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Khalîl ibn Ishâq

AL-MUKHTASAR

 

Del "jihâd" o Guerra santa

 [Libro VIII de Il "Mukhtasar" o Sommario del Diritto Malechita,
vol. I: Giurisprudenza religiosa ("`ibâdât"),
versione del Prof. Ignazio Guidi, Hoepli, Milano, 1919]

 

 Premessa, trascrizione elettronica e revisione
di Dario Chioli

 

Visto che si parla del jihâd assai spesso e assai a sproposito, dicendo con sicumera le cose più infondate, mi è parsa cosa utile riproporre sia la parte del Mukhtasar che più direttamente ne tratta, sia la  Prefazione  ad esso di Ignazio Guidi e David Santillana, che servirà a capire il contesto storico-giuridico, sia  altri testi a complemento,  che evidenzieranno taluni importanti aspetti ideologici e storici.

Del Mukhtasar riproduco qui integralmente l'ottavo libro (salvo due appendici di interesse secondario in questa sede, una delle gare o esercizi militari e un'altra delle prerogative del Profeta), con minime correzioni ed integrazioni. Nel testo del Guidi ad ogni sezione è premesso un riepilogo dei contenuti dei  paragrafi; tali contenuti sono stati da me, per comodità del lettore, sia raccolti in un Sommario all'inizio sia intercalati al testo come titoli dei paragrafi. Rimandi ipertestuali faciliteranno la navigazione all'internauta (dal sommario si va al titolo del paragrafo e da ogni titolo al sommario).
Per la trascrizione dei termini arabi e la descrizione dell'opera cfr. la Prefazione


LIBRO [VIII].

Del "jihâd" o Guerra santa.


Sommario

SEZIONE PRIMA. --- 1. Obbligo collettivo della Guerra santa; altri obblighi diversi, ma collettivi come essa; quando possa divenire obbligo individuale --- 2. Cause per le quali cessa il detto obbligo. --- 3. Procedimento nell'attaccare il nemico; invito a convertirsi all'Islâm o pagar tributo; chi possa essere ucciso in caso di rifiuto. --- 4. Mezzi di offesa leciti nella Guerra. --- 5. Cose proibite nel guerreggiare. --- 6. Cose lecite nella Guerra; poteri dell'imâm sui prigionieri. --- 7. Osservanza dei patti da parte dei musulmani. --- 8. Della sicurtà o salvocondotto concesso allo "harbî" che dimora in paese musulmano; dell'eredità di costui. --- 9. Degli oggetti che, provenienti da musulmani, si trovino in mano di "harbî" munito di salvocondotto e norme relative. --- 10. Delle persone (o cose) possedute dallo "harbî" che si fa musulmano. --- 11. Pene per chi rechi danno al bottino; divisione di questo; spoglie di nemico promesse a chi lo uccida. --- 12. Chi debba aver parte nella divisione dei 4/5 del bottino, e chi non possa averla; porzioni che spettano al cavallo. --- 13. Modo di procedere nella spartizione del bottino. --- 14. Del riprender che l'antico proprietario fa gli oggetti o schiavi poi passati nel bottino; norme relative. --- 15. Degli schiavi in via di manomissione che siano stati compresi nel bottino. --- 16. Della condizione di questi schiavi e del loro primo proprietario. --- 17. Del ricuperare, e in qual modo, oggetti presi in origine a musulmani, poi donati o venduti da "harbî"; oggetti tolti a ladroni. --- 18. Dello schiavo che si fa musulmano. --- 19. Coniugi facenti parte del bottino; norme se abbraccino l'Islâm; condizione dei loro figli.

SEZIONE SECONDA. --- 20. Chi possa imporre la "jizyah" e a chi possa imporsi; paesi che, anche pagando "jizyah", non possono essere abitati dagli infedeli. --- 21. Importo e scadenza della "jizyah" per paese conquistato con trattato di pace. --- 22. Diritti degli "`anawî" sui propri averi; diritti dei "sulhî" nei vari casi; loro eredità. --- 23.  Cose permesse allo "`anawî" e al "sulhî" e cose loro vietate. --- 24. Cose per le quali il patto col "dhimmî" viene annullato. --- 25. Della tregua e sue condizioni; obblighi che impone. --- 26. Del riscatto dei prigionieri e norme relative.


 

SEZIONE PRIMA.

 

1. Obbligo collettivo della Guerra santa; altri obblighi diversi, ma collettivi come essa; quando possa divenire obbligo individuale

1. La Guerra santa "jihâd" (1) condotta nella direzione, nel luogo più importante, ove è maggiore il pericolo del nemico infedele, (2) da fare ogni anno, è obbligo (di "fard") non per ciascun individuo, ma per la comunità musulmana, anche se chi va alla Guerra santa tema di altri musulmani briganti, (3) che impediscono il passaggio o insidiano agli averi profittando della sua assenza, (4) come è obbligo per la comunità in ogni anno la visita della Ka`bah, il solenne e pieno pellegrinaggio annuale che il Principe deve inviare alla Mecca. La Guerra santa è obbligatoria, ancorché vi si debba andare con un comandante dell'esercito o Principe iniquo; ma secondo i più, purché non sia un traditore e fedifrago nei patti. È obbligatoria la Guerra santa per ogni musulmano, libero, maschio, tenuto agli obblighi religiosi ("mukallaf") e che abbia la forza per sostenerne le fatiche.

(1) Cf. Muwatta'  II, 287 seg., 320. Il "jihâd" o Guerra santa è definito da Ibn `Arafah: «il combattere che fa il musulmano contro l'infedele col quale non abbia alcun patto (non quindi col "dhimmî", finché rimane fedele ai patti della "dhimmah"), allo scopo di esaltare la Parola di Dio altissimo (cioè la fede musulmana riassunta nelle parole della professione di fede musulmana: 'Non vi è altro Dio che Allâh', e 'Maometto è il Profeta di Allâh'; non quindi allo scopo di mostrar il proprio valore o di far bottino, al quale, secondo alcuni, non deve partecipare se nel combattere ha avuto questo scopo); ovvero (cioè è altresì "jihâd") l'assistere di lui, del musulmano, ad esso combattimento (ovvero s'intende: l'assistere ad esso combattimento per il detto scopo di esaltare la Parola di Dio); ovvero (cioè è altresì "jihâd") l'invadere la terra di lui infedele (oppure s'intende la terra ove si combatte) per prender parte ad esso combattimento (oppure s'intende 'per esaltare la Parola di Dio'). Queste diverse interpretazioni dipendono dal riferire ad una o ad altra parola della definizione il pronome suffisso hu».

(2) Se il pericolo sia uguale in più luoghi, l'imâm, cioè il capo della comunità islamica, sceglie in quale manmdare le truppe a fronteggiare gl'infedeli.

(3) Mukhârrib è qui specialmente nel senso di «brigante».

(4) Questo pericolo non annulla l'obbligo del "jihâd"; è opinione notoria (contro Ibn `Abd as-Salâm) che combattere gl'infedeli sia meglio che combattere i briganti.

La Guerra santa è obbligo non per l'individuo, ma per la comunità collettivamente, allo stesso modo come sono obblighi per la comunità e non per l'individuo (o solo eventualmente lo sono per l'individuo), le cose seguenti:

1) adoperarsi in qualsiasi modo per conoscere, insegnare, promuovere le scienze relative alla legge religiosa, come sarebbero la giurisprudenza ("fiqh"), l'interpretazione del Corano ("tafsîr"), la conoscenza degli "hadîth", i catechismi o esposizioni dei dogmi ("`aqîdah"), e le scienze sussidiarie di queste nominate, come la grammatica, la retorica e simili, (5) non che il dare responsi legali "fatwâ" che fa chi illumina sui diritti e doveri dei fedeli senza aver la facoltà di farli valere, senza cioè il potere esecutivo;

(5) Per qualche disciplina (come la logica, "mantiq") vi è questione se possano considerarsi sussidiarie. Restano escluse ad ogni modo le scienze quali, p.es., o l'alchimia o l'astronomia.

2) tener lungi dai musulmani (come anche dai "dhimmî") quel che nuoce loro, come ad es. la fame, dando a mangiare ad affamati, quando le limosine dei fedeli e l'erario pubblico non possano provvedervi a sufficienza;

3) l'ufficio di giudice che è ufficio altissimo per i benefici che reca, dirimendo liti, punendo colpevoli, proteggendo oppressi e simili cose;

4) la testimonianza in giudizio (cf. libro XXXV, capo II, sez. VIII, § 145); il farla diviene obbligatorio per l'individuo il quale ne sia richiesto dall'autorità;

5) l'imamato supremo; anche questo può essere obbligo individuale di una persona, se solo in essa si ritrovino le condizioni necessarie (anche l'essere imâm della preghiera è obbligo collettivo);

6) il comandar di fare il bene e proibire il male, secondo la legge musulmana. Ma chi comanda o proibisce, deve soddisfare a tre condizioni: a) che comandi quel che è realmente buono, sapendolo distinguere dal cattivo, né corra il rischio di comandare una cosa cattiva o proibirne una buona; b) che non vi sia pericolo che col proibire un male conduca a commetterne uno maggiore; c) che sappia o reputi esser efficace il suo comando o la sua proibizione. Mancando le due prime condizioni (a e b), non è permesso comandare o proibire: mancando la terza (c) non evvi più l'obbligo di cui qui si parla;

7) coltivare i mestieri più importanti e necessari alla vita, come l'agricoltura, il tessere, il cucire e simili; non, per es., il ricamare abiti, che non è obbligo né per la comunità né per l'individuo;

8) restituire il saluto: e basta che lo restituisca una sola di più persone che sono insieme; ma se si trovi a dovere restituire il saluto una sola persona, l'obbligo di restituirlo (eventualmente a cenni, come dovrebbe, per es., uno che prega) è individuale per lui. Si eccettuano coloro che non debbono rendere il saluto, come il muezzino mentre invita alla preghiera, chi sta pronunciando la "talbiyah" e chi sta soddisfacendo a necessità; i due primi lo restituiscono appena finito rispettivamente l'"adhân" o la "talbiyah" e segretamente, cioè a voce bassa, se non vi è più chi li ascolti; il terzo non lo restituisce mai più;

9) curare gli ultimi uffici per un morto, lavarlo, avvolgerlo nel lenzuolo funebre, far la preghiera funebre ecc.;

10) riscattare il prigioniero musulmano dalle mani del nemico, ancorché vi si debbano impiegare tutti gli averi, se però questo non rechi danno alla comunità musulmana (se il prigioniero ha beni propri, è riscattato col suo avere).

Ma l'obbligo della Guerra santa, che è collettivo, diviene personale e determinato per ciascun individuo, se il nemico piombi inaspettatamente sui musulmani, e può divenire individuale anche per chi non è obbligato alla Guerra santa, come ad es. la donna o lo schiavo, ed altresì per chi abita nelle vicinanze dei musulmani attaccati dal nemico, se questi non possano da soli respingerlo. Ed è altresì obbligo individuale se, per combattere, l'imâm designi una data persona, anche se donna o schiavo o ragazzo valido, ovvero designi una schiera, i cui componenti sono allora obbligati individualmente.

 

2. Cause per le quali cessa il detto obbligo.

2. L'obbligo della Guerra santa, anche se divenga individuale, cade, cessa per le seguenti cause:

1) per malattia grave, salvo il caso che il nemico piombi all'improvviso e vale il medesimo per i nn. 2 e 6 (impubere e donna) se tuttavia abbiano la forza di combattere;

2) per essere impubere;

3) per pazzia;

4) per cecità;

5) per essere storpio;

6) per esser donna;

7) per il fatto che il fedele non sia in grado di procurarsi le cose di cui abbisogna, come le armi, il cavallo, il far le spese per l'andata e il ritorno. Oltre i precedenti impedimenti materiali, vi sono impedimenti originati dalla legge, come:

8) per essere schiavo, anche se in via di essere affrancato (statu libero) come il "mukâtab", che non può (per dovere individuale, mentre la guerra è solo dovere collettivo) allontanarsi senza il permesso del padrone (salvo il caso del nemico che piombi improvviso);

9) per il fatto di avere un debito da pagare attualmente, nel momento, essendone giunta la scadenza. Ciò qualora non possa soddisfarlo, se non vendendo quello che egli possiede, nel qual caso questa operazione richiedendo troppo tempo, egli non potrebbe più raggiungere la spedizione; ma se non abbia modo alcuno di soddisfare il debito, parte senza permesso del creditore. Come pure:

10) per la proibizione di uno dei genitori, proibizione che questi possono fare in qualsiasi precetto che obbliga la comunità collettivamente, e non l'individuo, anche fuori della Guerra santa, come sarebbe il mettersi in viaggio per mare o per terra, ma tal viaggio per terra che sia pericoloso. Però nella Guerra santa i genitori possono impedire al figlio il viaggio per terra anche se non vi sia pericolo. (6) L'avo non ha questa facoltà d'impedire il viaggio al nipote. L'infedele padre o madre, è in questo come i diversi da lui, cioè come i musulmani, nel poter impedire al figlio di ottemperare a precetti non individuali; ma ciò in cosa diversa da essa, dalla Guerra santa. Trattandosi di questa, il genitore infedele non può impedir al figlio di prendervi parte, perché sarebbe sospetto di voler con ciò indebolire i musulmani; salvo il caso che speciali circostanze spingano alla condiscendenza verso il desiderio del genitore.

(6) Se il figlio voglia partire per apprendere una scienza obbligatoria per la comunità (v. sopra, al n° 1 del § 1) e in paese nessuno possa insegnargliela, non ha bisogno (contro il parere di alcuni) del permesso dei genitori per mettersi in viaggio.

 

3. Procedimento nell'attaccare il nemico; invito a convertirsi all'Islâm o pagar tributo; chi possa essere ucciso in caso di rifiuto.

3. I nemici infedeli saranno, innanzi tutto, invitati (7) dai combattenti la Guerra santa ad abbracciare l'islâm, e si aspettano tre giorni, sia o non sia giunto a loro l'invito; salvo il caso che essi prevengano coll'attaccare subito i musulmani, e allora non si aspetta nulla. Quindi, se rifiutino di farsi musulmani, sono invitati, al quarto giorno, a pagare la capitazione o "jizyah" (8) in generale, salvo che chiedano che siano loro specificate le condizioni.

(7) Mudawwanah  III, 2-5.

(8) Mud. III, 4-6.

Questo invito all'islâm o alla "jizyah" si fa quando la guerra sia in luogo sicuro per i musulmani, che non possano temere tradimento da parte degli infedeli che fingano accettare l'uno o l'altro invito. In caso diverso, se cioè non accettino nel modo dovuto di pagare la capitazione, si combatterà contro di essi e saranno lecitamente uccisi, ad eccezione di sette classi di persone che non si possono uccidere; (9) queste sono:

(9) Mud. III, 6-7.

1) la donna, (10) purché non sia combattente colle armi, come gli uomini, contro i musulmani, o abbia ucciso un musulmano; nel qual caso è uccisa, ancorché dopo presa prigioniera. (10a) Non si uccide però se combatta solo con lanciar pietre o simili;

(10) Muw. II, 295.

(10a) Questa di Ibn al-Qâsim è opinione seguita; ma altri, come Sahnûn, non ammettono che la donna si possa uccidere dopo fatta prigioniera (cf. Mud. III, 9).

2) il ragazzo (11) valido, purché, valendo per esso quel che vale per la donna, non combatta, né abbia ucciso un musulmano ecc.;

(11) Mud. II, 295.

3) il debole di mente e tanto più l'alienato cronico, non quello che abbia lucidi intervalli;

4) il vecchio cadente che non ha la forza di combattere;

5) il paralitico, il malato cronico che non ha forza di combattere o di camminare, come lo storpio, il mutilato e simili;

6) il cieco;

7) il monaco che vive solitario e separato dai correligionari, in un convento o una cella, (11a) quando queste persone indicate nei nn. 4-7 non abbiano dato o non possano dare alcun consiglio o provvedimento guerresco utile da far valere contro i musulmani.

(11a) A differenza dei monaci che abitano le chiese e le officiano, i romiti che vivono separati dal mondo non costituiscono alcun pericolo per i Musulmani, i quali per questa ragione li lasciano tranquilli, e non già, si nota, perché si attribuisca pregio al loro monachismo; che anzi, aggiungono i commentatori, costoro «sono più che altri lontani da Dio, e tanto più quanto è maggiore il loro zelo nella falsa religione che professano». - Oltre le sette classi di persone che non è lecito uccidere, si devono risparmiare anche gli agricoltori, gli operai e simili classi di prigionieri, che non vengono uccisi per l'utilità che recano. Tale (contro Sahnûn) è l'opinione seguita di Ibn al-Qâsim, di Ibn al-Mâjishûn, Ibn Wahb, Ibn Habîb, e simile opinione è riferita anche a Mâlik.

A costoro cui è risparmiata la vita (se l'imâm non ordini di farli prigionieri, come potrebbe, ad eccezione dei monaci) si lascia, (11b) dei beni loro, solo quanto basti al loro sostentamento, e il resto si prende o eventualmente si distrugge. Se essi stessi non abbiano beni per mantenersi, si ricorre ai beni degli altri infedeli, e in mancanza di questi beni si provvede possibilmente al loro sostentamento dai musulmani. L'uccisore loro, delle dette persone le quali è vietato uccidere, non è tenuto a dare, prima che formino parte del bottino, la "diyah" o prezzo del sangue, né ammenda, ma solo chiederà perdono a Dio, cioè si pentirà confessandosi in colpa e senza scusa ("tawbah"); si eccettuano monaci e monache per la cui uccisione (ma ciò è oppugnato) si deve il prezzo del sangue "diyah", perché sono considerati come liberi. Non si deve "diyah" né ammenda per le dette persone, come non si deve per uccidere colui al quale non è giunto ancora l'invito a farsi musulmano o a pagare la "jizyah"; l'uccisore chiederà solamente perdono, cioè si pentirà, avvenga ciò o non avvenga in Guerra santa. Ma se li uccide dopo che siano presi e radunati, cioè divenuti parte del bottino di guerra, l'uccisore deve pagare il loro prezzo, che l'imâm mette insieme col rimanente del bottino di guerra. Ma il monaco e la monaca che vivono separati dal mondo, sono liberi, non si contano nel bottino, né sono presi o condotti in ischiavitù; e chi li uccide deve (ma v. poco sopra) il prezzo del sangue "diyah" alla gente di loro religione.

(11b) Mud. III, 6-7.

 

4. Mezzi di offesa leciti nella Guerra.

4. È lecito uccidere i nemici che non si fanno musulmani o non accettino di pagare la "jizyah" anche con impedir loro l'acqua, per modo che muoiano di sete, o far sì che anneghino, o con qualsiasi stromento di guerra, spade, lance ecc., anche se fra loro trovinsi donne o ragazzi. È lecito anche ucciderli con appiccar fuoco, (12) ma a due condizioni: 1) che non sia possibile altro mezzo di combattere un nemico (così sostengono Ibn al-Qâsim e Sahnûn)  e sia da temere da lui; (13) 2) che fra essi nemici  non si trovino musulmani. Osservate le due condizioni, si può combattere col fuoco, anche se musulmani o nemici o tanto gli uni quanto gli altri siano combattenti sopra navi. (14) E si combatte contro gl'infedeli se siano dentro una fortezza, ma senza appiccar fuoco o farli annegare essendo essi insieme coi figli e le donne e tanto più se fra loro si trovino dei musulmani; ma ciò qualora non vi sia timore per i combattenti musulmani. Ma se il nemico nelle dette condizioni si faccia scudo dei suoi figli e delle sue donne, si lasciano illesi per non diminuire il bottino e non ledere l'interesse di chi può avervi diritto; salvo il caso che si tema da ciò per i musulmani. Che se si facciano scudo di musulmani, non si prenderà di mira, nel saettare, questo scudo, questi musulmani, perché per timore della propria persona non si deve versare il sangue del musulmano; salvo che così facendo, si tema che abbia la peggio il numero maggiore (più della metà) dell'esercito combattente dei musulmani.

(12) Mud. III, 7-8, 24.

(13) Questa circostanza che si tema dal nemico, non sarebbe richiesta nella Mudawwanah (ad_Dasûqî, II, 158).

(14) Mud. III, 24 s. Le parole «anche su navi» insistono sul concetto precedente, e cioè che «si può combattere col fuoco, quando non vi sia altro mezzo di offesa, e fra i nemici non si trovino musulmani, anche se il combattimento sia navale». Altri vogliono che le dette parole insistano non sul detto concetto quale è  espresso () ma sul concetto che da esso si deduce e vi è  sottinteso () e cioè che «se vi è altro mezzo e fra gl'infedeli si trovino dei musulmani, non si può combattere col fuoco, neppure se si tratti di combattimento navale». Khalîl avrebbe aggiunto le parole «sopra navi» per accennare alla sentenza (che del resto è detta prevalente) secondo la quale l'esservi altro mezzo di offesa non basta per impedire l'uso del fuoco, qualora non si trovino musulmani fra i nemici. Secondo alcuni, Khalîl vorrebbe far rilevare che si possono bruciare le navi degli infedeli, quantunque ne provenga il danno che il bottino vada perduto per i musulmani che vi avrebbero diritto.

 

5. Cose proibite nel guerreggiare.

5. Sono cose proibite nella Guerra santa:

1) usar frecce o lance avvelenate per paura che ciò si ripeta dagl'infedeli contro i musulmani (a quanto si riferisce, Mâlik lo dice riprovato, non proibito, e così Ibn Yûnus; Sahnûn riprova avvelenare il vino nelle brocche, perché ne bevano i nemici);

2) chiedere aiuto di alcun infedele (15) per combattere coi musulmani, salvo ad adoperarlo per alcun servizio, come trasportare su navi, scavare fossi e simili. Non è tuttavia proibito accettar l'aiuto di infedeli (secondo l'opinione seguita e contro Asbagh) se venga offerto spontaneamente;

(15) Mud. III, 40.

3) inviare ad essi infedeli e ai loro paesi il sacro Esemplare del Corano completo, ché correrebbe rischio di non esser rispettato o di esser toccato da mani impure; ma si possono mandare libri che contengano versetti del Corano e tradizioni "hadîth" acconci ad eccitar gl'infedeli ad abbracciare l'Islâm;

4) viaggiare portando esso Corano nei loro paesi, degli  infedeli, per timore che cada e si smarrisca, come è proibito viaggiar con una donna, libera o schiava, andando a paese infedele, salvo il caso (in riguardo della donna) che vi si vada insieme con esercito musulmano, sicuro e senza timore del nemico infedele; (15a)

(15a) Mud. III, 5-6.

5) fuggire (16) avanti al nemico, se il numero dei combattenti musulmani armati raggiunga la metà dei nemici; se non la raggiunga è lecito fuggire, ma purché i musulmani non raggiungano il numero di 12.000 e siano tutti concordi. La fuga è proibita, salvo che facciasi per stratagemma guerresco, come chi finga fuggire e poi si rivolga a combattere il nemico; ovvero si fugga per congiungersi(16a) ad altra schiera di combattenti, per poter insieme resistere al nemico, qualora da chi si dà così alla fuga si tema altrimenti di esser certamente sconfitto, e la schiera alla quale egli va a congiungersi sia vicina;

(16) Cf. Corano, VIII, 16.

(16a) Ibidem.

6) mutilare di alcun membro o fare scempio del nemico, per es. fracassandogli la testa o tagliandogli gli orecchi, e ucciderlo così dopo che è stato vinto; ciò è proibito se gl'infedeli non abbiano fatto altrettanto a danno dei musulmani; ma prima della vittoria si può uccidere in qualsiasi modo si voglia;

7) portare il capo reciso di un infedele ad altro paese o comandante; ma è lecito fare ciò nel paese stesso nel quale il nemico è stato vinto ed ucciso;

8) che un prigioniero musulmano il quale si trovi presso infedeli e da costoro abbia avuto in consegna persone o cose, li tradisca e fugga portando seco le cose che ha avuto in consegna, essendo stato consenziente, espressamente e implicitamente, di sua volontà e non costrettovi; anzi, ancorché abbia dovuto prendere tal consegna dietro impegno formale su se stesso, che non sarebbe fuggito o avrebbe tradito. Se non abbia preso tale consegna obbligandosi o prestando giuramento, può fuggire e portar via roba, come pure se sia stato costretto, nel qual caso, anche se avesse giurato, non è spergiuro, perché costrettovi; (17)

(17) Mud. III, 22. Secondo al-Lakhmî, il prigioniero cui si fa obbligo di non fuggire, o ne ha dato promessa, non può fuggire anche se non sia sorvegliato. Secondo al-Makhzûmî e Ibn al-Mâjishûn, può fuggire anche se avesse giurato, perché il giuramento era forzato, e gli è lecito portar via seco le robe degli infedeli presso i quali si trovava. Una terza sentenza vuole che il prigioniero che ha avuto in consegna persone o oggetti, obbligandosi a non fuggire, non uccidere e non portar via nulla, può fuggire, ma non può lecitamente far le due altre cose.

9) sottrarre nascostamente alcuna cosa dal bottino prima che questo sia riunito e spartito; (17a) il colpevole è castigato di castigo correzionale determinato dal prudente arbitrio del giudice (senza perdere per ciò il diritto alla sua parte del bottino), se sia scoperto da altri. Non ha castigo se venga da sé pentito riportando il mal tolto, prima della spartizione del bottino; se la sottrazione sia posteriore, il colpevole è punito di pena determinata dalla legge ("hadd"; v. sotto al § 6, n° 2; secondo altri, di sola pena correzionale) e del maltolto si fa limosina, detrattone 1/5 per l'imâm.

(17a) Cf. Muw. II, 309.

 

6. Cose lecite nella Guerra; poteri dell'imâm sui prigionieri.

6. È lecito: (18)

(18) Mud. III, 35-37.

1) a chi ne abbia bisogno immediato, sebbene non estremo, prendere qualcosa del bottino prima della divisione, come un sandalo, una cintura (ma ordinaria e non di lusso), un ago, del cibo ed anche animali da macello, cammelli e simili che si macellano e di cui si restituisce al bottino la pelle, se non se ne ha bisogno, e foraggi per le bestie, ancorché il comandante lo abbia vietato. (19) Come del pari è lecito prendere vesti, armi e cavalcature per servirsene nel combattere, per tornare al proprio paese ecc.

(19) Così nella Mudawwanah (III, 35), ché, in caso di necessità, non si tien conto del divieto; secondo altri, è lecito senza il permesso espresso del comandante, ma non contro il suo divieto; inoltre, non deve essere una sottrazione fatta nascostamente e a tradimento come quella menzionata poco prima (al n° 9 del § precedente), ma un prendere quel che è necessario.

È lecito prendere queste ultime cose (vesti, armi e cavalcature) per, cioè formando l'intenzione di restituirle alla massa del bottino, appena non se ne abbia più bisogno per guerreggiare. Non così però se chi le toglie abbia formato intenzione di farle sua proprietà (e secondo alcuni, anche se non abbia formato alcuna intenzione). E di qualunque oggetto cui il fedele abbia così prelevato sul bottino, si renderà da lui, per obbligo, alla massa del bottino quello che  gli sopravanza, oltre il bisogno, se è molto, non se sia un'inezia e di valore inferiore a un dirham. Se la restituzione è difficile perché l'esercito è già disciolto, quel che è stato preso si darà per limosina (dopo detratto 1/5 per l'imâm) a titolo di oggetto il cui proprietario è sconosciuto. E, una volta compiuto, è convalidato lo scambiarsi che facciano fra loro i combattenti, prima della divisione, gli oggetti presi e secondo il bisogno di ciascuno; per es., chi ha preso carne la cambia con un altro che ha preso miele e così via; ma ciò è riprovato; (20)

(20) Secondo altri è sempre lecito farlo fin dal principio e non riprovato.

2) all'imâm è lecito applicare nel paese loro, degl'infedeli, le pene determinate dalla legge ("hadd") e parimente gli è lecito (21) devastare il loro paese, tagliare gli alberi di palma o altri, (22) appiccar fuoco ai seminati o agli alberi, se queste operazioni rechino danno al nemico, ovvero se non si speri che il risparmiare dalla devastazione il paese sarà un vantaggio per i musulmani che l'occuperanno. E l'opinione (secondo Ibn Rushd) più ovvia (ma da alcuni giudicata non tale) è che sia esortazione la detta devastazione, quando con essa si rechi danno al nemico, sebbene non si speri alcun vantaggio per i musulmani col non farla, come è pure esortazione l'inverso, cioè di non devastare, quando vi sia questa speranza, mentre non si recherebbe danno al nemico;

(21) Nei commenti si parla di obbligo, in dati casi, e nominatamente è obbligo non devastare se ciò non reca danno al nemico e si speri vantaggio per i musulmani coll'astenersene, mentre si deve devastare se si verifichi il caso inverso di queste due condizioni (cf. Mud. III, 8).

(22) Mud. III, 7,16; 8.

3) ad un prigioniero musulmano aver rapporti sessuali con sua moglie o sua schiava, anche esse catturate con lui, purché sappia per certo che esse sono rimaste salve da tali rapporti cogl'infedeli che le hanno prese. (23) Ciò è detto lecito nel senso che non è proibito; ma, per sentenza dello stesso Mâlik, resta sempre cosa riprovevole, perché espone i figli di musulmani a crescere e restare in paese d'infedeli;

(23) Se i musulmani prendono delle donne prigioniere, i matrimoni contratti da queste si considerano nulli, ma non quelli di musulmane prese da infedeli. (In luogo di leggesi in alcuni codici, e così anche nell'edizione parigina: ; ma la prima lezione, che esprime una condizione necessaria, è seguita nei commenti Khirshî-`Adawî, Dardîr-Dasûqî, az-Zurqânî e nell'ediz. egiz. di Khalîl. Al-Khirshî propone leggere ).

4) ai combattenti la guerra santa il macellare gli animali (24) del nemico quando i musulmani non possano giovarsene (25) e tagliarne i garretti e spacciarli, farli subito morire, perché non soffrano, morendo di fame o di sete. (26) Quanto a esser lecito il far perire le api, distruggendo gli alveari, qualora siano molte, cioè sia molto il danno che ne avrebbe il nemico (se poco sarebbe riprovato) e non avendo il proposito di prenderne il miele, vi sono due lezioni testuali della Mudawwanah. (27) Gli animali uccisi al modo che si è detto, si bruciano (per obbligo, secondo l'opinione prevalente, se, non facendolo, possano esser cibo dei nemici) se tali che gl'infedeli li mangino morti naturalmente, e non siano obbligati nella loro religione alla macellazione rituale. Del pari si possono distruggere le suppellettili d'infedeli o musulmani cui i combattenti non possano portar seco e trarne giovamento in un modo o in un altro;

(24) Mud. III, 40.

(25) Colla parola «macellare» ("dhabh"), s'intende il farli morire, non la macellazione legale (per cui cf. libro VI).

(26) Tutto quello che i combattenti alla Guerra santa non possono portar seco, si distrugge per recar maggior danno al nemico; ma, quanto agli animali, vi è discrepanza sul modo di farli perire. Secondo la scuola medinese si fanno morir subito, senza tagliarne i garretti o macellarli; così anche vogliono al-Bâjî, Abû'l-Hasan (al-Lakhmî) e Ibn `Abd as-Salâm. Khalîl segue invece la scuola egiziana che corrisponde alla Mudawwanah. Si dovrebbe intendere poi di macellare, ovvero di tagliare i garretti, ovvero di spacciare e far subito morire; ma da altri si vuole che, al tagliare i garretti segua subito lo spacciare e far morire (cf. Mud. III,40).

(27) Si distinguono quattro casi: 1) distruggere le api per prendere il miele, e tutti convengono esser lecito, siano poche o molte; 2) non per prendere il miele, ed è allora riprovato distruggere le api, se sono poche, per comune consenso; 3) è pewrmesso distruggere le api, se sono molte, secondo una lezione del testo della Mudawwanah; 4) è riprovato distruggerle nello stesso caso, secondo un'altra lezione dello stesso testo.

5) stabilire e impiantare i registri (28) coi nomi dei combattenti, ordinati secondo le province e l'assegno di ciascuno;

(28) Mud. III, 42-43.

6) a colui che appartenendo ad una schiera che deve uscire a combattere, non voglia partire e resti, è lecito assegnare un compenso convenuto a favore di chi esca a combattere in sua vece, cedendo lo stipendio che ha sul registro (o altra somma determinata) purché ambedue figurino sopra un medesimo registro, per es. quello di Egitto o di Siria (29) ed aventi uguale stipendio. Oltre a ciò si richiede l'adempimento di tre altre condizioni: a) che si tratti di una sola e medesima spedizione; b) che il comandante supremo non abbia designato a prendervi parte personalmente l'individuo che vuol farsi sostituire; c) che il compenso sia dato sul momento e non differito. Alla parte del bottino fatto nella spedizione ha diritto, secondo alcuni, quegli che ha dato il compenso, secondo altri, quegli che ha effettivamente combattuto;

(29) Mud. III, 44-46.

7) a chi sta alla difesa dei confini è lecito alzar la voce nel dire: «Allâh akbar», (30) perché è come la loro parola di ordine, ma è riprovato il farlo canterellando e modulando la voce; (31)

(30) Mud. III, 42.

(31) Secondo alcuni autori, i soldati che stanno alla guardia del confine alzano la voce se siano in molti nel "takbîr", come pure nel "tasbîh" ("subhâna'llâh") ecc., dopo le 5 preghiere, ma purché non si disturbino con questo coloro che stanno pregando. L'alzar la voce è altresì lecito nella "talbiyah", esclamando cioè: "labbayka allâhumma" (cf. libro V, sez. I, § 16, n° 4), e nel dire "allâh akbar", quando si esce alle 2 Feste (cf. libro II, sez. XVII, § 60; Mud. II, 154); fuori di queste 3 circostanze è meglio non alzar la voce.

8) uccidere le spie nemiche, anche se abbiano un salvocondotto o siano "dhimmî". E il musulmano che sia spia per il nemico, se non torni da sé pentito per la sua colpa, ma sia sorpreso in commetterla, è come l'ateo "zindîq", cioè si può uccidere senz'altro né aspettare che si penta; tale è la sentenza di Ibn al-Qâsim e Sahnûn;

9) che durante la guerra, l'imâm, il comandante dell'esercito o altri riceva dai nemici alcun loro dono, quando il nemico è ancora forte e non già se, presso ad esser domato, cerchi con doni ritardare la vittoria dei musulmani; e il dono appartiene a lui, all'imâm come proprietà privata, se sia tale che provenga da alcuno di essi nemici il quale lo ha inviato per alcuna cagione speciale e privata, come parentela o amicizia o per contraccambio di benefizio; e vale ciò sia che l'imâm abbia già invaso il territorio nemico, o non lo abbia ancora invaso. (32) Altrimenti se il dono è da parte del re di infedeli (32a) è "fay'" [*] se l'imâm che attacca i nemici non sia ancora entrato nel loro paese, ma se vi è entrato, il dono appartiene ai combattenti ed è soggetto alla detrazione del 1/5 per l'imâm. Se il dono è fatto ad altri che non l'imâm, resta in ogni caso proprietà di chi lo riceve, salvo che sia tal persona che abbia influenza sull'imâm, nel qual caso vale il disposto per l'imâm;

(32) Se il dono non ha avuto una simile causa, non è più proprietà dell'imâm; e in tal caso, se questi non è ancora entrato nel paese del nemico, il dono è bene comune dei musulmani ("fay'"); se vi è entrato, è dei combattenti, come bottino ("ghanîmah"), e, a differenza del caso precedente, soggetto alla detrazione del quinto.

(32a) Qui tâghiya non indica solamente l'imperatore bizantino, ma qualunque re d'infedeli. [Come mi fa notare il collega Nallino, gli scrittori arabi di Spagna e del Maghreb dànno continuamente il titolo tâghiya ai re cristiani di Spagna].

[*] Dal Glossario: «fay', terre o altri beni appartenenti ad infedeli, che cadono in possesso di Musulmani senza combattimento e che appartengono per intero all'erario pubblico».

10) combattere i Rûm e i Turchi; (33)

 

(33)  Cf. Mud. III, 5; 9,19; 10. Con «Rûm», propriamente i Bizantini, s'intendono poi i Franchi. Non sono nominati qui né Copti, né Abissini per la loro debolezza, per la quale non sono proclivi ad attaccare i Musulmani, e non già perché non sia lecito guerreggiare contro di essi quando ciò si richieda. Si trova strano (cf. ad-Dardîr ecc.) che si menzionino qui espressamente i Rûm, mentre non vi può esser dubbio che sia lecito far loro la guerra. Quindi si preferisce leggere non «i Rûm» ma «i Nûb» Nubiani, e questa variante leggesi in alcuni codici nei quali però può essere non l'originale, ma dovuta a correzione posteriore. In un "hadîth" che qui si cita:

gli Habashah sarebbero i «Nûb». Questo "hadîth" che parrebbe contraddire a Khalîl, si prende nel senso di una regola o direttiva data da Maometto e da seguire secondo le circostanze. Del resto, quanto ai Turchi, s'intende parlare di quelli che sono idolatri e senza rivelazione.

11) argomentare contro essi infedeli dal Corano, cioè leggerlo loro quando però non si temano da loro parte ingiurie irriverenti; nonché mandar loro alcun libro con un versetto circa, o due o tre o anche più, del Corano, sempre però che non si temano da loro parte ingiurie o disprezzo del Corano; (34)

(34) Cf. Cor. III, 57 s.

12) che un solo uomo musulmano si faccia innanzi dalle proprie file contro molti infedeli, più di due almeno, anche se sia sicuro di morire, purché: a) formi una pura intenzione di ossequio a Dio; b) sappia di se stesso di poter resistere; e c) sappia che con ciò nocerà al nemico; gli è lecito questo farsi innanzi, se non sia allo scopo di ostentare il proprio valore, ma per glorificare la religione musulmana. Ciò secondo l'opinione più ovvia, contro chi vuole che non sia permesso il farsi innanzi per combattere;

13) il trasportarsi da una specie di morte ad altra; (35) come, per es., se gl'infedeli mandino a fuoco una nave, i musulmani che sono su questa, possono gittarsi in mare ed annegare, piuttosto che aspettare di morir bruciati. Questo trasportarsi ad altra eventuale specie di morte è obbligo se il fedele speri con questo salvar la propria vita o prolungarla anche se sia vita infelice o l'aspetti poi una morte più crudele di quella che avrebbe nel momento.

(35) Mud. III, 25.

Del pari è obbligo dell'imâm esaminare, prima della spartizione del bottino, e decidere quello che sia più utile ai musulmani riguardo ai prigionieri, se: a) uccidere, (36) cioè gli uomini combattenti, e così cagionare una diminuzione del bottino nel suo totale ed una perdita per tutti, o b) far loro grazia rilasciandoli andare gratis (e in tal caso la perdita che soffre il bottino si calcola a carico del 1/5 dell'imâm, cioè dell'erario) (37) o c) riscattarli cambiandoli con prigionieri che sono presso gl'infedeli o con denaro (da calcolare ugualmente sul 1/5) o d) con imporre la capitazione "jizyah" (il valore di questi prigionieri, cui è imposta la capitazione, viene pure calcolato sul 1/5, ma il tributo che si percepisce va all'erario) o e) dichiarandoli schiavi e allora fanno parte della massa del bottino. Quanto alle donne e agl'impuberi non si può che ridurli in ischiavitù o esigerne il riscatto. Né impedisce esso ridurre in ischiavitù se si tratti di una donna, la circostanza che essa sia incinta per fatto di un musulmano che l'aveva sposata (essendo ebrea o cristiana) in paese di infedeli, o che si era fatto musulmano in seguito, prima che la donna fosse presa schiava; il figlio che nasce da questa donna è schiavo, come la madre, se questa l'aveva concepito quando il padre era tuttora infedele.

(36) Mud. III, 9.

(37) O, secondo Ibn Rushd, sul totale (ma cf. al-`Adawî, III, 121 con ad-Dasûqî, II, 164).

 

7. Osservanza dei patti da parte dei musulmani.

7. È doveroso (38) per noi musulmani: a) adempire fedelmente ciò, i patti, in forza dei quali qualcun nostro nemico apra a noi le porte di una fortezza o una città a patto cioè di aver salva la vita egli stesso ed altre determinate persone con lui, i figli, e di conservare gli averi e i suoi. E b) rispettare il salvocondotto concesso dall'imâm o comandante in tutte le cose garantite, come persone, averi, libertà in ogni caso, comunque il salvocondotto sia dato, e se pure in paese diverso da quello nel quale l'imâm lo ha concesso.

(38) Muw. II, 297-98.

Come si debbono del pari rispettare i patti stretti da chi combatte in combattimento singolare con un nemico che gli sia uguale, cioè che combattano ambedue a piedi, o ambedue a cavallo o su cammelli, armati ambedue di lancia o ambedue di pugnale e così via. Ma se il nemico infedele è aiutato nella lotta da uno o più, e ciò col suo permesso, egli viene ucciso insieme con lui, con quello (o quelli) che lo ha aiutato. Che se il nemico lottatore non gli aveva dato il permesso, è ucciso solo quegli che ha portato aiuto. (39) Ma colui che è uscito a guerreggiare insieme con una schiera di musulmani contro una simile schiera di infedeli e s'impegna poi in cosiffatto combattimento singolare, quando abbia finito di combattere e vincere contro il suo proprio avversario, col quale combatteva da solo, gli è lecito portare aiuto agli altri combattenti musulmani.

(39) Secondo Ashhab e Ibn Habîb, sarebbe lecito aiutare il musulmano che corra pericolo di essere ucciso, ma da Ibn al-Qâsim e Sahnûn si preferisce l'opinione che non sia lecito aiutare il musulmano e si debba restar fermi ai patti.

Gl'infedeli che difendono una fortezza o una città attaccata dai musulmani e si arrendono, sono costretti colla forza a sottoporsi a quel giudizio, quelle condizioni, che imporrà egli, comandante, al cui giudizio e discrezione si sono arresi, se però questo comandante sia uomo probo (40) e conosca in qual cosa consiste il maggior bene della comunità musulmana, se portar via prigionieri o imporre loro un tributo, e così via dicendo. Se non sia tale, cioè né probo né conoscitore dell'interesse dei musulmani, l'imâm, il Principe, considererà ed esaminerà il giudizio portato dal comandante, ratificherà il giusto e respingerà l'ingiusto; come esaminerà del pari la sicurtà data da altri diverso da lui Principe a tutta una regione, il che propriamente diritto del Principe dei fedeli. In caso diverso, se cioè non l'imâm, ma altri abbiano dato la sicurtà, non a tutta una regione, ma ad un solo paese o ad un numero ristretto di persone, vi sono in proposito due interpretazioni della Mudawwanah, se sia lecito alle dette persone dare la sicurtà, cioè se questa sia valida, quando sia data fin dal principio e senza ulteriore intervento dell'imâm (e questa è l'opinione dei più, `Abd al-Wahhâb ed altri, e il senso ovvio della Mudawwanah), ovvero (secondo Ibn al-Mâjishûn ed altri), se la sicurtà così data valga solo a patto che venga ratificata dall'imâm; ma, in ogni caso, questa sicurtà per esser valevole deve essere stata data da persona fidata (41) che distingua e conosca bene le condizioni e le conseguenze del salvocondotto concesso, ancorché sia un minorenne, uno schiavo, una donna (41a) o un ribelle all'imâm; e non varrebbe se chi ha dato la sicurtà sia un "dhimmî", un protetto ebreo o cristiano, o chi abbia paura di essi, di coloro cui garantisce, e che quindi non dia affidamento di far il vero interesse dei musulmani.

(40) La parola "`adl" del testo s'intende in generee non solo della "`adâlah" di chi sia idoneo al far testimonianza.
Si procede analogamente fuori della guerra, se uno "harbî" entra con mercanzie in paese musulmano dichiarandosi pronto a dare, come diritto di dogana, quello che si determinerà; se poi si rifiuti, questo diritto si esige colla forza.

(41) La parola "mu'min" (che non è in senso di «credente») si vorrebbe sopprimere.

(41a) Mud. III, 41.

Nei detti casi di patti intervenuti e, se del caso, ratificati, decade e non ha più luogo il permesso di uccidere, di ridurre in ischiavitù, imporre tributo e così via, se i patti siano intervenuti prima della vittoria. Ma l'uccidere, non è più permesso ancorché i patti siano intervenuti dopo la vittoria e l'espugnazione della fortezza, mentre il far decadere le altre cose, come il ridurre in ischiavitù, dopo la vittoria, è rimesso all'imâm.

 

8. Della sicurtà o salvocondotto concesso allo "harbî" che dimora in paese musulmano; dell'eredità di costui.

8. La sicurtà si concede con esprimerla a parole, in arabo o in altra lingua o con una indicazione che faccia intender all'interessato che ha la sicurtà. (42) Ma per concederla è, in ogni caso, condizione che non rechi danno ai musulmani. E se a) alcuno degli "harbî" infedele in terra non musulmana reputi per isbaglio e fraintenda le parole o l'indicazione di aver ottenuta essa sicurtà, e in tale credenza venga presso i musulmani, ovvero b) il comandante dei musulmani avesse proibito a tutta la gente di concedere sicurtà, ma si siano ribellati al suo comando, o c) l'abbiano dimenticato o d) ignorato o il divieto stesso o qual colpa fosse il trasgredirlo; ovvero e) se lo "harbî" nemico avesse ignorato che colui il quale gli aveva dato la sicurtà, non aveva la qualità di musulmano, credendolo un musulmano mentre era un "dhimmî"; non però se avesse saputo che egli era un "dhimmî", e avesse ignorato che non è valida la ratifica di lui, della sicurtà abusivamente concessa da un "dhimmî" (v. poco sopra al § 7), in tutti questi 5 casi dal comandante può esser ratificata la sicurtà concessa al nemico, o esser fatto ritornare al suo luogo, ove gli era stata concessa la sicurtà, ma non si può ucciderlo o ridurlo in ischiavitù. Se lo "harbî" a) è preso nel paese loro, degli infedeli con i quali si fa la guerra, mentre si avanza verso noi e dica: «sono venuto a dimandare la sicurtà»; ovvero: b) se preso mentre si avanza, ma già è nel nostro paese musulmano, senza salvocondotto, portando mercanzie per commerciare, dica: «sono venuto nel vostro paese senza salvocondotto», perché reputava che non vi sareste opposti a mercanti, vietando loro di entrare nel vostro paese; ovvero: c) se sia preso fra i due paesi, il nemico e il nostro, e dica: «sono venuto a chiedere sicurtà»; (43) in tutti e tre i detti casi, questo "harbî" è rimandato al suo luogo in sicuro, ove non tema dal nemico presso il quale era venuto, né si può uccidere o prender prigione o togliergli il suo. Ma se sorga qualche circostanza concomitante che lo dimostri realmente un commerciante non ostile, come, ad esempio, se non porti verun'arma o, al contrario, lo mostri un nemico, si procede secondo che richiede essa circostanza, e se ne risulta che era un mentitore è ucciso o fatto schiavo o trattato altrimenti ad arbitrio dell'imâm. Se chi ha avuto il salvocondotto è respinto indietro, stando, per es., su nave spinta dal vento, prima di giungere al luogo ove sia sicuro, egli è ancora inviolabile nel suo salvocondotto, a differenza di chi torni di sua volontà, e ciò finché giunga al suo luogo, al sicuro. (44)

(42) Se la sicurtà è concessa da altri che non sia l'imâm, deve risultare da prova legale, non da semplice affermazione.

(43) Mud. III, 10.

(44) Se, dopo ciò, torni una seconda volta, le sentenze sono varie: a) che sia lecito prenderlo, come "fay'" (as-Saqalî [as-Siqallî; `Abd al-Haqq?] da Ibn Habîb da Ibn al-Mâjishûn); b) che si lasci abitare coi musulmani o si rimandi di nuovo ad arbitrio dell'imâm (Muhammad [Ibn al-Mawwâz]); c) che il prenderlo sia solo a condizione che sia tornato di sua volontà (Ibn Habîb da `Abd al-Malik [Ibn al-Mâjishûn]).

(45) Se il nemico "harbî", munito di salvocondotto, muore presso di noi, nel nostro paese musulmano, quel che egli possiede è "fay'", e passa all'erario pubblico; così anche il prezzo del sangue "diyah", se egli muoia ucciso; ma a condizione a) che non abbia seco presso di noi alcun erede anche per cognazione; b) che non sia venuto nel nostro paese per sbrigare i suoi affari (46) e poi ripartire, o tale fosse il suo costume, cioè di sbrigare affari, senza trattenersi a lungo, ma sì bene vi sia venuto per fissarvi dimora. Ma se, mancando ai patti, abbia combattuto contro i musulmani, o infestato il paese come brigante, e venga preso prigione e quindi ucciso, i suoi beni vanno a chi lo ha catturato ed ucciso, e se non venga ucciso, i beni e la sua persona vanno a chi lo ha preso prigioniero, che con ciò se n'è impossessato. Se questi era uno che combatteva, i beni sono calcolati come bottino di guerra, e soggetti alla detrazione del 1/5. Altrimenti, se il detto "harbî" muore non avendo eredi nel paese musulmano ed essendo ivi di passaggio come si è detto, i suoi beni si mandano eventualmente col prezzo del sangue "diyah" al suo erede; in mancanza di eredi, i beni vanno all'erario pubblico. Come vale il medesimo in tutto (propriamente quanto al mandarsi all'erede) per il suo deposito, lasciato dall'infedele, munito di salvocondotto, in paese musulmano, e che, partitone, è morto nel suo paese; (47) e, riguardo a tal deposito, vi sono due sentenze, riferite ambedue ad Ibn al-Qâsim, sulla questione se gli averi in deposito debbano restituirsi in ogni caso, anche se il loro proprietario sia stato ucciso in combattimento contro i musulmani, senz'essere stato preso prigioniero, o se in tal caso vada come "fay'" all'erario pubblico; in ambedue le sentenze si suppone sempre che lo "harbî" fosse di passaggio come è specificato sopra. Le stesse norme che valgono per il deposito, valgono per i crediti che avesse il defunto.

(45) Mud. III, 24.

(46) In cinque casi (oltre l'assenza dell'erede) i beni del defunto vanno all'erario: a) se lo "harbî" viene in paese musulmano per fissarvi dimora; b) se tale era la consuetudine dei suoi simili, cioè di venirvi per fissar dimora; c) se s'ignori a che scopo fosse venuto, né si possa dedurre dalla consuetudine; d) se sia venuto bensì per sbrigare degli affari, ma abbia poi prolungato la sua dimora; e) se fosse la consuetudine dei suoi simili di sbrigare affari, per modo che tal motivo si sarebbe potuto supporre; sennonché abbia poi prolungato la sua dimora. In questi due ultimi casi il prolungar la dimora è equiparato, per gli effetti, al fissarla.

(47) Con «deposito» si vorrebbe intender qui ogni denaro lasciato presso i musulmani, non un deposito nello stretto senso legale.

 

9. Degli oggetti che, provenienti da musulmani, si trovino in mano di "harbî" munito di salvocondotto e norme relative.

9. Se uno "harbî" abbia fatto bottino, in paese di infedeli o meno, di oggetti appartenenti a musulmani o a "dhimmî", e, munito di salvocondotto, venga in paese musulmano per venderli, è riprovato, per altri che non sia l'antico proprietario, comprare le sue mercanzie di tal provenienza. (48) Ma una tale mercanzia diviene irrecuperabile per il primo proprietario, che non può più rivendicarla, per causa di essa compera fatta da altri, come anche per la donazione che ne abbia fatto, dopo introdottala nel paese musulmano, lo "harbî", contro il quale, protetto dal salvocondotto, il primo proprietario non può far valere alcun diritto. Ma quello che da uno "harbî" che dimorava in paese musulmano è stato rubato a noi, mentre fruiva del salvocondotto, e lo ha portato con sé nel suo paese, se quel che ha rubato sia fatto tornare e riportato nel nostro paese da qualcuno munito di salvocondotto, gli viene ritolto a forza, secondo l'opinione più ovvia; e se è il ladro stesso che torna e la riporta, gli vien tagliata la mano, nonostante il salvocondotto. Ma se lo "harbî" abbia preso prigionieri dei musulmani e, portatili seco, ritorni poi, munito di salvocondotto, nel nostro paese, non gli si tolgono questi musulmani liberi o schiavi che ha portato presso noi e che può riportare seco al suo paese. Questa è una sentenza di Ibn al-Qâsim; ma un'altra sentenza, pure di lui, vuole, concordemente ai compagni o discepoli di Mâlik, che si ritolgano loro pagandone il prezzo, (49) ed è la sentenza seguita nella pratica.

(48) Cf. Mud. III, 15 (cf. 18-19). La riprovazione si fonda su più considerazioni: perché sarebbe quasi un riconoscere nello "harbî" il diritto di divenir padrone delle cose dei Musulmani e trarne forza contro questi; perché, passato ad altri, s'impedirebbe al proprietario di ricuperare il suo, cui, per causa del salvocondotto, non può più riprender colla forza.

(49) Ovvero Ibn al-Qâsim restringe ciò alle femmine; cf. ad-Dasûqî, II, 168.

 

10. Delle persone (o cose) possedute da "harbî" che si fa musulmano.

10. (50) Lo "harbî" col farsi musulmano diviene proprietario legittimo di quanto è in sua mano, tolto o rubato, persone o cose, ad eccezione del musulmano libero che gli vien ritolto senza alcun compenso, e così gli oggetti trovati o rubati mentre già aveva il salvocondotto e quel che è accertato essere "waqf", come si ripetono da lui i debiti che aveva contratti, o i depositi. Ma la schiava in mano di uno "harbî" madre di figlio ("umm walad") dalla quale il primo padrone aveva avuto un figlio, deve esser riscattata dal primo padrone per obbligo, per il suo valore, e non ritolta senz'altro allo "harbî" che si è fatto musulmano. (51) Se il neo-musulmano abbia con sé uno schiavo "mudabbar" o uno affrancato a termine, tolti da lui ai rispettivi padroni prima di farsi musulmano, ritiene il primo, il "mudabbar" al suo servizio, finché muoia il primo padrone, e può, nel frattempo, cederne l'opera dietro mercede, e alla morte del primo padrone, il "mudabbar" è liberato sul 1/3 disponibile dell'eredità del detto suo padrone; se il 1/3 non sopperisca se non in parte, lo schiavo, col prestar l'opera al neo-musulmano, sconta il resto. E lo schiavo affrancato a termine serve il neo-musulmano fino al termine, e dopo di esso è liberato, e nulla si può reclamare da essi due ("mudabbar" e affrancato a termine) da parte del neo-musulmano al quale sono tolti senz'altro. (52) Venendo a morire il padrone di un "mudabbar", se i debiti che gravano sull'eredità assorbono, in tutto o in parte, il valore dello schiavo, questi segue a servire il neo-musulmano e l'erede non ha la scelta fra il consegnarlo e cederlo definitivamente a lui, ovvero prendersi lo schiavo pagandone il prezzo. (53)

(50) Mud. III, 18 seg.

(51) Il padrone non ne aveva che il godimento e quindi essa somigliava ad una libera; se il padrone non è ricco, resta sempre nell'obbligazione del riscatto al prezzo calcolato al giorno che lo "harbî" si è fatto musulmano.

(52) Quanto al "mukâtab", quando ha soddisfatto tutte le quote, egli è libero, e il diritto di patronato o "walâ'", va al padrone col quale aveva il contratto; se manchi agli obblighi del contratto, resta schiavo del neo-musulmano.

(53) L'erede ha questo diritto di scelta solo nel caso che lo schiavo "mudabbar" abbia commesso un delitto, come ferimento od altro ("jinâyah"); egli può pagare il prezzo di risarcimento e ritenere lo schiavo, ovvero consegnarlo a colui contro il quale è stato commesso il delitto.

 

11. Pene per chi rechi danno al bottino; divisione di questo; spoglie di nemico promesse a chi lo uccida.

11. Chi commetta fornicazione con donna facente parte del bottino è punito dalla pena determinata dalla legge "hadd" (fustigazione o eventualmente lapidazione) e così chi rubi alcuna cosa dopo che è stato raccolto e messo insieme il bottino; anche questi subisce la pena determinata dalla legge, cioè il taglio della mano. (54)

(54) Cf. Muw. II, 300.

Le regioni coltivate e conquistate colla forza ("`anwatan"), come Egitto, Siria e al-`Irâq, formano "waqf", per il fatto stesso della conquista, (55) a beneficio della comunità dei musulmani, e non si spartiscono fra combattenti, come il resto. (56) Le altre cose diverse da esse, dai terreni, come suppellettili, cavalli ecc. si dividono in 5 parti e si distribuiscono ai combattenti, purché siasi fatto impeto su di esse cose, combattendo, ad es., su cavalli o come che sia, e siano state prese con combattimento. (57) Ma l'imposta fondiaria "kharâj" di essa terra conquistata e il 1/5 di Dio e del suo Inviato, e la "jizyah", (56) o capitazione, sia che fosse imposta colla forza o convenuta amichevolmente, le decime dei "dhimmî" e simili proventi vanno all'erario pubblico, e l'imâm le spende ponderatamente, prima per la famiglia di lui, Maometto, i Banû Hâshim che non hanno parte nella "zakâh" (v. libro III, sez. I, § 19) su lui preghiera e salute, e quindi per opere vantaggiose per i musulmani, come costruzione di moschee, di ponti, spedizioni guerresche, retribuzioni di giudici, estinzione di debiti di poveri ed altre opere di beneficenza. Nello assegnare questi sussidi a vantaggio dei musulmani, dall'imâm si comincerà, da coloro nel cui paese le ricchezze (57a) provenienti dalla tassa fondiaria, dal tributo o "jizyah" o altri cespiti sono state raccolte, perché abbiano abbastanza di che vivere per un anno, quindi quel che rimane, si distribuisce ad altri. Ma se quei del detto paese non sono i più bisognosi, la maggior parte dei sussidi si trasferisce, si dà al paese ove sono i più bisognosi, mentre la parte minore resta per il paese dalle cui tasse provengono le ricchezze dette. E l'imâm può aumentare, (58) ricavando l'aumento da esso 1/5 della preda, e dare le spoglie di un ucciso (59) a chi creda dei combattenti, per qualche bell'atto di valore o di accorgimento militare o per incoraggiare. (60) Ma non è lecito (da alcuni s'intende che è riprovato) all'imâm di dire: «chi abbia ucciso un nemico ne avrà le spoglie», ovvero: «chi mi porti denaro o robe ne avrà 1/4», prima che sia finito il combattimento, cioè che non sia deciso a favore dei musulmani. (61) Ciò è proibito, o riprovato, perché il combattente invece di avere innanzi agli occhi il dovere religioso della Guerra santa e la ricompensa che ne avrà da Dio, avrebbe in mira un interesse mondano. Tuttavia la promessa, sebbene fatta prima della vittoria, è valida e ratificata se l'imâm non l'annulli prima di riunire insieme e spartire il bottino; l'annullamento posteriore non avrebbe effetto.

(55) Altri sostengono, e sembra con miglior fondamento, che il fatto della conquista non basti a rendere una regione "waqf", nel senso legale di questa parola. La questione volge su quello che dovrà fare l'imâm, se cioè spartire le terre come il resto del bottino, fra i combattenti, o sospendere, riserbandole (awqaf) per la destinazione che sia più vantaggiosa ai musulmani e non si tratterebbe del "waqf" legale. L'opinione che non si debba spartire, avrebbe per sé l'autorità di `Umar e dei primi Compagni; Maometto stesso non avrebbe spartito che le terre di Khaybar. Ma le case che si trovano in terra conquistata non si danno a fitto né si vendono (almeno secondo l'opinione più seguita), finché durano tali quali erano al momento della conquista e non siano state riedificate (cf. del resto ad-Dardîr, II, 168-169).

(56) Mud. III, 26-29.

(57) Anche se il combattimento non abbia avuto luogo materialmente, ma gli abitanti del luogo siano fuggiti all'arrivo dell'esercito musulmano. Ché se avessero abbandonato il loro paese prima che l'esercito musulmano fosse partito per la spedizione, o almeno prima di aver invaso il paese, tutto andrebbe all'erario pubblico.

(57a) Cf. Muw. II, 300.

(58) Mud. III, 29 s.; Muw. II, 299 (302).

(59) Questo soprappiù che dà l'imâm si chiama "nafal", e può essere "kullî", o totale, se l'imâm dica, per es.: «chi uccide un nemico, tutte le spoglie di questo andranno a lui», o "juz'î", parziale, se l'imâm nel combattimento dica, p. es. ad un combattente: «prendi in più questo dînâr» (cf. Mud. III, 29).

(60) Se tutti meritano un tale aumento, o si dà a tutti o a nessuno.

(61) Mud. III, 31, 41.

Spettano al solo musulmano (non al "dhimmî", salvo che l'imâm lo abbia permesso) il quale, dietro promessa dell'imâm di averne le spoglie, ha ucciso un nemico, le spoglie consuete di un combattente, come la corazza, la spada, la lancia, il cavallo cui cavalca o porta a mano, egli o il suo servo, la sella con gli ornamenti, le vesti che indossa e così via; ma non un braccialetto, né una croce, né oro o argento, per es., orecchini di oro, la corona sulla testa, né una bestia di cui non si serviva nella battaglia, ma che un suo servo portava a mano avanti a lui, per ostentazione. Chi ha ucciso il nemico ne prende le spoglie consuete, anche se non avesse udita la promessa fattane dal comandante, per es. a causa della lontananza, ché basta che l'abbia udita una parte dell'esercito, e anche se siano stati numerosi i nemici uccisi dal musulmano il quale, in tal caso, prende le spoglie di tutti, salvo che il comandante abbia detto: «un nemico ucciso» e non più. (62) Altrimenti, se il comandante abbia detto ad un determinato combattente: «se tu, o tal di tali, uccidi un nemico, ne avrai le spoglie», e ne uccida più di uno, egli avrà le spoglie del primo ucciso, se si conosca chi sia, qualora l'imâm non abbia usato un'espressione generale, dicendo: «chiunque tu uccida, ne avrai le spoglie»; se ha ucciso due nemici, uno appresso all'altro, ha, secondo alcuni, la metà delle spoglie di ciascuno, secondo altri, meno della metà; se li abbia uccisi tutti e due nel medesimo tempo, ha, secondo alcuni, la metà delle spoglie di ciascuno, secondo altri, la parte maggiore. Ma le spoglie non vanno a chi abbia ucciso una donna e chi è come una donna quali un fanciullo, un vecchio cadente e simili, le persone, cioè, che non è permesso uccidere (v. sopra § 3, nn. 1-7); qualora però la donna o le altre persone dette, non abbiano combattuto contro i musulmani colle armi alla mano, o ne abbiano ucciso qualcuno, nel qual caso le spoglie vanno a chi le ha uccise.

(62)

 Invece di

si vorrebbe leggere

vale a dire: se non abbia determinato, indirizzandogli la parola, il combattente cui fa la promessa.

Le due condizioni, che le spoglie siano le consuete e proprie di un combattente e che l'ucciso non sia una donna, un fanciullo e simili, legano il musulmano semplice come legano l'imâm, il quale inoltre non può avere le spoglie dell'ucciso che a due patti: a) che non abbia detto «chi di voi ucciderà un nemico ne avrà le spoglie», o b) abbia precisato se stesso, dicendo: «se io ucciderò un nemico, ne avrò le spoglie». Non vale nel primo caso, perché dicendo «voi» ha escluso se stesso, e neppur nel secondo perché ha abusato del suo potere, facendo parzialità in proprio favore. La cavalcatura sulla quale combatte il nemico, anche se sia un mulo e non un cavallo, fa parte delle spoglie; ma se il comandante abbia detto: «chi uccide il nemico che è sopra un mulo», egli ne avrà le spoglie ed il mulo, e le ha ugualmente insieme con la mula, se la cavalcatura era una mula, perché la parola "baghl" può comprendere anche la mula; ma se abbia detto: «il nemico che è sulla mula», e invece il nemico ucciso era sopra un mulo, questo non sarebbe compreso fra le spoglie. E così se il comandante dica: «il nemico sopra un asino», vale anche se sia sopra un'asina, ma non l'inverso. La cavalcatura appartiene come spoglia anche se sia portata a mano dal nemico o legata al suo braccio, non però se sia portata a mano dal suo servo, e non per esser cavalcata nella battaglia dal combattente.

 

12. Chi debba aver parte nella divisione dei 4/5 del bottino, e chi non possa averla; porzioni che spettano al cavallo.

12. L'imâm spartisce i quattro quinti rimanenti dopo detratto il 1/5 dell'imâm, a chi riunisca sette qualità:

1) sia sano di corpo;

2) sia maschio; non dunque secondo l'opinione notoria, una femmina, anche se abbia preso parte al combattimento, salvo il caso di un attacco improvviso del nemico ché essa allora ha l'obbligo individuale di combattere come i maschi; l'ermafrodito di cui è difficile determinare il sesso, riceve la metà;

3) che sia libero; lo schiavo non vi ha parte secondo l'opinione notoria, anche se abbia combattuto;

4) che sia musulmano; per il "dhimmî" cf. §§ 11 e 14.

5) che sia in possesso delle facoltà mentali;

6) che sia pubere; l'impubere non vi ha parte;

7) che sia stato presente al combattimento; prendendovi o no parte effettivamente.

Come costoro, così partecipano alla spartizione dei 4/5 il mercatante e il mercenario se abbiano combattuto, o almeno siano usciti insieme coi combattenti, coll'intenzione di prender parte alla spedizione contro gl'infedeli, e siano stati presenti nel combattimento, prendendovi parte o meno. Non partecipa alla spartizione chi è il contrario di esse persone di cui precede la menzione; non dunque le femmine, gli schiavi, gl'infedeli, non gli alienati di mente senza lucidi intervalli e così via, ancorché abbiano combattuto; ad eccezione dell'impubere in riguardo del quale evvi controversia, nel caso che abbia avuto permesso dall'imâm di seguire l'esercito, ed abbia realmente combattuto, avendone la forza. (63) A tutti costoro che non possono prender parte alla spedizione, non si dà loro neppur una piccola cosa presa, come il "nafal" (v. nota 59) sul 1/5 dell'erario, a discrezione dell'imâm. (64)

(63) Secondo il senso ovvio della Mudawwanah (e la sentenza è dichiarata notoria da Ibn `Abd as-Salâm) l'impubere non partecipa alla distribuzione dei 4/5, mentre la "risâlah" di Ibn Abî Zayd al-Qayrawânî ve lo ammette (ma cf. al-`Adawî, III, 132), purché abbia combattuto col permesso dell'imâm. Evvi poi una terza sentenza dichiarata notoria da al-Fâkihânî, che lo ammette se era nelle file stesse dei combattenti.

(64) Mud. III, 29-30, 33-34.

Del pari non partecipa alla divisione dei 4/5 e non ha neppure la detta piccola cosa sul 1/5 dell'erario:

1) chi muoia (uomo o cavallo, v. appresso) prima della mischia e del combattimento, ancorché dopo che l'esercito era già entrato in territorio nemico;

2) il cieco, lo storpio e chi ha la mano paralizzata, arida o monca (salvo se giovino col consiglio o con accorgimenti militari);

3) chi è rimasto indietro nel suo paese musulmano e non è uscito colla spedizione, per alcuna faccenda che doveva sbrigare, se questa non dipendeva, non era nell'interesse dell'esercito;

4) chi si era sbandato (65) lungi dall'esercito, nel nostro paese musulmano, ancorché viaggiando in mare sia stato respinto (66) lungi dall'esercito per la forza del vento. (67) Vale l'opposto e si partecipa al bottino, per chi siasi sbandato nel paese loro, degli infedeli, e per un malato che si è trovato (65) nel combattimento, prendendovi parte, non impeditone dalla malattia, dal principio fino a che il nemico si volge in fuga. (68) Come del pari spetta la quota sui 4/5 al cavallo malato per un sasso penetratogli nell'unghia o a chi (uomo o cavallo) è caduto malato dopo essersi fatto sopra e presente al bottino riunito, per la spartizione; in caso diverso vi sono due sentenze. (69)

(65) Mud. III, 34-35.

(66) Il dalla qui sottinteso si fa uguale a radd.

(67) In questo caso di chi si è sbandato in paese  musulmano o, stando su una nave,è respinto dal vento, Khalîl segue l'opinione dichiarata notoria da Ibn al-Hâjib, seguendo Ibn Sha's; ma l'opinione prevalente (di Mâlik e Ibn al-Qâsim) è che le due classi di persone partecipino al bottino.

(68) Se la malattia gli ha impedito di combattere partecipa alla divisione solo se fosse persona di particolari attitudini di guerra, come comandante, colle quali poteva giovare ai musulmani.

(69) I vari casi si riassumono così: a) il malato che ha preso parte al combattimento prende parte anche alla divisione, in qualunque tempo sia caduto malato; b) la malattia è sopravvenuta quando il combattente aveva già innanzi a sé il bottino raccolto per la spartizione: egli vi ha parte anche se la malattia gli avesse proibito di prender parte alla mischia; c) la malattia sopravviene prima del combattimento o al principio di esso, ma prima che il bottino riunito insieme gli fosse dinanzi. Per questo caso vi sono due sentenze: l'una che ammette il malato a prender parte alla divisione, l'altra che glielo vieta.

E al cavallo (ma non eventualmente al mulo, asino o altra bestia che non recano nella battaglia il giovamento che reca il cavallo) spettano due parti uguali a quella del cavaliere, che ha una sola quota, mentre il cavallo ne ha due, per la grande fatica che sostiene, l'utilità che arreca e il timore che incute al nemico, (70) anche se in (o con) nave (71) e anche se si tratti di cavallo tozzo e corpulento, (72) all'opposto dei cavalli arabi puri, o nato di padre arabo ma di madre non araba o viceversa e quindi di razza inferiore, o cavallo piccolo, con i quali cavalli delle dette tre specie, si possa, a vicenda, far impeto innanzi contro il nemico e, per manovra di combattimento, fuggirsene indietro. E partecipa al bottino un cavallo malato, che al principio del combattimento era sano e poi è caduto malato, di cui si speri la guarigione e il potersene servire, e così un cavallo dato in "waqf", le cui quote vanno a chi ha combattuto su di esso, non a chi lo ha costituito in "waqf" né per acquistar i foraggi; (73) e così il cavallo rubato a forza dal bottino, le cui quote vanno a chi ha combattuto montato su di esso per altro bottino diverso, ma egli ne deve il prezzo di affitto all'esercito combattente dal cui bottino lo aveva rapito; ovvero lo ha tolto ad altri diverso dall'esercito, ad un qualche individuo musulmano, non dal bottino proprio di tutto l'esercito, e le due quote vanno a chi ha combattuto sul cavallo, e al padrone di questo va il prezzo di affitto; o lo ha tolto da esso esercito o individuo che ne faceva parte, e le due quote vanno al padrone, se questi non aveva altro cavallo per sé, o altrimenti vanno al rapitore che deve il prezzo di affitto al padrone. Nel caso di cavallo preso in affitto, le due quote vanno al combattente che lo ha preso in affitto, non al padrone.

(70) Cf. Cor. VIII, 62; Mud. III, 32-33. Il cavallo ha due quote anche se chi lo cavalcava non avesse avuto diritto alla quota per essere, ad es., uno schiavo.

(71) Mud. III, 32, 33; Muw. II, 308 (306). Il passo della Mudawwanah (III, 32, 11) al quale evidentemente si riferisce Khalîl, dice [...] che se i combattenti abbiano portato con sé cavalli sopra navi e incontrino il nemico e facciano bottino, i cavalli non perdono il diritto alle due porzioni, sebbene non abbiano preso effettivamente parte al combattimento, e ciò perché, in certo modo, si è raggiunto lo scopo indicato nel Corano d'incutere paura al nemico. Così par intendere anche al-Khirshî che paragona questo caso a quello della cavalleria che deve appiedarsi per la condizione del terreno e combatte a piedi, senza che per ciò si tolgano al cavallo le due porzioni. Ad-Dardîr intende: anche se il combattimento sia con (o su) nave, né ad-Dasûqî aggiunge alcuna glossa; ma al-Khirshî intende: quantunque i cavalli si trovassero in (o sopra) navi (az-Zurqânî: ).

(72) Così s'intende il "birdhawn" dagli Arabi o, in generale, cavallo di razza inferiore; mentre l'aramaico (siriaco) "bardônâ" (che alla sua volta deriva dal greco boúrdon, burdo), in tutte queste lingue significa piuttosto il mulo (cf. Mud. III, 33, 13).

(73) Se si tratta di un cavallo prestato, le porzioni vanno, secondo alcuni, a chi lo ha dato, secondo altri a chi lo ha preso a prestito. È poi da esaminare, dicono i commenti, il caso di uno schiavo che combatte sopra il cavallo del padrone, se cioè gli spettino le quote del cavallo.

Non si assegna quota: a) al cavallo magro o vecchio dal quale non si trae in guerra alcun giovamento; b) (74) al mulo, al cammello o ad un secondo cavallo cui porti con sé il combattente. Le due quote di un cavallo posseduto in società da due o più persone, vanno solo a chi ha combattuto, montato su di esso, che deve dare il prezzo di affitto proporzionale per la quota del suo socio o eventualmente dei soci. E se più soci hanno combattuto montati a vicenda sul cavallo posseduto in società, ciascuno prende parte delle due quote di bottino del cavallo, in proporzione. Chi (uno o più) si stacca dal grosso dell'esercito combattente, col permesso o meno dell'imâm o del comandante, e appoggiandosi all'esercito combattente fa, da sé, bottino, questo non appartiene solamente a lui, ed egli è considerato come esso esercito, grazie al cui appoggio ha fatto il bottino. (75) Altrimenti, se non deve il bottino che ha fatto all'appoggio dell'esercito, ma da solo è uscito dal paese musulmano per combattere, la preda che fa, come quella di chi esercita il ladroneggio, appartiene a lui. La preda fatta da un musulmano è soggetta alla detrazione del 1/5, ancorché sia uno schiavo, secondo l'opinione più giusta, quella di Ibn al-Qâsim, (76) ma, per comune consenso, non vi è soggetto un "dhimmî", un protetto ebreo o cristiano. Chi, facente parte dell'esercito e nel paese del nemico, ha fabbricato (non se semplicemente ha raccomodato) una sella o una freccia o altri oggetti, questi restano a lui per intero, e non se ne preleva il 1/5, siano essi molti o pochi, come è la sentenza notoria, contro quella di Sahnûn che vuole siano pochi.

(74) Mud. III, 32.

(75) La preda che fanno schiavi o protetti ("dhimmî") spetta all'esercito cui si appoggiano, salvo che lo uguaglino in forza o la vittoria sia dovuta a loro. La preda che fanno in assenza dell'esercito si spartisce con questo, come questo spartisce con essi la preda fatta in loro assenza; la preda del "dhimmî" specialmente non è soggetta alla prelevazione del 1/5.

(76) Secondo che si legge in ad-Dasûqî, non sarebbe noto chi abbia dichiarato tale sentenza più giusta; forse è l'opinione personale di Khalîl.

 

13. Modo di procedere nella spartizione del bottino.

13. Il procedimento regolare consacrato dall'esempio di Maometto e dei primi musulmani, è di spartire (77) il bottino quando tutto l'esercito è di nuovo riunito, nel paese di essi infedeli vinti; si affretta la spartizione, perché il bottino non vada disperso, perché ne abbiano piacere i musulmani e dolore gl'infedeli; qualora però non si tema un assalto nemico. (78) Vi sono poi due sentenze se l'imâm debba mettere in vendita gli oggetti formanti i 4/5 del bottino (non il 1/5 dovuto all'erario), per poter più esattamente spartire il bottino, ovvero possa, quando un'equa vendita sia possibile, fare come creda più utile, o vendere e distribuire il prezzo ricavato, o distribuire gli oggetti stessi. (79)

(77) Mud. III, 26 s.

(78) Cf. Mud. III, 12. Qui si nota, contro Khalîl, che egli non parla della necessità che un giudice sia presente alla spartizione del bottino, per decidere eventuali questioni.

(79) Questa sentenza è di Muhammad Ibn al-Mawwâz, l'altra di Sahnûn che, del resto, non fa della vendita un obbligo formale. Si obbietta che la vendita si farebbe in cattive condizioni e il prezzo sarebbe basso, ma si risponde che il basso prezzo può esser vantaggioso per gli aventi diritto che acquisterebbero a buon mercato (cf. Mud. III, 13).

Se l'imâm non mette in vendita ma distribuisce gli oggetti stessi, sarà da lui separata, per obbligo, ogni diversa specie degli oggetti del bottino per dividerli in 5 parti, ma, secondo l'opinione prevalente, (80) quando ciò sia possibile, o materialmente, per la quantità del bottino, o legalmente, che ciò non conduca, per es., a separare la madre presa schiava dal suo bambino.

(80) L'opinione sarebbe (almeno secondo i più) di al-Lakhmî e non personale di Ibn Yûnus, e allora la terminologia seguita da Khalîl vorrebbe si dicesse «lo scelto».

 

14. Del riprender che l'antico proprietario fa gli oggetti o schiavi poi passati nel bottino; norme relative.

14. (81) Un individuo determinato e ben conosciuto, anche se sia un "dhimmî" o protetto, ebreo o cristiano (perché ha gli averi garantiti dalla "dhimmah") il quale riconosca, fra gli oggetti del bottino prima della spartizione, qualcosa già da lui posseduta, prende prima di essa spartizione quello che è riconosciuto appartenere a lui e lo riprende gratis, senza dar alcun corrispettivo, a condizione che presti giuramento legale che l'oggetto è, ed è stato sempre, sua proprietà, e non lo ha mai venduto o donato. (82) Se questo proprietario è assente, gli si porta, a sue spese, l'oggetto riconosciuto per suo, se il portarglielo sia per lui più vantaggioso della vendita; altrimenti, se non è più vantaggioso, si vende a cura dell'imâm, a questo scopo (83) di fargli pervenire il suo, e gli si porta il prezzo ricavato, né egli ha diritto ad altro. (84) Se l'imâm o chi per lui abbia distribuito ai combattenti un oggetto di cui era stato riconosciuto il proprietario (presente alla spartizione o assente) e l'abbia fatto per ignoranza o deliberatamente, la spartizione da lui fatta non è valida e ratificata, secondo l'opinione migliore, e il proprietario dell'oggetto può riprenderlo da chi lo aveva indebitamente avuto, senza dover nulla, salvo che chi ha spartito, abbia interpretato il caso nel senso voluto da alcuni dotti, come al-Awzâ`î, che cioè tutto quel che possedeva un combattente infedele, passato poi al bottino, si deve presumere che fosse di sua proprietà, e quindi fosse divenuta sua proprietà anche l'oggetto già posseduto dal musulmano. Il quale perciò non vi aveva più diritto, né può ricuperarlo, se non pagandone il prezzo.

(81) Mud. III, 13 s. (cf. Muw. II, 301).

(82) Questo giuramento si chiama .

(83) In questo senso s'intende il (= ).

(84) In questo caso il proprietario assente non presta (secondo i più) il detto giuramento.

Gli oggetti appartenenti a musulmani o a "dhimmî" e trovati nel bottino, sono restituiti, non però se non sia determinato e conosciuto individualmente il loro rispettivo proprietario e il suo paese, e si conosca solo che era oggetto di musulmano (se sia per es. un Corano); in tal caso l'oggetto non  si trasporta altrove né si tiene in serbo per aspettare di conoscerne il proprietario, ma si distribuisce fra i combattenti. Ciò è l'opposto di quanto si fa per cosa smarrita ("luqtah"), che abbia scrittura o segno che la dimostri tale, o trovata nel paese nemico, da qualcuno dei combattenti; essa non viene spartita, ma tenuta in serbo, (85) per comune sentenza, e conosciutone poi il proprietario, gli si porta o si vende, secondo il caso.

(85) Ciò è contestato; cf. ad-Dasûqî, II, 174.

Se nel bottino e prima della spartizione si trovino schiavi da liberare a termine o schiavi "mudabbar", cioè affrancati post mortem e appartenenti a musulmani non conosciuti (o tali cui non convenga portare i detti schiavi, senza venderli), si vendono, non la persona, ma le opere (la sola cosa cui aveva diritto il padrone) dello schiavo affrancato a termine, e fino a questo termine, giunto il quale egli è libero; (86) e così si vendono le opere e non la persona del "mudabbar" o affrancato post mortem. (87) E così non si vende la persona, ma il contratto di "mukâtabah", del "mukâtab", né si dà a mercede, e quando abbia soddisfatto gli obblighi del contratto verso il compratore, egli è libero; altrimenti resta schiavo del compratore. Il diritto di patronato ("walâ'") passa poi alla comunità dei musulmani che propriamente lo ha liberato; ma se si ritrovi il primo padrone, il patronato passa a questo. Non si vendono i servigi di schiava resa madre dal padrone musulmano e non ritrovato e riconosciuto, perché questi non aveva diritto che al godimento, che non può esser sostituito da corrispettivo, e a piccoli servigi che non si tengono a calcolo. (88)

(86) Se sopravvenga il padrone, egli ha la scelta o di cedere lo schiavo o di riscattarlo, calcolamdo in detrazione del prezzo il servizio prestato. Se poi giunga il termine prima che sia soddisfatto il dovuto dallo schiavo, vi sono due sentenze sulla questione, se chi lo ha comprato abbia azione contro di lui; come pure vi sono due sentenze, se qualora lo schiavo abbia soddisfatto tutto prima del termine fissato, egli, fino allo spirare di questo termine, torni al suo padrone o resti presso colui nelle cui mani si trova.

(87) Per il "mudabbar" non si può fissare fino a quando dovrà prestare la sua opera perché, il padrone essendo sconosciuto, resta del pari sconosciuta la data della sua morte; si fissa quindi un termine, oltre il quale si può supporre che, secondo il caso speciale, il padrone non sia più in vita.

(88) Secondo alcuni, questa schiava diviene allora libera, ma si osserva che, in tal modo, vengono lesi i diritti del padrone, nel caso che questi fosse poi riconosciuto. La sentenza ovvia è quindi che si lasci stare come sta, e se sia venduta per ignoranza, e sopraggiunga e sia riconosciuto il padrone, questi la ritolga al compratore senza pagar nulla (cf. Mud. III, 15). - In questi casi di padrone non conosciuto, si richiede una prova legale, cioè la testimonianza di chi deponga che persone, cui egli nomina, gli hanno attestato che lo schiavo in questione era affrancato post mortem ovvero «a termine» dal rispettivo padrone, del quale le dette persone non gli hanno detto il nome, ovvero egli lo ha dimenticato.

Egli, il padrone musulmano o "dhimmî" ben riconosciuto, può dopo essa spartizione del bottino, fermare e riprendere, anche a forza, esso oggetto che si constati legalmente essere stato anteriormente suo, per il suo prezzo ricavatone, se era stato venduto, o, essendo stati distribuiti gli oggetti stessi, per il valore attribuitogli. Che se l'oggetto sia stato venduto più volte, passando da uno ad altro acquirente, egli lo riprenderà, secondo la notoria di due sentenze di Sahnûn, al prezzo della prima vendita, ma, secondo altri, anche ad altro prezzo.

 

15. Degli schiavi in via di manomissione che siano stati compresi nel bottino.

15. Quanto alla schiava madre di un figlio avuto dal suo padrone, se ignorandosene tal sua qualità sia stata venduta, e poi se ne ritrovi e riconosca il padrone, questi (se ne abbia i mezzi) viene costretto a forza a riprenderla e riscattarla al prezzo al quale era stata venduta o stimata nel fare i lotti del bottino, anche se superiore al suo vero valore. (89) Se il padrone è ricco, paga subito il prezzo; se non possiede nulla, resta nell'obbligazione e si ha azione contro lui in giudizio, salvo che muoia essa o il suo padrone. (90) Se ignorandosene la vera condizione e qualità rispettiva (91) siano venduti lo schiavo affrancato «a termine» o "mu'ajjal" e l'affrancato «post mortem» o "mudabbar", qualora se ne riconosca l'antico padrone, questi può riscattare, al prezzo o eventualmente al valore attribuito nella spartizione, lo schiavo affrancato «a termine» e l'affrancato «post mortem», di cui erano stati venduti l'opera o, ignorandosene la qualità, le persone, e questi ritornano al suo servizio e alla loro condizione anteriore e rispettiva di "mu'ajjal" o "mudabbar"; ovvero il padrone può lasciarli al compratore o rispettivamente a colui cui erano toccati nella spartizione, rilasciando al compratore ciò su cui ha diritto, cioè l'opera di ambedue. (92) Quanto al "mudabbar" che viene assegnato nella spartizione del bottino e di cui si venda l'opera, conoscendosi la sua qualità di "mudabbar" (o si venda la sua persona, qualora s'ignori), se il suo padrone, il "mudabbir", venga a morire prima che sia soddisfatto interamente per mezzo dell'opera prestata, il prezzo al quale lo schiavo era stato venduto o eventualmente stimato, egli è libero, se il 1/3 disponibile dall'eredità può comportare questo affrancamento; e quegli cui era toccato nella spartizione ha azione contro lui, schiavo "mudabbar", per la parte di prezzo rimanente dell'opera o della persona. Come vale il medesimo in riguardo di questa azione in giudizio, per un musulmano o un "dhimmî" che siano stati assegnati nella spartizione del bottino, ignorandosene la vera condizione, senza che abbiano scusa da poter addurre, consistente in alcuna circostanza o cosa che li giustifichi del non essersi fatti conoscere; perché, interrogati ed esaminati, hanno taciuto la loro condizione, pur sapendo che non potevano esser ridotti in ischiavitù; costoro sono liberi, ma si ha azione contro loro, per il valore per il quale sono stati assegnati nella spartizione. Se invece il loro silenzio fosse giustificato, per esser essi piccini o deboli di mente o simili cause, non si ha azione contro di essi per nessuna cosa.

(89) Mud. III, 15, 17.

(90) Nel primo caso il padrone non è tenuto a nulla, perché l'obbligo di redimerla, avendo lo scopo di liberare la sua persona, cessa colla morte di lei. Se poi muoia il padrone prima di redimerla, essa è incontanente libera, e il compratore non ha diritto su lei o la sua eredità.

(91) Se invece lo schiavo fosse stato venduto, ben conoscendone la qualità, il padrone lo riprende, senza sborsar nulla, da chi lo aveva comprato.

(92) Qui vi sono due sentenze nel caso che, spirato il termine, il padrone muoia prima che lo schiavo affrancato «a termine» abbia soddisfatto quel che doveva, se cioè si abbia azione o meno, contro il servo per quel che gli restava ancora a soddisfare.

 

16. Della condizione di questi schiavi e del loro primo proprietario.

16. Se l'eredità del primo padrone comporta solo parte della perdita per l'affrancamento di esso "mudabbar", questi resta in ischiavitù come schiavo parziale per il rimanente, presso colui in mano del quale si trova. E gli eredi del primo padrone defunto non hanno la scelta quanto al "mudabbar" (che resta schiavo ancora in parte o in tutto) o di rilasciarlo al secondo padrone o di riscattarlo (dando eventualmente la differenza che resta ancora a soddisfare) al prezzo al quale è stato comprato o rispettivamente stimato. (93) È l'opposto del caso di delitto ("jinâyah") commesso dal "mudabbar"; ché allora il secondo padrone lo consegna a colui in cui danno è stato commesso il delitto, e venendo a morire il primo padrone "mudabbir" e il 1/3 dell'eredità non comportando punto o non comportando se non in parte, l'affrancamento, l'erede ha la scelta: o rilasciarlo schiavo a chi ha sofferto dal delitto commesso dallo schiavo "mudabbar", o riscattarlo, dando quel che restava dell'indennità da soddisfare.

(93) Perché qui si tratta dello schiavo di cui ignoravasi la qualità di "mudabbar", e del quale è stata venduta la persona e non l'opera.

Lo schiavo "mukâtab" la cui persona viene compresa, per ignoranza della sua qualità, nella vendita  o nella spartizione o vien comperato in paese di infedeli, se, conosciutone il padrone, paga subito a chi lo ha comprato o lo ha ricevuto nella spartizione del bottino, il suo prezzo, al quale è stato comprato o valutato nella spartizione, torna al suo padrone nella condizione in cui era di "mukâtab", gli paga il pattuito nel contratto di "kitâbah" e va libero. Altrimenti, se non possa pagare, egli resta schiavo o sia che dal padrone che aveva diritto alla scelta sia stato rilasciato a chi lo ha comprato o ricevuto, o sia che sia stato riscattato; e il contratto di "kitâbah" è nullo. Tale è anche il caso di "mukâtab" che ha un debito cui non può pagare, o che si renda colpevole di delitto, e non possa darne il risarcimento ("arsh").

Colui che prende una cosa del bottino toccatagli in sorte e di qualunque specie: suppellettili, animali, schiavi ecc., se, in seguito, venga a sapere che la detta cosa era proprietà di persona determinata e riconosciuta, musulmano o "dhimmî", deve lasciare e sospenderne il disporne, affinché faccia scegliere al primo padrone una delle due cose: o di rilasciargli l'oggetto o di riprenderselo per il prezzo o la stima ai quali è stato venduto o assegnato all'attuale possessore. Ma chi, avendo avuto come parte di bottino uno schiavo o una schiava (o li abbia comprati in paese di infedeli) ne dispone contro quanto precede e libera definitivamente lo schiavo, ovvero genera un figlio dalla schiava, ciò è valido e resta ratificato; lo schiavo è libero e non può essere reclamato dal primo padrone, e la schiava è "umm walad" per il secondo. Come vale lo stesso per chi abbia comprato da uno "harbî" in paese di infedeli, il quale deve sospendere di disporre dell'acquisto; ma se ne disponga col generare un figlio dalla schiava o col manomettere schiavi di ogni specie o col vendere oggetti, tutto ciò è ratificato e valido, purché siano cose che egli non ha preso e comprato dal bottino coll'intenzione di restituirle al loro padrone, ma sì bene di ritenerle per sé. In caso diverso, se cioè le abbia prese con questa intenzione, e quindi abbia manomesso lo schiavo, o generato un figlio dalla schiava, vi sono, sulla validità o meno, due sentenze, e l'opinione negativa è la prevalente. Evvi poi incertezza fra i giuristi moderni sul ratificare nei casi suddetti la manomissione di schiavo affrancato «a termine», ma l'opinione affermativa è la prevalente. (94)

(94) Qui Khalîl è accusato di dir cosa inutile, perché se si ratifica la manomissione del "mudabbar", tanto più si ratificherà quella di schiavo affrancato «a termine».

 

17. Del ricuperare, e in qual modo, oggetti presi in origine a musulmani, poi donati o venduti da "harbî"; oggetti tolti a ladroni.

17. (95) Se alcuno vada in paese di infedeli ed uno "harbî" gli faccia dono di un oggetto (o glielo venda) tolto in paese musulmano o di uno schiavo preso pure in paese musulmano o fuggitone, se costui venga in paese musulmano portando seco quello che ha ricevuto, il primo padrone musulmano o "dhimmî" può riprendere il suo, che era stato dato ad altri in paese di guerra dallo "harbî" (o anche in paese di islâm, quando questo "harbî" vi stava non con salvocondotto), e il primo padrone lo riprende gratis, senza alcun corrispettivo. Ma se colui che ha l'oggetto o lo schiavo lo abbia comprato o ricevuto dallo "harbî" non a titolo, in ogni riguardo, gratuito, il primo padrone lo riprenderà dietro corrispettivo di esso prezzo o valore al quale chi lo tiene lo ha comprato o ricevuto. Ma, in tal caso, il primo proprietario riprende il suo, se non sia stato venduto da colui che lo aveva avuto dallo "harbî", o altrimenti non sia stato alienato, come in caso di schiavi, per manomissione o per figlio avuto da schiava, ché allora la vendita e l'alienazione, sebben fatta a suo danno, è ratificata, ed egli non può rivendicare l'oggetto o lo schiavo, che non si possono recuperare. Ma il primo possessore musulmano o "dhimmî" reclama da chi li ha rispettivamente venduti o manomessi il prezzo intero dell'oggetto o dello schiavo, se dallo "harbî" erano stati dati in dono gratuito, o il di più, se dati dietro corrispettivo. (96)

(95) Mud. III, 16 s.

(96) Se, p. es., chi aveva avuto l'oggetto dallo "harbî" pagandolo 10 dirham lo vende per 15, deve al primo possessore 5 dirham.

Nel caso di oggetto ecc. riscattato per opera di alcuno, dalle mani di un ladrone, di briganti o simili, l'opinione migliore e prevalente è che il primo possessore lo riprenda dalle mani di chi lo ha riscattato (salvo che questi lo abbia riscattato per possederlo, il che deve provare con giuramento), per l'importo del riscatto, qualora non vi sia modo di riaverlo o gratis o a prezzo minore. Secondo altri (Ibn Rushd), si riprende gratis, perché nel ladrone non si può supporre il possesso in buona fede.

Gli schiavi, quali il "mudabbar" e simili, come quello affrancato «a termine», se dal loro primo padrone sono stati rilasciati a chi ha dato un corrispettivo, ricomprandoli in paese di infedeli o riscattandoli dalle mani di ladroni, essi servono chi ha dato questo corrispettivo, finché sia compito tutto il servizio di ciascuno di essi, l'opera che doveva prestare, che è esaurita colla morte del primo padrone per il "mudabbar", o per il giungere del termine per lo schiavo liberato «a termine». I quali sono allora liberi se, naturalmente, il 1/3 disponibile dell'eredità sopporta l'affrancamento del "mudabbar", e se questi e il libero «a termine» abbiano soddisfatto tutto quello che dovevano a chi li aveva riscattati. Vi sono poi due sentenze sulla questione se da chi ha dato il corrispettivo per comprare o riscattare lo schiavo «post mortem» o l'altro «a termine» si abbia azione in giudizio contro di essi che non avevano soddisfatto quando sono manomessi  per la morte del primo padrone o per il giungere del termine, se abbia azione per riavere il prezzo intero o corrispettivo da lui dato, o solo per riavere quanto debito restasse loro a pagare, dopo detratto il valore da attribuire all'opera prestata; (97) la prima sentenza è di Sahnûn, la seconda di Muhammad (ibn al-Mawwâz).

(97) Questa è l'opinione seguita; nell'altra sentenza si sostiene che possa ripetersi l'intero prezzo, perché i servigi prestati sono un semplice usufrutto o beneficio lucrativo, da non calcolare nel prezzo di acquisto o capitale.

 

18. Dello schiavo che si fa musulmano.

18. (97a) Lo schiavo di uno "harbî" il quale schiavo si fa musulmano, mentre il padrone resta infedele, è libero, e del pari è libero lo schiavo, tanto se fugga in paese musulmano prima o dopo l'invasione del suo paese, restando tuttora infedele, quanto se, fattosi musulmano, resti ancora nel paese di guerra, e vi sia preso nel bottino da combattenti musulmani, il suo padrone rimanendo sempre infedele. E se venga in paese musulmano con averi, questi sono considerati sua intera proprietà, e non sottoposti alla detrazione del 1/5. Non così se, ancora infedele o già musulmano, esca dal suo e venga in paese musulmano dopo che il suo padrone si è fatto musulmano, ché allora egli resta suo schiavo ed è indifferente chi dei due sia stato primo a convertirsi; diviene libero per il solo fatto di avere abbracciato l'islamismo.

(97a) Cf. Mud. III, 22-24.

 

19. Coniugi facenti parte del bottino; norme se abbraccino l'Islâm; condizione dei loro figli.

19. Se due coniugi non musulmani siano catturati insieme o uno prima dell'altro (o solo la moglie, prima che il marito si faccia musulmano), il fatto di prenderli prigionieri distrugge (98) e annulla il loro contratto di matrimonio, ed è lecito aver rapporti sessuali colla moglie di questo infedele, dopo accertato che non sia gravida. Salvo il caso che il marito, abitando con salvocondotto in paese musulmano o venendovi, si faccia musulmano, e in seguito sia fatta prigioniera la moglie, la quale, prima che appaia la mestruazione (prima della quale si era fatto musulmano il marito), si faccia musulmana dopo la conversione di lui; in questo caso il matrimonio non è annullato ed essa diviene schiava musulmana convivente con libero musulmano. Ma se non si faccia musulmana, i due coniugi sono separati, perché sarebbe il caso di schiava infedele moglie di musulmano, il che non è lecito, né questi può aver rapporti con lei se non a titolo di suo padrone. Ma i figli grandi o piccoli, femmine o maschi di questo "harbî" convertito, concepiti prima della conversione, sono schiavi e gli averi sono del "fay'", cioè sono bottino dell'esercito straniero entrato a combattere nel suo paese (99) e ciò in ogni caso, siano i figli grandi o piccoli, sia il.padre rimasto nel suo paese o venuto in paese musulmano. Invece un figlio concepito dopo che il padre si è fatto musulmano non può, per comune consenso, essere schiavo. Ma non è "fay'" (bottino) in altro caso, se cioè uno "harbî" prenda e faccia schiava una libera musulmana o una protetta o "dhimmiyyah", e ne abbia figli, e poi l'una o l'altra o ambedue siano comprese nel bottino di musulmani; in tal caso i figli piccoli della "dhimmiyyah" catturata, e così della musulmana sono liberi e non fanno parte del "fay'" o bottino. (99a) Vi sono poi due interpretazioni della Mudawwanah se siano da considerare come "fay'" o bottino i figli adulti di una musulmana in ogni caso (come i figli della "dhimmiyyah") ovvero lo siano solamente se abbiano combattuto contro i musulmani. La prima interpretazione è di Ibn Shiblûn (per la considerazione che, se non hanno combattuto, erano però in grado di farlo), la seconda è di Ibn Abî Zayd al-Qayrawânî e di `Abd al-Wahhâb. ma i figli adulti di una "dhimmiyyah" sono, per concorde sentenza (Ibn `Arafah, Ibn Bashîr ed altri), bottino di guerra, e non è esatto che vi sia su ciò controversia. Se una schiava presa in paese musulmano dagl'infedeli e resa madre presso questi, è ripresa dai musulmani e fa parte del bottino, i figli di questa schiava grandi o piccoli che siano, avuti dal marito o da altri, appartengono, secondo l'opinione notoria, a chi la possiede, musulmano o "dhimmî" che sia, perché, riguardo a schiavitù o libertà, il figlio segue la madre, e riguardo a religione, stirpe (genealogia) e all'eventuale pagamento della "jizyah" segue il padre.

(98) Ovvero, con altra lettura, «tronca».

(99) Così s'intende qui la parola fay' : Khalîl è criticato per averla usata qui.

(99a) Cf. Mud. III, 18.

 

  SEZIONE SECONDA.

 

20. Chi possa imporre la "jizyah" e a chi possa imporsi; paesi che, anche pagando "jizyah", non possono essere abitati dagli infedeli.

20. Il patto di "jizyah" (100) è un permesso (di abitar paese musulmano come si dice appresso) che dà l'imâm, e non altri senza la sua autorizzazione, (101) ad un infedele maschio e ancorché (contro Ibn Rushd) (102) Coreiscita di origine, il quale sia nelle seguenti condizioni:

(100) Mud. II, 42-44; III, 46-47; Muw. II, 73 s.

(101) Dato non dall'imâm o senza la sua autorizzazione, non varrebbe; ma tuttavia impedisce di uccidere o ridurre in ischiavitù chi lo ha ricevuto, purché non si tema da lui qualche atto proditorio. Del resto il concedere la "jizyah" può esser doveroso per l'imâm, quando così richieda il maggior bene dei musulmani.

(102) I Coreisciti, nota Ibn Rushd, si sono fatti tutti musulmani, quindi un coreiscita infedele cui applicare la "jizyah" è un rinnegato e, come tale, rientra in altra categoria di cui si dice poco appresso.

1) che sia valido, lecito, secondo la legge, il prenderlo e ridurlo in ischiavitù, non quindi chi avesse già da prima un salvocondotto e avanti che questo spiri (salvo il caso che l'imâm voglia imporre la "jizyah" all'infedele che vuol fissare la dimora nel paese); non il rinnegato, che verrebbe così confermato nella sua apostasia, e così non il monaco e la monaca che sono liberi;

2) che debba per età e stato mentale osservare i doveri ("mukallaf"), non quindi un impubere fino a che e subito appena divenga pubere, né un alienato di mente fino a che e subito appena risani, senza aspettare che si compia l'anno, ma purché sia compito l'anno da che la "jizyah" è stata imposta agli altri adulti e che quegli che divien pubere fosse da un anno in paese musulmano, senza di che si aspetterebbe l'anno;

3) che sia libero, non quindi uno schiavo, anche in via di esser liberato come un "mukâtab", fino a che e subito appena sia effettivamente libero, non dopo un anno, come nel caso precedente, e purché fosse da un anno schiavo in paese musulmano;

4) che abbia i mezzi per pagare l'imposta, almeno in parte;

5) che dimori insieme con gente di sua religione, compresi i monaci che officiano le chiese (sono eccettuati i romiti che vivono separati dal mondo);

6) che non sia stato affrancato da musulmani in paese musulmano, all'opposto di chi è stato affrancato da non musulmani o da musulmani ma in paese di guerra.

Il detto permesso dell'"imâm" si riferisce a poter abitare in paese musulmano che però non sia la Mecca, Medina e altre località dello Hijâz riguardate ugualmente sacre, e non sia lo Yemen; (103) ma è lecito loro, agl'infedeli che pagano "jizyah", traversare lo Yemen e i paesi dell'Arabia per commercio, per sbrigare affari senza fissarvi dimora, e fermandosi, quando ne abbiano necessità per gli affari, tre o pochi più giorni. Questo permesso di abitare in paese musulmano è per il corrispettivo del danaro (104) che pagano per l'imposta di "jizyah".

(103) Ciò avrebbe origine da una tradizione o "hadîth" che vuole che non restino due religioni nell'Arabia propria - .

(104) Il  bi-mâ li  «con denaro» si fa dipendere anche da `aqd, cioè patto in dipendenza di denaro.

 

21. Importo e scadenza della "jizyah" per paese conquistato con trattato di pace.

21. L'importo della "jizyah" per lo "`anawî" o abitante di paese conquistato colla forza ("`anwatan") è di 4 dînâr di peso legale, dove corre moneta d'oro, ovvero di 40 dirham di peso legale (105) ove corre moneta di argento, annualmente (ogni anno lunare). Chi non possa pagare se non in parte, si esige da lui quanto può dare, e nulla si esige da chi non possa dar nulla, né vi è azione contro di lui, se poi divenga ricco. Se è luogo ove il pagamento non può esser fatto in oro o in argento, si fa, come è sentenza riferita a Sahnûn, con cammelli, bestiame minuto, beni mobili, e nella misura nella quale sia intervenuto l'accordo coll'imâm.

(105) Il peso legale del dînâr è un poco superiore a quello di Egitto; questo è di 18 "kharrûbah" o siliqua, e l'altro di 21 "kharrûbah" e 1,5/7. Invece il dirham legale è di 14 "kharrûbah" e 8,5/10, mentre l'egiziano è di 16 "kharrûbah".

È sentenza ovvia (secondo Ibn Rushd) che si esiga la  "jizyah" alla fine di esso anno (come vuole anche ash-Shâfi`î per analogia colla "zakâh", e contro Abû Hanîfah, secondo il quale si deve esigere al principio dell'anno). Così anche per il "sulhî" o abitante di paese occupato per trattato di pace, se nel trattato non sia stata fissata altra scadenza. Al povero è applicata una diminuzione, e la detta somma da pagare (quando si esige, non fin da quando viene imposta) viene ridotta nella misura cui egli possa pagare; né viene aumentata oltre la detta somma, a carico del ricco, che potrebbe dare di più.

Per abitante di paese conquistato con trattato di pace ("sulhî"), la "jizyah" è quello che è stato pattuito ed approvato dall'imâm o da chi per lui; che se l'imâm non lo approvi, si può far guerra contro i detti abitanti, anche se offrissero il doppio della somma fissata per lo "`anawî" o abitante di paese conquistato colla forza. Se le condizioni pattuite siano espresse in generale, né sia determinata la misura della "jizyah", questa è come la prima detta sopra per lo "`anawî", cioè 4 dînâr o rispettivamente 40 dirham. Ma l'ovvio (propriamente è questa l'opinione personale di Ibn Rushd) è che se l'abitante di paese conquistato per trattato di pace o "sulhî" paghi la prima somma, quella dell'abitante di paese conquistato colla forza o "`anawî" di 4 dînâr o 40 dirham, e l'imâm non ratifichi la convenzione, resti proibito all'imâm di muover guerra a lui, al nemico col quale era stata fatta la convenzione. Ma l'opinione seguita è diversa da questa di Ibn Rushd. Quando si prende la "jizyah" dalle mani dello "`anawî" o del "sulhî" si prende con atto di disprezzo (106) e ciò per obbligo, dando, per es., un colpo dietro la testa di chi paga la "jizyah", il quale, affinché non possa sottrarsi a quest'umiliazione, deve pagare personalmente e non per mezzo di un suo incaricato. La "jizyah" e l'atto di disprezzo decadono ambedue e cessano col farsi musulmano dello "`anawî" come del "sulhî"; (107) come è decaduto l'altro obbligo imposto da `Umar b. al-Khattâb, cioè le razioni di cibo da fornire mensilmente ai musulmani (2 "mudd" di grano mensilmente, e 3 "qist" di olio, per chi è in Siria ed in al-Khîra; per l'Egitto un "ardebb" di grano; per lo `Irâq 15 "sâ`" di datteri secchi) e di ospitare per tre giorni il musulmano di passaggio; questi gravami sono stati aboliti per far finire l'ingiustizia, le angherie dei governatori o altri le quali si verificavano nell'esigere le dette prestazioni.

(106) Per il versetto del Corano (IX, 29): "Combattete coloro che non credono in Dio e nel Giorno Estremo, e che non ritengono illecito quel che Dio e il Suo Messaggero han dichiarato illecito, e coloro, fra quelli cui fu data la Scrittura, che non s'attengono alla Religione della Verità. Combatteteli finché non paghino il tributo uno per uno, umiliati" (trad. Bausani). Lo scopo sarebbe altresì d'indurre gl'infedeli a farsi musulmani.

(107) Si fa questione se cessino anche col farsi monaco. Chi lasci accumulare più annate senza pagare la "jizyah", se lo faccia per isfuggire alla tassa, si esige da lui anche l'arretrato, ma se per povertà, non si esige neppure nel caso che poi divenga ricco.

 

22. Diritti degli "`anawî" sui propri averi; diritti dei "sulhî" nei vari casi; loro eredità.

22. Lo "`anawî" cui è stata imposta la "jizyah" è libero, può far donazione  o limosina del suo e disporne per testamento, ma se non ha eredi correligionari, l'eredità va ai musulmani. Chi lo uccida (se   l'ucciso sia maschio e "kitâbî", cioè ebreo o cristiano) deve 500 dînâr. Che se muoia o si faccia musulmano, solamente la terra coltivata che possedeva nella regione conquistata a forza, al giorno della conquista, spetta ai musulmani e non agli eredi, e il Sovrano può darla a chi vuole, mentre l'imposta fondiaria va all'erario pubblico. (108) E del pari vanno all'erario i guadagni da lui fatti prima della conquista, mentre i posteriori spettano a lui. E nella disposizione di legge per coloro coi quali è intervenuto trattato di pace ("sulhî") si distinguono 4 casi:

(108) Ma il terreno incolto e messo a cultura dallo "`anawî" passa agli eredi come gli altri averi di qualsivoglia specie essi siano e solo in mancanza di eredi va all'erario (cf. Mud. II, 43).

1) Se il patto di "jizyah" o tributo è complessivo e imposto sul paese in massa, senza distinguere e dire: su ogni "faddân" o iugero tanto, e su ogni persona tanto, la loro terra appartiene ad essi "sulhî" che ne dispongono come vogliono, né si aumenta il tributo per l'aumentare delle persone del paese, né si diminuisce per il loro diminuire. E possono anche disporre per testamento dei loro averi, e gli eredi li ereditano, la terra e gli averi, i quali, in mancanza di eredi, vanno ai correligionari, secondo le norme vigenti presso questi.

2) Se la "jizyah" è assegnata separatamente per ciascuna persona, dicendosi, per es., ciascuno deve tanto, mentre quella sulla terra è complessiva, ovvero di questa non si parli espressamente, essa terra appartiene a loro, ai "sulhî", che possono ereditarla, venderla ecc., salvo che uno di loro muoia senza eredi, nel qual caso le sue terre ed averi appartengono ai musulmani (all'erario pubblico) e non ai correligionari di lui o suoi amici, (109) e, in questo caso, in testamento, essi dispongono solo del 1/3, mentre  il resto va, per legge, alla comunità musulmana. Se abbiano eredi, dispongono dell'eredità intiera, e in questo caso aumenta la "jizyah" coll'aumentare di essi, e diminuisce col loro diminuire.

(109) Cf. al-`Adawî, III, 147.

3) Se la "jizyah" è imposta separatamente su essa terra, dicendo, p.es.: per ciascun iugero o "faddân" si deve tanto, o tanto sopra ciascun olivo, mentre è complessiva quella sulle persone, ovvero di queste non si fa menzione espressa, ovvero:

4) è imposta separatamente sopra ambedue le cose, per es. se si assegni sopra ogni "faddân" tanto e su ogni capo tanto, in ambedue i casi, 3 e 4, la terra appartiene ai "sulhî", i quali possono venderla a chi vogliono. In questo caso di vendita la tassa fondiaria "kharâj" (cioè quello che è stato imposto come tributo o "jizyah" sulla terra) è pagato annualmente dal venditore. (110) Se questi muoia o si faccia musulmano, la tassa decade per lui come per il compratore.

(110) Secondo al-Khirshî (III, 147), sarebbe oggetto di ricerca se, morendo il venditore, l'imposta si possa ripetere dal compratore o dagli eredi. Khalîl non menziona nel secondo caso (quando il tributo sia assegnato distintamente sulle persone e complessivamente sulle terre, o non si faccia menzione di queste) chi debba pagare il "kharâj". Karîm ad-Dîn propone la questione se sia da pagarsi dai "sulhî" in comune.

 

23.  Cose permesse allo "`anawî" e al "sulhî" e cose loro vietate.

23. Lo "`anawî" può far sorgere e costruire una nuova chiesa nel suo paese conquistato colla forza o in città ivi fondata dai musulmani per essere abitata insieme da musulmani e "`anawî", se nell'imporre la "jizyah", siasi così pattuito e concesso dall'imâm, (111) ma altrimenti no,e gli è proibito, ma le chiese preesistenti sono rispettate anche se non vi sia patto espresso in proposito, come il restaurare chiese rovinate. (112) Al "sulhî" è lecito fare costruire una nuova chiesa, che ciò sia stato pattuito o meno, non però in città fondata da musulmani; come anche, secondo la scuola malechita, restaurare una chiesa ruinata, che questo sia stato pattuito o meno. E gli è lecito vendere l'area aperta, atrio ecc. di essa chiesa o alcun muro o parete, il che non è permesso allo "`anawî" in paese conquistato colla forza. Ma allo "`anawî" come al "sulhî" non è lecito costruire o restaurare chiese in paese di musulmani, in città fondate da questi, (113) o poi da essi abitate. Si eccettua, ché allora è permesso, quando ciò serva per evitare un danno maggiore.

(111) Questa tolleranza è a torto impugnata da ad-Dardîr e da altri, che vietano in ogni caso di costruire nuove chiese (v. ad-Dasûqî, II, 181).

(112) Il «come» può riferirsi a tutta la proposizione e intendersi che sia lecito quando sia pattuito, altrimenti no; ovvero al «no», che non sia lecito in alcun modo, ed il patto, se ne esistesse, sarebbe nullo; questa seconda sarebbe, secondo ad-Dardîr, l'opinione prevalente, ma non è esatto; v. ad-Dasûqî, II, 181-182. Nelle città fondate da Musulmani (come sarebbe il Cairo) non si possono costruire chiese; ma, dice ad-Dardîr, per la loro «languida fede» i Sovrani di Egitto hanno lasciato che si costruissero.
Da ad-Dasûqî si riassume così: lo "`anawî" non può costruire nuove chiese nel suo paese conquistato, se ciò non sia stato pattuito, anche se gli abitanti della città siano tutti infedeli; ma in ogni caso, che sia stato pattuito o meno, può risarcire chiese preesistenti e rovinate. Il "sulhî", anche qui in ogni caso, può costruire chiese in città ove non sia alcun musulmano (secondo Ibn al-Qâsim e contro Ibn al-Mâjishûn, anche se ve ne sia uno) e in ogni caso può risarcire chiese ruinate.

(113) Al-Khirshî (III, 148) intende paesi o città in regione musulmana o fondate da soli musulmani o occupate da musulmani prima della conquista della regione, non le città fondate da musulmani dopo la conquista o insieme con infedeli.

È vietato al "dhimmî" o "sulhî" che sia, cavalcare cavalli o muli di prezzo (o riguardo ai cavalli, anche non di prezzo, secondo l'opinione seguita); usar selle o gualdrappe, anche nel cavalcare asini (114) e il procedere e andare nel centro di strada grande, salvo il caso che non vi si trovi nessuno a passare. Il "dhimmî" è astretto ad indossare un vestimento che lo distingua dalla foggia di vestire dei musulmani, e ne mostri a tutti la condizione di inferiorità. Il "dhimmî" è punito di pena correzionale ("ta`zîr") a discrezione del giudice: a) se ometta di stringersi ai fianchi la cintura "zunnâr"; b) se si mostri in pubblico il suo stato di ubriachezza, o mangiando del porco, o leggendo ad alta voce i libri d'infedeli fra i musulmani; e c) se mostri pubblicamente, facendo così oltraggio ai musulmani, la sua credenza su Gesù Cristo o altri punti contrari alla fede musulmana; questo fatto è passibile di semplice pena correzionale a condizione che non vi sia danno spirituale per i musulmani, tale che possa pervertirli e allontanarli dalla fede islamica; nel qual caso il patto stesso concesso dai musulmani sarebbe annullato; d) se lascino andar la lingua a parole sconvenienti, sebbene non oltraggiose, contro un musulmano o in sua presenza; e) se mostrino pubblicamente di bere il vino, portando alla vista di tutti i recipienti che lo contengono; il vino allora è versato in terra e nulla è dovuto per questo danno recato loro. Non così se non l'abbiano mostrato pubblicamente; in ogni caso non si possono rompere i vasi che lo contengono, perché formano parte dei beni che sono garantiti ai "dhimmî"; sono puniti altresì di pena discrezionale se portino vino da un paese ad altro; f) se battano pubblicamente le tavole di legno che servono di campane per radunare i fedeli cristiani; (115) il "nâqûs" viene spezzato, e nulla è dovuto da chi lo ha rotto: vale lo stesso per le Croci mostrate in pubblico nelle Feste o processioni cristiane. Inoltre i "dhimmî" non possono portare "kunyah" cioè nomi preceduti da Abû (padre) e simili, né è lecito ai musulmani prender parte ai loro accompagni funebri; perché nell'un caso e nell'altro si rende onore a loro. Sono vietate le unioni illegittime ("zinâ'"), ma non si vieta loro sposare figlie o madri, se sia ciò permesso dalla loro legge.

(114) Dovranno porre semplicemente una piccola gualdrappa sul dorso dell'animale e starvi sopra non cavalcioni, ma mettendo insieme i due piedi, o ambedue sul lato destro o ambedue sul lato sinistro dell'animale. I cammelli sono da alcuni equiparati agli asini, da altri ritenuti inferiori.

(115) Gli hágia xúla (in greco) o (in siriaco).

 

24. Cose per le quali il patto col "dhimmî" viene annullato.

24. Il patto col "dhimmî" resta distrutto, annullato, per sette cause:

1) se il "dhimmî" combatta contro i musulmani, non però se lo faccia contro l'uno o l'altro individuo musulmano e per legittima difesa;

2) se rifiuti di pagare la "jizyah" impostagli.

3) se si ribelli ai giudizi, alle sentenze e al disposto di autorità musulmane, mostrando pubblicamente e con superbia di non rispettarle o chiedendo l'appoggio di qualche musulmano prepotente, dal quale il giudice possa temere per la sua persona o gli averi o la dignità;

4) se faccia violenza ad una musulmana libera e contro la volontà di lei, e abbia rapporti sessuali con essa attestati da 4 (o 2) testimoni; non così se la libera sia annuente o se si tratti di schiava o di non musulmana, annuente o no, nei quali casi si applica la pena discrezionale, salvo che sia stato pattuito l'annullamento, qualora il "dhimmî" si renda colpevole di simile violenza;

5) se inganni lei libera e musulmana, facendole credere di esser musulmano e la sposi; ma se la donna non ignorava che egli era infedele, il patto non si annulla e i due vengono separati;

6) se vada spiando attorno e cerchi informarsi su i punti deboli del territorio dei musulmani, per isvelarli ai nemici;

7) se pronunci palesemente ingiurie contro un profeta, venerato come tale per concorde sentenza da tutti i musulmani, e recando così oltraggio a questi, con espressioni con cui egli non sia infedele, (115a) non sia non credente. E i dottori di nostra scuola hanno detto che una simile bestemmia che annulla il patto di "dhimmah" sarebbe come dire pubblicamente: «Maometto non è profeta!», ovvero: «non è stato inviato da Dio!», ovvero: «non gli è stato rivelato alcun Corano!», ovvero: «Gesù ha creato Maometto», ovvero: «povero Maometto! egli vi conta che è nel paradiso; oh come va che non ha potuto salvar se medesimo, quando i cani lo hanno mangiato, lo hanno morso alle gambe?». (116) Chi bestemmia a questa maniera è ucciso, se non si faccia musulmano. (117)

(115a) Questa sarebbe la traduzione letterale delle parole   in questo passo non chiaro. Al-Bannânî (copiato da ad-Dasûqî) intende che il "dhimmî" oltraggi il profeta venerato dai Musulmani con espressioni colle quali viene a professare, non la miscredenza che gli è tollerata in corrispettivo della "jizyah" (come sarebbe se dicesse pubblicamente che Gesù, che per i Musulmani è un semplice profeta, è figlio di Dio), ma la miscredenza che non gli è tollerata. Per l'oltraggio di questa seconda specie il patto si annulla, non per quello dell'altra, sebbene il "dhimmî" sia passibile di pena severa. Per altri invece colle parole    si intenderebbe la miscredenza tollerata.

(116) Queste parole sarebbero state pronunciate da un cristiano di Egitto, e Mâlik richiesto di un responso ("fatwâ") sulla pena meritata da costui, avrebbe detto che dovevasi ucciderlo e bruciarne il corpo.

(117) La minaccia di pena di morte può riferirsi a tutte le sette cause o alla sola bestemmia; ma, secondo molti, si uccide chi bestemmia, chi rapisce una libera musulmana e chi la inganna (nn. 7, 4, 5), ma chi svela i punti deboli al nemico, l'imâm può ucciderlo o ridurlo in ischiavitù. Per altre cose l'imâm può perdonare o esigere un tributo. Per chi combatte i musulmani si osservano le cinque regole (v. § 6, dopo il n° 13) seguite nel fare schiavi i prigionieri.

E se il "dhimmî", contro il patto, esca di paese musulmano e vada in paese di guerra, di infedeli, e poi venga preso dai musulmani, egli è ridotto in ischiavitù, o punito in altro dei modi detti, se però non gli fosse stata fatta ingiustizia nel paese musulmano per la quale si fosse deciso a fuggire. (118) Altrimenti, se gli è stata fatta ingiustizia (e su ciò si ammette come vera in giudizio la sua affermazione), non è ridotto in ischiavitù e torna come prima. Come è il caso se egli sia colpevole di brigantaggio (119) in paese musulmano, non mostrando di volere uscire dalla "dhimmah"; egli è giudicato come un brigante musulmano, e punito secondo i casi, colla morte, colla crocifissione o altra pena.

(118) Khalîl menziona espressamente solo il ridurre in ischiavitù, perché questo non è ammesso da Ashhab, il quale nega che il libero possa tornar di nuovo in ischiavitù.

(119) "Muhârabah" è qui nel senso poi divenuto comune di «brigantaggio». Cf. libro XXXVII, n° 84 s.

Se una schiera, un dato numero di infedeli, fattisi musulmani, facciano apostasia e quindi muovano guerra ai musulmani, se vengano vinti e presi, si giudicano come rinnegati musulmani originariamente, e non come "harbî" che hanno infranto i patti; si dà loro tre giorni di tempo perché si pentano, e trascorso inutilmente il termine, sono uccisi, se siano adulti, e i loro beni passano all'erario, quando sia eseguita la sentenza di morte. Le donne non sono condotte schiave, gl'impuberi sono senz'altro costretti a farsi musulmani. (120)

(120) Questa è la sentenza notoria (di Ibn al-Qâsim), mentre, secondo Asbagh, si dovrebbero seguire le norme di infedeli combattenti ed esser ridotti in ischiavitù anche i figli piccoli e le donne della famiglia.

 

25. Della tregua e sue condizioni; obblighi che impone.

25. L'imâm può fare una tregua (121) coi combattenti infedeli a quattro condizioni:

(121) Cf. Cor. VIII, 63.

1) che sia conclusa da lui stesso o dal suo luogotenente (secondo Sahnûn, può esser ratificata anche se conclusa da altri, purché giovevole ai musulmani);

2) che vada a vantaggio dei musulmani, o in generale o sul momento, se, per es., non possano nel momento fare guerra; se il vantaggio sta chiaramente nel far la tregua, è obbligatorio concederla, come è obbligatorio l'opposto nel caso che la tregua non sia vantaggiosa;

3) che non vi sia alcuna condizione viziata, sfavorevole, come la condizione che musulmani restino in prigionia presso gli infedeli, che una città di musulmani sia lasciata agl'infedeli, o che questi giudichino fra musulmani e infedeli; o anche con denaro; (122) salvo il caso che vi sia timore di maggior male per i musulmani, non accettando o rispettivamente non dando il denaro;

(122) Si può intendere che il denaro possa esser dato dall'imâm perché dai patti della tregua sia rimossa qualunque condizione sfavorevole, ovvero piuttosto che l'imâm non debba accettare una simile condizione, anche se gli sia offerto denaro dagli infedeli.

4) che non vi sia un termine fissato a priori per la durata della tregua, ma tutto sia lasciato al prudente arbitrio dell'imâm; ma si esorta che, quando non ne venga danno, la sua durata non ecceda i quattro mesi. Durante questo tempo si debbono osservare lealmente i patti della tregua, ma se l'imâm abbia sentore che essi, i nemici, agiscano perfidamente e siano traditori, egli allora rompe, per obbligo, i patti di essa tregua. E anche, per obbligo, li ammonisce, ammonisce  i nemici, che sono cessati i patti e che si appresta a ricominciare le ostilità. Ma se vi siano prove evidenti del tradimento, l'ammonimento non ha luogo.

È obbligo osservare fedelmente i patti anche se questi portino di dover restituire ostaggi di infedeli che si trovano presso i musulmani, ancorché (contro Ibn Habîb) siansi fatti musulmani, salvo che si fosse pattuito di non restituirli in questo caso (che non è ammesso da Ibn Habîb). Ma il restituire gli ostaggi fattisi musulmani è a condizione che gl'infedeli abbiano ostaggi musulmani, cui ritengano solo fino a quando i musulmani rimandino i loro. Le donne non si possono restituire. (123) Del pari si osserva il patto nel restituire chi, venuto presso i musulmani, siasi fatto musulmano, senza essere ostaggio, anche se sia un ambasciatore; ma purché gli ostaggi e le altre persone siano maschi, perché le femmine non potrebbero in niun caso restituirsi.

(123) Per il versetto del Corano IX, 10.

 

26. Del riscatto dei prigionieri e norme relative.

26. Un prigioniero convertitosi all'islamismo, e tanto più se in origine musulmano, deve essere riscattato, per obbligo, dall'imâm, prendendo prima di tutto (secondo Ibn Bashîr e Ibn Rushd),  il prezzo del riscatto dall'erario pubblico ("fay'"). Quindi, se ciò, per una o altra cagione, non sia possibile, o il denaro disponibile dell'erario non sia sufficiente, il prezzo si prende dagli averi dei musulmani, proporzionalmente alla ricchezza di ciascuno, cominciando dai compaesani, e, secondo Ashhab, anche se si dovessero prendere tutti i loro averi (purché ciò non rechi danno ai combattenti che vengano a mancare per tal cagione dei mezzi per comprar armi e altre cose necessarie alla guerra). E si prende o per intero o per la parte che l'erario non avesse potuto pagare; l'imâm o il suo luogotenente curano di raccogliere questo tributo; il prigioniero, se è ricco, vi concorre nella stessa misura degli altri musulmani. Quindi, se non si possa prendere dagli averi dei musulmani, il prezzo si prende dal suo avere, del prigioniero, se sia ricco. (124)

(124) Si prende il prezzo del riscatto sugli averi dei musulmani prima che sugli averi dello stesso prigioniero, per incitarli a combattere il nemico infedele, oltre all'essere in questo modo più facile il riscatto.

Se uno o più musulmani ma ben determinati (non la comunità di questi, o l'erario) sapendo o reputando che l'imâm non potrà prender il prezzo del riscatto dall'erario o dai beni dei musulmani, riscatti il prigioniero con animo di aver il regresso, ha il regresso per altrettanto di cosa simile fungibile o per il valore di cosa diversa, non fungibile, tanto verso il riscattato ricco dal quale esige subito il rimborso, quanto verso il riscattato povero avendo azione contro lui che resta nell'obbligazione di rimborsarlo, appena lo possa. Invece il riscattatore non ha regresso, se sappia o reputi che l'imâm può riscattarlo traendo il prezzo di riscatto dall'erario o dai beni dei musulmani; ma se ignori (e lo giuri) l'obbligo dell'imâm di riscattare nei modi detti i prigionieri, egli ha regresso. Ha luogo il regresso se l'individuo, o uno o più, che ha riscattato il prigioniero, non abbia avuto l'intenzione di fare una limosina al prigioniero, o se non era possibile la liberazione mediante somma minore di quella data. Se si è pagato più di quello che si poteva pagare, non vi è rivalsa sull'eccedenza del prezzo sborsato. Analogamente, se era possibile riscattare senza pagar nulla, non si ha rivalsa su nulla. Chi riscatta ha il regresso, ma non nel caso che il prigioniero sia suo parente in grado proibito, o suo coniuge cui abbia riconosciuto nel riscattare, esser tali, o il prigioniero sia tal parente che, in forza della legge, diviene libero per lui che lo riscatta e non può essere suo schiavo (come sarebbe il caso se il prigioniero fosse suo padre), anche se non sappia che è tale parente. Si eccettua il caso che il prigioniero abbia comandato a lui, a chi lo ha riscattato, di operare esso suo riscatto e il riscattato si obblighi verso lui al rimborso, (125) ancorché si tratti di parente in grado proibito o coniuge.

(125) Il prigioniero, nel comandare ad alcuno il suo riscatto, può obbligarsi al rimborso dicendo, per es.: «riscattami ed io ti restituirò il prezzo del riscatto»; ovvero può dire semplicemente: «riscattami!». Questa seconda formola basta, secondo Ibn Habîb, per dare diritto al regresso; ma, secondo altri, come al-Fadl, non basta, e il prigioniero deve esprimere l'obbligazione che assume. Khalîl segue quest'ultima opinione, né vi è bisogno di intendere il wa [=e] in senso di au [=o], come vuole ad-Dardîr.

Chi ha riscattato un prigioniero ha la precedenza, è privilegiato sugli altri creditori, ancorché (contro Ibn al-Mawwâz) ciò sia su averi che il riscattato possiede in paese musulmano, e diversi da quelli che si trovano in sua mano e riportati dal paese nemico. Se siano riscattati più schiavi di condizione diversa per ricchezza o altro, il riscatto è distribuito ugualmente, senza preferenza, su tutto il numero dei prigionieri, se i nemici ignoravano la loro diversa condizione di ricchi o poveri, di persone ragguardevoli o umili e così via. Se invece i nemici lo conoscano e per l'uno esigano somma maggiore che per l'altro, il riscatto è in misura differente. Nel caso di contestazione fra il riscattato e il riscattatore, il quale abbia diritto a regresso, si sta alla parola, confortata dal giuramento del prigioniero (qualora chi ha riscattato non abbia in suo favore una prova legale), e ciò tanto se il prigioniero neghi che sia stato sborsato alcun prezzo per il riscatto intero, ovvero quanto se neghi che lo sia stato per una parte di esso, (126) ancorché il prigioniero non fosse nelle mani di lui, che lo ha riscattato. (127)

(126) Il primo caso sarebbe se il prigioniero, a chi pretende averlo riscattato mediante prezzo, dica: «mi hai riscattato senza sborsar nulla», e l'altro lo neghi. Il secondo se il riscattato dica: «tu hai speso per me 10 dînâr», e l'altro sostenga averne spesi 15. Secondo altri, si sta all'affermazione, dell'uno o dell'altro, che sia più probabile, o altrimenti si ricorre al giuramento.

(127) Sahnûn (per analogia col pegno) vuole che si presti fede al riscattatore, se il riscattato si trovi nelle sue mani, mentre nell'altra sentenza (di Ibn al-Qâsim) si presta sempre fede al riscattato anche se sia nelle mani del riscattatore. Quindi si vorrebbe correggere il testo di Khalîl: «ancorché fosse nelle mani di lui» (  ).

È lecito riscattare prigionieri musulmani, cambiandoli con prigionieri infedeli, che si trovino in mano dei musulmani, sebbene tali che siano combattenti  capaci di combattere, qualora però il nemico non consenta a rilasciare i prigionieri musulmani se non a questo patto, perché il danno che potrebbero fare i prigionieri infedeli che, una volta liberati, tornassero a combattere, è eventuale, mentre il vantaggio di liberare prigionieri musulmani è reale e del momento. (128) E del pari è lecito riscattare dando vino o porci, secondo l'opinione migliore; in tal caso l'imâm ordina ai "dhimmî" di fornire e consegnare queste cose al nemico, e il prezzo si calcola detraendone l'importo dalla "jizyah" che i detti "dhimmî" devono pagare. Se ciò non sia possibile,  il vino e i porci si comprano direttamente dai musulmani, ché il "dhimmî", se si rifiuti, non si può costringere colla forza. Il musulmano che ha riscattato, non ha regresso verso un prigioniero musulmano o "dhimmî" per esso vino o porco o animali non macellati, secondo le norme legali. (129) Vi sono poi due sentenze sulla questione se sia lecito riscattare i prigionieri con fare il cambio di cavalli e stromenti di guerra, armi e simili oggetti, qualora però non si tema che i nemici ne abbiano aiuto a vincere i musulmani, essendo molti i cavalli e le armi. Ma Ashhab lo ammette, contro Ibn Habîb, anche se siano molti i cavalli e le armi. Per Ibn al-Qâsim ed altri è minor male redimere con vino e porci, che con cavalli e armi, perché col dare il vino non si reca alcun danno ai musulmani.

(128) Se però si temesse per i musulmani col liberare questi prigionieri, il cambio, secondo al-Lakhmî, sarebbe proibito.

(129) Se chi ha riscattato è un "dhimmî", ha regresso per il valore del vino, del porco o animali non macellati secondo la legge, se li teneva presso di sé, ovvero ha regresso per il loro prezzo, se li ha comprati; ma per il musulmano la distinzione non vale, perché non poteva legittimamente ritenere presso di sé vino o porci, né può ripetere che il prezzo al quale li ha comprati.
Ad-Dasûqî riassume la trattazione così (II, 184-185): Chi ha riscattato, ha regresso a 4 condizioni: 1) che sia una persona determinata e non l'erario; 2) che sapesse o reputasse che l'imâm non avrebbe riscattato il prigioniero con fondi dell'erario o con denaro raccolto fra i musulmani; 3) che non intendesse fare col suo riscatto una limosina; 4) che la liberazione del prigioniero non fosse possibile per altro modo.

 

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