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TESTI SUL JIHĀD COME LOTTA ARMATA

a cura di Dario Chioli

 

 

Sommario

Premessa

Etimologia del termine jihād

Jihād an-nafs

Il jihād morale

Da: Il Corano, a cura di Alessandro Bausani (1961)

Da: Detti e fatti del Profeta dell'Islām raccolti da al-Bukhārī (1982)

Da: Fazlur Rahman, La religione del Corano (1966)

Da: Louis Gardet, Conoscere l'Isląm (1958)

Da: Il Corano, cura e traduzione di Hamza Roberto Piccardo (1994)

Da: Aldobrandino Malvezzi, L'Italia e l'Islam in Libia (1913)

Da: Laura Veccia Vaglieri, Isląm (1946)

Da: H.A.R. Gibb e J. H. Kramers (a cura di), Shorter Encyclopaedia of Islam (1974)

Jihād khafīy ovvero il terrore

Bibliografia on line


Premessa

Raccolgo qui diverse testimonianze sul  jihād in quanto lotta armata che si potranno utilizzare a complemento dell'estratto dal Mukhtasar per meglio inquadrare la questione sia ideologicamente che storicamente. Va da sé che non ho nessuna pretesa di completezza; ho estratto dalla mia biblioteca, digitalizzato, tradotto e commentato quanto mi sembrava utile.

Č importante, dopo alcuni chiarimenti preliminari, leggere anzi tutto i principali passi coranici di riferimento - che ho trascritto - ed i commenti relativi, per esempio quelli - trascritti anch'essi - di Alessandro Bausani alle sure II,190-191 e IX, 29 nella sua eccellente versione de Il Corano.

Importantissimo č anche vedere quanto risulta dagli hadīth (le tradizioni riguardanti il Profeta). Ho confrontato per questo soprattutto il capitolo LVI ("La guerra santa") dei Detti e fatti del Profeta dell'Islām raccolti da al-Bukhārī, a cura di Virginia Vacca, Sergio Noja e Michele Vallaro, riproducendone alcuni passi importanti.

Riporto poi, di Fazlur Rahman e di Louis Gardet, due sintesi molto stringate ed equilibrate che si possono prendere come riferimento interpretativo di base.

Ho riprodotto anche, di Hamza Roberto Piccardo, l'Appendice 9 (A proposito del concetto di «jihād») alla sua traduzione de Il Corano, che delinea la questione correttamente, anche se trascura di accennare a possibili interpretazioni assai pił radicali della sua, che č peraltro quella pił generalmente diffusa attualmente nel mondo islamico ed anche l'unica che permetta ai musulmani di dialogare con gli altri.

Ho poi riproposto due testi di Aldobrandino Malvezzi, del 1913, e di Laura Veccia Vaglieri, del 1946, che risultano a mio avviso stranamente attuali ed assai utili per comprendere le difficoltą politiche e di comunicazione nei rapporti tra occidentali di origine cristiana ed islamici.

Ho tradotto anche quattro voci della Shorter Encyclopaedia of Islam che entrano nel merito di talune questioni legali di fondo di indubbio interesse.

Infine ho steso una breve nota relativa al jihād khafīy ed alla pratica dell'assassinio e del terrore per fini politici e pseudoreligiosi in talune fazioni estreme.

Aggiungo che sul jihād si puņ leggere, se ancora lo si trova, l'interessante saggio di Biancamaria Scarcia Amoretti Tolleranza e guerra santa nell'Islam, Sansoni, Firenze, 1974.

Per la trascrizione dei termini arabi, vale quanto detto nella Nota linguistica che ho premesso alla Prefazione di Ignazio Guidi e David Santillana alla traduzione del Mukhtasar.


Etimologia del termine jihād

Cito Sergio Noja (Maometto profeta dell'Isląm, Ed. Esperienze, Fossano, 1974, cap. XVI):

Quella che noi chiamiamo "guerra santa" č forse uno degli aspetti pił appariscenti ed anche pił noti, almeno superficialmente dell'Isląm: merita perciņ un breve discorso. La parola araba che la definisce non contiene né il termine "guerra" né il termine "santa", che pure esistono entrambi nel vocabolario arabo. Essa si trova nel Corano e, tradotta letteralmente, suona "lo sforzo", cui si deve sottintendere aggiunto "sulla via di Dio". Č interessante notare che la parola JiHāD , "sforzo", č una delle forme di quella stessa radice J.H.D. che, in un'altra forma (iJtiHāD), definisce l'attivitą dei Maestri nell'interpretare la legge divina. Il jihād fu importante, anzi importantissimo nell'espansione dell'Isląm, ma mette conto ancora di notare che non venne annoverato (almeno nell'ortodossia) fra le norme che i dottori dei secoli seguenti - proprio mentre avveniva la grande espansione militare islamica - definirono "i cinque pilastri" dell'lslām ovvero i doveri fondamentali a cui ancor oggi nessun Musulmano puņ sottrarsi: la formulazione aperta della testimonianza di fede musulmana (Non v’č altro dio all'infuori di Dio e Maometto č l’Inviato di Dio), la preghiera rituale, il digiuno del mese di Ramadān, il pellegrinaggio alla Mecca e l’imposta canonica.

Di contro dice Federico Peirone (Il Corano, 2a ed., Mondadori, Milano, 1980, commento alla sura IX):

Il semantema jihād = battaglia, combattimento, deriva dalla prima forma [vocalizzata] del verbo jahada = sopportare, soffrire, sacrificarsi; dalla stessa scaturisce la terza forma verbale che significa esattamente (intensivamente) = combattere.
Jihād nel codice semiologico coranico, č una forma eminente del culto dovuto alla divinitą. L'islām ha come specifica missione quella di far osservare da tutto il mondo il patto imposto da sempre dal Dio a tutti gli uomini: riconoscere la sua unicitą, sottomettersi alla sua onnipotenza assoluta, secondo la fede e la luce che il Dio stesso ha consegnato definitivamente in deposito all'ultimo dei libri rivelati, il Corano. Ogni uomo č chiamato all'islām. La chiamata potrebbe anche (si noti bene: non "dovrebbe") essere forzosa, appunto attraverso la guerra santa.

E per chiarire un po' meglio la questione vediamo le definizioni di Hans Wehr (A Dictionary of Modern Written Arabic, ed. by J. Milton Cowan, Beirut-London, 1980):

jahada to endeavor, strive, labor, take pains, put s.o. out; to overwork, overtax, fatigue, exhaust [...]

jihād fight, battle; jihad, holy war (against the infidels, as a religious duty).

Sembra insomma che convivano nel termine jihād tutt'e due i sensi, sia di sforzo, che puņ essere anche interiore, sia di guerra. A seconda di chi usa il termine, viene accentuata l'una o l'altra sfumatura.


Jihād an-nafs

Non ho trattato qui del jihād an-nafs, «sforzo verso se stessi», che č una categoria ricorrente nella via spirituale islamica (sufismo). Quest'aspetto del jihād - parente stretto di tutte le forme di combattimento o lotta spirituali noti ad asceti e gente comune delle varie tradizioni - non offre naturalmente spunto a nessun guerrafondaio o assassino per svolgere il suo sporco mestiere, e richiederebbe una lunga trattazione a parte, del tutto diversa dalla presente. Su di esso si puņ trovare materiale interessante (in inglese) su http://www.sunnah.org/tasawwuf/jihad001.html e pagine collegate.

Č comunque opportuno dare qualche minimo chiarimento in proposito.

Per esempio G. C. Anawati (in: G. C. Anawati e Louis Gardet, Mistica islamica. Aspetti e tendenze, esperienze e tecnica, trad. dal francese di N. M. Loss, SEI, Torino,1960, cap. III, p. 38) spiega che

Il lavoro di perfezionamento č una lotta (mujāhada), un combattimento interiore (il «grande jihād») condotto sotto la guida indispensabile d'un direttore spirituale (shaykh, murshid).

Ora, tale formulazione deriva da un detto di Muhammad che viene ricorrentemente citato, reperibile in inglese nella pagina web http://www.sunnah.org/tasawwuf/jihad004.html, tratta da un'opera dello Shaykh Hisham Kabbani, che cosģ si esprime (traducendo nafs con Ego):

Hadīth sul jihād contro l'Ego
L'esperto di hadīth Mullā `Alī al-Qāri' riporta nel suo libro al-Maudū`at al-kubrā, altresģ noto come al-Asrār al-marfū`:
Suyūtī disse: al-Khatīb al-Baghdādī riporta nella sua "Storia" sull'autoritą di Jābir: Il Profeta tornņ da una delle sue campagne dicendo: "Siete usciti fuori nel modo migliore in cui si possa uscir fuori: siete passati dal jihād minore al jihād maggiore." Essi dissero: "E cos'č il jihād maggiore?" Replicņ: "Lo sforzarsi (mujāhadat) dei servi di Allāh contro le proprie futili brame."

Michel Chodkiewicz concordemente - nell'Introduzione a Abd el-Kader, Ecrits spirituels, 1982, trad. it. di Anna Silva: Il Libro delle Soste, Rusconi, Milano, 1984 - dice, parlando dei "migliori", che

La piccola guerra santa, contro il nemico esterno, non li svia dalla grande, contro l'infedele che ciascuno ha in sé; né la grande li distoglie dalla piccola. La loro vita concatena, senza rammarico se non addirittura senza sforzo, le cure del secolo con quelle dell'eternitą.

E non si dimentichi che scrive questo introducendo una scelta degli scritti di `Abd al-Qādir al-Jazā'irī, che fu un grande mistico (i suoi scritti sono tra i migliori scritti sufi che io abbia letto) ma anche un grande capo politico e militare che lottņ a lungo contro i francesi.

Deve pertanto risultare chiaro che non vi č alcuna opposizione nell'Islām tra la guerra interiore contro la nafs e le suggestioni di Shaytān e la guerra contro un nemico in carne ed ossa, se quest'ultima č condotta per dovere religioso. Infatti chi muore nel jihād č considerato un martire.


Il jihād morale

Anche di questa forma di jihād non ho trattato qui. Si puņ intuirne agevolmente il senso - assolutamente universale - citando per esempio un hadīth [*] che dice che "il jihād pił eccellente č quando si pronuncia un discorso sincero in presenza d'un governante tirannico". Consiste pertanto nel sostenere la giustizia, nel proteggere l'orfano e la vedova e cose simili. In teoria tutti sono d'accordo, e non c'č bisogno di insistere oltre in questa sede.

[*] Traduco dall'inglese il n. 67 (tratto dal Sahih di Hakīm Tirmidhī e ripreso dai Sayings of Muhammad  del Prof. Ghazi Ahmad) dei 500 Ahadith di Tayyab Riaz riportati nel sito http://foreninger.uio.no/mss/tr/hadith/hadith1.html.

Passiamo dunque alla lettura dei testi riguardanti il jihād come lotta armata.


Da:
Il Corano, a cura di Alessandro Bausani
Sansoni, Firenze, 1961.

II, La sura della vacca
190-194, 216-218, 244-246

190 Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono ma non oltrepassate i limiti, ché Dio non ama gli eccessivi. - 191 Uccidete dunque chi vi combatte dovunque li troviate e scacciateli di dove hanno scacciato voi, ché lo scandalo č peggio dell'uccidere; ma non combatteteli presso il Sacro Tempio, a meno che non siano essi ad attaccarvi colą: in tal caso uccideteli. Tale č la ricompensa dei Negatori. -192 Se perņ essi sospendono la battaglia, Iddio č indulgente e misericorde. - 193 Combatteteli dunque fino a che non ci sia pił scandalo, e la religione sia quella di Dio; ma se cessan la lotta, non ci sia pił inimicizia che per gli iniqui. - 194 Il mese sacro per il mese sacro e tutti i luoghi sacri seguono la legge del taglione; chi in quei luoghi vi aggredisce aggreditelo come egli ha aggredito voi, temete Iddio e sappiate che Dio č con chi Lo teme.

COMMENTO DI ALESSANDRO BAUSANI

190-191. - Versetti importanti per la definizione della Guerra Santa (jihād). Gli esegeti musulmani moderni fanno notare che essa vi č limitata da due condizioni: 1) "non oltrepassate i limiti"; 2) "combattete coloro che vi combattono". Cioč la Guerra Santa ha da essere solo difensiva e fatta senza eccessiva crudeltą. Comunque questa č una delle prime ingiunzioni al combattere di Muhammad (forse č di poco dopo I'Čgira) e le disposizioni seguenti sul jihād (o Guerra Santa) non sempre sono cosģ moderate (v. ad es. IX, 5 e soprattutto IX, 29). Sull'evoluzione dell'idea di Guerra Santa si veda MERCIER, Introduction ą l'evolution de la doctrine de la guerre sainte en Islam in ALI IBN HODHEIL EL ANDALUSY, L'Ornement des Ames, Paris, 1939. La parola che qui traduco "scandalo" č il difficilmente traducibile termine arabo fitna che racchiude in sé l'idea di "prova", "tentazione", "persecuzione", "scandalo", "confusione", "anarchia", ecc.

194. - Che i mesi e i luoghi sacri "seguono la legge del taglione" significa che, se i pagani assalgono i credenti in qualche luogo o mese sacro, mese e luogo cioč in cui sarebbe interdetto combattere, questi sono autorizzati a ripagarli con la stessa moneta. Sui mesi sacri vedi IX, 36.

216 V'č prescritta la guerra anche se ciņ possa spiacervi: ché puņ darsi vi spiaccia qualcosa che č invece un bene per voi, e puņ darsi vi piaccia qualcosa, mentre invece č un male per voi, ma Dio sa e voi non sapete. - 217 Ti chiederanno se č lecito far guerra nel mese sacro. Rispondi: "Far guerra in quel mese č peccato grave. Ma pił grave č agli occhi di Dio stornare dalla via di Dio, bestemmiare Lui e il Sacro Tempio e scacciarne la Sua gente, poiché lo scandalo č peggiore dell'uccidere, e costoro non cesseranno di combattervi fino a quando loro riuscisse di farvi apostatar dalla fede; quanto a quelli di voi che avranno abbandonato la fede e saran morti negando, vane saranno tutte le opere loro in questo e nell'altro mondo, e saran dannati al fuoco, dove rimarranno in eterno. - 218 Ma quelli che credettero, e che emigrarono, e lottarono sulla via di Dio, posson sperare la misericordia di Dio, ché Dio perdona misericorde".

244 Combattete sulla via di Dio e sappiate che Dio ascolta e conosce. - 245 Chi č colui che vorrą fare a Dio un prestito bello, un prestito che gli sarą restituito raddoppiato di molti doppi? Dio stringe ed allenta, e a Lui tutti sarete fatti tornare. - 246 Non hai visto il consesso dei figli d'Israele quando, dopo la morte di Mosč, dissero a un loro profeta: "Słscitaci un re e noi combatteremo sulla via di Dio!" Ed Egli rispose: "Potrebbe mai accadere che, se vi fosse prescritto combattere, non combattereste?" Ed essi replicarono: "Come potremmo non combattere sulla via di Dio, mentre siamo stati scacciati dalle nostre case e dai nostri figli?" Eppur quando fu loro prescritta la guerra tutti volser le spalle, salvo pochi. Ma Dio sa quali sono gli iniqui.

III, La sura della famiglia di `Imrān
166-174.

166 E quel che vi colse il dģ che si scontraron gli eserciti, avvenne col permesso di Dio, perché Egli potesse riconoscere i credenti - 167 e perché potesse riconoscere gli ipocriti. Quando a questi fu detto: "Venite, combattete sulla via di Dio, o difendetevi!", essi: "Se sapessimo combattere, vi seguiremmo". In quel giorno, essi furon pił vicini all'infedeltą che alla fede. Dicevano infatti con la bocca quel che non avevano in cuore, ma Dio conosce meglio di chiunque quel che nascondono dentro. - 168 E a coloro che rimasti comodi in casa dissero ai loro fratelli: "Non sarebbero stati uccisi, se ci avessero dato ascolto!" tu dģ: "Respingete dunque da voi la morte, se siete sinceri!" - 169 E non chiamare morti coloro che son stati uccisi sulla via di Dio, anzi, vivi sono, nutriti di grazia presso il Signore! - 170 Felici per il favore loro concesso da Dio e lieti perché coloro che ancora non son venuti a raggiungerli e moriranno dopo di loro non avranno timore, non tristezza veruna; - 171 lieti per la grazia grande e il favore di Dio, e perché Dio non manda perduta la mercede dei credenti, - 172 i quali risposero all'invito di Dio e del Suo Messaggero dopo che l'aveva colpiti ulcera di sconfitta: e quelli di loro che fanno il bene e temono Dio avranno ricompensa immensa. - 173 Quelli cui dice la gente: "S'adunano per perdervi i nemici, temeteli!", tali discorsi non fanno che accrescerne la fede e rispondono: "Ci basta Dio, ed č buon protettore!" - 174 E se n'andaron cosģ colmi della grazia e del favore di Dio, senza che li cogliesse male alcuno; seguirono il beneplacito di Dio, e Dio č ricco d'immenso favore.

IV. La sura delle donne
71-77, 84, 95-96

71 O voi che credete! Statevi in guardia! Lanciatevi contro il nemico in gruppi dispersi, o in massa serrata! - 72 Certo fra voi c'č qualcuno che rimane indietro e se vi colpisce disgrazia dice: "Iddio mi ha fatto la grazia, che non son stato presente alla battaglia con loro!" - 73 E se invece vi tocca il favore divino quello dice, come se nessun legarne d'affetto esistesse fra lui e voi: "Volesse il cielo che fossi stato con loro ottenendo supremo successo!" - 74 Combattano dunque sulla via di Dio coloro che volentieri cambiano la vita terrena con l'Altra, ché a colui che combatte sulla via di Dio, ucciso o vincitore, daremo mercede immensa. - 75 Che avete dunque che non combattete sulla via di Dio e per difendere quei deboli, quelle donne, quei bambini, che dicono: "Signore! Facci uscire da questa cittą d'iniqui abitanti, dacci per tua grazia un patrono, dacci per tua grazia un alleato!" - 76 Coloro che credono combattono sulla via di Dio, e coloro che rifiutan la Fede combattono sulla via dei Tāghūt, combattete dunque gli alleati di Satana, ché l'insidia di Satana č debole insidia. - 77 Non hai visto coloro cui fu detto: "Deponete le armi, attendete alla Preghiera e fate l'Elemosina!", e quando vien loro prescritto di combattere ecco che parte di loro temono gli uomini tanto quanto temono Dio e pił ancora e dicono: "Signore! Perché ci hai prescritto la guerra? Non avresti potuto concederci una dilazione fino alla nostra prossima morte?" Dģ loro: "Vile č la merce del mondo, ben migliore č l'Altra per chi teme Iddio, e ivi non vi sarą fatto torto nemmeno per la pellicina dell'osso d'un dattero.

84 Combatti dunque sulla via di Dio, ché solo della tua anima ti sarą chiesto conto, ed incoraggia i credenti, ché forse Iddio respingerą il coraggio degli infedeli, ché Dio č di pił violento coraggio, pił violento a esemplari castighi.

95 Non sono uguali agli occhi di Dio quelli fra i credenti che se ne restano a casa (eccettuati i malati) e quelli che combattono sulla via di Dio dando i beni e la vita, poiché Dio ha esaltato d'un grado coloro che combattono sulla via di Dio dando i beni e la vita, sopra quelli che se ne restano in casa. A tutti Iddio ha promesso il Bene Supremo, ma ha preferito i combattenti ai non combattenti per una ricompensa immensa, - 96 gradi sublimi da lui concessi e perdono e misericordia, perché Dio č il perdonatore misericorde.

V, La sura della mensa
35

O voi che credete! Temete Dio e cercate i mezzi di avvicinarvi a Lui e combattere sulla Sua via, ché per avventura siate fra coloro che prosperano.

VIII, La sura del bottino
38-49

38 Dģ a coloro che rifiutan Fede che, se desisteranno, quel ch'č ormai passato sarą loro perdonato, ma se riattaccano, sappiano che gią gli antichi ebbero punizione esemplare. - 39 Combatteteli dunque finché non vi sia pił scandalo e il culto tutto sia reso solo a Dio. Se desistono, ebbene Dio scorge acuto quel ch'essi fanno. 40 Se volgon le spalle sappiate che vostro patrono č Dio. Quale sublime patrono, qual sublime soccorritore al trionfo!

41 E sappiate che, del bottino che voi prendete, un quinto spetta a Dio e al Suo Messaggero, ai di lui parenti, agli orfani, ai poveri, ai viandanti, se voi davvero credete in Dio e in quel che rivelammo al Nostro servo nel giorno della Salvazione, nel giorno quando si scontrarono i due eserciti; ché Dio č, su tutte le cose, potente. - 42 Quando voi eravate sul versante pił vicino e gli altri sul versante pił lontano e i cavalieri stavan pił abbasso: anche se vi foste dati un convegno sareste stati discordi sul luogo e sull'ora. Invece Iddio decise che fosse realtą quel che avea destinato, affinché chi doveva perire perisse per una ragione e per una ragione vivesse chi era destinato a vivere, perché Dio č, in veritą, ascoltatore sapiente. - 43 E rammenta come Dio te li mostrņ in sogno pochi di numero, ché se te li avesse mostrati in gran numero, vi sareste sfiduciati e avreste cominciato a discutere sulla questione, ma Dio vi ha salvato: in veritą Ei conosce quel che sentono i cuori. - 44 E di quando, al momento dello scontro, fece apparir scarsi i nemici ai vostri occhi, e li diminuiva agli occhi vostri per far realtą quel che aveva destinato: a Dio si riportano tutte le cose. - 45 O Voi che credete! Quando incontrerete una schiera nemica, state saldi, e menzionate il santo nome di Dio spesso, a che possiate avere successo. - 46 Obbedite Dio e il Suo Messaggero! Non disputate, altrimenti perdereste fiducia e vigore e girerebbe il vento che v'ha favorito. Pazientate, ché Dio č coi pazienti! 47 E non fate come quelli che uscirono dalle loro case con petulante ostentazione e distolgono gli uomini dalla Via di Dio; ma Dio abbraccia quel che essi fanno. - 48 Rammenta ancora quando Satana abbellģ agli occhi loro quel che facevano dicendo: "Nessun uomo, oggi, vi potrą vincere! Io vi starņ vicino!" E quando le due schiere furono in vista l'una dell'altra Satana si trasse indietro dicendo: "Io non son responsabile di quel che voi fate. Io vedo quel che voi non vedete. Io ho paura di Dio. Dio č, quando castiga, crudele". - 49 E quando gli Ipocriti e quelli dal cuore malato dicevano: "La loro religione li ha ingannati!" Ma chi confida in Dio, ebbene Dio č possente sapiente.

IX, La sura della conversione
23-29, 38-41, 111, 123

23 O Voi che credete! Non prendete per patroni e alleati i vostri padri e i vostri fratelli se questi preferiscono l'empietą alla Fede. Chi di voi li prenderą per patroni e alleati, sarą degli Iniqui. - 24 Dģ: "Se i vostri padri e i vostri figli e i vostri fratelli e le vostre mogli e la vostra tribł e i beni che avete acquistato e un commercio che temete possa andare in rovina, e le case che amate, vi sono pił care di Dio e del Suo Messaggero e della lotta sulla Sua Via, allora aspettate finché Dio vi porterą il Suo Ordine distruttore: Dio non ama la gente perversa!" - 25 In molti campi di battaglia gią v'ha soccorsi al trionfo Iddio! E nel giorno di Hunayn quando vi compiacevate del vostro grande numero, ma a nulla vi servģ, allorché l'ampio terreno della valle vi parve angusto e fuggiste, le spalle al nemico. - 26 E allora Dio fece discendere la sua Divina Pace sul Suo Messaggero e sui credenti e fece scendere eserciti invisibili a voi e castigņ coloro che avean repugnato alla Fede: ecco il premio di quei che non credono. - 27 E, poi, Dio si convertirą benigno verso chi Egli vorrą, ché Dio č indulgente clemente. - 28 O Voi che credete! In veritą gli idolatri sono sozzura, e non s'accostino dunque al Tempio Sacro dopo questo loro anno. Se temete che ne derivi impoverimento, ebbene Iddio vi farą ricchi coi tesori del Suo favore, se Egli vuole, ché Dio č saggio sapiente. - 29 Combattete coloro che non credono in Dio e nel Giorno Estremo, e che non ritengono illecito quel che Dio e il Suo Messaggero han dichiarato illecito, e coloro, fra quelli cui fu data la Scrittura, che non s'attengono alla Religione della Veritą. Combatteteli finché non paghino il tributo uno per uno, umiliati.

COMMENTO DI ALESSANDRO BAUSANI

25. - Lo scontro della valle di Hunayn, presso la Mecca, nell'8 H., quando i musulmani, quasi sconfitti, furon rianimati da Muhammad e guidati alla vittoria. I musulmani sarebbero stati dodicimila contro quattrornila idolatri.

26. - "La Sua Divina Pace". Cosģ ho qui tradotto sakīna, l'ebraico shekinā. La parola compare anche in II, 248, in un senso un po' differente da quello che ha qui e, in IX, 40 e XLVIII, 4, 18, 26, dove significa "Presenza tranquillante, pacificatrice". Mi sembra perņ ingiusto e tendenzioso vedere, con molti studiosi europei, nel sakīna di II, 248 una incomprensione di Muhammad per il vero senso "puramente spirituale" (?) del termine ebraico, e accusarlo di attribuire alla parola valore "demonologico". E, del resto, un valore demonologico non č presente nella shekinā ebraica? Si veda comunque GOLDZIHER, La notion de la sakīna chez les mahométans, in "Revue de l'Hist. des Religions", XXVIII, pp. 1-13. Č notevole che il termine compare solo in sure medinesi.

28. - "Gli idolatri sono sozzura ". Benché sia chiarissimo qui che si tratta dei soli politeisti, gli sciiti hanno interpretato restrittivamente questo passo considerando il contatto con qualsiasi non musulmano come provocante l'impuritą rituale minore (v. nota a IV, 43).

29. - Versetto di grande importanza che, se, da una parte, č prova di un'attitudine pił intollerante che quella di altri passi come II, 136-137 e XXII, 17 (i quali essendo rivelati anteriormente vengono da questo abrogati), dall'altra, col metter sullo stesso piano gente del Libro e idolatri, ha permesso a certe scuole giuridiche (come la hanafita) di ammettere al pagamento della jizya e trattar quindi corne dhimmī anche gli ģdolatri non arabi (ad es. i pagani dell'India) escludendoli cosģ dall'alternativa "l'Isląm o la spada". Per la generalitą delle scuole giuridiche sono obbligati al pagamento di questa jizya, tributo personale, capitazione, i maschi adulti, sani di corpo e di spirito, della gente del Libro cioč cristiani ed ebrei, soprattutto, ma anche Zoroastriani e Sabei (inclusi i Samaritani) (cfr. XXII, 17). Mediante questo pagamento, dal quale sono esclusi i poveri (anche i monaci poveri!) e gli schiavi, oltre naturalmente le donne, i vecchi e i bambini, il pagante viene a stipulare un contratto di protezione con l'Autoritą islamica, dal che il nome di dhimmī per questi sudditi "protetti" non musulmani di stati islamici. La jizya deve esser pagata in contanti o in natura, e da principio era di un dīnār, in seguito due dīnār e, per ricchi, 4 dīnār a testa (1 dinar = 12 dramme d'argento). La notevole mitezza di questo trattamento (e in ispecie la esenzione dei poveri e degli schiavi) spiega in parte la facilitą con la quale gli arabi riuscirono a conquistare zone (quale quelle sottoposte a Bisanzio e all'Impero persiano) dove senza alcun dubbio le classi sociali basse erano in condizioni molto peggiori sotto i loro correligionari che sotto i nuovi conquistatori musulmani. Quanto alla clausola finale del versetto, "umiliati", questo per alcune scuole (non, per es., per gli sciafeiti) significa che il pagamento deve avvenire in particolari condizioni di umiliazione. Di qui l'usanza di vesti speciali o segni speciali per gli ebrei ecc. L'espressione che ho tradotto "uno per uno" (`an yad) si presta a varie interpretazioni su cui vedi ROSENTHAL, op. cit. in Bibliografia (il quale ne propone una traduzione che mi sembra inaccettabile).

38 O voi che credete! Che avete, che quando vi si dice: "Lanciatevi in battaglia sulla Via di Dio!" rimanete attaccati alla terra? Preferite forse la vita terrena piuttosto che quella dell'Oltre? Ma il godimento della vita terrena, di fronte alla Vita dell'Oltre non č che poca cosa! - 39 Se non vi lancerete in battaglia, Iddio vi castigherą di castigo crudele, vi sostituirą con un altro popolo, e voi non gli farete alcun danno, ché Dio č su tutte le cose potente! - 40 Se voi non lo assisterete, ebbene gią lo ha assistito Iddio quando gli infedeli lo scacciarono, lui con un solo compagno, e quando essi eran nella caverna, e quando ei diceva al suo compagno: "Non t'attristare! Dio č con noi!" E Dio fece scendere su di lui la Sua Divina Pace e lo confermņ con schiere invisibili, e la parola di coloro che repugnarono alla fede la ridusse in basso, e levata in alto fu la parola di Dio, e Dio č certo potente sapiente. - 41 Lanciatevi dunque in battaglia, armati con armi leggere, armati con armi pesanti! Combattete con i vostri beni e con le vostre persone sulla via di Dio! Questo č il meglio per voi, se voi lo sapeste!

COMMENTO DI ALESSANDRO BAUSANI

40. - Il pronome "lo" si riferisce qui a Muhammad. L'episodio si riferisce all'emigrazione di Muhammad, insieme con Abū Bakr, dalla Mecca (622) quando i due, inseguiti, si sarebbero nascosti in una grotta, all'entrata della quale un ragno, per divino ordine, tessé la sua tela sģ che gli inseguitori pensarono vuota la caverna.

111 In veritą Iddio ha comprato ai credenti le loro persone e i loro beni pagandoli coi giardini del Paradiso: essi combattono sulla Via di Dio, uccidono o sono uccisi. Dio l'ha promesso, con promessa solenne e obbligante, nella Tōrāh e nell'Evangelo e nel Corano. Rallegratevi dunque del contratto di vendita che avete concluso. Questo č il Successo supremo.

123 O voi che credete! Combattete i Negatori che vi stan vicini! Che possan trovare in voi tempra durissima! E sappiate che Dio č con coloro che Lo temono!


Da:
Detti e fatti del Profeta dell'Islām raccolti da al-Bukhārī
a cura di Virginia Vacca, Sergio Noja e Michele Vallaro, UTET, Torino,1982, capitolo LVI ("La guerra santa"), pp. 386-387, 391-392.

`Abd Allāh figlio di Mas`ūd - sia soddisfatto Iddio di lui - raccontņ:
Interrogai una volta l'Inviato di Dio - Iddio lo benedica e gli dia eterna salute -, domandandogli:
«O Inviato di Dio, qual č l'azione eccellente su tutte?»
«La preghiera» rispose «fatta al momento giusto».
«E poi che cosa?»
«E poi la reverenza verso i genitori».
«E poi?»
«Il jihād sulla via di Dio».

* * *

Abū Mūsā - sia soddisfatto Iddio di lui - raccontņ:
Un uomo venne dal Profeta - Iddio lo benedica e gli dia eterna salute - e gli disse:
«C'č chi combatte per il bottino, chi combatte per la gloria, e chi combatte perché si veda quant'č bravo. Ma chi č sulla via di Dio?»
«Chi combatte» rispose «perché la parola di Dio sia sopra ogni cosa. Č lui sulla via di Dio.

* * *

`Abd Allāh - sia soddisfatto Iddio di lui - narrņ che durante una delle razzie del profeta - Iddio lo benedica e gli dia eterna salute - venne trovata uccisa una donna. L'Inviato di Dio - Iddio lo benedica e gli dia eterna salute - condannņ allora l'uccisione delle donne e dei fanciulli.


Da:
Fazlur Rahman, Islam, 1966, trad. it. di Quirino Maffi: La religione del Corano
Il Saggiatore, Milano, 1968, cap. 2, pp. 55-56.

Il Corano invita i fedeli a esercitare il jihād, cioč a dare «le proprietą e se stessi alla via di Allāh», il che si risolve nel «pregare, dare la zakāt, volere il bene, proibire il male», in altre parole nello stabilire l'ordine sociale e morale islamico. Finché i musulmani non erano che una piccola e perseguitata comunitą meccana, sarebbe stato impossibile concepire il jihād come un fattore attivo e organizzato del movimento islamico; ma in Medina la situazione era diversa, e da questo momento non c'č cosa, dopo la preghiera e la zakāt, sulla quale si insista di pił che sul jihād. Il che non toglie che solo i fanatici kharigiti [*], fra le scuole di legge musulmane che nasceranno poi, faranno del jihād uno dei «pilastri della Fede». Le altre scuole lo lasceranno cadere, per l'ovvia ragione che l'espansione dell'Islām si era ormai compiuta con una rapiditą di gran lunga superiore, in proporzione, al consolidamento interno della Comunitą della Fede. Non c'č ideologia maschia ed espansiva che, a un certo stadio, non si chieda quali siano le condizioni della coesistenza - se coesistenza dev'esservi - con gli altri sistemi, e fino a qual punto le sia lecito di servirsi dei metodi dell'espansione diretta. Sono gli stessi problemi, le stesse scelte, davanti ai quali si trova, oggi, il comunismo, nelle sue versioni russa e cinese. Si deve dire, a ogni modo, che la meno accettabile delle tesi č, dal punto di vista storico, quella dei moderni apologeti musulmani, che vorrebbero spiegare il jihād della comunitą islamica primitiva in termini puramente difensivi.

[*] N.d.C.: in arabo al sing. khārijī, al pl. khawārij.


Da:
Louis Gardet, Connaītre l'Islam, 1958, trad. it. di Teresa Scotti: Conoscere l'Isląm
Ed. Paoline, Catania, 1958, cap. III, pp. 60-61.

«Lo sforzo sul cammino di Dio» (jihād). Questo «sforzo» č chiamato volentieri nelle lingue europee «guerra santa». Eccone il concetto: la Comunitą in un punto almeno del suo territorio deve continuare a lottare perché si estendano sulla terra «i diritti di Dio e degli uomini», prescritti dal Corano. Se i «Fratelli Musulmani» sostengono ancora lo stretto dovere del combattimento con le armi, la maggior parte dei riformisti contemporanei insegnano che basta rispondere con mezzi pacifici alla chiamata missionaria, la da`wa dell'Islām. Quando invece una terra musulmana č attaccata, il dovere della lotta diventa individuale e ognuno, anche le donne e i bambini, devono rispondere secondo le proprie forze alla «mobilitazione generale».

Jihād vuoi dire «sforzo», sforzo sul cammino di Dio. L'idea non č assolutamente quella della distruzione generale dell'avversario, nel senso del khorbān biblico. Leggi concernenti il jihād furono emanate al tempo dell'Impero `abbāside: potevano essere immediatamente uccisi solo i combattenti nemici presi con le armi in pugno. I testi coranici che servirono di base possono prestarsi ad altre spiegazioni. Nulla si oppone a che essi rispondano alle esigenze attuali del diritto internazionale.


Da:
Il Corano, cura e traduzione di Hamza Roberto Piccardo
Revisione e controllo dottrinale Unione delle Comunitą ed Organizzazioni Islamiche in Italia, Edizioni Al-Hikma, 1994.

Appendice 9
A proposito del concetto di «jihād»

Il termine «jihād» significa «sforzo». Il «jihād fī-sabīli-llāh» č lo sforzo sulla via di Allāh. Nonostante l'interpretazione volutamente riduttiva che si segue in Occidente questa parola č pregna di una quantitą di significati e designa atteggiamenti diversi.

Cominciamo pure dal pił noto, quello dello sforzo militare, a cui sono chiamati i credenti per difendere la loro Comunitą.

Allāh dice: «Vi č stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite. Ebbene, č possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece č un bene per voi, e puņ darsi che amiate una cosa che invece vi č nociva. Allāh sa e voi non sapete» (II, 216).

Quando la Comunitą dei musulmani č aggredita, minacciata, oppressa o perseguitata, i credenti hanno il dovere di combattere esercitando il loro diritto - dovere alla legittima difesa. Č scritto nel Corano: «coloro che si difendono quando sono vittime dell'ingiustizia» (XLII, 39).

La guerra obbedisce a precise norme chiaramente stabilite dal Libro di Allāh e dalla Sunna dell'Inviato (pace e benedizioni su di lui).

Allāh dice: «Combattete per la causa di Allāh contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, che Allāh non ama coloro che eccedono» (II, 190).

Č evidente che la guerra ha solo carattere difensivo [*] e che deve essere condotta senza lasciarsi mai andare all'efferatezza e alla crudeltą.

[*] N.d.C.: Ho spesso riscontrato che - in qualsiasi contesto - quando si trova scritto qualcosa come "č evidente", spesso la cosa indica che tale evidenza non c'č affatto. Anche nel caso presente, infatti, da molti dei contributi qui riportati emergerą, circa il carattere difensivo del jihād,  un'opinione affatto opposta a quella di H. R. Piccardo.

Disse il Profeta (pace e benedizioni su di lui): «Non uccidete i vecchi, i bambini, i neonati e le donne»; e disse: «I credenti sono i pił umani anche negli scontri pił crudeli»; vietņ di utilizzare il fuoco come arma contro le genti, vietņ il taglio degli alberi e l'inquinamento delle acque. li diritto islamico precisa le norme della dichiarazione di guerra, dell'ingiunzione della resa, del trattamento dei prigionieri e del loro riscatto.

La belligeranza č intesa come condizione eccezionale, che deve cessare il pił presto possibile. Dopo i versetti che ordinano la guerra contro oppressori e persecutori dice Allāh nel Santo Corano: «Combatteteli finché non ci sia pił persecuzione e il culto sia [reso solo] ad Allāh. Se desistono non ci sia ostilitą, a parte contro coloro che prevaricano» (II, 193).

Quando la guerra si conclude con la conquista da parte dei musulmani di un territorio abitato da gente appartenente ad una delle religioni del Libro, la condizione dei cittadini non musulmani in uno Stato retto dalla legge islamica č quella di dhimmī (protetti). Essendo esentati dalla zakāt (la decima), essi sono sottoposti al pagamento della «jizya» (l'imposta di protezione) e possono vivere indisturbati partecipando alla vita sociale e amministrativa dello Stato. La loro incolumitą č garantita da un hadīth dell'Inviato di Allāh (pace e benedizioni su di lui) che disse: «Nel Giorno della Resurrezione, io stesso sarņ nemico di chi ha dato fastidio ad un protetto».

La guerra puņ essere parziale o totale. Nel primo caso sarą sufficiente che una parte dei credenti vi partecipino, per assolvere l'obbligo di tutta la comunitą. Se invece si tratta di una guerra totale, tutti i credenti sono tenuti a parteciparvi, ognuno secondo le sue condizioni e possibilitą.

Quelli che partecipano alla lotta sulla via di Allāh sono chiamati mujāhidīn, godono della massima considerazione della loro comunitą in questa vita e, nell'altra sono tra coloro che staranno pił vicini al loro Signore.

Se Allāh concede loro la vittoria, li colma di onore e bottino; se perdono la vita nella lotta, Egli perdona i loro peccati e li accoglie presso di Sé. Egli dice nel Suo Libro Sublime: «Non considerare morti quelli che sono stati uccisi sul Sentiero di Allāh. Sono vivi invece e ben provvisti dal loro Signore, lieti di quello che Allāh, per Sua grazia, concede» (III, 169-170).

Disse l'Inviato di Allāh (pace e benedizioni su di lui): «Chi combatte per la causa di Allāh, e Allāh bene conosce colui che lo fa solo per Lui, č paragonabile a chi digiuna e prega in continuazione. Allāh garantisce il Paradiso al mujāhid che incontra la morte. Se ritorna dal jihād sano e salvo, gli concede bottino e ricompensa.

Il jihād č la lotta per il bene, per il trionfo della Parola di Allāh, per la sua diffusione tra i popoli del mondo. Questa lotta puņ anche essere svolta in modo non violento. La parola, gli scritti, l'esempio del musulmano sono altrettante sfide alla miscredenza e all'ingiustizia.

Ogni comportamento che vada al di lą di quanto č obbligatorio e prescritto, nella pratica rituale, nell'attivitą lavorativa, nello studio, nell'impegno sociale, puņ essere considerato jihād ogniqualvolta lo sforzo prodotto tenda al compiacimento di Allāh e alla visione del Suo Volto.

Il jihād č una forma di avvicinamento ad Allāh, č il segno dell'amore del servo per il suo Creatore. Disse il Profeta: «Tutti coloro che moriranno senza aver partecipato al jihād o senza aver nutrito in cuor loro la speranza di parteciparvi, lasceranno la vita con una punta di ipocrisia».


Da:
Aldobrandino Malvezzi, L'Italia e l'Islam in Libia
Treves, Firenze-Milano, 1913, pp. 50-59.

Tra gli effetti della diffusione dell'Islām in nuove regioni e dell'estendersi degli obblighi che esso comporta a nuovi popoli, č importantissimo da considerarsi per gli europei, oltre quelli gią notati, il propagarsi del precetto coranico del jihād, ossia della guerra agli infedeli o guerra santa. Nei giorni dell’ignoranza, cioč prima della predicazione di Maometto, gli arabi vivevano fra di loro in una perpetua guerra; per il pił futile motivo le tribł si armavano l'una contro l'altra e un'inestinguibile sete di vendetta prolungava le ostilitą per lunghi anni. Kulaib, capo della tribł dei Taghlibiti, avendo ucciso una camella che apparteneva ad una donna chiamata Basus, il cognato di Kulaib, protettore di quella donna, uccise Kulaib per vendicare l'insulto fattole, da ciņ nacque fra i Beni Bekr e i Taghlibiti una guerra che durņ quarant'anni. Altro futile motivo ebbe una furiosa guerra fra le tribł dei Ghatafan e quella degli Hawazin. Zohair, capo delle tribł degli Abs, congiunta a quella dei Ghatafan, riceveva tributo dai Beni Hawazin; ora avvenne che un anno a cagione di una eccezionale siccitą, gli Hawazin non avendo potuto offrire a Zohair altro che un vaso di burro, glie lo mandarono a mezzo di una vecchia. Zohair, ricevendo il modesto tributo, volle gustarlo, ma trovato cattivo il burro, urtņ in malo modo la vecchia che glie lo aveva recato, facendola cadere per terra. Ciņ essendo parso una ingiuria grave ai Beni Hawazin, essi mossero una lunga e spietata guerra di vendetta ai Ghatafan. Sennonché i danni di queste perpetue agitazioni sembrarono cosģ gravi perfino agli antichi arabi pre-islamici, che, per lenirne almeno in qualche modo le conseguenze, avevano stabilito da tempo immemorabile una annuale tregua nei mesi dedicati al pellegrinaggio della Mecca. Venuto Maometto, egli, insieme a tanti altri usi e tradizioni dell'Arabia antica, sanzionņ con l'autoritą della divina rivelazione la tregua dei mesi santi (1) e dette uno scopo preciso all'indomabile spirito bellicoso dei suoi compatriotti, ingiungendo loro di muovere eterna guerra agli infedeli.

(1) La cosiddetta Tregua di Dio č intesa in modo cosģ rigoroso e assoluto dagli arabi, che si vieta loro durante il pellegrinaggio perfino di grattarsi il capo pel timore che ciņ possa cagionare la morte di una pulce o di qualche altro esemplare della fauna dei capelli. A pił forte ragione č vietata la caccia durante il pellegrinaggio (Sūra V, 96 [97 nell'ed. Bausani]). Vi sono peraltro alcuni animali che anche nei mesi sacri č permesso l’uccidere: il corvo, lo scorpione, il topo, il cane arrabbiato. (Bukhārī, v. I, pag. 458 [N.d.C.: non so quale fosse l'edizione a cui faceva riferimento il Malvezzi; ma cfr. nella trad. parziale it. di Vacca-Noja-Vallaro il cap. XXVIII]).

Per quanto qualche autore si sforzi d'interpretare nel modo pił blando i versetti del Corano che si riferiscono all'obbligo di combattere la guerra santa, pure sembra che non vi possa essere dubbio intorno al loro vero, preciso, assoluto significato. Il versetto pił noto intorno al jihād č quello detto della spada, e che suona cosģ: «Spirati i mesi sacri, uccidete gl'idolatri ovunque li troverete, fateli prigionieri, assediateli, tendete loro ogni sorta di insidie; ma se si convertono, se osservano il precetto della preghiera e dell'elemosina sacra, allora lasciateli in pace, poiché Dio č indulgente e misericordioso». (2)

(2) Sūra, IX, 5.

Fra gli storici e i critici dell'Islām non vi č questione pił controversa di quella che si fa intorno alla natura di questo precetto del jihād, che ci dovrebbe pur tanto importare di conoscere. Un noto scrittore inglese, l'Arnold, ha sostenuto, ad esempio, la tesi secondo la quale tutte quante le guerre dell' Islām furono difensive, che la propagazione violenta e coercitiva della fede riposa su di un'erronea interpretazione dei versetti del Corano che vi alludono, e che il vero Islām non deve essere diffuso che per mezzo della persuasione. (3)

(3) T. W. ARNOLD, The preaching of Islam.

Lo Snouck Hurgronje sostiene invece che il precetto della guerra santa, con tutte le sue conseguenze, non č che una logica derivazione dei principii applicati dalla presa della Mecca da parte di Maometto fino al terzo secolo dell'Egira, che intorno al jihād vi č una concordia generale di opinione fra i giureconsulti delle diverse scuole, e che infine quella che riguarda il jihād č la parte della legge islamica pił popolare, tanto nelle classi elevate dei musulmani, quanto nella gran massa dei fedeli ignoranti. (4)

(4) SNOUCK HURGRONJE, Politique musulmane de la Hollande.

Altro punto, se non controverso, almeno diversamente interpretato, in istretta relazione con il jihād, č quello del concetto islamico del premio eterno concesso a quei musulmani che muoiono per la fede. Il Muir, ragionandone a proposito delle battaglie di Badr e di Ohod, afferma che la promessa di tale premio valse a eccitare il coraggio dei seguaci del Profeta, e reca l'esempio di quel giovinetto che alla battaglia di Badr buttņ via certi datteri che stava mangiando ed esclamņ gettandosi nella mischia, ove poi doveva trovare la morte: «Dovranno questi datteri tenermi lontano dal Paradiso? In veritą non ne voglio pił gustare, finché non sarņ vicino al mio Dio!» (5)

(5) Muir, The life of Mahomet, vol. III, pag. 106.

Il Muir infine cita i versetti del Corano che parlano del premio eterno concesso a chi muore in battaglia, e fra gli altri questo: «Non crediate che coloro che sono caduti combattendo nel sentiero d'Iddio siano morti, essi invece vivono presso di lui, e da lui ricevono il nutrimento. Pieni di gioia per i benefizi onde Dio li ha ricolmati, si rallegrano di ciņ che coloro i quali seguono le loro tracce saranno posti al riparo del terrore e delle pene». (Sūra III, v. 163-164). Sennonché il Caetani acutamente commenta: «Invano si cercherebbe nel Corano un'esortazione a morire per la fede. Maometto promette ai credenti un lauto compenso nell'altra vita, ma questi compensi erano promessi in cambio di servizi resi all'Islām e al Profeta, pur sempre conservando salva la vita. L'idea del martirio, della morte per la fede, concetto altamente cristiano, s'infiltrņ in appresso nello spirito dell'Islām, quando centinaia di migliaia di musulmani altro non erano che cristiani apostati. Quando alcuni dei suoi perirono uccisi, all'aspetto doloroso dei loro cadaveri, il Profeta insisté sui compensi ai quali avevan diritto quei generosi, mai perņ si sognņ di invitare i suoi seguaci alla morte». (6)

(6) CAETANI, Studi di Storia Orientale, vol. 1 , Pagine 367-368.

A ogni modo, essenziale all'Islām, o acquisito, il concetto del martirio per la fede e la speranza dei compensi eterni che esso comporta, sembrano profondamente radicati oggidģ nei musulmani, ragione per cui le guerre combattute in nome di Allāh sono tanto aspre che i governi europei sempre si adoperano ad evitarne il pericolo. Rispetto al jihād il mondo si divide per i musulmani in due parti ben distinte, cioč in quella che essi chiamano Dār el Islām e nell'altra detta Dār el Harb, nella prima considerandosi soggetta alla legge islamica, non v'ha luogo a guerra santa, nella seconda invece sottoposta a legge non islamica, il muovere jihād sarebbe un obbligo. Ne consegue essere cosa della maggiore importanza per le nazioni europee dominatrici di paesi musulmani il far determinare chiaramente dai giureconsulti islamici la posizione giuridica dei paesi a loro soggetti, per rendervi in tal modo improbabile lo scoppio di una insurrezione religiosa. La determinazione di questo genere, che serve di modello e che oramai si va applicando a mano a mano ad ogni paese islamico che cade sotto al dominio di una nazione cristiana, č quella pronunciata alla Mecca dai capi dei diversi riti, a proposito dell' India. La questione posta ai giureconsulti era redatta in questi termini: «Quale č la vostra opinione su quanto segue: Il paese dell’Hindustan, i cui governatori sono cristiani, ma che peraltro non si oppongono all'assolvimento degli obblighi che comporta I'Islām, quale l'adempimento del precetto delle preghiere quotidiane, ma d'altra parte tollerano la trasgressione a qualche altra disposizione della legge islamica, permettendo, ad esempio, ad un musulmano che si sia reso cristiano di ereditare da parenti musulmani, č egli Dār el Islām, oppure no?»

Le risposte furono le seguenti: quella del mufti Hanefita: «Finché in quel paese saranno rispettate, sia pur solo alcune delle prescrizioni dell'Islām, esso č Dār el Islām». Rispose in modo identico il mufti Sciafeita; quello Malechita disse: «Č scritto nel commento di Dasūqī che un paese islamico non diventa Dār el Harb appena passa nelle mani degli infedeli, ma solo quando in esso vien meno l'osservanza di tutte quante le regole dell’Islām, o di gran parte di esse ». (7)

(7) SELL, The Faith of Islam, pag. 362.

Sempre a proposito dell'India, in seguito ad analoga domanda della Societą letteraria Maomettana di Calcutta, le autoritą giuridiche di quella cittą resero il 17 luglio 1870 la seguente fatwā, che, sebbene dichiari solo per una ragione speciosa essere in India illegale il combattere la guerra santa, pure conclude anch'essa dichiarando quel paese Dār el Islām.

«I musulmani godono qui la protezione dei cristiani, dice la fatwā, ora non puņ esservi jihād in un paese ove č garantita la libertą dei fedeli essendo la mancanza di tale libertą condizione essenziale per la guerra santa; inoltre, perché fosse lecito il jihād bisognerebbe che i musulmani potessero intraprenderlo con probabilitą di vittoria e speranza di gloria, mancando queste condizioni il jihād č illegale ». (8)

(8) SELL, Op. Cit.

Per una simile ragione di forza maggiore fu dichiarata illegale la guerra santa in Algeria. Discutendosi ancora, qualche anno dopo la conquista dell'Algeria, intorno alla nuova posizione giuridica che aveva quel paese dal punto di vista musulmano, il Governo francese, per troncare la questione e sciogliere i nuovi sudditi dall'incertezza, fece pronunciare una fatwā in proposito da Sīdī Mohammed el Tijānī e dai moqaddem di alcune zāwiya. Il console e noto viaggiatore Léon Roches portņ questa fatwā a Kairuan, poi ad El Azhar ove fu confermata, e finalmente alla Mecca ove essa ebbe la suprema sanzione del Gran Sceriffo. Dice tale notevole e importantissima fatwā: «Quando un popolo musulmano il cui territorio č stato invaso dagl'infedeli li ha combattuti finché ha potuto sperare di cacciarli, ma poi si č dovuto convincere che il continuare la guerra non poteva portare che miseria, rovina e morte ai musulmani senza che, anche sopportando tutto ciņ, potessero mai sperare di vincere, č lecito a quel popolo, pur conservando la speranza di scuotere il giogo con l’aiuto di Dio, di vivere sotto il dominio dei cristiani, ma sempre all'esplicita condizione che sia loro lasciato libero I’esercizio della religione e che le loro mogli e figlie siano rispettate». (9)

(9) Revue da Monde Musulman, marzo 1912.

Peraltro oggidģ circa l'obbligo del jihād sono generalmente accettati i principii liberali e conciliativi espressi fra gli altri nella seguente fatwā dallo Sheykh Sīdī ben Mohammed.

Domanda: «Debbono i musulmani muovere la guerra santa quando i cristiani occupano il loro territorio, anche se non solo essi non si oppongono affatto all'esercizio della religione, ma, al contrario, ne facilitano la pratica, e nominando dei cadi organizzano l'amministrazione della giustizia?»

Risposta: « Č prescritto ai musulmani che si trovino in simili condizioni di non attaccare i cristiani, anzi di non tralasciare alcuna cosa per potere vivere con essi in pace». (10)

(10) Revue du Monde Musulman, fasc. cit.

Da questi esempi che ho creduto interessante di riportare testualmente e per intero, si vede come, con l'andare del tempo e il mutare delle circostanze, anche i precetti pił assoluti dell'Islām possono avere, non solo in pratica, ma, nelle ufficiali interpretazioni, un'applicazione oramai assai blanda.

Allontanato il pericolo della guerra santa mercé l'aiuto di qualche compiacente `alīm [*] che voglia, a favore dei cristiani, giovarsi della latitudine d'interpretazione che presenta per la sua natura la legge musulmana, e che gli č accordata in ispecie da taluni riti, ciņ che interessa maggiormente il colonizzatore europeo di un territorio Dār el Islām č il potere o meno disporre delle proprietą religiose, dei beni di mano morta, (waqf). Ma oggidģ anche intorno a questa delicata questione non č impossibile l'accordo fra europei e musulmani. L'evoluzione del concetto dei waqf č uno dei criteri caratteristici dello stato della civiltą islamica nei diversi paesi musulmani. Al Marocco i waqf vengono ceduti, a mano a mano, agli speculatori europei, il Governo francese in Algeria li ha incamerati, in Tripolitania i turchi stessi avevano cominciato ad iscriverli al catasto. Del resto, in quanto ai waqf i Giovani Turchi hanno manifestato a pił riprese concetti moderni e liberali, come si rileva fra l'altro da un articolo comparso il 10 marzo 1910 nel Tanin, in cui, enumerati i terreni infruttiferi di Costantinopoli, si concludeva che, essendo necessario ispirarsi alle necessitą dell'ora presente cercando l'interesse superiore dell'Islām ove davvero si trova, era urgente devolvere ad usi pratici e razionali le risorse dei waqf. (11)

[*] N.d.C.: nel testo del Malvezzi c'era ulema, che perņ č il plurale italianizzato `ulamā' di `alīm.

(11) Le importanti questioni intorno ai beni waqf saranno oggetto di uno speciale studio dell'avv. Gutierres, di imminente pubblicazione sotto gli auspici della Societą italiana per lo studio della Libia.

Tutte queste tendenze che sono venuto enumerando nell'Islām, dopo averne sommariamente ricordato i principii informatori, mostrano infine che non č poi oggidģ tale impenetrabile sistema di civiltą da scoraggire chi voglia o debba avere con esso rapporti. Piuttosto, da quanto precede, dovrebbe risultare pił che mai vero quello che si diceva da principio, cioč che la penetrazione nel mondo islamico, pił che quella in qualunque altro, č solo possibile a chi s'impossessi profondamente del suo spirito.

Il volere governare dei musulmani secondo nostri principii, l'applicare loro leggi nostre č, non solo un controsenso, una cosa vana, ma un pericolo di cui sarebbero sempre da temere le conseguenze. Č invece cosa possibile il fare accettare ai musulmani qualunque legge, se, pratici della loro mentalitą, e delle loro tradizioni, ci sforziamo a dare ad essa una forma islamica. (12)

(12) SAVVAS PASCIA, Étude sur la théorie du Droit musulman.

Non vi č musulmano, per quanto tepido osservante, che voglia mai accettare una legge di qualsiasi natura se non č islamizzata, se cioč non gli si dimostri che si appoggia su quello che egli considera l'unica fonte del vero e del giusto: la parola di Dio, quella del Profeta o le sue tradizioni. Ma, d'altra parte, essendo cosi ricche e varie le fonti del diritto musulmano, non č cosa difficile l'islamizzare qualsiasi disposizione di legge appoggiandola sopra fondamenti che possono non solo farla considerare ortodossa, ma renderne obbligatorio l'accoglimento ad ogni coscienza musulmana.


Da:
Laura Veccia Vaglieri, Isląm
Pironti, Napoli, 1946, pp. 147-149.

LA GUERRA SANTA O JIHĀD.

Un istituto questo che ha subito nel corso del tempo l'influsso delle circostanze in cui si č venuto a trovare il mondo musulmano. Alla Mecca Maometto aveva insegnato a sopportare le offese; a Medina, sostenuto ormai da un forte gruppo di seguaci, predicņ che ad atti di ostilitą si poteva rispondere con rappresaglie e in un secondo tempo che gli infedeli andavano combattuti ad oltranza. La dottrina della guerra santa (jihād) perņ raggiunse il suo pieno sviluppo durante l'epoca delle conquiste, quando i Musulmani vagheggiarono la speranza di poter soggiogare tutto il mondo all'Islām. Allora la terra fu dai loro teorici divisa in due parti: la dār al-isIām o «territorio islamico» e la dār al-harb o «territorio della guerra», con questa espressione intendendo il territorio degli infedeli. Se non ci fosse la storia islamica a provarlo, basterebbe questa denominazione a dimostrare che lo Stato islamico era potenzialmente quello che oggi si chiamerebbe uno Stato aggressore, imperialista.

Poco mancņ che la guerra santa contro gli infedeli non fosse aggiunta alla serie dei cinque pilastri dell'Islām come un dovere per ogni Musulmano valido, e in effetto lo fu dai Kharigiti. Essa venne invece considerata dagli ortodossi un fard kifāya, ossia d'obbligo per la comunitą, ma tale che, se un gruppo di Musulmani vi ottempera, la massa ne č dispensata. Spetta al capo supremo (secondo gli Sciiti all'Imām quando farą la sua riapparizione sulla terra) comandarla e provvedere affinché ogni anno venga compiuta una spedizione contro gli infedeli, il che i Musulmani fecero, fin tanto che ne ebbero la forza. Perché con gli infedeli si puņ stipulare una tregua, anche rinnovabile, ma una pace perpetua mai. Quando i Musulmani non furono pił in condizione d'aggredire i popoli limitrofi, si dichiarņ dai teorici che il dovere del capo supremo si limitava a preparare la guerra, in altre parole a organizzare le forze armate del paese.

La guerra santa perņ diviene fard `ain, «incombente su ogni individuo», se il territorio islamico sia minacciato. Allora il sovrano ordina la mobilitazione generale nel paese a lui sottoposto e, se il pericolo s'aggrava, lancia un appello a tutti i Musulmani, i quali sono obbligati ad accorrere sotto le armi.

Deposto in certi casi l'abito bellicoso per forza di cose, da alcuni teorici si ammise anche una terza sezione nella divisione della terra: la dār as-sulh «territorio della pace»; con questa denominazione furono designati gli Stati abitati dalla Gente del Libro che, pagando un tributo ai Musulmani, acquistavano il diritto di non essere attaccati, ovvero quelli che avevano stipulato una tregua con essi. Quando poi la situazione si capovolse e, non solo gli Stati degli infedeli pił non pagarono tributo, ma imposero la loro dominazione a un gran numero di Musulmani, in qualche fatwā si ammise che fossero da considerarsi dār al-islām anche quei paesi sottoposti a governanti non musulmani, ove da questi fosse lasciata agli abitanti piena libertą religiosa. E cosģ pure si ammise che i Musulmani non fossero obbligati ad emigrare in massa dai territori caduti sotto il giogo degli infedeli, come da taluni si era professato.

Le popolazioni contro cui č diretta la guerra santa non hanno altra scelta, se vinte, che di convertirsi all'Islām o di pagare tributo. Altrimenti la guerra contro di esse continua. Se si piegano alla imposizione, si garantisce loro salva la vita e si lasciano loro i beni; se non si piegano, vengono ridotte in schiavitł e i loro beni sono presi come bottino. Le cose mobili di questo, come anche gli schiavi, per 4/5 spettano ai combattenti, per un quinto ad Allāh (Cor., 8, 42), ossia al Profeta, alla sua famiglia, agli orfani, ai poveri, ai viaggiatori. Il sovrano perņ puņ disporre altrimenti circa la sorte degli schiavi.

Col nome di fai' si chiamano, invece quei beni e quegli introiti che i Musulmani ottengono dagli infedeli pacificamente, per accordi, o, come dicono i giuristi ricordando una frase coranica, «senza allestimento di cavalli e cammelli». Il fai' appartiene tutto ad Allāh, ossia all'erario per speciali erogazioni.

L'appello alla guerra santa in passato spesso trovņ largo ascolto; colui che cade combattendo č considerato un martire (shadīd) che col suo sacrificio si č conquistato il paradiso e speciali privilegi in esso. Non ottenne perņ ascolto la proclamazione della guerra santa fatta dal Sultano di Costantinopoli durante la Guerra mondiale del 1914-18 per varie ragioni, fra cui preminente il fatto che egli combatteva a fianco di infedeli.


Da:
H.A.R. Gibb e J. H. Kramers (a cura di), Shorter Encyclopaedia of Islam
Brill, Leida, 1974, p. 89, alla voce "djihād" [=jihād] e pp. 68-69, alle voci "dār al-harb", "dār al-Islām" e "dār al-sulh".

JIHĀD, guerra santa. L'espansione dell'Islām con le armi č un dovere religioso per i musulmani in generale. Poco mancņ che divenisse un sesto rukn, o dovere fondamentale, ed effettivamente č ancora cosģ considerato dai discendenti dei Khārijī. A questa posizione si giunse gradualmente ma rapidamente. Nelle sure meccane del Corano si insegna a sopportare se attaccati; nessun altro atteggiamento era possibile. Ma a Madīna compare il diritto di respingere gli attacchi, e gradualmente il combattere e soggiogare i Meccani ostili divenne un obbligo prescritto. Se Muhammad stesso fosse consapevole che la sua posizione implicava una guerra costante e non provocata contro il mondo dei miscredenti finché esso non fosse sottomesso all'Islām puņ essere oggetto di dubbio. Le tradizioni sono esplicite sulla questione; ma i passaggi coranici parlano sempre degli increduli che devono essere soggiogati in quanto pericolosi o infedeli. Inoltre, la storia di come egli scrivesse alle potenze a lui circostanti dimostra che tale posizione universale era implicita nella sua mente, ed essa certamente si sviluppņ immediatamente dopo la sua morte, quando gli eserciti musulmani avanzarono fuori dell'Arabia. Ora č un fard `ala 'l-kifāya, un dovere in generale per tutti i musulmani maschi, liberi, adulti, sani di mente e corpo e che abbiano mezzi sufficienti per raggiungere l'esercito musulmano, non perņ un obbligo  necessariamente incombente su ogni individuo  ma che viene sufficientemente adempiuto quando sia fatto da un certo numero. Quindi esso deve continuare ad essere fatto finché il mondo intero non si sottometta al governo dell'Islām. Deve essere diretto o capeggiato da un sovrano musulmano o da un Imām. Poiché l'Imām degli Shi`i č ora invisibile, essi non possono condurre un jihād finché egli non riappaia. Inoltre, il requisito verrą soddisfatto se tale sovrano farą una spedizione una volta all'anno, o, anche, nelle pił recenti interpretazioni, se si prepara ogni anno per una. La gente contro cui il jihād č diretto deve essere prima invitata ad abbracciare l'Islām. Se rifiutano hanno un'altra scelta. Possono sottomettersi al governo musulmano, divenire dhimmī  [*] e pagare jizya e kharāj  [**], ovvero combattere. Nel primo caso, le loro vite, famiglie e proprietą sono loro assicurate, perņ essi acquisiscono uno status definitivamente inferiore, con nessuna cittadinanza tecnica. ed un rango solamente come di minori protetti. Se combattono, essi e le loro famiglie possono essere resi schiavi e tutta la loro proprietą presa come bottino, del quale i quattro quinti vanno all'esercito vincitore. Se abbracciano l'Islām, ed č loro possibile farlo anche quando gli eserciti sono l'un l'altro di fronte, divengono parte della comunitą musulmana con tutti i suoi diritti e doveri. Gli apostati devono essere messi a morte. Ma se un paese musulmano č invaso da miscredenti, l'Imām puņ proclamarvi una chiamata generale di tutti i musulmani alle armi, e come cresce il pericolo cosģ puņ crescere l'ampiezza della convocazione fino a essere coinvolto tutto il mondo musulmano. Un musulmano che muore lottando sul Sentiero di Allāh (fī sabīl Allāh) č un martire (shadīd) ed č sicuro del Paradiso e di godervi diritti particolari. Tale morte era, nelle prime generazioni, considerata il peculiare coronamento di una vita pia. Č ancora occasionalmente di forte stimolo, ma quando l'Islām cessņ le sue conquiste perse il suo valore supremo. Anche ora comunque ogni guerra tra musulmani e non-musulmani deve essere  un jihād coi suoi incitamenti e ricompense. Chiaramente, movimenti  moderni come il cosiddetto Mu`tazilī in India ed i Giovani Turchi in Turchia rigettano questo e si sforzano di giustificarne la base; ma le masse musulmane seguono ancora la voce unanime dei giureconsulti canonici. L'Islām dovrebbe essere completamente distrutto perché la dottrina del jihād possa essere eliminata. Cfr. anche gli art. DĀR AL-HARB, DĀR AL-ISLĀM e DĀR AL-SULH. Quest'ultimo sembra costituire una posizione di mediazione che non ebbe esito.

DĀR AL-HARB. Nel diritto costituzionale musulmano il mondo č diviso in dār al-harb e dār al-Islām. "Dimora dell'Islām" č quanto č gią sotto governo musulmano; "Dimora della Guerra" č quanto non lo č, ma che, effettivamente o potenzialmente, č luogo di guerra per i musulmani fino a che con la conquista venga trasformato in "Dimora dell'Islām". Per una eccezione anomala e discussa, si veda DĀR AL-SULH. Pertanto il trasformare dār al-harb in dār al-Islām č l'oggetto del jihād [q.v.], e, teoricamente, lo stato musulmano č in una situazione di continua belligeranza col mondo non-musulmano. Ma praticamente ciņ č ora impossibile. I governanti dell' Islām non sono in posizione tale da mantenere uno stato di guerra permanente contra mundum. Per venire incontro a questa situazione si č dovuto abbandonare la primitiva e logica posizione. La terra che č stata una volta Dimora dell'Islām non diviene Dimora di Guerra, eccetto che in tre casi: (I) che le decisioni legali dei miscredenti siano tenute in considerazione e quelle dell'Islām non lo siano; (II) che il paese sia immediatamente confinante con una Dimora della Guerra, non essendo interposto nessun paese musulmano; (III) che non vi sia pił protezione per i musulmani ed i loro dhimmī  non-musulmani [...]. Di questi, il primo č il pił importante, ed alcuni hanno anche sostenuto che finché una sola decisione legale (hukm) dell'Islām č osservata e mantenuta, un paese non puņ divenire dār al-harb. Il Dizionario di Termini Tecnici (p. 466), avendo di vista la situazione in India, giunge a questa sintesi: "Questo paese č una dimora dell'Islām e dei musulmani anche se appartiene ai maledetti e l'autoritą appartiene esternamente a questi Satana". Praticamente, č naturale, nessuna ribellione in tali circostanze sarebbe legale, a meno che abbia una buona prospettiva di successo e sia condotta da un sovrano musulmano. Qualora siano adempiute tali condizioni, che i miscredenti controllino una Dimora dell'Islām costituisce un'assurditą illegale. Quando un paese musulmano diviene un dār al-harb, č  dovere di tutti i musulmani allontanarsene, e da una moglie che rifiuti di accompagnare suo marito in tale circostanza, si č ipso facto divorziati.

DĀR AL-ISLĀM. Una "dimora dell'Islām" č un paese dove le ordinanze dell'Islām sono rispettate e che č governato da un sovrano musulmano. I suoi abitanti sono musulmani ed anche  non-musulmani che sono sottomessi al controllo musulmano ed ai quali, con talune restrizioni e senza possibilitą di piena cittadinanza, sono garantite vite e proprietą dallo stato musulmano [...]. Devono far parte di una  Gente del Libro (ahl al-kitāb) e non possono essere idolatri.

DĀR AL-SULH. Oltre a dār al-harb e dār al-Islām [q.v.], talune scuole di diritto canonico riconoscono l'esistenza di una terza divisione, dār al-sulh, o al ` ahd che non č sotto governo  musulmano, tuttavia versa tributi all'Islām -  sulhan, "per accordo", essendo generalmente usato nel diritto canonico come l' opposto di `anwatan "per forza". I due esempi storici di tale status, e l'origine, apparentemente, dell'intera concezione, sono Najrān e la Nubia. Con la popolazione cristiana di Najrān Muhammad stesso ebbe relazioni basate su trattati,  garantendo la loro sicurezza e imponendo loro un certo tributo, considerato poi da alcuni come kharāj e da altri come jizya [...]. Nel corso degli avvenimenti, ed a causa della loro posizione all'interno dell'Arabia, questa protezione per la gente di Najrān significņ molto poco. Il caso della Nubia fu piuttosto diverso. In ragione della loro abilitą con l'arco i Nubiani furono in grado di respingere l'attacco musulmano e di mantenere la loro indipendenza per secoli. Di  conseguenza, ` Abd Allāh b. Sa`d stabilģ trattati (`ahd) con loro, non richiedendo il testatico (jizya) ma solo un certo tributo in schiavi. Altri, comunque, evidentemente non gradendo l'implicazione che ci potrebbe essere qualche territorio in status né di Islām né di guerra, e perciņ escluso dalla conquista musulmana, sostenne che questo non fosse realmente un sulh o `ahd ma solo una tregua (hudna) ed un accordo finalizzato allo scambio di merci [...]. Questa concezione in qualche vaga forma probabilmente fu anche la base sulla quale relazioni di trattato con gli stati cristiani furono accettate come possibili; i doni spediti da tali stati sarebbero poi stati considerati come  kharāj. La situazione costituzionale sulla questione č cosģ formalmente posta da Māwardī in avanti. Tutti i territori, di cui i musulmani acquisirono, con gradi diversi di chiarezza, il controllo, ricadevano in tre categorie: (I) quelli presi con la forza delle armi; (II) quelli presi senza lottare dopo l'esodo dei loro precedenti proprietari; (III) quelli presi per trattato (sulh). Quest'ultima si divide di nuovo in due, secondo che il titolo al suolo sia (a) conferito al popolo musulmano come un waqf, oppure (b) resti ai proprietari originali. Nel primo caso i proprietari originali possono rimanere nel possesso attuale, divenendo dhimmī [...], e pagando kharāj e jizya e la terra divenendo dār al-Islām [vedi]. Nel secondo caso (b) i termini del trattato sono che i proprietari trattengono le loro terre e pagano un kharāj della loro produzione; che questo kharāj č considerato un jizya che decade quando essi abbraccino l'Islām; che il loro paese non č né dār al-Islām dār al-harb [vedi] bensģ dār al-sulh (altrimenti detto dār al -`ahd); e che le loro terre assolutamente sono loro proprie sia per ne quanto concerne la vendita che per l'ipoteca. Quando queste passano ad un musulmano, il kharāj non puņ pił essere prelevato. Questa condizione dei proprietari dura tanto a lungo quanto essi osservano i requisiti del trattato, ed il jizya non puņ essere prelevato da loro in quanto essi non sono in un dār al-Islām. Comunque, Abū Hanīfa sostenne che in virtł del trattato il loro paese era divenuto un dār al-Islām e che essi erano dhimmī e dovevano pagare il jizya. Quanto a cosa succedesse, se essi rompevano il trattato dopo averlo accettato, c'era disputa tra le scuole. Al-Shāfi`ī sostenne che se il loro territorio veniva allora conquistato, rientrava nella categoria (I, sopra) di territorio preso per forza; e se non veniva conquistato, diveniva un dār al-harb. Comunque, Abū Hanīfa sostenne che se c'era un musulmano nel loro territorio, o se c'era un paese musulmano tra il loro territorio ed un dār al-harb, allora il loro territorio era un dār al-Islām e loro erano ribelli (bughāt). Se non si valeva nessuna di queste condizioni, allora era un dār al-harb. Ma altri sostennero che era un dār al-harb in ambo i casi (Māwardī, Ahkām al-sultānīva, ed. Cairo 1208, p. 131 sg.). Ma che questa situazione fosse anomala ed ambigua, appare chiaramente. Māwardī stesso, quando elenca le terre dell'Islām (bilād al-Islām), include fra loro questo dār al-sulh (ibid., p. 150 e 164), e Balādhurī, quando tratta le regole del kharāj, non fa nessuna menzione di questa distinzione.

Testo inglese delle quattro voci


Jihād khafīy ovvero il terrore

Pio Filippani-Ronconi cosģ si esprime in Ismaeliti ed "Assassini" (Thoth, Basilea, 1973, p.144): 

Il ricorso all'omicidio come sistema di punizione o mezzo di ammonimento non č nuovo nella storia dell'Islām: esso fa parte della "guerra santa segreta", jihād khafīy, era stato largamente impiegato dai Khārijiti e da gruppi estremisti shi`iti, i cosiddetti "strangolatori" (khunnāq). Ma presso nessuno di quei gruppi fu data all'assassinio quell'importanza politica che avrebbe rivestito presso i Nizārī.

Ora, i Khārijiti nascono nel 657 sulla piana di Siffīn vicino all'Eufrate, al momento della battaglia tra Mu`awiya e `Alī per il califfato. Sentiamo ancora Filippani-Ronconi (p. 18): 

Dice la tradizione che, vincendo gli `Alīdi, `Amr provocņ l'interruzione della battaglia, facendo legare alcune copie del Corano alle lance dei suoi guerrieri, quale silenzioso appello al giudizio di Dio fra i mussulmani. L'effetto fu immediato: i pił pii fra i presenti obbligarono `Alī a sospendere lo scontro e ad affidarsi, con il suo avversario, ad un arbitrato. Ma, mentre l'esercito di `Alī rientrava nei suoi quartieri, molti vollero obbligare `Alī a riprendere la lotta: egli si rifiutņ ed essi uscirono dai suoi ranghi, dando origine alla sčtta rigorista dei khārijiti (khārij, plur. khawārij, "colui che esce", "uscente"), successivamente origine di innumerevoli flagelli che si abbatterono sull'Islām: essi, infatti, pur essendo ligi ai princģpi pił democratici dell'Islām, per i quali chiunque - purché pio, degno e capace - poteva divenire Califfo, condannavano a morte con tutta la sua famiglia (isti`rād), considerandolo pagano relapso, qualunque mussulmano commettesse un peccato e non seguisse le loro particolari idee.

Invece i Nizārī altro non sono che i seguaci dell'eretico ismailita Hasan-i Sabbāh (XI secolo), che ordinņ assassinii politici a ripetizione, tra cui, famoso, quello del noto ministro selgiuchide Nizāmu'l Mulk. Essi sono i predecessori di quelli che noi conosciamo, dall'epoca di Sinan e per tramite di Marco Polo, come Assassini, discepoli del Vecchio della Montagna. Di costoro č rimasta famigerata la facilitą con cui rinunciavano alla vita in attentati che oggi potremmo paragonare a quelli dei kamikaze, secondo taluni agevolati in ciņ dall'uso del hashīsh. Per secoli terrorizzarono i notabili mediorientali - uccidendo anche parecchi capi crociati - finché furono distrutti dal mongolo Hulagu nel 1256. Loro discendenti esistono tuttora in Persia e in India, e l'Agha Khan č uno dei loro capi attuali.

Episodi simili di violenza sistematica sono comunque intrecciati con la storia di vari movimenti ereticali, come i Qarmatī, una sorta di movimento comunistico che tra l'890 e il 990 costituģ uno stato nel Bahrayn e terre circostanti e di lģ seminņ il terrore nell'impero abbaside liberando gli schiavi e presentandosi in genere come liberatore dalle oppressioni, diffondendo l'ideologia khārijita e e assalendo nel 930 persino la Mecca, portando con ciņ al culmine il suo disprezzo per le forme esteriori dell'Islām.

Si puņ dunque vedere che posizioni estremistiche di grande violenza sono presenti nel mondo islamico, ma soprattutto in movimenti non ortodossi, che anzi sono considerati decisamente eretici da tutti gli altri. Ciņ non toglie che tali movimenti possano talora operare sull'opinione pubblica, in virtł della propria segretezza e di un'attenta pianificazione,  in misura superiore alla loro effettiva portata storica e culturale. Non č cosģ difficile spingere la gente comune, o chi gią tende al fanatismo, o chi č oppresso, a confondere il jihād con l'omicidio di vendetta o il terrorismo, anche se č cosa intrinsecamente illegittima dal punto di vista del diritto coranico. [*] Del resto non esiste alcuna tradizione occidentale od orientale in cui degenerazioni di questo genere non si siano presentate.

[*] Il Cesnur, centro studi diretto da Massimo Introvigne, all'indirizzo http://www.cesnur.org/2003/hawa.htm, sotto il titolo «Un verdetto islamico sulla legittimitą delle operazioni di martirio. Hawa Barayev: suicidio o martirio?», riporta la traduzione di una dichiarazione giuridica stesa da ignoti (probabilmente sauditi) attestante la legittimitą del "martirio" conseguito mediante "attentati suicidi", partendo dal caso di una giovane cecena che si fece saltare in aria il 9 giugno 2000 insieme a ventisette soldati russi. Si puņ notare leggendola che  gran parte del testo č dedicato a contestare che faccia ostacolo alle azioni di "martirio" il versetto 195 della sura II, che dice «Erogate dei vostri beni sulla via di Dio e non gettatevi in perdizione con le vostre stesse mani, ma fate del bene, perché Dio ama i benčfici» (trad. di Alessandro Bausani), che in effetti puņ essere interpretato in vari modi. Non viene invece analizzata affatto la possibilitą che vengano in talune azioni uccisi dei civili innocenti, magari anche musulmani (si parla solo degli "scudi umani", caso assai specifico che non c'entra per niente con le comuni modalitą degli attentati). Se dunque questa dichiarazione giuridica viene applicata al caso della "martire" cecena puņ anche avere un senso, ma se viene applicata ad indiscriminati attacchi terroristici, non puņ valere. Č infatti chiaro che un'azione che ha portato alla morte di ventisette nemici puņ essere vista come un'azione di guerra, ma bisognerebbe pur discriminare tra un atto di guerra e una strage indiscriminata, per esempio in un mercato o in un autobus o in un grattacielo, in cui tra l'altro non č affatto impossibile che muoiano dei musulmani o dei dhimmī incolpevoli (e questa č l'obiezione principale, dal punto di vista del diritto islamico). Questa dichiarazione giuridica non mi pare pertanto valevole se non per azioni di vera e propria guerra.

Come č perfettamente ovvio ed č gią stato detto in varie forme da molti, il miglior modo per contenere o eliminare fenomeni come questi - oggi Al-Qā`ida, domani qualcun altro - sarebbe l'applicazione della giustizia sociale. Ma di concreto in merito non vuole far nulla nessuno, gli occidentali trincerandosi dietro un'idea di fasulla democrazia che maschera gli interessi di pochi gruppi finanziari, e i governanti sedicenti islamici dietro un islamismo di facciata che permette loro di proseguire ad arricchirsi spudoratamente sfruttando i correligionari e facendo affari proprio con quegli occidentali a cui pubblicamente danno la colpa di tutto. Ma Dio č il pił sapiente.


Bibliografia on line

# Translation of Sahih Bukhari, Book 52: Fighting for the Cause of Allah (Jihaad)
http://www.usc.edu/dept/MSA/fundamentals/hadithsunnah/bukhari/052.sbt.html

# Translation of Sahih Muslim, Book 19: The Book of Jihad and Expedition (Kitab Al-Jihad wa'l-Siyar)
http://www.muslimaccess.com/sunnah/hadeeth/muslim/019.html

# Translation of Malik's Muwatta, Book 21: Jihad
http://www.muslimaccess.com/sunnah/hadeeth/muwatta/021.html

# Partial Translation of Sunan Abu-Dawud, Book 14: Jihad (Kitab Al-Jihad)
http://www.muslimaccess.com/sunnah/hadeeth/abudawud/014.html

 

 

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