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RÂMMOHAN RÂY E IL BRÂHMA-SAMÂJ
di
FÉLICIEN CHALLAYE
Râjâ Râmmohan Rây Bahâdur
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| da : Les philosophes de l’Inde, PUF, 1956, tr. it. di Carla Vitagliano: I filosofi dell’India, SAIE, Torino, 1959, capitolo XI. Considerando che il titolo risulta fuori catalogo sia in Francia che in Italia, che non so chi attualmente ne detenga il copyright (qualora mi venga comunicato sarò ben felice di indicarlo) e che questa pubblicazione su Web è fatta senza fini di lucro, ho riprodotto e rivisto il testo senza chiedere alcuna autorizzazione. Qualora però gli aventi diritto vi si opponessero, il testo naturalmente verrà eliminato. Dario Chioli
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Proprio alla fine del XV secolo e durante il XVI, l'attenzione di molti europei è rivolta all'Asia in generale e all'India in particolare. La curiosità e il gusto d'avventura non sono i soli motivi determinanti; spesso il desiderio principale è quello di conquistare una parte delle immense ricchezze che attribuirono un tempo a queste regioni remote alcuni viaggiatori, il più illustre dei quali fu il veneziano Marco Polo (1254-1323). L'aprirsi delle vie marittime permetterà di soddisfare tali diverse aspirazioni.
Il portoghese Vasco di Gama, attraverso il Capo di Buona Speranza, raggiunge Calicut, sulla costa di Mâlâbâr, nel 1498. Altri portoghesi lo seguono, nel XVI secolo. Poi, nel XVII secolo, è la volta degli inglesi e dei francesi. Questi due popoli si disputano l'India nel corso del XVIII secolo. Gli inglesi hanno la meglio e stabiliscono la loro dominazione sull'India.
Assieme agli avventurieri, ai commercianti, ai militari e ai governanti, entrarono in India i missionari. Vi introdussero il Cristianesimo sotto diverse forme.
I padroni stranieri dell'India cercano, innanzi tutto, di sfruttare il paese nel loro interesse economico.
Ai lamenti della popolazione duramente oppressa, vogliono evitare d'aggiungere il malcontento di masse turbate nella loro fede religiosa. Si astengono generalmente dall'intervenire nella vita interiore delle religioni; a volte tendono perfino a sostenere, contro gli innovatori, gli elementi più conservatori e reazionari dell'Induismo e dell'Islam.
Tuttavia le idee ed i sentimenti il cui insieme costituisce la fede cristiana interessano talvolta gli indiani più progrediti. Abbiamo già visto il grande imperatore Akbar intrattenersi con i padri gesuiti portoghesi i quali, a un certo punto, sognano di convertirlo.
Gli spiriti indiani desiderosi di una vasta sintesi filosofica e religiosa saranno portati a introdurre, accanto all'Induismo e all'Islam, il Cristianesimo.
Sarà il caso dì Râmmohan Rây e del suo Brâhma-Samâj.
Râmmohan Rây (il nome è scritto anche Râm Mohan Roy) nacque nel 1772 a Bardvân, nel basso Bengala. Apparteneva ad una grande famiglia aristocratica: la parola Rây corrispondeva ad un titolo ereditario.
Benché brahmano di nascita, nato da padre vishnuita, fu nutrito, fin dall'infanzia, di cultura islamica. Fu educato alla corte del Gran Mogol, dove la lingua ufficiale era il persiano, e, ancora bambino, imparò l'arabo. In questa lingua conobbe Euclide e Aristotile. Subì particolarmente l'influenza del Sufismo, del quale praticò gli esercizi mistici.
Dai quattordici ai sedici anni imparò il sanscrito, a Benares, e studiò le opere filosofiche e teologiche indù. Secondo i suoi biografi indiani, ciò fu per lui come una seconda nascita.
Tuttavia, fu urtato da alcuni caratteri dell'Induismo. A sedici anni, pubblicò contro l'idolatria un libro in persiano, la cui prefazione era in arabo. Suscitò in tal modo l'indignazione del padre, che lo scacciò dalla casa paterna.
Per quattro anni viaggiò in India, poi nel Tibet. Vi studiò il Buddhismo ma si trovò in disaccordo con alcuni fanatici lama (preti buddhisti tibetani).
Perdonato dal padre, ritornò a casa a vent'anni, si lasciò convincere al matrimonio.
Animato da una curiosità sempre vigile, volle conoscere la civiltà europea e cristiana. Imparò l'inglese, poi l'ebraico, il greco, il latino. Si decise a collaborare con i governanti britannici per lottare contro quelle che giudicava le più urtanti usanze indù, il culto degli idoli e soprattutto la satî (uso di bruciare le vedove sul rogo del marito defunto). [*] Si racconta che dopo aver visto una giovane cognata morire di quella morte atroce, avesse fatto il giuramento di lottare fino all'abolizione di simile criminale istituzione.
[*] Più precisamente satî sarebbe la vedova stessa, che entri volontariamente nel rogo funebre del marito defunto. È facile capire gli abusi a cui una simile consuetudine, peraltro anche oggi tutt'altro che scomparsa, può dare luogo. Lord William Bentinck, lo stesso che soppresse i Thug, proibì tale pratica, allora particolarmente diffusa nel Bengala, nel 1829.
Venne, ancora, scacciato dalla famiglia, respinto da tutti i suoi. Visse una decina d'anni nella solitudine, guadagnandosi la vita come precettore, avendo solamente due o tre amici europei.
Alla morte del padre, ereditò una considerevole fortuna, si riconciliò con i suoi, fu nominato râjâ dall'imperatore di Delhi. Gran signore, dal nobile viso, era solito dare stupendi ricevimenti, con musicisti e danzatrici, nel suo palazzo e nei meravigliosi giardini di Calcutta.
Intanto continuava a studiare i Veda, che tradusse in bengalico e in inglese, e che commentò, ed anche le Upanishad e il Nuovo Testamento. Nel 1820 pubblicò un'opera intitolata I Precetti di Gesù, guida verso la pace e la felicità. [*]
[*] Per un elenco delle opere scritte da Râmmohan Rây cfr. http://www.thebrahmosamaj.net/founders/rammohun.html.
Si mise in rapporto con alcuni Unitari (questi cristiani protestanti sono partigiani di un'illimitata libertà; raccomandano una vita morale ispirata ad un cristianesimo senza dogmi, e penetrata di spirito panteistico; è «il miglior movimento religioso che abbia visto il nostro secolo», secondo Ernesto Renan). Râmmohan Rây fece parte per un po' di tempo di una Società di Unitari, fondata da un suo amico, il pastore Adam, che sperava di convertirlo. Ma non poté mai ammettere né la divinità di Gesù, né la Trinità.
Volle raggruppare assieme alcuni amici desiderosi di adorare il Dio invisibile. Dopo numerosi tentativi, riuscì, nell'agosto 1828, a fondare un'associazione religiosa destinata ad un grande avvenire, la Casa di Dio, il Brâhma-Samâj. Con lui collaborarono allora due grandi indiani che, dopo la sua morte, animarono e svilupparono la società: il nonno ed il padre di Rabindranâth Tagore, Dvârkânâth Tagore e Devendranâth Tagore (ne parleremo più avanti).
Il Brâhma-Samâj si votava «al culto del solo brahman senza pari, dell'Essere eterno, inaccessibile, immutabile, che è l'autore ed il conservatore dell'universo». La chiesa era una casa di preghiera, aperta a tutti gli uomini senza distinzione di colore, di casta, di nazione, di religione. Ogni sabato sera, dalle sette alle nove, vi si recitavano i Veda, si leggevano le Upanishad, si predicava sui testi vedici, si cantavano inni, con l'accompagnamento di un musicista musulmano. «Il culto doveva incoraggiare la contemplazione dell'Essere supremo, la carità, la religiosità, la virtù, e rafforzare il vincolo fra tutti gli uomini di tutte le fedi».
Râmmohan Rây iniziò ardenti campagne in favore di molte riforme sociali: contro la satî, che gli riuscì di far proibire dal governo inglese; contro la poligamia; in favore del matrimonio delle vedove e dei matrimoni fra le caste; per il riavvicinamento degli indù e dei musulmani; per un'istruzione moderna basata sulla scienza; per l'educazione delle donne; per la libertà di stampa. Fondò un giornale persiano ed un giornale bengalico; vi difese la causa della libertà politica per tutti i popoli dell'universo.
Nel 1830 fu mandato in Inghilterra, come ambasciatore, dall'Imperatore di Delhi. Giunto nell'aprile del 1831, vi fu accolto calorosamente anche a corte, divenne amico del filosofo dell'interesse generale Bentham, fece un breve soggiorno in Francia. Morì di febbre cerebrale nel settembre 1833, a Bristol, dove fu seppellito.
Romain Rolland (1866-1944), che gli dedicò alcune pagine commosse in un capitolo della Vie de Râmakrishna, intitolato Les bâtisseurs de l'Unité, di lui scrive: «Grande scrittore in sanscrito, bengalico, arabo, persiano ed inglese, padre della moderna prosa bengalica, autore di inni famosi, di poemi, di discorsi, di trattati filosofici, politici, di controversie in ogni campo, egli seminò a piene mani il suo pensiero ed il suo ardore... Questa personalità gigantesca,... quest'uomo straordinario, che aprì una nuova era nella storia spirituale del vecchio Continente, fu il prototipo in India dell'umanità universale».
Volendo rimanere, o desiderando sembrare, un Indù ortodosso, Râmmohan Rây invoca sempre in appoggio delle sue tesi i Veda ed anche le Upanishad, come pure la dottrina di qualche commentatore importante, per esempio il «famosissimo Shankara».
Proprio questi testi sacri egli invoca ed alcuni brani di questo grande filosofo quando difende il monoteismo e critica l'idolatria nella quale vede un ostacolo alla vita spirituale dell'India e l'oggetto di giuste critiche da parte di europei anche benevoli.
Secondo i Veda, per lo meno secondo «le parti spirituali» di tale opera, l'uomo è portato, per natura o per abitudine, a dare una forma visibile o tangibile all'oggetto oppure agli oggetti della sua venerazione e del suo culto, anche quando ammette di non poterli conoscere. Sempre tende ad umanizzare la divinità, Ne deriva un'idolatria, a volte grossolana, a volte raffinata, che induce sempre l'intelligenza a vane superstizioni.
Eppure, i testi sacri presero, contro simile spiacevole tendenza, ogni genere di precauzioni. Essi raccomandano all'uomo di rivolgere l'attenzione esclusivamente sugli oggetti che lo circondano, poiché, in simili ricerche, uno spirito non prevenuto non può non scoprire il Supremo Ordinatore dell'universo.
Il culto votato ai pianeti, agli elementi, ad astrazioni personificate, ad eroi divinizzati, è destinato, secondo i Veda, solamente ai deboli di spirito. Gli uomini di intelligenza superiore devono praticare una devozione tutta spirituale.
Râmmohan Rây denuncia energicamente l'immoralità degli dèi adorati dall'idolatra, un Krishna, per esempio, il più amato di tutti. La vita di queste divinità è «un seguito ininterrotto di dissolutezze, di sensualità, di menzogne, d'ingratitudini, di perfidie, di tradimenti». Che esempi per i loro fedeli! Alcuni difensori dell'idolatria sbagliano quando affermano che ciascuna di queste divinità rappresenta questo o quell'attributo del dio unico. Gli attributi non possono a questo punto essere disgiunti dalla sostanza. Hanno torto se pretendono che non si possa adorare Dio senza simboli materiali. I musulmani, dal più umile al più potente, i discepoli di Kabîr e di Nânak, i cristiani protestanti, almeno in Europa, non adorano forse Dio senza ricorrere ad oggetti consacrati? [*]
[*] È inutile in questa sede discutere quanto valore intrinseco rivestissero le interpretazioni di Râmmohan Rây. Certamente il tutto va valutato storicamente. Che le raffigurazioni, le icone, le immagini possano essere utili, molti lo hanno pensato, e molti potrebbero trovare grossolana l'interpretazione moralistica dei miti di Krishna. Bisognerebbe però mettersi al posto di Râmmohan Rây, e considerare che vedeva intorno a sé una tradizione in decadenza, che lasciava i parenti bruciare le vedove e i Thug strangolare la gente in nome di Kalî, una tradizione dunque intrisa di superstizione e assolutamente bisognosa di riforma.
In verità, esiste un Dio solo, ed è al di là di ogni percezione, di ogni descrizione, di ogni comprensione. Di Lui sappiamo soltanto che è l'Essere supremo, il Creatore, il Regolatore dell'universo. Se lo definiamo onnipresente, è solamente per affermare che egli è l'unico supporto del mondo esteriore e di tutto ciò che vi troviamo. L'adorazione di questo unico dio, la devozione dello spirito, l'amore verso i fratelli, la padronanza di sé: ecco i soli mezzi per raggiungere la felicità su questa terra, e poi la beatitudine eterna.
Alla morte di Râmmohan Rây, il Brâhma-Samâj declina. Tuttavia, Dvârkânâth Tagore, l'avo del poeta Rabindranâth, rimane fedele a questa società, e, con il suo appoggio, contribuisce a salvarla. Ma, nel 1846, muore durante un viaggio in Inghilterra, come Rây. «Questa doppia morte – scrive Romain Rolland – prova l'esistenza della corrente che trasportava verso l'Europa i primi piloti del Brâhma-Samâj ».
L'opera sarà ripresa dal figlio, Devendranâth Tagore (1817-1905); nobile personalità, dotata di molte qualità: bellezza, alta intelligenza, rara sensibilità poetica. Egli lasciò una autobiografia in bengalico e, in sanscrito, il Brâhma-Dharma, «manuale teista di religione e di morale per l'edificazione dei fedeli» (le due opere furono tradotte in inglese; l'ultima fu tradotta dal sanscrito in parecchie lingue dell'India). [*]
[*] Per un'analisi di tale opera cfr. http://www.thebrahmosamaj.net/liturgy/brahmodharma.html.
Fu Devendranâth a fare veramente del Brâhma-Samâj una nuova religione. Ne organizzò il culto, predicando egli stesso quando si sentiva ispirato; fondò una scuola di teologia per la formazione dei ministri del culto. Ispirandosi alle Upanishad, formulò in quattro articoli la professione di fede della nuova Chiesa:
I. – In principio era il nulla. Un Supremo solo esisteva. Egli ha creato tutto l'universo.
Il. – Egli solo è il Dio di Verità, l'Infinita Saggezza, la Bontà e la Potenza, l'Eterno, Colui che tutto penetra, l'Uno senza pari.
III. – Nel suo culto, nella sua adorazione risiede la nostra salvezza in questo mondo e nell'altro.
IV. – Il culto consiste nell'amarLo e nel fare ciò ch'Egli ama.
Il Dio di Devendranâth, Dio personale che non si è mai incarnato, è rivelato dalla natura e conosciuto per intuizione.
Nel 1862, Devendranâth Tagore, dopo un ritiro di diciotto mesi nello Himâlaya, prese come coadiutore un giovane di ventitré anni, Keshab Chandra Sen (1838-1884).
Keshab apparteneva alla classe dei medici, dunque alla borghesia, non all'aristocrazia. Educato in una scuola inglese, non aveva imparato il sanscrito e per tutta la vita lo ignorò. Profondamente mistico, soggetto a crisi di perdita di coscienza dovute ad un eccesso di devozione, aveva subìto profondamente l'influenza del Cristianesimo. Verso la fine della sua breve esistenza, ammise che «fin dai primi anni della sua vita, la Provvidenza l'aveva posto alla presenza di tre maestose raggianti figure del Divino: Giovanni Battista, Gesù, san Paolo». In una conferenza del 1879, dichiara: «Cristo, mio dolce Cristo, gioiello più splendente del mio cuore, monile della mia anima, da vent'anni lo amo teneramente nel mio cuore miserabile». D'altra parte, Keshab vedeva nella religione «la base delle riforme sociali»; già progettava di creare le istituzioni sociali che fece, più tardi, realizzare dal Brâhma-Samâj, per il servizio del popolo e l'istruzione delle masse.
Tali tendenze, opposte a quelle del gran signore Devendranâth assai più legato alle tradizioni indiane, provocarono fra i due una rottura, nel 1866.
Devendranâth prese la direzione del primo Brâhma, l'Âdi-Brâhma, che abbandonò più tardi per ritirarsi a Shântiniketan, il Soggiorno della Pace; Keshab fondò il Brâhma-Samâj dell'India.
La prima manifestazione di questo nuovo Brâhma-Samâj fa una conferenza di Keshab sul Cristo, considerato come una personalità asiatica, mal compresa dall'Europa. D'altra parte un posto motto importante fu dedicato nel nuovo culto al ricordo del grande mistico indiano Chaitanya.
Dopo un viaggio trionfale di Keshab in Inghilterra (1870), il carattere cristiano dell'organizzazione si accentua. Le riunioni hanno luogo la domenica. Il maestro vi officia, circondato da dodici apostoli. Si comunicano con l'acqua e il riso.
Un nuovo scisma avviene nel Brâhma-Samâj: si forma nel 1878 un Samâj anticristiano, il Sâdhâran-Samâj.
Alla morte del grande uomo, pianto da un'élite europea e da un'élite indiana (tra cui Râmakrishna, per cui cfr. Félicien Challaye, Râmakrishna e Vivekânanda), gli succede un discepolo, Pratâp Chandra Majumdâr.
Ma gli scismi successivi nocquero alla creatura di Râmmohan Rây. Nel 1921 il numero totale dei membri dei tre Brâhma-Samâj non supera i 6400. Mentre un'opera rivale, di spirito puramente indiano, e che preconizzava il ritorno ai Veda, l'Ârya-Samâj, creazione di Dayânanda Sarasvatî (1824-1883), conta, nella stessa epoca, 468.000 Indiani.
È interessante osservare come l'influenza di Râmmohan Rây si sia esercitata assai lontano dall'India, in modo particolare su un Europeo del quale trasformò la vita.
È quanto descrive Rabindranâth Tagore in alcune commoventi pagine della sua Religion du Poète (Parigi, Payot, 1924, pp. 124-129).
«Quand'ero giovane, – scrive Tagore – uno straniero d'Europa venne a stabilirsi nel Bengala. Egli volle abitare in mezzo alla gente del posto, dividerne la vita frugale, e generosamente offrì i suoi servigi. Trovò un impiego presso i ricchi, insegnando loro il francese ed il tedesco. Il denaro così guadagnato gli permetteva di aiutare gli studenti poveri a comperare i libri. Desiderando, a questo scopo, economizzare il più possibile, egli evitava l'uso dei mezzi di trasporto, camminando per ore sotto un sole tropicale. Alla fine, a causa dello strapazzo e del clima e di un ambiente straniero, si ammalò. Morì e fu cremato nel nostro forno crematorio secondo le sue ultime volontà».
Tagore fa discretamente osservare come questo essere pieno di modestia e di devozione, fosse diverso dagli altri europei, venuti in India in parte per arricchirsi, in parte «con l'intenzione professionale di inculcare fedi settarie».
Quest'uomo era uno svedese, di nome Hammargren, che aveva deciso di mettersi al servizio del popolo indiano dopo aver letto alcune opere di Râmmohan Rây. La sua ambizione, che non riuscì a realizzare, era quella di fondare una biblioteca per commemorare la memoria del grande indiano che aveva appassionatamente ammirato.
QUALCHE LIBRO E QUALCHE LINK
Cesare Cantù, Sulle religioni. Documenti alla Storia Universale, 3a edizione, Torino, 1841, pp. 450-472, riedito e rivisto su SuperZeko: Râjâ Râmmohan Rây Bahâdur, Dell'Unità di Dio tra gli Indiani.
http://sdstate.edu/projectsouthasia/loader.cfm?csModule=security/getfile&PageID=862914 – È qui riprodotto il testo A Defense of Hindu Theism del 1817.
Mahârshi Devendranâth Tagore, The Autobiography, ritrad. italiana di C. Zannoni-Chauvet dalla trad. inglese Satyendranâth Tagore: Autobiografia, Carabba, Lanciano, 1920, 2 volumi.
Romain Rolland, Essai sur la mystique et l'action de l'Inde vivante. La vie de Ramakrishna, 1929, trad. it. di Luciano Brandina e Francesco Maria Ricoveri: Vita di Ramakrishna. Saggio sulla mistica e l'azione dell'India vivente. Oscar Mondadori, Milano, 1992 [L'opera originale di Romain Rolland comprende anche una seconda parte divisa in due volumi, rispettivamente di pp. 189 e 252, intitolata La vie de Vivekananda et l'évangile universel, che però non è stata tradotta in italiano. Il titolo Essai sur la mystique et l'action de l'Inde vivante è quello dell'opera nel suo complesso], pp. 101 ss.
Félicien Challaye, Les philosophes de l'Inde, 1956, trad. it. di Carla Vitagliano: I filosofi dell'India. SAIE, Torino, 1959, capitolo XI.
Jan Gonda, Die Religionen Indiens. Der Jüngere Hinduismus, 1963, trad. it. di Giorgio Mion: Le religioni dell'India. L'induismo recente, Jaca Book, Milano, 1981, parte IV, cap. 2.
The English Works of Raja Rammohun Roy. Edited by Jogendra Chunder Ghose. Translated by Tuhfatul Muwahhiddin. Cosmo Publications, New Delhi, 1982.
http://www.thebrahmosamaj.net/ – il sito del Brâhma-Samâj.
http://bengalonline.sitemarvel.com/raja-rammohun-roy.html – Raja Rammohun Roy - Father of Modern India.
http://nichirenscoffeehouse.net/gen/rajah1.htm – The Life & Reforms of Raja Ram Mohun Roy Bahadoor.
[link aggiornati il 4/1/2012]
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