre famiglie avevano i loro pozzi. Per parlare con il pozzo facevo in diversi modi. Mi appoggiavo tutta sul corpo del pozzo sentendo la pietra contro la mia pancia ed il petto, poi alzavo il coperchio pesante che chiudeva il pozzo e guardavo per un po’ lo specchio scuro giù in fondo. Infine immergevo la testa un po’ di più dentro e parlavo. Altre volte non alzavo il coperchio ma avvicinavo la bocca al foro a forma di fiore intagliato nel suo centro e lì parlavo. Lo stesso fiore era riflesso sulla superficie dell’acqua giù nel pozzo ed io lo sapevo.

L’altro pozzo era un po’ più distante. Non era proprietà di tutti gli abitanti di quel piccolo villaggio, ma era privato. Senka era molto amica delle figlie del proprietario di quel pozzo e potevamo perciò andarci sempre, quando ne avevamo voglia. Questo pozzo era basso e lo chiudeva un coperchio quadrato e pesantissimo. Era anch’esso situato su un terrazzo ma lì nulla mi piaceva e ci andavo poco volentieri.

Una delle cose che mi eccitavano assai era fermarmi a dormire a casa di Senka. Non era facile averne il permesso da mio padre e quando capitava era bellissimo. La notte in campagna era fantastica. Verso le otto andavamo a prendere del latte appena munto da una vicina ed era un’avventura perché era tutto buio ed io non ci vedevo niente ma Senka sì. Conosceva a memoria ogni pietra del villaggio e si muoveva come sempre sicura e libera. Le stanze di casa sua erano così umide che sui muri comparivano delle grosse macchie e tutta la stanza aveva un odore di calce e di freddo. Ci mettevamo sempre molto tempo ad addormentarci, perché ci raccontavamo tante cose, ed era lei che di solito si addormentava per prima. Io ascoltavo la notte, che era bellissima e per la sua bellezza non mi lasciava dormire.

  

* * *

  

I miei due nonni, quello materno e quello paterno, credo che non si siano mai incontrati. Il primo viveva in una casa un po’ isolata nei pressi di un villaggio a circa 15 chilometri di distanza dalla nostra città. Dopo la guerra in cui morì mia nonna, era andato a vivere lì con un’altra donna e con il tempo i suoi rapporti con le due figlie, mia madre e sua sorella, erano diventati assai scarsi. Noi non andavamo mai a trovarlo, credo che per la verità ci fossi andata una volta sola e che fosse stata quella l’unica occasione in cui vidi la mia nonna adottiva. La loro casa mi rimane impressa nella memoria. Quando vi entrai ebbi una grande sorpresa: la casa era di pietra sia fuori che dentro ed era composta di una stanza sola. A destra dell’ingresso c’era la cucina e qui c’era un grande fuoco sui cui pendeva un calderone nero appeso ad una catena. Questo fuoco occupava la parte centrale della stanza e aveva qualcosa di incredibilmente arcaico. Appoggiato al muro c’era poi un tavolo di legno piccolo e storto con delle sedie, e in fondo alla stanza, al lato opposto e nel buio, si intravedeva un letto. Credo ci fosse anche qualche altro mobile, ma la mia memoria non me ne restituisce un’immagine chiara. Oltre al fatto che non si andava mai a trovarlo, neppure ne sentivo parlare, tuttavia talvolta veniva a trovarci lui. Questo avveniva sempre al mattino, credo in concomitanza con le commissioni che doveva sbrigare negli uffici della città. Entrava in casa con un fare timido e serio, metteva una borsa sul tavolo in cucina e tirava fuori il regalo per noi – le uova.

  

* * *

  

L’altro nonno, che ho visto pochissime volte, viveva distante e doveva viaggiare un giorno intero con delle strane e rumorose corriere per raggiungerci. Mi ricordo la prima volta che lo vidi arrivare. Era un uomo già piuttosto invecchiato, magro e nervoso, e fumava in continuazione. Sapevamo che si sarebbe fermato da noi un sola notte, ma era arrivato con una valigia nera e rigida. Non scorderò mai la mia sorpresa quando lui la aprì per mostrare a mio padre come erano belle le sue…  uova. Proprio così, la grande valigia era imbottita di fieno e lui vi aveva sistemato dentro decine e decine di uova. Quella sera ci disse che l’indomani si sarebbe alzato prestissimo perché voleva andare al mercato a venderle. Questa storia delle uova era una vera stramberia perché nessun altro avrebbe viaggiato così faticosamente portandosi dietro una valigia piena di fieno e uova che potevano essere comodamente vendute anche al mercato della sua città. Ma credo che il nonno fosse un uomo dotato di molto senso pratico e non gli andasse di fare un viaggio di visita ai suoi due figli senza poter nel frattempo concludere qualche affare. Ho sempre pensato che era strano questo fatto che accomunava i miei due nonni: che non si conoscessero, che non ci frequentassero che assai di rado, e che quando ciò avveniva ci portassero lo stesso dono: le uova.

  

* * *

  

Un liquido scuro come l’inchiostro corre nella mia vita.  Esso arriva da lontano, ma io non  vi scorgo un inizio. Arriva da dove arrivo io.  Da quella bruma impenetrabile.

 

 

II.

  

Quando ebbi circa dieci anni imparai a nuotare e il mare divenne la mia più grande felicità. Ma prima ancora amai la neve.

 

  

La neve

  

La neve cadeva su tutto. Sugli alberi, sui tetti, sui cespugli di assenzio, sulle pile di legna nei cortili, sul carbone, sulle soglie dei portoni.

Quando cadeva la neve io respiravo dietro le finestre e nel mondo non c’era nessuno.

Quando cadeva la neve io camminavo con le braccia allargate e diventavo bianca e potevo volare. Quando la neve cadeva io mi appoggiavo sola sui portoni delle case, i cammini fumavano e tutto era compiuto e felice. Quando la neve cadeva avevo una piccola slitta, la prendevo tirandola per una corda di spago e mi incamminavo verso la valle. Quando la neve cadeva una casa era rimasta vuota, e il fuoco era rimasto solo, e nessuno aveva più visto la bambina con il berretto rosso.

  

  

Il mare

  

Ma poi venne il mare. E diventò viola. Ed era prima, ed era dopo. E salì in cielo, e coprì le rocce. E mi portò con sé, e mi restituì. E trovò che lo aspettavo.

Mare era sempre. Veniva in città fino ai cipressi ed al campanile. Le viole crescevano nel mare e quando mia madre pettinava i miei capelli da essi gocciolava a lungo, anche dopo che li aveva intrecciati in trecce e piegati dietro le orecchie. Ed ero sempre salata. Mi piaceva percorrere con la lingua le mie braccia finché il sottile velo non spariva del tutto. Lo facevo anche sulle ginocchia perché mi divertiva togliere con la lingua il sale dalle parti ossute del mio corpo. Quando, dopo una giornata passata a nuotare, il sale restava sulle mie ciglia secco e ruvido, ciò mi faceva sentire diversa dal solito, quasi fossi un'altra, e cercavo in tutti i modi di non disperderlo.

Sì, il sale era dappertutto. Copriva le sedie, i tavoli, il pavimento, e tutti i mobili di casa mia. Ed io mi sdraiavo su di esso quando avevo voglia di stare ferma e allora sentivo che in realtà scendeva dal cielo, sottile e copioso, e dopo un po’ mi copriva tutta. Ma quando ero allegra ed avevo voglia di muovermi, allora mi rotolavo nel sale, lo prendevo con le mani e lo gettavo, in alto, a destra e a sinistra, e in cerchio, e roteavo.

Ma il mare – brillava. In scaglie scure e lucide miste a quelle più chiare. Vivo. Il mare guizzava. Si spostava. Quando di notte entrava nella mia stanza, io mi svegliavo immediatamente per seguirlo, e una volta ero andata in un posto così lontano che potevo vedere tutta la mia vita, quella che era stata e quella che ancora non era. Lo vedevo, tutto ciò, nelle scaglie a specchio del mare.

  

* * *

  

Quando il mare veniva da est, mi spingeva verso i luoghi con molta luce. Lì scoprivo che ogni luogo era un altro luogo, che ogni luogo era tutti i luoghi. E giocavo.

  

* * *

  

Ma quando il mare veniva dal sud, lo sapevo sempre prima. Tutti gli angoli di casa mia diventavano più scuri e c’era poco spazio in mezzo. E poi non riuscivo più a stare alla finestra, e anche i miei occhi diventavano più chiari. Quando il mare veniva dal sud tutto si confondeva. Non riuscivo più a ricordare come seguire il ritmo delle cose e far ritornare indietro gli eventi e mi sentivo inquieta. Quando il mare veniva dal sud tutto scompariva, e c’era solo l’ombra. Se anche qualcosa accadeva veniva immediatamente annullato nell’ombra ed era come se non fosse mai accaduto.

Per la verità, quando il mare veniva dal sud, veniva dall’alto, ma in alto era tutto buio. E in quel buio viveva un uomo. Mi disse che ero l’acqua e che ero la strada e mi volle con sé. La sua bellezza era oscura ed il suo volto era un lungo corridoio costellato di lame affilatissime e mi feriva.

Non è che ne avessi paura. In sua presenza ero come incantata, incapace di volere altro che quello che voleva lui. Perciò lo seguivo. C’era in lui qualcosa di spietato. Era nel disegno della sua bocca e per questo la guardavo spesso. Sembrerà strano, ma proprio in quella spietatezza così fredda e precisa, trovavo il mio luogo, qualcosa che volevo sempre di fronte a me, di fianco a me, in me. La cosa più diversa da me era ciò che di più volevo, e quel suo buio mi sembrò in realtà una luce fortissima.

Anche quando non c’era lui c’era. Vedevo i suoi occhi e sapevo che non era solo per mio volere che lui era lì e che, anche quando non ci fosse più stato, non sarebbe stato solo per mio volere. Era del mare tutto ciò, ed era dal sud che veniva. E veniva spesso. E noi partivamo. Era un viaggio leggiadro, per luoghi aperti e trasparenti come fossero di vetro. Poiché era una torre alta e tagliente la sua violenza, era puro vetro, e null’altro, null’altro.

  

* * *

  

Quando il mare veniva dal nord non veniva. Scendevo giù, verso le rocce, e lo trovavo, vasto, calmo, bellissimo. E allora gli camminavo accanto, e lo ascoltavo, e la mia strada non aveva fine.

Qualche volta mi piaceva sostare nel porto. Era un piccolo porto circondato da alcune case antiche, di pietra bianca, e da altre nuove e colorate. D’inverno quasi tutti i caffè e i negozi che d’estate vendevano argento ai turisti erano chiusi e regnava una pace deliziosa. A me piaceva stare lì e respirare il mare e ascoltare i gabbiani. Inutile dirlo, quando il mare veniva dal nord era salatissimo, e se vi approdavano i vecchi pescherecci di legno erano coperti di sale. Amavo i pescatori. I loro volti scuriti dal sole, occhi di cristallo marino. Negli occhi dei pescatori il mare li amava e si capiva che li aveva resi diversi. Erano diventati loro stessi creature fantastiche, rugosi coralli grigi e bianchi.

Mi piaceva guardarli mentre maneggiavano le casse piene di pesci scivolosi. Le loro mani si immergevano in esse con gesti di grande naturalezza e poi si giravano l’uno verso l’altro, dicevano certe parole o non dicevano nulla ma i loro denti splendevano d’improvviso e sotto un cielo che tutto circondava si sentivano risate stupende.

Mi dava malinconia arrivare al porto al tramonto e sentire il rumore dei motori dei pescherecci pronti a ripartire. I pescatori erano tutti sulle navi, camminavano indaffarati e veloci, poi qualcuno srotolava la spessa corda che legava il peschereccio a terra e pian piano la nave iniziava a muoversi verso il largo. Stavo lì sulla riva e guardavo tutto ciò.

Quando il mare veniva dal nord i pescatori tornavano, bellissimi, più belli di prima, più forti che mai. Portavano casse traboccanti di pesce vivo e tutta la riva era bagnata d’acqua, e anche l’acqua era viva e i pescatori vi camminavano con passi grandi e sicuri.  Quando il mare veniva dal nord il mio cuore era pieno di gioia e correvo giù verso il mare perché i pescatori erano tornati.

Quando il mare veniva dal nord in realtà non veniva, rimaneva lì dove era sempre stato, ed io  mi guardavo nello specchio ed ero come sarei sempre rimasta, senza tempo e senza luogo.

  

* * *

  

L’ovest rendeva il mare increspato e un po’ cupo. Sussurrava parole brevi ed erano molte voci lontane che si  sovrapponevano ad una voce vicina. Le voci rimanevano sospese sopra il mare e dopo un po’ che ero sugli scogli mi immergevo nelle cose che facevo e non le sentivo più.

L’ovest rimaneva nel mare e non lo lasciava venire sulle rocce. Era come se il mare fosse imprigionato. Se anche lo toccavo, era più leggero del solito e allora lo lasciavo stare. Lo guardavo solo. Ma mai direttamente. Non mi piaceva mettermi di fronte ad esso, ma cercavo di averlo sempre alla mia destra. Mi veniva naturale e se accadeva diversamente ciò mi disturbava.

Il mare attendeva la pioggia. Se pioveva forte dovevo stare a casa ma lo pensavo, il mare. Fu così, mentre lo pensavo, che mi insegnò come allontanare da me ciò che non mi piaceva. Era una cosa semplice. Fissavo nell’immaginazione ciò che mi opprimeva, lo prendevo con le mani, formavo piccoli mucchietti e li disponevo in modo regolare lungo l’ovale di uno specchio. Dopo un po’ i mucchietti diventavano macchie sempre più piccole fino a che lo specchio non le assorbiva del tutto. Ciò mi rendeva immediatamente libera e potevo continuare ad ascoltare la pioggia e pensare al mare.

Quando veniva dall’ovest mare tesseva veli d’acqua e io immaginavo di correre, sentendoli con le mani, attraversandoli.

Dopo la pioggia raccoglievo i suoi frutti. Strane stelle marine, non rosse ma nere, venivano dall’ovest e conchiglie delicate da cui si doveva togliere una polverina che sembrava cenere bianca. Molte alghe giungevano in spiaggia e i gabbiani volavano poco. Stavano fermi, in gruppi o solitari, sempre rivolti in direzione del mare.

Quando il mare veniva dall’ovest mi spingeva verso l’est. Le isole diventavano vicine, e anche se sicuramente non c’era nessuno, sembrava di sentire una musica provenire da esse, di chitarra, liuto o qualcosa di simile.

  

* * *

  

Nulla esiste tranne te, mare. Cammino sugli scogli  a braccia larghe per non cadere, e tu luccichi, e tu mi lasci libera. Io cammino sugli scogli vicino a te, e nulla passa, nulla si muove.

  

   

Il sole

   

Ho visto il sole nascere dai rami delle betulle, alzarsi sul cielo rosato e salire sempre più in alto. L’ho visto posarsi sulla mia fronte e diventare fuoco. Non avevo pensieri, nulla che volessi, e il sole mi prese con sé. I suoi sentieri erano molti. Li percorsi tutti come fossero raggi e bevvi l’acqua da tutte le fonti. Un cervo mi seguiva, un’anima sconosciuta, e talvolta bevemmo insieme. Entrai in una valle. Non udì suoni e nulla si mosse. Un volto di uomo era la mia ultima visione.

  

* * *

  

I boschi circondavano il nostro piccolo paese. Querce, noccioli e rovi di more si stendevano ovunque con strani spazi secchi e rocciosi dove crescevano le più belle violette mai viste e vivevano molti serpenti, piccoli e velenosi.

Erano proprio questi luoghi nudi e bruciati dal sole i miei preferiti, e io mi aggiravo tra le rocce e le pietraie raccogliendo violette o asparagi, oppure semplicemente gironzolavo lì arrampicandomi e poi scendendo, facendo rotolare le pietre sotto le suole, mentre il sole bruciava e fortissimo era l’odore di timo.

Non distante dalla pietraia vi era uno spazio, anch’esso aperto e con poca vegetazione, dove crescevano però i grandi arbusti di ginestra. Tra di essi si stendevano superfici piatte e pietrose e lì vidi spesso grandi bisce scure, immobili al sole. Le bisce si spostavano a gruppi e talvolta attraversavano la strada che passava di lì e portava verso il mare e capitava che le macchine che vi passavano si dovessero fermare per aspettare che le bisce attraversassero. Io delle bisce non avevo nessuna paura. Quando mi andava di stare sul terrazzo delle ginestre, così chiamavo quel luogo, mi aggiravo tra di esse scavalcandole come fosse un gioco e proseguivo per la  mia strada.. Il terrazzo delle ginestre era un luogo da dove si vedeva tutta la valle, e anche il mare, giù in fondo, vicino all’orizzonte. Non sono mai riuscita a sedermi sul terrazzo delle ginestre. Stavo in piedi vicino ai cespugli gialli guardandomi attorno, ma quel suolo non lo sentivo mio, apparteneva alle bisce. Quel luogo era piuttosto come una tappa di passaggio e non mi fermavo mai troppo a lungo.

Ma sulla grande pietraia sì. Le rocce – pietra, pietra – sole. Lì passavo giornate intere nella stagione che precedeva l’estate. Lì sulle pietre il sole arrivava puro.

  

* * *

  

Le mie mani tessono la storia del sole mentre dalle creature escono altre creature e un carro passa nel deserto. Vado e non so dove, guardo e non so cosa.

Passa il mio carro nel deserto, e il sole scende nei rami delle betulle. Terra senza sole, sole senza terra, passa il mio carro nel deserto.

  

* * *

  

Nessun tempo per me, seduta nella pietraia. Il sole arrivava puro lì, così puro che tutto si oscurava. E veniva vicino. Così vicino da essere un suono che mi chiude le palpebre, sigillandole.

Le mie mani tessono la storia del sole ed io sono lì, seduta nella pietraia, raggiungibile solo da questa  storia stessa.  

  

  

III.

   

La neve si scioglieva alla fine di febbraio e la campagna era striata di luci azzurre e rosse. Stava arrivando la primavera e il sole splendeva alto sul cielo pulito. I boschi si svegliavano e tutto iniziava a muoversi, e io sentivo dentro di me crescere la gioia e diventavo impaziente e toccavo i nudi rami degli alberi già nel pensiero.

Non vedevo l’ora che i bambini della campagna ci facessero sapere se erano spuntati i primi bucaneve, non vedevo l’ora di partire.

Il bosco dei bucaneve era bellissimo. Nessun bosco era così grande e così strano. Si stendeva in modo quasi circolare attorno ad una vasta radura di aspetto selvaggio ed incolto, coperta di erbe scure e alte che si muovevano sempre, perché sembrava che il vento lì soffiasse anche quando altrove non c’era. La radura era circoscritta da massi di pietra, oltre cui iniziava il bosco.

Lì raccoglievo i bucaneve ogni giorno di primo sole di primavera, lì mi addentravo con mani e tasche piene di fiori, e non riuscivo a smettere. Mi sedevo sulla terra fredda con mazzi bianchi adagiati accanto, per farli riposare, dicevo. E poi li prendevo e li bagnavo nel ruscello, per farli bere, dicevo, E mi lavavo le mani in quel ruscello,  mazzi bianchi adagiati sulla pietra, per farli asciugare.

Ero svelta nel bosco, e instancabile. Scostavo i rami e i rovi con abilità e leggerezza, e respiravo in un modo diverso, quasi fosse il respiro di un’altra. Non mi fermavo mai e volevo andare dappertutto. Una volta sola e mai più mi trovai d’improvviso davanti ad una scena indimenticabile. Un grande spazio di sola pietra, alto come fosse una piattaforma, tutto liscio e nudo, rigato scuro da qualche profonda crepa, si stendeva dinanzi a me senza entrarci con null’altro, come fosse un frammento di un altro mondo nascosto nel bosco dei bucaneve. Misi il piede su quella piattaforma lunare ma mi sentii strana e non riuscii a fare un altro passo in avanti. Rimasi lì un po’ e poi saltai giù e corsi via di fretta. Non raccontai nulla a nessuno e mai più riuscii a trovare quel luogo astratto e inverosimile.

Il bosco dei bucaneve era grande e non riuscii a conoscerlo tutto. Era un bosco senza sentieri ma certi suoi luoghi vibravano in un modo strano e non potei  mai avvicinarmi troppo ad essi.

In casa i bucaneve troneggiavano dappertutto. Li mettevo nei bicchieri o in piccoli barattoli di vetro che appoggiavo tutt’intorno in cucina. Riuscivo a riempire anche sei o sette bicchieri per volta, e immediatamente la casa prendeva il loro odore. Non che fosse un odore particolarmente piacevole quello dei bucaneve, sapevano piuttosto di qualcosa di claustrale, di mura pallide e carni bianche e intatte, ma questo era per me un incanto particolare e sapendo che tranne me in casa nessuno lo capiva quel profumo mi diventava un segreto prezioso.

Un giorno un raggio di luce entrò in cucina e la tagliò in due. Io mi alzai, misi i bicchierini con i bucaneve attorno al tavolo e mi stesi lì in mezzo, immobile, come fossi morta, mi dissi, per aspettare dio.

Da marzo in poi i bicchierini di bucaneve venivano sostituiti con quelli di violette. Talvolta anche con qualcuno di primule, ma di meno, perché le primule non mi piacevano molto. Il loro stelo peloso e il fiore troppo aperto non incontravano il mio gusto e preferivo i ciclamini. Ma le violette erano le mie preferite. Per le violette mi sarei addentrata tra i rovi più impossibili, mi sarei lasciata graffiare fino al sangue, mi sarei sbucciata le ginocchia e mi sarei fatta punire con il più terribile dei silenzi da mio padre perché mi ero trattenuta troppo nei boschi e rincasavo in ritardo. Vederle tra l’erba sotto gli alberi o nella pietraia mi attraeva nel modo più completo. Il loro colore svegliava in me le energie più nascoste, il loro profumo mi inebriava. Tornavo a casa con le mani tutte graffiate e le mettevo sul tavolo. Poi dividevo quelle con steli più lunghi da quelle con steli più corti, sceglievo i bicchieri e li disponevo in diversi punti della cucina.  Facevo mazzi misti con primule e violette solo nel caso che non vi fossero abbastanza violette  per farne un mazzo  e che in casa non vi fossero già altri bicchieri con sole violette. Solo allora tolleravo che il viola assoluto venisse spezzato con il giallo e mi sembrava in tal caso di farlo per un altro, per gli altri bambini con cui ero andata nei boschi o per mia madre. Le violette dovevano stare sole nei bicchieri, e più era intenso il loro colore più cresceva il senso di bellezza e di potere che in me risvegliavano. Quando le vedevo appassire sulla credenza o sulla finestra ciò mi dava un senso di sconforto e  pensavo subito che dovevo trovarne delle altre, fresche e profumate. Ma la primavera avanzava e le violette nei boschi diventavano sempre più rare e sempre più pallide. Si potevano trovare i ciclamini, il cui profumo mi piaceva, ma essi crescevano in luoghi umidi e ombrosi ed io amavo il sole.

Quando i bicchierini di casa mia si riempivano di ciclamini l’estate stava già avvicinandosi e ovunque nei giardini fiorivano garofani e giacinti. D’estate non andavo quasi mai nei boschi, ma scendevo giù, al mare.

La finestra della mia camera dava sul nostro giardino e sopra di essa partiva un bel pergolato di uva fragola. La curava mio padre e d’estate verso sera  rientrava sempre con un cestino pieno. Mi piaceva quando mio padre era nel giardino sotto il pergolato, mi piaceva ascoltare il rumore secco e deciso delle forbici che usava. Io me ne stavo sola nella mia camera, la finestra era spalancata e le persiane arabescate di ombre di foglie d’uva.  Mio padre era lì e l’estate era ovunque.

La sera talvolta avevo il permesso di uscire e allora incontravo altri bambini e con loro accendevamo dei grandi falò dove arrostivamo delle pannocchie. Il gusto del fumo mi piaceva e mangiare le pannocchie in piedi attorno al falò mi rendeva felice.

Amavo l’estate. Amavo correre e guardare le mie gambe nude, le ginocchia che si piegavano, la pelle liscia e tesa. Mi annusavo, con le unghie mi facevo dei segni sulle braccia e aspettavo che sparissero. Staccavo dei petali di rosa e con la saliva li attaccavo sulle unghie, come fossi una regina, mi dicevo. Conoscevo anche un frutto che non si poteva mangiare ma da cui, spremendone i piccoli semi, usciva un succo verde e appiccicoso con cui mi coloravo le unghie. Non avevo orecchini e dietro le orecchie appendevo le ciliegie e così agghindata andavo a sedermi sotto il grande pioppo vicino a casa mia. Lo facevo nelle prime ore del pomeriggio quando in giro non c’era anima viva, perché era estate ed era l’ora della siesta.

Sotto il pioppo me ne stavo con occhi chiusi e immobile. Così il vento poteva agitare le ciliegie che pendevano dalle mie orecchie, e mi piaceva immensamente sentire il loro tocco sodo e rotondo e pensare anche alle unghie lunghissime di petali di rosa appoggiate sulle gambe mentre ero lì sotto sola nell’estate. L’aria era tutta azzurra e più di una volta, dopo che emergevo da questi sogni, sentii una leggerezza in me tutta particolare, e che anche il mondo era leggero e bellissimo.

Non avevo più bisogno di gironzolare. Da lì vedevo il sole, le persiane chiuse, i cespugli di lillà  fioriti, e il vento leggero muoveva le foglie del pioppo come fosse un sussurro.

L’estate vivrà sempre in me. A occhi chiusi vedrò sempre le anziane donne sedute nel cortile in cerchio su ceppi di legno o su sgabelli, con le mani nei grembi che lavorano o le mani ferme che riposano. Le ore passeranno e lo spazio attorno ad esse sarà sempre più scuro, fino a che la notte non le coprirà del tutto.

  

* * *

  

Avevo due alberi. Il pioppo a cui ho già accennato e che si trovava accanto  a casa  mia e una quercia, che era  più lontana e se ne stava sola a lato del sentiero che partiva dal  paese  e portava nei boschi. Per poter andare “fino alla quercia” - come usava dire, perché essa era come il punto estremo di confine tra il paese ed i boschi e tutti sapevano subito che luogo fosse - dovevo chiedere il permesso ai miei genitori. Andavo alla quercia sia con le altre ragazzine che da sola. Con loro ci sedevamo sotto il grande albero, tiravamo fuori dagli zainetti le nostre bambole, i loro vestiti, pezzi di stoffa colorata, aghi e forbici e passavamo lì molte ore, a giocare e cucire i vestiti per le bambole. Facevamo anche molto ricamo e io mi deliziavo nel disporre le lunghe trecce di bellissimo filo colorato sulla coperta stesa per terra, nello sfilare dalla treccia scelta il filo e iniziare a compilare il disegno. A casa preparavo già le stoffe bianche di lino o di cotone e vi ricalcavo disegni copiati dalle riviste: i miei preferiti erano le ceste con fiori. Ero sempre felice quando ricamavo e spesso continuavo il mio lavoro anche in casa, aggiungendo farfalle e uccelli in volo. Una volta che il quadro ricamato era finito, ne facevo l’orlo e lo esponevo in cucina o in bagno fissandolo al muro con delle puntine di metallo.

Ho scoperto recentemente nell’armadio in casa di mia madre, due di questi ricami, e ciò mi ha dato un’emozione di grande intensità.

La quercia era vecchia e piuttosto grande. Quando vi venivo da sola non portavo sempre le bambole o il ricamo. Per andare alla quercia camminavo sempre lentamente e capitava che mi fermassi prima se vedevo delle margherite o dei papaveri nel grano. Il grano era secco e pungeva e, anche se altri bambini usavano farlo, io non mi stendevo mai in quei campi. Preferivo camminarci accanto, sui prati dove l’erba era verde e più bassa e dove c’erano tanti piccoli fiori variopinti e erbe profumate e ronzavano api e volavano farfalle. Conoscevo una pianta dalla quale estraevo i petali raccogliendoli tra le dita tutti in un colpo solo e tirando decisa. Le punte di questi petali avevano un gusto dolcissimo e noi bambini usavamo succhiarli.

La quercia era vecchia e ruvida e così silenziosa che potevo sentirla parlare. Essa sapeva tutto di tutto e chiunque avrebbe potuto sentirla entrando in quel silenzio. Starle accanto faceva scendere un sogno sulle cose, che toglieva loro la loro natura necessaria. Era come se tutto svanisse pur restando lì, e di lì non si poteva andare più da nessuna parte perché non vi era nessun luogo da dove partire e forse non vi era nessuno che potesse partire. Vi era solo una polvere finissima che scendeva lieve sugli occhi chiusi di una fanciulla sdraiata nel bosco sotto una quercia.

  

* * *

  

Il pioppo era così bello che ne ero innamorata. Alto e vigoroso, piuttosto snello e ben proporzionato, in primavera era pieno di foglie nuove e non si poteva passargli accanto senza guardarlo. Ma c’era in lui anche qualcosa di particolare che chiedeva di non avvicinarsi troppo, e sembrava quasi che si sottraesse alla mano che voleva toccarlo. Infatti su di lui i ragazzi non si arrampicavano, e non ho mai visto un’altalena appesa ad esso. Cresceva più o meno al centro del quartiere e ci concedeva solo il prato attorno. Questo era uno spazio piuttosto vasto e noi bambini lo usavamo per seppellire i nostri “segreti”, come li chiamavamo. I segreti erano in realtà dei pezzettini di vetro colorato che trovavamo in giro, sotto cui mettevamo la stessa misura di carta stagnola colorata o solo argentata. Ottenevamo così dei  bellissimi oggetti che sembravano gemme. Poi cercavamo degli angoli attorno al pioppo senza però essere visti, e lì seppellivamo i nostri segreti. Era strano e affascinante  poi camminare su quella terra sapendo che sotto vi erano nascosti questi piccoli gioielli di luce. Quando ci stufavamo di tenere i nostri segreti sotterrati in un determinato posto, li disseppellivamo e cambiavamo loro posto, oppure li sostituivamo con altri nuovi segreti. Cosa curiosa, tutti sapevamo che la terra sotto i nostri piedi era piena di “segreti” ma nessuno avrebbe mai chiesto ad un altro di rivelargli il luogo dove erano nascosti i suoi, né mai qualcuno avrebbe spiato un altro mentre cercava o seppelliva i suoi segreti scavando piccoli buchi e coprendoli con la terra. Era questo un rito silenzioso e non so veramente chi ce lo insegnò. Durò per anni e poi passò ai bambini più piccoli perché noi diventavamo troppo grandi per crederci.

Lì in alto il pioppo era nell’aria, e con lui anch’io ero nell’aria. Per questo lo amavo, per questo tornavo sempre da lui. L’aria era senza confini  e sempre uguale a se stessa e mi accoglieva senza sottrarmi nulla, senza nulla chiedermi e senza neppure riconoscermi,  perché già mi conosceva, mi restituiva immediatamente e con sublime delicatezza ad una natura di  pura gioia..

Talvolta penso al mio pioppo e lo vedo come fosse in un altro spazio, e la luce tra le sue foglie è liquida e fissa, e anche lui non è altro che luce verde e luce bianca.  

   


Mirjana Zarifovic vive e lavora a Torino, ed è nata nel 1960 a Labin, l'italiana  Albona, cittadina dell'Istria che fu dapprima veneziana e poi di volta in volta austriaca, italiana, iugoslava ed infine croata. 
Ha esposto le sue opere pittoriche in diverse mostre collettive e personali: 1984, Chivasso, personale; 1993, Torino, collettiva; 1994, Torino, collettiva; 1995, Torino, collettiva; 1996, Torino, collettiva; 1997, Torino, collettiva; 1999, Torino, collettiva; 2000, Torino, personale; 2000, Torino, collettiva; 2001, Torino, personale.
Cinque suoi disegni di ispirazione esoterica illustrano il libro Percorsi nella qabbalà di Dario Chioli, edito nel 2000  da Magnanelli di Torino.
Ha partecipato all'iniziativa "L'ho dipinto con…" organizzata dal Comune e dalla Provincia di Torino.
Nel 2001 si è dedicata ad una particolare forma di scultura con i Giardini di Pietra.
In quanto scrittrice ha pubblicato su SuperZeko alcune delle sue poesie, il breve testo Dipingere visioni (che è stato tradotto anche in spagnolo: Pintar visiones), i Ricordi di Albona, e le prose Il tempo, Se avessi un pappagallo, La madre, Ptica, La casa rosa, I Viola.

   

   

 

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