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Sommario del sito

RÂMAKRISHNA E VIVEKÂNANDA

di

FÉLICIEN CHALLAYE

aggiuntivi

UN BREVE RICORDO DI RÂMAKRISHNA E BIBLIOGRAFIA ITALIANA

di

DARIO CHIOLI

 


   

Shrî Râmakrishna

Shrî Râmakrishna


   

UN BREVE RICORDO DI RÂMAKRISHNA

   

Se, condannato ad una nuova forma di supplizio (o di felicità?), mi fosse imposta la cancellazione della memoria, e mi si concedesse però di mantenere il ricordo di cinque o sei personaggi per me particolarmente significativi, tra questi vi sarebbe sicuramente Râmakrishna.

Non già che io l’abbia potuto conoscere di persona, Râmakrishna morì infatti nel 1889, sessantasette anni prima che io nascessi, né ho conosciuto i suoi discepoli o qualche suo discendente. Non ne ho visto nessun video, allora non c’erano, c’è solo qualche vecchia foto, che ce lo mostra – lui spiritualmente quanto imponente – fisicamente mezzano.

Râmakrishna è entrato nella mia vita prepotentemente, nei primissimi anni settanta, con un libro che riportava i suoi insegnamenti, e che fu la prima cosa che io leggessi sulle tradizioni mistiche indù.

Sarà questo o non sarà questo, ma la sua figura mi si è indelebilmente impressa nell’anima, mi ha dato un imprinting, direbbe uno zoologo, e col passare degli anni sempre più mi vado accorgendo che nelle questioni spirituali tutto valuto attraverso una vasta griglia interpretativa che in gran parte non è infine se non la sua.

Certo la vita è diversa, diversa l’epoca e diversa ahimè la qualità. Circa quest’ultimo punto, gli indù se la cavano definendo i loro personaggi migliori incarnazioni divine (avatâr). In tal modo riescono a giustificare la propria eccessiva diversità di livello. A me, di origini cristiane (Gesù è un altro che certo non vorrei scordare), tale artificio non è concesso, e debbo pertanto sopportare di essergli inferiore e basta. Se poi Dio volesse un giorno concedermi un potente ausilio, sufficiente a compensare almeno in parte il divario, sarebbe certo un grande miracolo, che mi verrebbe assai gradito, ma che le mie sole forze non sembrano in grado di operare.

Pare difficile, eppure non si può disperare. Disperano infatti solo i pigri, quelli mediani, mentre i più pigri razionalizzano, definendo impossibile ciò che non vogliono fare. Io invece, ricordandomi di come Râmakrishna talvolta danzasse insieme con gli ubriachi, riconoscendo nella loro ebbrezza una somiglianza con la propria, confido che Dio non voglia essere assente neppure nelle ebbrezze mie. Lo spirito infatti soffia dove vuole, poiché non s’adegua alle vedute dei benpensanti, seguendo piuttosto il richiamo del desiderio, ovunque questo sorga, da chiunque gettato.

Qui di seguito, per onorare la memoria di Râmakrishna, riproduco dalla traduzione introvabile di un libro introvabile di Félicien Challaye due capitoli interessanti e ben scritti su di lui e sul principale suo discepolo Vivekânanda, sperando di riuscire utile (soprattutto spiritualmente) a qualcuno. Alla traduzione di Carla Vitagliano ho apportato solo qualche modifica marginale e qualche correzione.

Considerando che il titolo risulta fuori catalogo sia in Francia che in Italia, che non so chi attualmente ne detenga il copyright (qualora mi venga comunicato sarò ben felice di indicarlo) e che questa pubblicazione su Web è fatta senza fini di lucro, non ho richiesto nessuna autorizzazione per la pubblicazione in SuperZeko. Qualora però gli aventi diritto vi si opponessero, il testo naturalmente verrà eliminato. Ciò sarebbe tuttavia un vero peccato, che spero non venga commesso, di modo che si possa onorare, insieme alla memoria di Shrî Râmakrishna, anche quella di Félicien Challaye.

Dario Chioli
2001

   


   

SHRÎ RÂMAKRISHNA:

L'ARMONIA DELLE FILOSOFIE E DELLE RELIGIONI

   

II grande ideale umano che animava il Brâhma-Samâj ebbe, in India, altri notevoli rappresentanti: in primo luogo una personalità straordinaria, di forte originalità, grande bizzarria, intenso fascino: Râmakrishna. (*)


(*) Come testo francese, su questa vita singolare, si può leggere una conferenza tenuta a New York, nel febbraio 1896, dal suo massimo discepolo, Vivekânanda, dal titolo Mon Maître (traduzione Jean Herbert, Parigi, Maisonneuve, 1942); l'opera intitolata: Le visage du silence di Dhan Gopâl Mukerjî (traduzione di Gabrielle Godet, Parigi, Attinger, 1932); soprattutto la Vie de Râmakrishna, di Romain Rolland (Parigi, Stock, 1929).

N.d.C. - Per i testi in italiano vedi la bibliografia sotto riportata.

I suoi genitori, i Cattopâdhyâya, erano brâhmana, di stretta ortodossia e di estrema povertà. Capitava che sua madre digiunasse un giorno intero per poter soccorrere un povero.

Colui che sarà più tardi Râmakrishna, e al quale i discepoli daranno il titolo onorifico di Shrî, che esprime l'eccellenza di una straordinaria personalità, si chiamava originariamente Gadâdhar. Nacque in un villaggio del Bengala, Kâmârpukur, il 18 febbraio 1836. Una leggenda gli attribuisce il privilegio di una immacolata concezione.

Aveva sette anni quando gli morì il padre. Il fratello, per mantenere la poverissima famiglia, aprì una scuola a Calcutta. Gadâdhar vi fu educato. Ma ben presto gli studi che vi si facevano lo disgustarono. Ebbe la sensazione che questo insegnamento avesse il solo scopo di migliorare la vita materiale dei maestri e dei discepoli. Egli si interessava soltanto alle cose della religione. La famiglia decise di fare di lui un prete.

Una donna ricca e generosa, ma appartenente alla casta inferiore degli shûdra, aveva fondato, a sei chilometri da Calcutta, sulla riva sinistra del Gange, in un luogo chiamato Dakshineshwar, un tempio consacrato alla gran dea Kâlî, la Madre Divina, vasto edificio a cinque cupole con guglie, in un bel giardino. Per questo tempio, ella cercava un assistente. In India, dove i monaci erranti sono particolarmente onorati, la posizione del prete addetto ad un tempio è poco considerata: viene rimproverato a questi religiosi, che si lasciano rimunerare per tale compito, di far commercio di cose sacre. Gadâdhar era così povero che dovette accettare questa posizione, per umiliante che fosse.

Immediatamente, egli provò un amore appassionato per la dea alla quale l'assistente doveva dedicare le sue cure, destandola, vestendola, portandole cibi e fiori, svestendola, coricandola. Tuttavia un dubbio sorse in lui: esiste veramente al mondo una simile Madre di Beatitudine? Un giorno dopo l'altro egli si poneva questo grave quesito. A poco a poco trascurò il servizio nel tempio. Si ritirò a vivere in un boschetto vicino, meditando, piangendo. Aveva perduto ogni nozione di sé, sarebbe morto di fame se un suo cugino non fosse venuto a mettergli in bocca un poco di cibo. Un giorno benedetto, ebbe finalmente l'estasi che intensamente desiderava: «In me - disse più tardi ai suoi intimi - scorreva un oceano di gioia ineffabile. Fino al profondo, ero consapevole della presenza della Divina Madre». Kâlî, ormai, dirigerà tutta l'esistenza del suo fedele; gli confiderà, in alcune visioni, stupende rivelazioni.

Il giovane prete ricominciò a servire la dea nel suo tempio, secondo i riti, compiendo regolarmente il suo compito. Un giorno, mentre dalla terrazza contemplava il Gange, vide scendere da una barca una donna di circa trentacinque anni, alta e bella, vestita dell'abito ocra rossa che distingueva i sannyâsin (uomini o donne che hanno rinunciato al mondo). Appena ella vide Gadâdhar, gli disse piangendo: «Figlio mio, ti cercavo da tanto tempo».

Era una brâhmanî, di nobile famiglia e di eccezionale cultura. È conosciuta soltanto sotto il nome di Bhairavî Brâhmanî, la Suora Brâhmanî. Ella decise di essere la madre spirituale del giovane prete, visse presso di lui parecchi anni (tre anni secondo alcuni testi, sei secondo altri). Gli fece conoscere tutti i sistemi filosofici dell'Induismo, tutti i procedimenti dello Yoga, il vero significato della bhakti (l'adorazione religiosa). Ella riconobbe in Gadâdhar un nuovo avatâr, una nuova incarnazione del Divino.

Verso la fine del 1864, passò da Dakshineshwar uno strano monaco errante, Totâpurî (l'Uomo tutto nudo). Egli aveva fatto voto di non fermarsi mai più di tre giorni nello stesso posto; ma, date le circostanze, capì che valeva la pena di trasgredire al voto. Si fermò undici mesi. Offerse al prete di insegnargli il Vedânta nella sua forma più alta, quella dell'Advaita. Gadâdhar chiese ed ottenne da Kâlî l'autorizzazione a ricevere questo insegnamento. Totâpurî diventò il suo «guru vedantico». Gli conferì l'iniziazione nell'ordine dei sannyâsin, gli fece lasciare il nome ricevuto dai genitori, lo chiamò Râmakrishna. (*) A questi due nomi [Râma e Krishna], che evocavano le splendide incarnazioni umane del dio Vishnu, aggiunse quello di Paramhamsa (l'aquila che vola). Poi partì misteriosamente com'era venuto.


(*) N.d.C. - Cfr. Isherwood, Râmakrishna e i suoi discepoli, p. 61: "non si sa esattamente come e quando Gadâdhar avesse ricevuto quel nome. Su questo punto ci sono tre ipotesi. Secondo la prima erano stati i genitori… Questa congettura è molto dubbia; fatto sta che Gadâdhar, anche se possedeva un altro nome sin dall’infanzia, non veniva mai chiamato diversamente. La seconda ipotesi, avanzata da Sâradânanda, sostiene che Gadâdhar avesse ricevuto quel nome dal monaco Totâ Purî al momento della sua iniziazione… In base alla terza ipotesi – che è anche quella più accreditata – Gadâdhar venne chiamato per la prima volta Râmakrishna da Mathur Mohan, il genero di Rânî Rasmanî ".

Râmakrishna era allora un ometto bruno, magro, nervoso e fragile, con la barbetta, gli occhi obliqui un poco legati, un sorriso affettuoso e malizioso. Il suo viso, in alcune fotografie, dà l'impressione d'una maschera barbuta che potrebbe simboleggiare la benevolenza.

Ora egli era iniziato alle più alte speculazioni dell'India. Aveva voluto, per un certo tempo, condurre la vita dei fedeli appartenenti a questa o quella setta particolare, adoratori di Vishnu o di Râma. Aveva scoperto che, sotto nomi diversi, era onorato lo stesso dio.

Egli si chiese se la stessa verità gli si sarebbe imposta al di fuori dell'Induismo. Volle conoscere, attraverso un'esperienza intima, altre grandi religioni.

Verso la fine del 1866, dopo aver ammirato il fervore con il quale un umile musulmano era assorto in preghiera, gli domandò di iniziarlo all'Islamismo. Per parecchi giorni abbandonò il tempio di Kâlî, pregò, si vestì, si nutrì secondo l'uso maomettano, mangiò, si dice, cibi proibiti dall'Induismo, capì come si potesse aver orrore delle immagini e degli idoli. Devotamente ripeteva il nome di Allah. Un giorno, vide venirgli incontro il Profeta così come lo immaginava, personaggio serio e raggiante, dalla lunga barba, e se ne sentì penetrato.

Verso la fine del 1874, entrò in rapporto con alcuni cristiani. Per due anni, studiò la religione cristiana, si fece leggere la Bibbia da un traduttore, meditò sulla persona del Cristo. Se lo rappresentò come un Maestro Yogin, l'Amore incarnato. Un giorno, vide venirgli incontro un uomo dal viso bianco, dai grandi occhi belli, dallo sguardo sereno, che lo baciò e si fuse in lui. Capì che era il Figlio dell'Uomo, entrò in estasi, vi rimase tre giorni. Tornato allo stato normale, dichiarò che Gesù era un'incarnazione divina come Râma e Krishna. Così, dopo aver seguito lo stesso cammino dei musulmani e dei cristiani, aveva, al termine, ritrovato il suo Dio.

Talvolta, durante le sue meditazioni religiose, entrava in samâdhi, cioè in estasi: (*) le funzioni organiche si rallentavano o, temporaneamente, si arrestavano come in una specie di morte. Il suo spirito si perdeva in Dio.


(*)  N.d.C. - Molti studiosi rigettano tale identificazione, ma perlopiù solo in ragione della propria ignoranza della dottrina teologica dell’estasi, la quale è altrettanto complessa di quella indù sul samādhi.

Ben presto aveva scoperto che due ostacoli si oppongono alla vita religiosa (egli allora diceva: alla visione della Madre): l'idea del sesso e l'idea del denaro. Per escludere ogni preoccupazione del sesso, si vestì e parlò, per un certo tempo, come le donne, si dedicò a lavori esclusivamente femminili: in tal modo scomparve in lui ogni assillo sessuale. In ogni donna, anche in quelle più decadute, vedeva soltanto la Madre. D'altro canto, si era proibito di toccare del danaro: perfino durante il sonno, il contatto di una moneta lo metteva in uno stato per cui la mano gli si contraeva ed il corpo era come paralizzato.

Si fece una regola assoluta della rinuncia ed anche della benevolenza verso tutti. Decise di recarsi a compiere lavori domestici nella casa di uno di quei paria di cui tutti gli Indù ortodossi devono fuggire il contatto. Poiché il paria si rifiutava, Râmakrishna si introduceva di nascosto, la notte, nella casa maledetta, e spolverava i mobili con i lunghi capelli.

La fama del santo si era sparsa sempre più, migliaia di Indiani andarono a trovarlo, per ascoltarne i consigli, purificarsi e fortificarsi al suo contatto, riceverne la benedizione. Alcuni di questi visitatori sono noti: Keshab Candra Sen, del Brâhma-Samâj, che l'invitò a partecipare alle riunioni di questo gruppo, alle quali il santo talvolta si recò; e l'attore-autore Girîsh, ateo, ubriacone e dissoluto, che, dopo una lunga resistenza, finalmente si convertì.

Intorno a Râmakrishna si era radunato un numero crescente di discepoli. Per prima, sua moglie stessa, Sâradâdevî. Quando Gadhâdar, sconvolto dalla ricerca di Kâlî, aveva fatto temere ai parenti di impazzire, i genitori l'avevano sposato, secondo l'uso indiano, ad una bimbetta di cinque anni, che continuò a vivere presso la propria famiglia. Quando la fanciulla ebbe età da marito, si recò in casa dello sposo che ne aveva dimenticato l'esistenza. Egli le spiegò che vedeva in lei, come in ogni donna, soltanto la Madre e la pregò di aiutarlo a condurre una vita di purezza. Ella acconsentì. Però, un giorno, osò esprimere timidamente il desiderio di avere dei bambini. Râmakrishna le rispose che i suoi figli sarebbero stati numerosi, sarebbero venuti a lei da ogni parte del mondo. Sâradâdevî comprese, accettò, fu per tutta la vita la pura compagna del santo, gli testimoniò una devozione meravigliosa, fu, finché visse e dopo la morte di Râmakrishna, una madre per tutti i suoi discepoli.

Dedicheremo il prossimo capitolo al più famoso di questi discepoli, Vivekânanda. Riportiamo qui solamente il suo giudizio su Râmakrishna : «Alla presenza del mio Maestro, scopersi che l'uomo può essere perfetto, perfino in questo corpo. Le labbra del mio Maestro non hanno mai maledetto nessuno, non hanno mai criticato nessuno. I suoi occhi non avevano più la facoltà di vedere il male, il suo spirito non aveva più la capacità di percepire il male. Non vedeva null'altro che il bene. Questa immensa purezza, questa immensa rinuncia è l'unico segreto della sua spiritualità».

Citiamo ancora fra i discepoli Râkhâl Candra Ghosh, che divenne più tardi Swâmî Brahmânanda, e del quale Vivekânanda diceva che era «una montagna di spiritualità». Egli fu il primo Presidente-Abate del Monastero e della Missione di cui parleremo più avanti. Raccolse e pubblicò i suoi colloqui con Râmakrishna, che apparvero in francese sotto il titolo: Les Paroles du Maître [ed. orig.: Words of the Master (Selected Precept of Shrî Râmakrishna), Calcutta, 1924].

Nell'aprile 1885 Râmakrishna si ammalò di un cancro alla gola, che gli provocò forti sofferenze. Non volle ascoltare i medici, che volevano impedirgli la parola e l'estasi. Continuò a condurre la stessa esistenza di prima con ancor maggiore distacco e serenità. Il 15 agosto 1886, benché gravissimo, ebbe la forza di parlare ai suoi discepoli per due lunghe ore, svenne, si riebbe, diede a Vivekânanda gli ultimi insegnamenti, pronunciò tre volte il nome di Kâlî, entrò finalmente nell'estasi suprema.

La dottrina di Râmakrishna non ha nulla in comune con un gioco di concetti metafisici. Essa è l'espressione di un'esperienza, o meglio di alcune esperienze privilegiate.

Nell'introduzione alla principale Vita di Râmakrishna in lingua inglese, Gândhî scrive: «Le sue parole non sono quelle d'un uomo soltanto sapiente: esse sono pagine tratte dal Libro di Vita; sono le rivelazioni delle sue personali esperienze».

Tali esperienze gli hanno rivelato l'armonia profonda del misticismo e del Vedânta; e l'armonia profonda di tutte le religioni.

All'origine della sua vita spirituale, egli fu misticamente legato alla dea Kâlî, la Madre Divina, la Madre di Beatitudine. Poi, attraverso la Suora Brâhmanî, conobbe tutti i sistemi filosofici dell'India; attraverso il suo guru vedantico Totâpurî, comprese l'importanza particolare del Vedânta.

Nel Vedânta, egli non volle scegliere tra il monismo assoluto di uno Shankara e il monismo relativo di un Râmânuja. I due punti di vista gli sembrano legittimi. Secondo lui «l'unione tra l'Indifferenziato e il differenziato è l'oggetto proprio del Vedânta».

L'Universo fa delle differenziazioni, non è irreale; e bisogna pur tornarvi, quando riprendiamo l'involucro del nostro io, al cessare del samâdhi. Eppure, ben compreso, l'Universo potrebbe essere «una fonte di gioia».

Ma, oltre il differenziato, c'è l'Indifferenziato, l'Assoluto. C'è Dio; un dio nello stesso tempo impersonale e personale, Brahman e Kâlî.

In un suo colloquio, Râmakrishna dichiara:

«Quando io penso all'Essere supremo come inattivo, che non crea, non conserva, non distrugge, lo chiamo Brahman o Purusha, dio impersonale. Quando penso a Lui come attivo, creatore, conservatore, distruttore, lo chiamo Shakti, o Mâyâ, o Prakriti, dio personale. Ma la distinzione fra i due non comporta alcuna differenza. L'impersonale ed il personale sono lo stesso Essere. Come il latte ed il suo candore. Come il diamante ed il suo splendore. Come il serpente e lo strisciare per terra. Non possiamo pensare all'uno senza l'altro. La Madre Divina e il Brahman sono Uno».

E ancora: «Kâlî non è altro che ciò che chiamate Brahman. Kâlî è Shakti, l'Energia primitiva... Quando è inattiva, chiamiamo Ciò Brahman. Ma quando Ciò è in funzione creatrice, conservatrice distruttrice, allora chiamiamo Ciò Shakti o Kâlî».

Così concepita, Kâlî può essere considerata come la divina Mediatrice tra l'Infinito e il finito. Ormai, il pensiero filosofico s'identifica con l'emozione mistica. Râmakrishna celebra in questi termini la grande dea (torneremo più avanti sulle diverse strade che egli indica per giungere fino a lei):

«Sì, la mia Santa Madre è null'altro che l'Assoluto. Essa è nello stesso tempo l'Uno ed il Molteplice, e l'al di là dell'Uno e del Molteplice... La mia Madre Santa dice: Sono la Madre dell'Universo, sono il Brahman del Vedânta, sono l'Âtman delle Upanishad... Sono io, il Brahman, che ho causato queste differenziazioni... Dirigo tutti i Karman, buoni o cattivi... Venite a me! o attraverso l'Amore (Bhakti), o attraverso la Conoscenza (Jñâna), o attraverso l'Azione (Karma), che conduce a Dio. Ed io vi guiderò attraverso questo mondo, Oceano di tutte le opere... E vi darò anche la conoscenza dell'Assoluto, se vorrete... Non potete disfarvi dell'io né di Me. Anche coloro che hanno realizzato l'Assoluto nel samâdhi, tornano a me, per mia volontà...

La mia Santa Madre è l'Energia Divina Primordiale. Essa è dappertutto. È nello stesso tempo all'interno e all'esterno dei fenomeni. Essa ha procreato il mondo. E il mondo la porta nel suo cuore. È il Ragno; e il mondo è la tela che ha tessuto. Il Ragno estrae la tela dalla propria sostanza, e poi vi si avvolge. Mia Madre è contemporaneamente il contenente ed il contenuto. Essa è il guscio. Essa è la mandorla».

In India la dea Kâlî è spesso rappresentata danzante sul corpo del dio Shiva sdraiato sotto di lei. Râmakrishna dà di questa rappresentazione simbolica una splendida interpretazione:

«Bisogna che l'umanità muoia, prima che si manifesti la Divinità. Ma questa Divinità deve morire a sua volta, prima che abbia luogo la manifestazione suprema. Sul corpo della Divinità morta, la Madre Beata danza la sua danza celeste».

La manifestazione suprema, è la realizzazione dell'Assoluto:

«La Madre onnipotente, se vuole, toglie da ogni essere creato l'ultima traccia dell'io, e lo colma della conoscenza del Dio assoluto, indifferenziato. L'ego limitato, grazie a Lei si perde nell'Io senza limiti, l'Âtman-Brahman».

Questa concezione permette a Râmakrishna di esaltare, contemporaneamente, tutti gli uomini pii che, fin dal più remoto passato, onorarono l'India, ed anche gli adepti del gruppo religioso più recente, il Brâhma-Samâj:

«Onore allo jñânin! Onore al bhakta! Onore ai devoti che credono in Dio con forma! Onore ai devoti che credono in Dio senza forma! Onore agli antichi fedeli di Brahman! Onore ai moderni fedeli del Brâhma-Samâj!».

Dopo aver affermato l'accordo di tutte le tendenze animatrici delle concezioni mistiche e filosofiche dell'India, Râmakrishna trae ancora dalla sua esperienza l'idea che tutte le religioni possano condurre a Dio; che esista, fra tutte le religioni, una profonda armonia.

«Ho praticato, - dice Râmakrishna ai suoi discepoli - tutte le religioni: Induismo, Islamismo, Cristianesimo; ed ho anche seguito le strade delle diverse sette dell'Induismo... Ho trovato che tutte, per cammini diversi, si dirigono verso lo stesso Dio... Vedo che tutti gli uomini discutono, in nome della religione... Non riflettono che Colui che è chiamato Krishna è anche chiamato Shiva, che ha nome Energia Primitiva, Gesù o Allah!

Un solo Râma che possiede mille nomi!... Il serbatoio ha molte scale. Da una di esse, gli indù attingono l'acqua nelle brocche, e la chiamano jal; da un'altra, i musulmani attingono l'acqua in otri di cuoio, e la chiamano pânî, da una terza, i cristiani, e la chiamano water. Avremmo la pretesa che quest'acqua non sia jal, ma solo pânî, o water? Sarebbe ridicolo!... La sostanza è unica, ma porta nomi diversi. E tutti cercano la stessa sostanza! mutano solamente il clima, il temperamento e il nome!».

E ancora:

«Come possiamo salire sul tetto di una casa per mezzo di una scala, di un bambù, di una scalinata oppure in altri modi diversi, così sono molteplici le strade ed i modi per arrivare a Dio. Ogni religione nel mondo è una via per raggiungerlo».

Fra tutte le religioni, fra tutte le anime religiose, dovrebbe esistere una perfetta simpatia che escluda ogni controversia sui difetti ed i rispettivi meriti delle diverse fedi.

«Non discutete sulle dottrine e sulle religioni. Ce n'è una soltanto. Tutti i fiumi vanno all'Oceano. Andate e lasciate andare gli altri!... L'acqua si scava, lungo la china, secondo le razze, le età e le anime, un letto differente. È sempre la stessa acqua!... Andate! Scorrete verso l'Oceano!».

Un Indiano che si era sentito attratto dal Cristianesimo, si era convertito a questa religione straniera ed aveva acquistato fama di santità, dopo aver conosciuto Râmakrishna, si pentì della precedente apostasia, e dichiarò di abbandonare tutto per seguirlo. Si sentì rispondere:

«No, no, segui il tuo particolare sentiero, l'unico che vada bene per te. La Luce che oggi vedi in me sarà sostituita dallo splendore più abbagliante che un giorno Essa ancora diffonderà. Segui dunque il tuo sentiero, e non fermarti fino a quando non avrai raggiunto la meta».

Allo scopo di dare un'espressione visiva alle idee di Râmakrishna, un discepolo di Keshab dipinse un giorno un quadro simbolico, nel quale, sotto gli occhi di questi due maestri, Gesù e Caitanya danzavano insieme: alcuni indù, un musulmano, un sikh, un parsi, un confuciano, un anglicano osservavano con simpatia la scena, che si svolgeva in un paesaggio sullo sfondo del quale apparivano un tempio indù, una chiesa cristiana ed una moschea.

Fu chiesto un giorno a Râmakrishna se si sarebbero viste, in avvenire, altre incarnazioni di Dio. Egli rispose affermativamente:

«Chi siamo noi per chiudere la porta dell'avvenire di fronte al Dio che si avanza? L'avvenire è una matrice feconda di sorprese: se essa può partorire demoni e bricconi, perché non produrrebbe un Dio? Egli riapparirà molte volte. Riapparirà un tempo e sotto una forma qualunque, tutte le volte che gli uomini avranno bisogno di lui».

Râmakrishna diceva ancora: «Non cercate una religione! Siate religione!».

In che modo compenetrare di religione l'intera esistenza? Non si tratta, per tutti gli uomini indistintamente, di sfuggire al mondo: «Voi state benissimo nel mondo. Rimaneteci! Non è affar vostro abbandonarlo. Voi state benissimo come siete, oro puro e lega, zucchero e melassa... In verità, poco importa che viviate in famiglia o nel mondo, se non perdete i contatti con Dio».

E ancora: «Come una donna leggera pensa segretamente al suo amante e all'ora dell'appuntamento, pur continuando a compiere i suoi doveri casalinghi; così voi, capi di famiglia, dovete assolvere tutti i vostri compiti scrupolosamente, ma tenendo fisso il cuore a Dio».

Kâlî gioca all'aquilone con le anime. Essa le tiene attaccate al mondo con il filo dell'illusione. Si diverte a lasciar fuggire alcuni aquiloni, ma solamente uno o due su migliaia.

Non bisogna aver l'assillo della purezza. «L'eccessiva preoccupazione della purezza diventa una calamità. Coloro che sono colpiti da questa malattia non hanno più il tempo di pensare né agli uomini né a Dio».

Râmakrishna rimprovera ad alcuni cristiani ed anche ad alcuni indù di «vedere nel senso di colpa tutta la religione... Essi dimenticano che il senso del peccato caratterizza solamente la prima tappa e la più bassa della spiritualità... Gli uomini non si rendono conto della forza dell'abitudine. Se voi dite eternamente: Sono un peccatore, resterete peccatori per tutta l'eternità. Dovete ripetere: Io non sono legato... Chi può legarmi? Io sono il figlio di Dio, del Re dei re... È libero l'uomo che dice: Sono libero dalla schiavitù del mondo. Sono libero. Il Signore non è forse nostro Padre? La schiavitù è nello spirito. Ma anche la libertà è nello spirito».

Applicando lo stesso metodo, egli diceva ad un discepolo che si preoccupava eccessivamente di occultismo: «Se pensi sempre agli spettri, tu sarai uno spettro. Se pensi a Dio, sarai Dio. Scegli!».

Diceva ancora: «Dio non può mai apparire là dove sono la vergogna, l'odio, la paura».

All'inizio della vita spirituale dobbiamo vincere il desiderio della ricchezza e il piacere della lussuria. L'idea del denaro e l'idea del sesso sono i principali ostacoli alla vita religiosa.

Si aprono tre vie per giungere alla Spiritualità: quella dell'amore, quella della conoscenza, quella dell'azione. Sono tutte buone. Ma bisogna che questi modi di vita non rafforzino l'egoismo; essi devono aiutare l'uomo a liberarsene; a «spogliarsi dell'io per poter provare la realtà dell'Io divino».

Dobbiamo purificare da ogni desiderio egoistico il pensiero e perfino i nostri sogni (poiché il desiderio può introdursi nell'uomo anche quando è addormentato). Dio non è un mendico affamato che si accontenta di un'offerta mediocre: l'Infinito pretende l'infinito che è nell'uomo. Dobbiamo rinunciare ad ogni ambizione, terrestre e celeste. «Se, compiendo opere buone per ambizione terrestre, già guastate la vostra anima, creata per altri fini, le farete un male ancor maggiore agendo con la speranza di ottenere le ricompense celesti. La rinuncia a se stessi è il mezzo per sottrarsi non soltanto ai desideri terrestri, ma anche alle cupidigie celesti».

Solo quando l'uomo è veramente distaccato da se stesso può fare al prossimo un bene duraturo. Allora egli vede in ogni essere vivente il Dio sovrano, e come tale lo serve. Egli aspira alla salvazione di tutti e li aiuta a realizzarla.

«Quando un uomo spoglio di sé vive in mezzo a noi, i suoi atti diventano il palpito della virtù; tutto ciò che egli fa agli altri migliora persino i loro sogni più mediocri: tutto ciò che tocca diventa vero e puro; egli diviene il padre della realtà. E ciò che crea non scompare mai...

Dio è infinito e senza limiti; ecco perché la sua forza di creazione è senza limiti. Gli esseri che, rinunciando al loro piccolo io personale, si sono innalzati fino all'Io divino, sono i soli le cui opere non periranno mai».

Attraverso i corpi di simili uomini corrono slanci profondi di devozione. La vita umana diventa una perpetua adorazione.

Perciò «le due sole cose necessarie sono la fede e l'abbandono di sé».

Poiché Râmakrishna aveva predicato la rinuncia, i suoi discepoli pensarono di restare fedeli al suo spirito abbandonando il tempio nel quale egli aveva vissuto e che cadde in rovina.

Ma, sull'altra sponda del Gange, fondarono un importante monastero, del quale Dhan Gopâl Mukherjî ci lasciò una viva descrizione nel suo Volto del Silenzio:

«Una delle leggi che il Monastero ha eretto a principio è questa: Colui che pensa che Râmakrishna sia stato un santo è nella verità, così come colui che lo definisce un’Incarnazione di Dio».

Mukherjî, dopo un soggiorno nel monastero, confessa: «Sarò mai capace di descrivere anche soltanto una particella della gioia e della pace che mi avevano comunicato quei monaci in abito giallo?».

Questo monastero (detto math) non è l'unica fondazione della Missione Râmakrishna, che ha lo scopo di conservare lo spirito del santo. Questa Missione ha creato, al di fuori di ogni vita monastica, un gran numero di opere filantropiche, educative o missionarie (nel più ampio senso della parola).

Essa fondò ospedali ed asili. Il conte Keyserling (1880-1946), che ne visitò uno a Benares, scrive, nel suo Journal de voyage d'un philosophe (Parigi, Stock, 1928, I, p. 295) : «Non ho mai visto un ospedale dove regnasse umore così gioioso: la certezza della salvazione addolciva tutte le sofferenze, e l'amore del prossimo che animava gli infermieri era straordinario».

La Missione Râmakrishna ha rappresentanti in molte città dell'India e degli Stati Uniti, ed in altri paesi del mondo.

Lo spirito della Missione fu definito dal suo presidente, Swâmî Shivânanda, in una lettera rivolta allo scrittore Jean Herbert, autore di un'opera sul grande santo: (*) si tratta di «contribuire a far sì che i cristiani siano veri cristiani, gli indù veri indù, i maomettani veri maomettani, e i liberi pensatori siano pensatori veramente liberi».


(*) L'enseignement de Râmakrishna, cfr. la bibliografia sotto riportata.

Dal 1950 in Francia, il Centro Vedantico Râmakrishna ha la sede nel boulevard Victor Hugo, a Gretz (Seine-et-Marne).

Il suo rappresentante è lo Swâmî Siddheshwarânanda. Molti parigini ne conoscono il viso bruno, nobilitato dalla serena espressione, i grandi occhi scuri, il sorriso, il bell'abito giallo oro, il berretto quadrato dello stesso colore, i discorsi in uno straordinario francese, conclusi da una piccola preghiera, canterellata in una lingua indiana.

Siddheshwarânanda ha scritto: «La simpatia per tutti coloro che, in un modo o in un altro, conducono una vita spirituale, è il lascito che Râmakrishna fece al mondo moderno».

Félicien Challaye

da : Les philosophes de l’Inde, PUF, 1956, tr. it. di Carla Vitagliano: I filosofi dell’India, SAIE, Torino, 1959, capitolo XII.

Trascrizione elettronica e revisione di Dario Chioli

   

   

SWÂMÎ VIVEKÂNANDA:

LA RELIGIONE UNIVERSALE

II più grande discepolo di Râmakrishna è Narendranâth Datt, o più semplicemente Naren, detto, a partire da un certo momento, Vivekânanda, e qualificato con il titolo di swâmî (pronuncia: suami; titolo che, applicato ai membri di un'organizzazione religiosa, si potrebbe benissimo tradurre come reverendo).

Tranne che per quanto riguarda la vita spirituale e la dottrina, e per il fatto che ambedue sono originari del Bengala, maestro e discepolo sono agli antipodi sotto tutti gli altri punti di vista.

Prima di tutto dal punto di vista fisico. Râmakrishna era un povero essere gracile. Vivekânanda è un atleta, di alta statura, di forte peso, quadrato di spalle, largo di torace. Le sue sono le braccia muscolose di uno sportivo allenato a tutti gli esercizi. Il viso olivastro, dalla ampia fronte, dai grandi occhi scuri, e dalla robusta mandibola, spira impressionante maestà. Il portamento della testa è dominatore. Si vede in lui una bellezza leonina. La sua voce è (secondo la cantante Emma Calvé) «quella di un notevole baritono con vibrazioni di gong cinese».

Vi è antitesi, inoltre, dal punto di vista sociale. Il maestro era un brâhmana poverissimo, che ignorava tutto ciò che non fosse la religione, per lo meno durante la prima parte della sua vita. Il discepolo appartiene alla casta guerriera degli kshatriya, e ad una famiglia ricca. Possiede tutti i doni del corpo e dello spirito, e, fin dall'infanzia, li coltiva tutti. Sa ballare, nuotare, remare, fare la boxe, cavalcare. Ha studiato la musica vocale e strumentale, ed anche le matematiche, l'astronomia, la filosofia, le lingue dell'India e dell'Occidente. «Uomo universale, secondo i canoni di Leonardo e dell'Alberti», dice Romain Rolland.

Altra differenza, più sottile, negli intimi rapporti del cuore e dell'intelligenza. Vivekânanda disse di Râmakrishna : «Egli era tutto bhakta (credente per amore) al di fuori, tutto jñânin (che sapeva per intelligenza) al di dentro. Io, invece, sono il contrario».

Narendranâth Datt nacque a Calcutta, il 12 gennaio 1863. Suo nonno, uomo di legge, ricco e colto, a venticinque anni aveva abbandonato famiglia e posizione per diventare un semplice sannyâsin e ritirarsi nella foresta, di dove non era mai più tornato. Il padre, influenzato dal positivismo dell'Occidente, aveva perduto la fede, si abbandonava ad un sorridente scetticismo, conduceva una vita fastosa, interrotta da slanci generosi ispirati dalla pietà. La madre univa ad una vasta cultura tradizionale una rara delicatezza morale ed una illuminata religiosità. «Mia madre, - egli disse - fu la mia ispirazione costante, nella vita e nella mia opera».

Preso da interesse per il Vedânta, portato talvolta a meditare sull'Imitazione di Cristo, tra i diciassette ed i ventun anni attraversa una serie di crisi intellettuali e morali. È sconvolto dalla lettura del libro di Stuart Mill (1806-1873) Saggio sulla religione. Temporaneamente aderisce alle tesi di Herbert Spencer (1820-1903), al quale scrive. Secondo alcuni suoi storici, egli, in tre anni, avrebbe studiato un numero notevole di filosofi occidentali, ciascuno dei quali avrebbe richiesto lo stesso tempo per essere ben capito: Descartes, Spinoza, Hume, Kant, Fichte, Hegel, Schopenhauer, Auguste Comte e Darwin.

Invitato da Keshab Candra Sen, si fece iscrivere al Brâhma-Samâj, i cui giovani adepti vogliono l'unità delle grandi masse dell'India senza distinzione di caste e di fedi.

È preso da due opposti desideri, che si materializzano nei suoi sogni nel momento in cui s'addormenta: a volte si vede fra i grandi di questo mondo, in possesso di ricchezza e di potenza, ricolmo di onori; a volte immagina di rinunciare a tutte le cose della terra, si vede, coperto di un semplice perizoma, addormentato ai piedi d'un albero, vivere di elemosine, conquistando così la felicità suprema.

Ha poco più di diciassette anni quando, per la prima volta, incontra Râmakrishna, in casa di un indiano convertito al Cristianesimo, dove si è recato per cantare.

Dietro suo invito, si reca a visitare il santo nel tempio di Dakshineshwar. Râmakrishna lo prega di cantare, poi, improvvisamente, lo prende per mano, lo conduce in una veranda di cui chiude la porta, scoppia in lacrime, gli rimprovera di esser venuto molto tardi, di averlo fatto aspettare a lungo. Con le mani giunte, Râmakrishna annuncia al suo ospite che egli è l'incarnazione di un essere divino apparso sulla terra per salvare l'umanità dalla miseria.

Il giovane lo crede matto da legare. Tuttavia rimane turbato. Chiede: «Signore, hai visto Dio?». Si sente rispondere: «Sì, figlio mio, l'ho veduto. Lo vedo in verità così come vedo te davanti a me. Soltanto, io vedo il Signore con molta maggiore intensità, e posso mostrartelo».

Pur essendo attratto da Râmakrishna, il giovane resiste a lungo prima di cedere. A volte, moltiplica le obiezioni e le critiche. In altri momenti, il contatto del santo lo persuade che nulla esiste all'infuori di Dio.

La morte improvvisa del padre prodigo e dissipatore, getta nella rovina la famiglia di Naren. Per mantenere sette persone, egli cerca lavoro, senza trovarne. Abbandonato dai conoscenti, respinto dappertutto, conosce l'estrema miseria. Si rivolta contro Dio, ripete le parole di un suo contemporaneo: «Se esiste un Dio buono e pieno di grazia, perché milioni di uomini muoiono per la mancanza di pochi bocconi di cibo?».

Tuttavia, un giorno in cui non ha mangiato nulla, ed è sfinito e bagnato di pioggia, si accascia sul bordo di una strada. Ha, in quel momento, una rivelazione che spazza via i suoi dubbi.

Rispondendo ad un richiamo di Râmakrishna, si reca da lui a Dakshineshwar. Divide il suo amore per la Madre Divina, e finalmente accetta di diventare discepolo del santo.

Ne sarà il discepolo prediletto. Gli viene annunciato un alto destino religioso e morale: «Farai grandi cose nel mondo: darai agli uomini la conoscenza spirituale e consolerai la miseria degli umili e dei poveri».

Proprio Naren, Râmakrishna farà chiamare pochi giorni prima della sua morte; con lui solo ha un lungo colloquio; a lui trasmette tutti i suoi poteri; a lui, poche ore prima del supremo distacco, dà le ultime istruzioni.

Dopo la morte del Maestro, Naren riunisce i discepoli e li guida. Una sera, la vigilia del Natale 1886, racconta loro la storia di Gesù; insieme ad essi fonda un primo monastero, quello di Barânagore, presso il Gange.

Decide di prendere più stretto contatto con il suo grande paese che ancora conosce assai male, compie molti viaggi. Desidera fare un ritiro nell'Himâlaya, ma, giunto ai piedi dei monti si ammala. Un'altra volta, attraversa l'intera India, fino all'estremo sud, a piedi, avvicinando volta a volta i mahârâja, i pandit, la gente del popolo, i paria.

Scopre sempre più chiaramente la passata grandezza dell'India, e la sua presente miseria. La profezia di Râmakrishna sta per compiersi: «Un giorno, quando Naren entrerà in contatto con i sofferenti, i miserabili, l'orgoglio del suo carattere si scioglierà in un sentimento di compassione infinita». Il discepolo ripete una terribile frase del Maestro: «La religione non è fatta per i ventri vuoti».

Egli si chiede se non sarebbe il caso di chiamare il resto del mondo in soccorso dell'India, e di servirsi, a questo scopo, di un Parlamento delle religioni che deve esser tenuto a Chicago. Decide di recarvisi.

A due discepoli di Râmakrishna, incontrati pochi giorni prima della partenza, egli dice: «Ho viaggiato per tutta l'India, ed è stato un tormento per me vedere la povertà e la terribile miseria delle masse. Non posso trattenere le lacrime. Ora è mia precisa convinzione che è inutile predicare agli sventurati la religione, senza recar sollievo alla loro povertà e alle loro sofferenze. Per questo motivo, per salvare i popoli dell'India, sto per partire per l'America».

Durante i suoi viaggi attraverso l'India, e per dissimulare la sua identità, aveva spesso cambiato il nome, pur dichiarandosi sempre swâmî. Nel momento in cui saliva sulla nave, il mahârâja di Khetrî, amico suo, gli suggerì un nuovo nome, destinato ad esprimere il suo potere di discriminazione: Vivekânanda. Sotto questo nome, d'ora innanzi, Naren sarà conosciuto, e diventerà famoso.

Partito da Bombay il 31 maggio 1893, egli passa per Ceylon, Singapore, Hong-Kong, di dove si reca a visitare Canton; Nagasaki, di dove visita le grandi città del Giappone. Da Vancouver va a Chicago, poi a Boston. È stupefatto nello scoprire la potenza materiale dell'America.

L'11 settembre 1893 si apre a Chicago il Parlamento delle Religioni. L'alta statura ed il nobile viso del giovane indù attirano l'attenzione, come il suo smagliante costume, abito rosso, stretto in vita da un nastro arancione, gran turbante giallo contrastante con il nero dei capelli.

Nel suo primo intervento commuove i presenti con queste parole: «Fratelli e sorelle d'America!». Esprime il concetto che tutte le religioni conducono allo stesso Dio. È oggetto di un'ovazione. Nelle seguenti sedute, lo fanno parlare dieci o dodici volte. I giornali affermano che, indubbiamente egli è «la massima personalità al Parlamento delle Religioni».

Viene invitato a tenere un ciclo di conferenze attraverso gli Stati Uniti. Egli accetta. Talvolta le sue critiche alla civiltà occidentale, materiale ed inumana, esasperano gli ascoltatori. Spesso la sua idea di una Religione Universale suscita l'entusiasmo. Ad una élite di intellettuali le sue conferenze rivelano il Vedânta. Alcuni discepoli, uomini e donne gli si stringono intorno. Il filosofo William James (1842-1910) lo invita ad intrattenersi con lui.

Dopo tre anni di viaggi attraverso il Nuovo Mondo, Vivekânanda si reca in Inghilterra, dove, dal 10 settembre 1895 al 16 dicembre 1896 soggiornerà tre volte. Credeva di dover odiare il popolo che tiene oppressi i suoi compatrioti; invece prova per gli Inglesi stima e simpatia. Li ritiene «coraggiosi e costanti», li elogia per aver scoperto «il segreto dell'obbedienza senza servilismo e della massima libertà unita al rispetto delle leggi». Entra in rapporto con un maestro della indologia, Max Muller (1823-1900): «Vorrei avere - egli scrive - la centesima parte del suo amore per l'India».

Tiene delle conferenze che gli fruttano amici e discepoli. Una famiglia inglese, i Servier, decide di abbandonare l'Europa per andare, assieme allo swâmî, a vivere in India (faranno più tardi costruire un monastero nell'Himâlaya). Una giovane direttrice di scuola incontra il conferenziere indiano in casa di amici, poi lo fa parlare davanti alle sue allieve: ne è talmente affascinata che decide, a ventotto anni, di accompagnarlo in India. Prenderà il nome di Nivedita (colei che è consacrata), e sarà la prima donna occidentale accolta in un ordine monastico dell'India.

Vivekânanda, ammalato, va a riposarsi in Svizzera insieme ai Servier. Invitato dal grande indologo Paul Deussen, che vive a Kiel, visita la Germania, di cui ammira la potenza materiale e l'alta cultura. Ha interessantissimi colloqui con Deussen, che l'accompagna ad Amburgo, ad Amsterdam, a Londra. Conclude la sua visita dell'Europa con una rapida traversata dell'Italia, dove scopre la grandezza di Roma, e condivide la venerazione del popolino per le immagini della Vergine Madre e del Bambino.

Durante il ritorno in India, è oggetto di splendidi ricevimenti quando passa da Colombo il 15 gennaio 1897, poi soprattutto a Madras e a Calcutta. Al suo popolo lancia un messaggio invitandone la risurrezione: «India, sorgi!».

Si reca a visitare i discepoli di Râmakrishna, che avevano trasportato il loro monastero da Barânagore ad Alambâzâr, presso Dakshineshwar. Ad essi proibisce di pensare alla loro salvezza personale, esige che consacrino soprattutto i loro sforzi a lottare contro la miseria e ad educare le masse. Insieme ad essi, il 1° maggio 1897, fonda la Missione Râmakrishna, destinata a conservare lo spirito del Maestro, a lavorare al benessere materiale e spirituale delle masse, a creare uno spirito di mutuo aiuto e di simpatia fra l'India e l'estero, a realizzare la fraternità tra gli adepti delle diverse religioni, «forme diverse di una sola Religione eterna».

Per ispezionare le opere da lui fondate, fa un secondo viaggio in Occidente; dal luglio al dicembre 1900, Inghilterra, Stati Uniti, Francia, Austria; poi, dal dicembre 1900, Inghilterra, Stati Uniti, Francia, Balcani, Costantinopoli, Grecia, Egitto.

Dal 1° agosto al 24 ottobre 1900 visita la Francia, cioè Parigi e la Bretagna. Prende la parola in francese ad un Congresso della Storia delle Religioni, tenuto a Parigi, in occasione dell'Esposizione universale. Dedica la maggior parte del suo tempo alle chiese ed ai musei, allo scopo di approfondire la conoscenza della religione e dell'arte francesi. Così conclude le sue esperienze: «Parigi è il centro e la sorgente della cultura europea, il focolare di libertà che ha infuso nuova vita all'Europa».

Rimpiange, tuttavia, di aver visto l'intera Europa trasformata in «un vasto campo militare».

Tornato in India, ammalato, colpito contemporaneamente di diabete e d'idropisia, trascorre la maggior parte dei pochi mesi che gli rimangono da vivere nel monastero di Belur, dove, circondato di animali domestici, conduce una vita campestre. Ha la grande gioia di ricevere la visita del più famoso filosofo giapponese contemporaneo, Okakura, assieme al quale andrà a rivedere per l'ultima volta Benares.

Il 4 luglio 1902, si alza di buon'ora, va a meditare tre ore solo in cappella, canta un inno da lui composto in onore di Kâlî, mangia di buon appetito, tiene per tre ore lezione di sanscrito ai novizi, poi passeggia a lungo, s'intrattiene con i monaci, si stende, alla loro presenza, sul pavimento e muore, all'età di trentanove anni.

I discepoli che, l'indomani, lo portano al rogo, lanciando grida di vittoria, sono convinti che la sua morte sia stata l'atto estremo della sua potente volontà.

   

Râmakrishna, in tutte le religioni, in tutte le filosofie sufficientemente profonde, aveva scoperto, attraverso un'intima esperienza, il Dio unico. Il suo grande discepolo farà scendere sulla terra questo sublime ideale. Egli affermerà l'unità della specie umana e, da tale affermazione, trarrà tutte le conseguenze. All'America ed all'Europa, predicherà la Religione universale; all'India, l'azione sociale.

Il punto di partenza delle sue concezioni, il centro dal quale derivano ed al quale ritornano i suoi pensieri è l'idea di Dio.

«La parola Dio è stata applicata, da tempo immemorabile, all'espressione del concetto dell'Intelligenza cosmica e di tutto quanto vi è connesso di grande e di santo... Milioni di anime umane l'hanno identificata con tutto ciò che esiste di più alto e di migliore, con tutto ciò che è razionale, con tutto ciò che è degno di essere amato, con tutto ciò che è eroico e sublime nella natura umana».

Secondo Vivekânanda «Dio è la somma totale dell'Intelligenza manifestata nell'universo... Tutte le varie forme di energia cosmica, come Materia, Pensiero, Forza, ecc., sono le manifestazioni di questa Intelligenza cosmica».

Dio è immediatamente conoscibile. «Per vedere questa sedia, voi vedete dapprima Dio, poi la sedia, in Lui e attraverso Lui».

L'universo è Dio percepito attraverso la Mâyâ, dicono gli Indù; attraverso lo spazio, il tempo e la causalità, dicono gli Europei, discepoli di Kant. L'universo è un giuoco divino. «Non conosco concezione di Dio più sublime di questa: Egli è il Primo Poeta, il Poeta Sovrano. L'universo intero è il suo Poema, in rime e ritmi, scritti nell'infinita felicità».

Egli è l'Assoluto Impersonale, brahman, così com'è il Dio personale, Îshvara, ed anche Kâlî, la Madre.

Egli è in ciascuno di noi. Egli è ciascuno di noi, dietro le apparenze; l'uomo reale dietro l'uomo apparente; il grande Io dietro il piccolo io.

Vivekânanda riprende l'antica similitudine dell'onda e del mare. «Non c'è un'onda che sia in realtà diversa dal mare: che cosa produce quest'apparente diversità? Il nome e la forma; la forma dell'onda e il nome che le diamo. Ecco ciò che la differenzia dal mare. Quando scompaiono il nome e la forma, è sempre lo stesso mare. Chi potrebbe stabilire una qualunque differenza reale tra l'onda ed il mare? Così tutto questo universo è questa Sola Esistenza Unica... Non esiste che un Âtman, che un Io, eternamente puro, eternamente perfetto, immutabile, che non è mai stato mutato, che non ha mai mutato, e tutti questi diversi mutamenti nel mondo sono solamente apparenze di questo Io unico».

In che modo il piccolo io potrà scoprire nel fondo di se stesso il grande Io? come potrà l'uomo arrivare ad amare Dio, a penetrare in Lui?

Possiamo seguire strade diverse, che conducono tutte alla medesima meta. Per yoga intenderemo qui l'unione con Dio ed il mezzo per arrivarvi. Ci sono yoga diversi che, d'altra parte, non sono in contraddizione gli uni con gli altri. Possono anzi prendere l'uno dall'altro alcuni procedimenti.

Comunque, nessuno di essi è contrario alla ragione. «Con quale diritto ci rifiuteremmo di usare del massimo dono di Dio?».

Si può conquistare la salvezza praticando uno solo dei quattro yoga, oppure due o tre, oppure tutti e quattro. Da questo punto di vista non c'è da stabilire fra di essi nessuna gerarchia.

Tuttavia i commentatori di questa filosofia, non li hanno classificati sempre nello stesso ordine. Una frase di Vivekânanda, nella sua conferenza del 24 giugno 1895 a Thousand Island Park, permette di proporre una soluzione del problema. C'è la strada del lavoro (Karma-Yoga), la strada della concentrazione (Râja-Yoga), la strada della conoscenza (Jñâna-Yoga), la strada dell'adorazione (Bhakti-Yoga).

Solamente degli sciocchi hanno potuto considerare inferiore la strada del lavoro, il Karma-Yoga.

La parola karma non è presa nella sua concezione metafisica, per la quale indica gli effetti di cui le azioni da noi compiute in precedenti esistenze sono le cause. Viene applicata qui all'azione stessa, a tutte le forme di lavoro.

«Se proprio volete farvi un'idea del carattere di un uomo, non considerate le sue opere grandi. Il primo sciocco che passa può, in un istante della sua vita, comportarsi da eroe. Guardate piuttosto come un uomo compie le azioni più comuni: esse vi riveleranno il vero carattere di un grande uomo... Gli uomini di grande volontà che il mondo ha generati furono grandi lavoratori, anime di giganti, con volontà così potenti da sollevare dei mondi».

Senza disprezzare gli aspetti più umili della fatica umana, abbiamo il diritto di proclamare la superiorità del lavoro compiuto per amore del lavoro in se stesso, secondo la dottrina della Gîtâ. Colui che meglio lavora, agisce senza alcuno scopo; non lavora né per il denaro, né per la gloria, nemmeno per conquistare il cielo. L'azione compiuta sotto l'influenza di uno di questi scopi, sempre più o meno egoistici, ci lega una palla al piede. Il vero karma-yogin, invece, agisce in tutto disinteressatamente, e per ciò stesso si libera. Il Buddha è stato il «karma-yogin ideale».

«Anche se l'uomo non ha mai studiato alcun sistema di filosofia, anche se non crede né ha mai creduto ad un Dio, anche se non ha mai pregato nemmeno una sola volta nella vita, anche in questo caso, se il solo potere delle buone azioni l'ha portato a quello stato in cui è pronto a dare la vita, a dare tutto per il prossimo, egli è giunto allo stesso punto al quale è arrivato l'uomo religioso attraverso le preghiere ed il filosofo attraverso la conoscenza; vedete così come il filosofo, il lavoratore ed il devoto si ritrovino tutti su uno stesso punto, che è l'abnegazione».

«Il Karma-Yoga è un sistema etico e religioso il cui scopo è quello di farci raggiungere la libertà attraverso l'altruismo e le opere buone».

Il Karma-Yoga, come pure gli altri due yoga di cui tratteremo più avanti, può prendere alcuni procedimenti da un altro yoga, lo Yoga regale (Râja-Yoga), che Vivekânanda definisce anche Yoga psicologico: è la strada della concentrazione. Infatti, la concentrazione può avere la sua parte in tutti gli sforzi compiuti in vista dell'unione con Dio.

«La scienza del Râja-Yoga si propone di offrire all'umanità un metodo pratico e scientificamente elaborato per giungere alla verità». La parola verità indica qui la scoperta del Dio nascosto dietro le apparenze dell'universo; Dio al quale lo yogin si congiunge.

Vivekânanda si ispira qui ad un grande e remoto predecessore, Patañjali, del quale ha commentato gli Aforismi sullo Yoga. La traduzione di quest'opera e del commento accompagna, generalmente, il Râja-Yoga di Vivekânanda, una delle poche opere scritte dal Maestro per essere pubblicata (la maggior parte delle altre opere è formata da conferenze e colloqui, raccolti dai suoi discepoli).

Secondo Patañjali «lo yoga consiste nell'impedire al contenuto mentale di assumere diverse forme». Queste forme sono le onde che agitano il lago del nostro spirito (o contenuto mentale), e impediscono così di vedere il fondo, il nostro vero Io.

«Se l'acqua è limpida, e se non ci sono onde, vedremo il fondo».

Tale sforzo verso la concentrazione, comporta alcune condizioni preliminari d'ordine sociale e d'ordine psicologico. «La ricchezza troppo grande e la troppo grande povertà sono pesanti ostacoli allo sviluppo superiore». Le classi medie costituiscono un ambiente più favorevole. «Lo yogin deve evitare i due estremi del lusso e dell'austerità. Non deve né digiunare né torturare la sua carne... Né colui che mangia troppo né colui che digiuna, né colui che si priva del sonno né colui che dorme molto, né colui che lavora troppo né colui che non lavora, possono essere degli yogin».

Il Râja-Yoga comprende otto tappe, che è bene percorrere «sotto la guida personale di un maestro». Senza tale sorveglianza, alcuni esercizi potrebbero avere dannose conseguenze fisiche, intellettuali o morali.

La prima tappa (yama) è la pratica di alte virtù morali: innanzi tutto il non-nuocere (ahimsâ), che consiste nel non far del male a nessun essere vivente; poi la sincerità assoluta, la perfetta castità, l'assenza totale di desiderio, il rifiuto di ogni regalo (quest'ultima prescrizione può stupire: ma si spiega se consideriamo che agli oggetti materiali sono attaccati dei pensieri; di conseguenza, «ad ogni regalo che accettiamo, corriamo il rischio di prendere anche quanto vi è di cattivo presso il donatore»).

La seconda tappa (niyama) ha lo scopo di dare buone abitudini regolari: pulizia, o purificazione del corpo, e purificazione dello spirito; austerità ed allegrezza («per lo yogin, tutto è piacere, ogni viso umano gli dà gioia; da ciò riconosciamo un uomo virtuoso»); studio dei testi sacri e adorazione di Îshvara.

La terza tappa (âsana) mira all'adozione di posizioni favorevoli alla meditazione.

La quarta tappa (prânâyâma) è particolarmente importante: si tratta di controllare il prâna, cioè l'energia cosmica che, nell'uomo, diventa energia vitale. Il mezzo principale è l'azione sulla respirazione (inspirazione, ritenzione dell'aria, espirazione sapientemente regolate).

Nel corso della quinta tappa (pratyâhâra), lo yogin distoglie dal mondo esteriore gli organi dei sensi.

Nella tappa seguente (dhâranâ), egli concentra lo spirito su alcuni punti determinati (una parte del corpo, oppure un'idea).

La penultima tappa (dhyâna), è la meditazione propriamente detta, nella quale lo spirito «scorre verso un solo punto in un flusso ininterrotto».

Finalmente c'è il samâdhi, lo stato di sopracoscienza, in cui scompare ogni sentimento dell'«io»: l'uomo ne esce trasformato, illuminato; «un saggio, un profeta, un santo».

Affine al Râja-Yoga, ma più intellettualizzato, è lo Jñâna-Yoga: la strada della conoscenza.

Come punto di partenza, ecco questa affermazione decisiva: «L'esperienza è la sola fonte della conoscenza». Ed ancora: «Meglio non credere che non aver sentito». Beninteso si tratta qui di un'esperienza interna, di ciò che è stato definito l'esperienza religiosa. Essa prende posto accanto all'esperienza esterna, all'esperienza scientifica.

«Scienza e religione sono due tentativi paralleli per aiutarci ad uscire dalla schiavitù... La religione si occupa delle verità del mondo metafisico, proprio come la chimica e le scienze naturali si occupano delle verità del mondo fisico».

In ambedue i casi, si tratta di una lotta. «L'uomo è uomo in quanto lotta per elevarsi al di sopra della natura: e questa natura è nello stesso tempo interiore ed esteriore. Non soltanto essa comprende le leggi che governano le particelle materiali in noi e fuori di noi, ma anche quella natura più sottile al di dentro, che costituisce, di fatto, la forza motrice che governa l'esterno. È cosa buona, è cosa grande conquistare la natura esteriore. È ancor più grande conquistare la natura interiore. È cosa grande, è cosa buona conoscere le leggi che governano le passioni, i sentimenti, la volontà dell'umanità. E ciò rientra nell'ambito della religione».

La religione è più antica della scienza; e al credente essa sembra più santa.

Il primo compito è piuttosto d'ordine negativo. Si tratta di analizzare lo spirito, che, distinto dall'anima profonda, è considerato come facente parte del mondo materiale; di scomporre il meccanismo delle percezioni e delle idee; di criticare le condizioni della conoscenza, tempo, spazio, causalità; di riconoscere le frontiere dell'intelligenza prima di superarle.

Esse saranno valicate nel corso di una seconda tappa. «La religione procede fondamentalmente da una lotta per trascendere le limitazioni dei sensi. In tutte le religioni organizzate, i fondatori hanno affermato di esser penetrati in regioni dello spirito dove si erano trovati di fronte ad un nuovo ordine di fatti, riferentisi a ciò che viene definito regno spirituale. Tutte le religioni affermano che lo spirito umano trascende, in alcuni momenti, non soltanto le limitazioni dei sensi, ma anche le ordinarie facoltà del ragionamento».

A questo punto ritroveremmo le tre ultime tappe del Râja-Yoga: dhâranâ, dhyâna e samâdhi.

E si arriverebbe «alla scoperta dell'Unità, dell'Uno universale, totale Essenza e sola Realtà».

Per Vivekânanda il cuore è al di sopra dello spirito. In fondo, l'intelligenza ha soprattutto lo scopo di sgomberare la strada davanti al cuore che, solo, può unirsi a Dio.

Sebbene egli desideri mettere tutti gli yoga sullo stesso piano, si sente in lui una segreta preferenza per il quarto yoga, il Bhakti-Yoga, la strada dell'adorazione.

Su questa strada, è cosa pericolosa credere al valore di un insegnamento ricevuto dal di fuori, proveniente da un ambiente esterno all'individuo. «Quanti bei germi, che sarebbero diventati stupende verità spirituali, sono soffocati da quest'orribile idea di una religione di famiglia, di una religione nazionale, di una religione sociale! Io solo devo istruire me stesso in religione».

Le Chiese non devono intervenire nella vera religione, che è un diretto rapporto tra l'anima e Dio. La «preparazione religiosa» è una «abominazione». Alcuni devoti, che parlano di religione senza mai desiderare Dio, sono degli «atei religiosi», assai inferiori a quegli «atei sinceri» che sono i materialisti.

«II Bhakti-Yoga è una vera e sincera ricerca del Signore, una ricerca che comincia, continua e si conclude nell'Amore».

Dobbiamo, dapprima, sentire la «forza interiore» che «ci spinge avanti verso l'amore: noi non sappiamo dove cercare l'oggetto vero, ma ogni amore ci spinge più avanti nella ricerca. Ogni volta, scopriamo il nostro errore». Giacché «l'amore non può esistere né per un oggetto limitato né presso un soggetto limitato».

Gli amori che precedono l'amore per Dio non sono che delle tappe. «Dovunque sia qualche amore il Signore è presente. Egli è nel bacio dell'amante e dell'amata, della madre e del figlio, nel dono dell'amico all'amico, nel sacrificio dell'uomo all'umanità». Prima di giungere a questo ideale di «vedere Dio in ogni cosa», possiamo vederlo nell'oggetto che preferiamo, poi in un altro, e procedere così a piccoli passi.

Strada facendo, superiamo ogni timore, ogni dubbio, ogni desiderio di prove o di ricompense, ogni interesse.

«Dio è lo scopo della vita. Nulla esiste al di fuori di Dio».

Bisogna arrivare all'«amore per amore dell'amore». Allora «l'Amore, l'Amante e l'Amato sono una cosa sola».

L'Amore appare come la grande forza cosmica. «L'Amore fa girare vorticosamente i mondi e unisce gli atomi agli atomi, fa gravitare i grandi astri gli uni verso gli altri. L'Amore è la legge d'attrazione fra l'uomo e la donna, tra i popoli, tra gli animali, nell'universo intero attratto verso il centro... Dalle molecole più infinitesime fino all'essere più grande, l'Onnipresente, Colui che riempie tutto, è l'Amore».

Il bhakta, in un'estasi suprema, s'identifica con l'Unità. Poi, dopo aver raggiunto la sopracoscienza, torna ad una forma meno eccezionale di adorazione, ad un puro amore sciolto da ogni interesse e da ogni desiderio.

Per finire, riunendo due degli yoga da lui studiati, Vivekânanda raccomanda di «adorare Dio con una bhaktì temperata di jñâna».

Il grande discepolo di Râmakrishna non aspira ad alcuna originalità nell'esposizione di queste idee, che esprime con una commovente eloquenza, sui mezzi per raggiungere l'Unità divina. Riguardo a questo problema, come riguardo a tutti gli altri soggetti che tratta, non confessa altra ambizione che quella di esporre chiaramente le tesi del Vedânta, e più precisamente quelle dello stretto monismo che è l'Advaita. Gli faceva piacere affermare: «Io sono Shankara».

Uno dei suoi massimi sforzi, è quello di stabilire che il Vedânta risponde perfettamente alle esigenze scientifiche e morali del diciannovesimo secolo.

A suo parere, l'Advaita di Shankara, come, ancor prima, il monismo assoluto delle Upanishad, è in perfetto accordo con le tesi fondamentali della scienza moderna. È «la religione più scientifica», anzi «la sola religione scientifica».

L'Advaita e la scienza sono d'accordo nel cercare la causa delle cose non al di fuori di esse, ma nella loro stessa natura. «Questo Universo non è stato creato da un Dio extracosmico, ma non è neppure l'opera di un genio esteriore. Il brahman è l'Esistenza unica ed infinita, che si crea, si dissolve e si manifesta».

D'altra parte, in molte sue opere, specialmente in un'importante conferenza sul Vedânta, Vivekânanda sviluppa eloquentemente la tesi che il Vedânta advaita di uno Shankara sia la sola dottrina che spieghi in modo soddisfacente il problema della morale:

«Per quale ragione sarei morale? È un fatto che non si può spiegare a meno di arrivare ad affermare la verità che ci insegna la Gîtâ: Colui che vede ogni altro essere in sé, e se stesso in ogni altro essere, vedendo in tal modo lo stesso Dio vivere in tutti, costui, il saggio, non uccide più l'Io per mezzo dell'io. Dall'Advaita imparate che chiunque voi colpirete, colpite voi stessi: tutti sono voi. Lo sappiate o no, lavorate con tutte le mani, camminate con tutti i piedi, siete il re che siede in trono nel suo palazzo, ed il mendicante che trascina per le strade la sua vita miserabile; siete nell'ignorante allo stesso modo che nel sapiente; siete nell'uomo che è debole e siete in colui che è forte; sappiatelo e mostrate della simpatia. Ecco la ragione per cui non dobbiamo fare del male al prossimo... Io non dovrei preoccuparmi di ciò che mi accade né di quanto mi appartiene, poiché tutto l'universo è mio. Io godo contemporaneamente di tutta la beatitudine... Solamente nell'Advaita la moralità è spiegata. Le altre teorie la insegnano, ma non possono spiegarne la ragione».

Se fosse vero che il Vedânta soddisfa tutte le esigenze del pensiero moderno, dovrebbe logicamente poter esercitare qualche influenza anche in Europa ed in America.

«Bisognerà anche in questi paesi portare dall'India qualche concezione advaita. Alcune già vi sono penetrate; dovranno crescere e svilupparsi per salvare le loro civiltà. In Occidente, infatti, l'antico stato di cose scompare; esso cede il posto ad un ordine nuovo, che è l'adorazione dell'oro, il culto di Mammona. Il vecchio rozzo sistema della religione era migliore del sistema moderno: oro e concorrenza. Nessun popolo, per quanto potente, può sussistere su tali basi. La storia del mondo ci insegna che tutto ciò che fu costruito su tali basi, è morto e scomparso. Innanzi tutto bisogna impedire l'arrivo di una simile onda in India. Predicate dunque l'advaita a tutti, affinché la religione possa resistere agli assalti della scienza moderna... Dovete anche aiutare il prossimo: il vostro pensiero aiuterà l'Europa e l'America».

L'Advaita presenta ancora un altro vantaggio. Facendo di Dio l'insieme di tutto ciò che esiste, esso può accettare, riconoscendovi aspetti frammentari della verità, tutte le altre concezioni religiose. Può quindi dare al mondo l'idea di una Religione Universale.

In passato, le religioni, a causa della loro intolleranza, hanno provocato immensi mali, versato fiumi di sangue. Alcune di esse, infatti, pretendevano a torto di essere le sole vere, le sole stabilite da Dio». Se Dio avesse voluto che tutto il mondo seguisse una stessa religione, perché ne avrebbe fatto nascere un numero così grande?» - «Se un Creatore, che è Tutta-Saggezza e Tutto-Amore, avesse voluto che una di queste religioni prevalesse e che le altre scomparissero, ciò sarebbe avvenuto ormai da lungo tempo».

La Religione universale dovrà essere conforme alla ragione. «Non è forse una spaventosa bestemmia il credere contro la ragione? Sono certo che Dio perdonerà a colui che, servendosi della ragione, non crederà, piuttosto che a colui che crede ciecamente, senza servirsi delle facoltà che Egli gli ha date... Se la ragione è debole, una compagnia di preti sarà ancor più debole, ed io non accetterò il loro verdetto; ma invece mi atterrò alla mia ragione, perché, pur con tutte le sue debolezze, esiste qualche possibilità per me di arrivare, attraverso di essa, alla verità... La gloria dell'uomo è nel pensiero». «La salvezza dell'Europa dipende da una religione razionalista».

La religione dell'avvenire si riconcilierà con la scienza. Essa riavvicinerà filosofia e poesia. Soddisferà lo spirito come il cuore. «Unirà l'intelligenza di Shankara e il cuore del Buddha».

Essa non condannerà nessuna delle religioni anteriori. «Io accetto tutte le religioni del passato, e con tutte adoro Dio, - dichiara Vivekânanda -. Lascio il mio cuore aperto a tutte quelle dell'avvenire. Il Libro delle Rivelazioni non è compiuto. È un libro meraviglioso. La Bibbia, i Veda, il Corano, tutti gli altri libri sacri non ne sono che poche pagine, e un numero infinito di pagine resta da sfogliare. Vorrei che questo Libro fosse aperto a tutte le pagine!... Salute, a tutti i profeti del passato, a tutti i grandi del presente, e a tutti quelli che verranno!».

E ancora: «Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno, è uno spirito di fraternità tra i diversi tipi di religione, giacché tutte insieme esse trionferanno o soccomberanno».

Fondata da Vivekânanda, la Missione Râmakrishna ha come scopo «l’affermarsi della fraternità fra gli adepti delle diverse religioni, per mezzo della conoscenza che tutte sono altrettanto forme differenti di una sola Religione eterna».

Questo Vedânta, che ci guida fino alle vette del pensiero e del sentimento, Vivekânanda si sforza pure di farlo scendere nei particolari della vita pratica, individuale e sociale.

Egli insiste perché, innanzi tutto, noi ci sentiamo forti e liberi. Il male si può riassumere in questa parola: debolezza. È spiacevole credersi un povero essere debole, votato al male ed al peccato. Dobbiamo far agire l'auto-suggestione in un senso tutto contrario. Dobbiamo persuaderci che portiamo Dio in noi: «Tu sei Ciò».

«Voi siete l'Io, il Dio dell'Universo. Dite: Io sono Esistenza assoluta, Beatitudine assoluta, Conoscenza assoluta. Io sono Lui. E, come un leone che spezza le sbarre della gabbia, spezzate le vostre catene e siate liberi per sempre!».

Liberi, potremmo essere eternamente felici. La maggior parte degli uomini va per il mondo come se fosse inseguita da un poliziotto senza fermarsi a contemplare la bellezza della natura. L'universo appare come una prigione, dove alcuni affamati lottano per un boccone di pane. Bisognerebbe vedervi piuttosto un campo di gioco. Giacché, in fondo, la vita è un gioco. «Tutto è gioco». Già l'abbiamo visto: la virtù dello yogin si riconosce dal fatto che «tutto è per lui piacere», e che «ogni volto umano gli dà gioia». «Com'è bello questo mondo»!

«Secondo una vecchia leggenda indiana, se si pone davanti ad un râja-hamsa (cigno reale) una tazza di acqua e latte, esso berrà tutto il latte e lascerà l'acqua». Nella vita possiamo assaporare tutto ciò che ha valore, e non prestare alcuna attenzione ai particolari spiacevoli.

L'uomo può così conquistare la beatitudine. Può essere beatitudine.

All'esaltazione della forza gioiosa Vivekânanda unisce il tema dell'abnegazione, della devozione a tutti. Le due idee non sono in contrasto; al contrario: «i nostri soli momenti di vera vita sono quelli in cui viviamo nell'Universo, negli altri». E le due virtù sgorgano dalla stessa sorgente: la scoperta di Dio nell'uomo.

«La morale ci dice: Non io, ma tu! Il suo motto è: Non l'io, ma il non-io!... Solamente per ultimo devo pensare a me... La rinuncia è la base sulla quale poggia la morale».

Dobbiamo servire Dio in tutti gli esseri, in tutti gli uomini, soprattutto in quelli che hanno più bisogno di noi. Dio è, prima di tutto, l'insieme dei miserabili.

Questo Vedânta pratico conduce necessariamente all'azione sociale. Pur rifiutandosi di partecipare alla politica propriamente detta, Vivekânanda insiste sull'importanza dello sforzo per sollevare i miseri, che sono innumerevoli, nell'India del suo tempo.

Ad un giovane bengalese che si chiudeva nella sua stanza per arrivare a trovare la pace dell'anima, egli consiglia di spalancare la porta e di guardarsi intorno: «Ci sono centinaia di persone miserabili in prossimità della tua casa. Tu le servirai del tuo meglio. Uno è malato: lo curerai. Un altro è affamato: lo nutrirai. Un terzo è ignorante: lo istruirai. Se vuoi la pace dell'anima, servi gli altri!».

Al suo ritorno dall'America, nel 1897, egli dichiara in un tono particolarmente violento: «Che importa che ci sia il cielo o l'inferno, che ci sia un'anima o che non ci sia! Ecco il mondo: è pieno di miseria. Andate in questo mondo, come il Buddha, e sforzatevi di diminuire questa miseria, o morite in questo sforzo! Dimenticate voi stessi! Questa è la prima lezione da imparare, che voi siate teisti od atei, agnostici o vedantini, oppure cristiani, o maomettani!»

Egli fa sua una frase terribile di Râmakrishna:

«La religione non è fatta per i ventri vuoti», e arriva ad esclamare: «Fin quando un solo cane nel mio paese sarà senza cibo, nutrirlo sarà tutta la mia religione».

E ancora: «Prima il pane, poi la religione. Noi rimpinziamo i poveri con troppa religione, mentre hanno fame».

Ad un'amica americana scrive: «Sono partigiano del socialismo, non tanto perché in esso veda un sistema perfetto, ma perché è meglio aver poco che niente del tutto».

Nello stesso tempo continua a proibire ai suoi discepoli di abbassarsi partecipando ad una politica attiva.

Parlando con i suoi monaci poco prima di morire, chiedendosi da che cosa dipendano la grandezza e la decadenza delle nazioni, egli dichiara: «L'India è immortale se persiste nella ricerca di Dio. Ma se essa entrerà nella politica e nelle lotte sociali, soccomberà».

In tal modo lo scopo finale è sempre quello di condurre tutti gli uomini alla salvezza. «Dobbiamo trascinare l'intero universo con noi verso la salvezza... Felicità senza pari! l'Io realizzato in ogni essere che respira e in ogni atomo dell'universo!»

Ecco l'ideale di Vivekânanda espresso in questo poema in bengali:

«Placati i clamori della carne esigente;
Sedato il tumulto dello spirito orgoglioso;
Distese, distaccate le corde del corpo;
Sciolti i vincoli che incatenano;
Attaccamento, illusione più non esistono.
Sì! là, risuona il Suono
Vuoto di vibrazioni! In Verità, la Tua Voce!»

   

Félicien Challaye

da : Les philosophes de l’Inde, PUF, 1956, tr. it. di Carla Vitagliano: I filosofi dell’India, SAIE, Torino, 1959, capitolo XIII.

Trascrizione elettronica e revisione di Dario Chioli

 


   

Libri in italiano su Shrî Râmakrishna (1836-1886) e su Swâmî Vivekânanda (1863-1902), il suo più noto discepolo:

L'elenco dovrebbe senz'altro essere incompleto; riporto i libri di cui conosco l'esistenza.
L'ordine dei libri è cronologico. Ogni eventuale ulteriore segnalazione sarà gradita.
Legenda: ** testi fondamentali e monografie specifiche; * testi parzialmente attinenti

   

Swâmî Vivekânanda, Patanjali's Yoga Aphorisms, trad. it. di Giovanni Battista Penne sulla 9a edizione inglese: Patangiali, Aforismi di Joga. Coi commenti di Swami Vivekananda. Torino, F.lli Bocca Editori, 1922, pp. 185. Con glossario. 2a edizione nel 1945 con introduzione di Yogi Ramacharaka (alias Willliam Walker Atkinson) e con il titolo: Aforismi del sistema yoga di Patanjali,  ried. poi da Napoleone, Roma, nel 1971 [è la seconda parte del volume Râja Yoga, non riprodotta nella traduzione Astrolabio-Ubaldini]. Traduzione veramente deprecabile, fatta da qualcuno che non conosceva né l'inglese né la tradizione indù.

** Shrî Râmakrishna, Una delle vie... Preceduto da: Swâmî Vivekânanda, Il mio Maestro. Fratelli Bocca Editori, Milano, 1943, pp. 140. I detti di Râmakrishna sono dal 2007 on line su SuperZeko.

** Swâmî Vivekânanda, Jñâna-Yoga, trad. it. di Lionello Stock: Jñâna-Yoga. Lo Yoga della Conoscenza. Pref. all'ed. it. di Swâmî Nityabhodânanda, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1963, pp. 279 [testi composti nel 1896].

** Swâmî Vivekânanda, Karma-Yoga - Bhakti-Yoga - Râja-Yoga, trad. it. di Augusta Mattioli per i primi due e di Giulio Cogni per il terzo: Yoga pratici. Karma-Yoga - Bhakti-Yoga - Râja-Yoga. Pref. all'ed. it. di Swâmî Nityabhodânanda, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1963, pp. 238 [non sono tradotti i Patanjali's Yoga Aphorisms, che costituiscono la seconda parte di Râja-Yoga].

** Swâmî Vivekânanda, In Search of God and other Poems, 1990, trad. it. a c. Edizioni Vidyananda: Poesie di Swami Vivekananda. Edizioni Vidyananda, Assisi, 2002, pp.125.

** Swâmî Vivekânanda - Ramakrishna, Il mio maestro. Babaji-Yoga, pp. 135 [non l'ho visto ma suppongo che sia la traduzione di due conferenze tenute da Vivekânanda a New York e a Londra nel 1896 - cfr. in inglese: http://www.hinduism.fsnet.co.uk/namoma/life_thakur/life_thakur_my_master.htm].

** Maestro Mahasaya [Mahendra Nath Gupta detto Maestro Mahasaya o semplicemente 'M'], Condensed Gospel of Sri Ramakrishna (M's own English Version), 1907, trad. it. a c. Edizioni Vidyananda: Il Vangelo di Sri Ramakrishna. Edizioni Vidyananda, Assisi, 1993, pp. XXX-240.

** Dhan Gopal Mukerji, The Face of Silence, 1926, trad. it. a c. del CR3: Il Volto del Silenzio. Storia e leggenda di Sri Ramakrishna. Gribaudi, Torino, 1991, pp. 189.

** Romain Rolland, Essai sur la mystique et l'action de l'Inde vivante. La vie de Ramakrishna, 1929, trad. it. di Luciano Brandina e Francesco Maria Ricoveri: Vita di Ramakrishna. Saggio sulla mistica e l'azione dell'India vivente. Oscar Mondadori, Milano, 1992, pp. 309. Altre edizioni: a) Ramakrisna. Il più grande saggio dell'India contemporanea, Elvetica, 19751, 20032, pp. 150 (trad. it. di E. Episcopi e A. Episcopi); b) La Vita di Ramakrishna. Edizioni Vidyananda, Assisi, 2006, pp. 256 [L'opera originale di Romain Rolland comprende anche una seconda parte divisa in due volumi, rispettivamente di pp. 189 e 252, intitolata La vie de Vivekananda et l'évangile universel, che però non è stata tradotta in italiano. Il titolo Essai sur la mystique et l'action de l'Inde vivante è quello dell'opera nel suo complesso].

* Francis Yeats-Brown, Yoga Explained, 1937, trad. it. di Maria De Sanna: Introduzione allo Yoga, Astrolabio, Roma, 1961, pp. 196 [l'appendice III, pp.194-196, riguarda L'estasi di Ramakrishna e riporta brani di un rapporto di Nagendranath Gupta pubblicato nel periodico Prabuddha Bharata nel n° di febbraio 1936].

** Shrî Râmakrishna, L'enseignement de Râmakrishna, 1949, trad. it. di Giulio Cogni: Alla Ricerca di Dio. Parole raccolte e annotate da Jean Herbert con la collaborazione di Marie Honegger-Durand e P. Seshadri Iyer. Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1963, pp. 423.

** Swami Nikhilananda, Vivekananda - a Biography, 1953, 2a ed.1964, trad. it. a c. Edizioni Vidyananda: Swami Vivekananda - l'Apostolo del Rinascimento Spirituale dell'India. Edizioni Vidyananda, Assisi, 2000, pp. 284 [parla dei rapporti tra Râmakrishna e Vivekânanda].

* Félicien Challaye, Les philosophes de l'Inde, 1956, trad. it. di Carla Vitagliano: I filosofi dell'India. SAIE, Torino, 1959, pp.326 [il capitolo XII, pp. 206-221, è su Râmakrishna, e il XIII, pp. 222-245, è su Vivekânanda].

* Jan Gonda, Die Religionen Indiens. Der Jüngere Hinduismus, a c. di Christel Matthias Schröder, 1963, trad. it. di Giorgio Mion: Le religioni dell'India. L'induismo recente. A c. di Elio Guerriero. Jaca Book, Milano, 1980 [le pp. 392-397 parlano di Râmakrishna ed argomenti correlati].

** Christopher Isherwood, Râmakrishna and his Disciples, 1964, trad. it. di Igor Legati: Râmakrishna e i suoi discepoli. Corbaccio, Milano, 1997.

* Christopher Isherwood, The Wishing Tree, 1943-1987, trad. it. di Lucia Corradini: L'albero dei desideri. Sulla religione mistica. SE, Milano, 1991, pp.229 [raccolta di saggi di cui due, pp. 103-122, specificamente su Râmakrishna e altri tre, pp. 123-154, su Vivekânanda].

* Maria Maglione, Le più belle preghiere del mondo. De Vecchi, Milano, 1969, pp.331 [alle pp. 197-199, sono riportate alcune meditazioni di Râmakrishna].

* Segretariato per i non-cristiani, For a Dialogue with Hinduism, trad. it. di Gianni Gualanduzzi: Cristiani e induisti.  EMI, Bologna, 1973, pp. 223 [nel contributo L'Induismo moderno di Mariasusai Dhavamony, le pp. 90-92 sono dedicate a Râmakrishna].

** Irene Ray - Mallika Clare Gupta, Tales From Ramakrishna. Sri Ramakrisna's stories retold here for children with lively illustrations, 1974, trad. it.: Racconti di Ramakrishna, sul sito http://www.yogaratna.it/racconti_di_ramakrisna.htm [10/6/2011: link non più attivo] [sei storie raccontate da Râmakrishna] o sul sito http://www.ramakrishna-math.org/toc.htm [10/6/2011: link non più attivo] [cinque storie ma c'è altro materiale di e su Râmakrishna, Sâradâ Devî e Vivekânanda].

* Piero Verni, Il libro della visione. Guida alla ricerca del proprio guru. Arcana Editrice, Roma, 1974, pp. 174 [il primo capitolo, pp. 9-16, è dedicato a Râmakrishna].

* Anthony Elenjimittam, Monasticism Christian and Hindu-Buddhist, 1974, trad. it. di Mario Bianco: Esoterismo monastico cristiano e indo-buddista. Edizioni L'Età dell'Acquario, Torino, 1979, pp. 245 [alle pp. 29, 67, 109-110, 136, 171, si riportano brani di Râmakrishna, alle pp. 77-78,  136-137, 207, 209-210 di Vivekânanda, alla p.208 di Brahmânanda, e passim si parla di lui, dei suoi discepoli  e della Ramakrishna Mission].

* Svâmi Siddheshvarânanda, Pensée indienne et mystique carmélitaine, trad. it. di Romana Visentin in collaborazione con il Gruppo Âshram Vidyâ: Pensiero indiano e Mistica carmelitana, Âshram Vidyâ, Roma, 1977, pp. 201. Prefazione di Svâmi Ritajânanda e Presentazione di Raphael [il testo, scritto da un discepolo di Svâmi Brahmânanda, che fu uno dei più stretti discepoli di Râmakrishna, è disseminato di riferimenti a questi].

* Pio Filippani-Ronconi, Magia, religioni e miti dell'India. Newton Compton, Roma, 1981, pp. 235 [alle pp. 217-219 si parla di Râmakrishna e di Vivekânanda].

* Mariasusai Dhavamony, La luce di Dio nell'Induismo. Preghiere, inni, cantici e meditazioni degli Indù. Edizioni Paoline, Milano, 1987, pp. 223 [alle pp. 191-194 sono riportati quattro meditazioni di Râmakrishna].

** Sandra Chistolini, Ramakrishna, Vivekananda, Gandhi. Maestri senza scuola. Euroma, Roma, 1992, pp. 208 [non l'ho visto].

* Giovanni Vannucci, La Ricerca della Parola Perduta. Servitium, Sotto il Monte (BG), 1996, pp.428 [raccoglie vari saggi di padre Vannucci, spentosi nel 1984, tra cui uno, alle pp. 30-39, su Râmakrishna, e uno, alle pp. 40-49, su Vivekânanda].

** Shrî Râmakrishna, Detti di un maestro yoga, a cura di Brunilde Neroni. Guanda, Parma, 1996, pp. 91 [non l'ho visto].

** Catherine Clément - Sudhir Kakar, La folle et le saint, 1993, trad. it. di Marie-Louise Lentengre e revis. di Annalisa Agrati: La folle e il santo. Corbaccio, Milano, 1997, pp.262 [il secondo capitolo, pp. 91-139, è un saggio di Sudhir Kakar su Ramakrishna e l'esperienza mistica].

** Carl-A. Keller, Râmakrishna et la voie de l'amour, 1997, trad. it. di Monique Merret, Antonella Scarano e Giuseppe Giannuzzi: Râmakrishna e la via dell'amore. Borla, Roma, 2001, pp.228.

** Swâmî Vivekânanda, Gli Aforismi sullo Yoga di Patañjali. Traduzione, note introduttive e note al testo di Dario Chioli. Libreria Editrice Psiche, Torino, 2009, pp. 208 [contiene il testo di Vivekânanda, l'originale in caratteri sanscriti e traslitterato degli Yogasûtra, una ampia introduzione, moltissime note di commento e una vasta bibliografia di Dario Chioli].

   

 [2002]

   

Addenda (libri in italiano e su Internet)

* Sudhir Kakar, Ecstasy, 2001, trad. it. di Francesca Diano: Estasi. Neri Pozza, Vicenza, 2004, pp. 237 [romanzo i cui due personaggi principali sono ispirati alle figure di Râmakrishna e Vivekânanda].

** F. Max Müller, Râmakrishna, His Life and Sayings (1898) all'indirizzo http://www.sacred-texts.com/hin/rls/index.htm [in inglese].

* Swâmi Abhedânanda, How to be a Yogi (1902) all'indirizzo http://www.sacred-texts.com/hin/hby/index.htm [in inglese].

** Sri Chinmoy,  Vivekananda, An Ancient Silence-Heart And A Modern Dynamism-Life (Agni Press, 1993) riprod. all'indirizzo http://www.srichinmoylibrary.com/vivekananda-heart-life/ [10/6/2011: link non più attivo] [in inglese].

** Swami Chetanananda, Touched By God, estratto da: God Lived with Them: Life Stories of Sixteen Monastic Disciples of Sri Ramakrishna (forse lo stesso che: They Lived With God: Life Stories Of Some Devotees of Sri Ramakrishna, 2002), riportato all'indirizzo http://www.hinduism.co.za/touched.htm [in inglese].

** http://www.ramakrishnavivekananda.info/. Importantissimo sito interamente dedicato a Râmakrishna e Vivekânanda. Contiene: THE GOSPEL OF SRI RAMAKRISHNA (KATHAMRITA). Slightly edited translation by Swami Nikhilananda published 1944 – THE GOSPEL OF SRI RAMAKRISHNA (KATHAMRITA). Word to word translation by Sri Dharm Pal Gupta – THE COMPLETE WORKS OF SWAMI VIVEKANANDA (di data imprecisata ma con introduzione datata 1907) VIVEKANANDA A BIOGRAPHY by Swami Nikhilananda (Published 1953) – SWAMI NIRMALANANDA - HIS LIFE AND TEACHINGS (Published 1943) – GAURI MA - A MONASTIC DISCIPLE OF SRI RAMAKRISHNA (Published 1994) [in inglese].

** http://www.belurmath.org/home.htm. "Official website of the Headquarters of Ramakrishna Math and Ramakrishna Mission". Vi si trova tra l'altro riprodotto The Gospel of  Sri Ramakrishna Translated into English by Swami Nikhilananda, Sri Ramakrishna Math Chennai, India, 2006 (http://www.belurmath.org/gospel/index.htm).

** http://www.vivekananda.net/. Un sito della "Ramakrishna Vedanta Society of Boston", interamente dedicato a Vivekânanda.

** http://en.wikisource.org/wiki/The_Complete_Works_of_Swami_Vivekananda. Contiene The Complete Works of Swami Vivekananda.

** http://www.kathamrita.org/. "Sri Ramakrishna Sri Ma Prakashan Trust", sito dell'organizzazione no-profit "Sri Ma Trust". Riporta tra l'altro: "M." (Mahendra Nath Gupta), Sri Sri Ramakrishna Kathamrita, grande raccolta dei detti di Râmakrishna in cinque volumi (il quinto in fase di pubblicazione).

** http://www.ramakrishna-math.org/. Sito della "Ramakrishna Mission Italia".Contiene materiale interessante in italiano.

** Swâmî Vivekânanda, Vedânta Philosophy. Lectures by the Swâmî Vivekânanda on Râja Yoga and Other Subjects. Also: Patañjali’s Yoga Aphorisms, with Commentaries, and Glossary of Sanskrit Terms, The Baker & Taylor Company, New York, 1896. La settima edizione (1899) è scaricabile all’indirizzo http://www.vivekananda.net/PDFBooks/RajaYoga1899.pdf.

** Swâmî Vivekânanda, Vedânta Philosophy. Being Lectures by the Swâmî Vivekânanda. With Patañjali’s Aphorisms, Commentaries and a Glossary of Terms, New Edition, with Enlarged Glossary, Brentano’s, New York, 1920, scaricabile all’indirizzo http://www.vivekananda.net/PDFBooks/RajaYoga1920.pdf.

* Lin Yutang, The Wisdom of China and India – The Wisdom of India, trad. it. di Rachele Sgobio: La Saggezza dell’India. Il Fiore della Letteratura Indiana dagli Inni Vedici al Surangama Sutra, Bompiani, Milano, 4a ed.: 1960. Alle pp. 113-125 contiene la ritraduzione italiana della versione degli Yogasûtra di Vivekânanda (senza il suo commento).

** Swâmî Vivekânanda, Aforismos del Yoga de Patañjali — Patañjali Yoga Aphorisms. Versión castellana de Federico Climent Terrer, all’indirizzo: http://www.consciouslivingfoundation.org/ebooks/new8/Vivekananda_Patanjali_Yoga_Sutras_Spanish.pdf.

   

   

 

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