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CONSIDERAZIONI METODOLOGICHE
PROVVIDENZIALITÀ E UTILIZZO DELL'OPERA DI GUÉNON
Incànus
Il discorso dell’opera guénoniana - punto importantissimo che non sarà mai abbastanza sottolineato - non fa riferimento ad una particolare forma tradizionale, ma le accetta tutte, perché fa riferimento alla Tradizione “in sé”, in tutte le sue forme particolari. Il contraltare della Tradizione sono la modernità, in tutte le sue forme (perché la modernità ha in sé molte varianti), che ne è l’opposto esterno, e la controiniziazione, in tutte le sue forme, che ne è l’opposto interno.
La discriminante per Guénon non passa più - come per molti altri - fra questa o quella forma tradizionale: egli ne accetta le differenze, ma pone in evidenza che tali differenze sono minori della differenza sostanziale fra Tradizione e modernità, nelle loro diverse forme d’espressione. È questo il nòcciolo della rivoluzione guénoniana. L’incomprensione profonda dell’opera di Guénon anche da parte di molti pretesi “seguaci” (di proposito non si usa qui il termine “discepoli”) nasce proprio dal non aver sufficientemente e conseguentemente afferrato, compreso e fatto proprio questo preciso punto. È così che costoro entrano in polemica in nome della propria appartenenza a questa o a quella forma tradizionale, cercando di trascinare l’opera di Guénon in questo stucchevole giochetto (quasi sempre il tutto riducendosi a due polemiche sterili: Cattolicesimo versus Islam o, più spesso, viceversa).
Qual è dunque il punto-chiave dell’infezione che, oggi, ha toccato e colpito anche l’opera di Guénon? Già, perché noi non dobbiamo nasconderci dietro un dito o mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi: l’opera di Guénon è stata intaccata sia da questo “tradizionalismo” pseudo-tradizionale, sia da un settarismo pseudo-esoterico, (*) che ambedue la utilizzano ai propri fini.
(*) Bisogna comprendere da dove nasce tale settarismo: dal bisogno di prospettive sicure, senza rischiare nulla, la qual cosa è semplicemente impossibile. Ma nel settario manca il senso della proporzione: lui negherà le cose pur di rimanere attaccato a ciò che gli conferisce sicurezza, sicurezza falsa del resto, visto che l’opera di Guénon non è nata con lo scopo di essere un settarismo. L’azione di Guénon è stata quella di porre delle pietre miliari, non di camminare sulla strada indicata dalle pietre: sulla strada ci camminiamo o no solo noi. I problemi che lui pose rimangono.
Il punto è nodale, centrale: ciò che non viene recepito è l’idea di Tradizione “in sé”, che è il centro dell’opera di Guénon, da cui tutto il resto si muove, s’irraggia, si dipana. Tutto è qui; e recepire la Tradizione implica, necessita, costringe ad un comportamento consequenziale, dove non c’è spazio per la presunzione.
Né ci si può arrogare un’autorevolezza che non si ha; l’autorevolezza si conquista sul campo elaborando una posizione tradizionale ma nient’affatto “tradizionalista”, trattando bene dei problemi e proponendo visioni ed eventuali possibili soluzioni, non certo rintanandosi nell’opera di Guénon che - ricordiamocelo sempre molto bene - non volle discepoli.
Lo stesso Guénon, in vita, distinse fra Tradizione e “tradizionalisti” animati da un vago desiderio di ricollegarsi alla Tradizione senza nessuna vera “conoscenza”. Secondo Guénon (ne parla ne Il Regno della Quantità) c’è uno stadio in cui, prima d’aver raggiunto quel piano in cui vi è la “certezza” e le deviazioni sono impossibili, si può facilmente deviare: ed ecco i “tradizionalisti”. Dove la “certezza” non è l’infallibilità (propria dei Profeti); e nemmeno l’onniscienza, che non è cosa umana. Anche chi ha la certezza infatti può sbagliare, non sui Princìpi ma su determinate applicazioni a temi particolari. Troviamo qua e là anche nell’opera di Guénon questioni non ben trattate. Vediamole: 1) rapporti fra Oriente ed Occidente, ambedue tradizionali; 2) il Buddhismo, dove poi Guénon rettificherà, però confondere il Buddhismo col Protestantesimo non è un errore da poco, rettificato sì, però incontestabilmente commesso.
Aveva i suoi limiti, l’individualità “René Guénon”, la cui opera non si deve idolatrare, offendendo così colui che si voleva “Servitore dell’Unico” (`Abd al-Wâhid). Idolatrare un’opera vuol dire infatti metterla sotto ghiaccio, bloccarne le potenzialità.
Di tali potenzialità tratteremo qui di seguito succintamente, pur senza illuderci di essere in grado di controbattere una deviazione ormai così diffusa da aver intaccato anche l’opera di Guénon.
Ed è proprio questa la differenza con gli anni ’70-’80, dove si contrapponevano con maggior chiarezza un’eterodossia evoliano-neopagana e l’ortodossia guénoniana. Non è più così semplice, e questo è un ulteriore passo avanti nella direzione del caos.
Occorrerebbe poter emettere una nota di riordino e di ricompattazione; che poi ognuno faccia le sue scelte, delle quali dovrà render conto. Perché non è per nulla sorprendente che la degenerescenza possa aver corso se, Guénon vivo, una buona parte della sua opera è stata dedicata alla rettificazione d’errori e confusioni.
Non è questo il punto. Il fatto è che non si può “tornare alla Tradizione” in modo antitradizionale.
È un dovere di chi non ha raggiunto il livello in cui non sono più possibili deviazioni il cercare di raggiungerlo, ovvero d’imparare da chi ha raggiunto quel livello senza farsi giocare da eventuali apparenze contrarie.
L’unica forma mentis giusta è andare a fondo nelle questioni, sapendo che si può sbagliare, però senza mai cedere alla superficialità. È un’ortoprassi obbligata per chi vuol davvero essere “tradizionale”, e non “tradizionalista”.
Per il resto, anche un’apparenza un po’ “rude” può nascondere una reale conoscenza, così come un’apparenza brillante può non essere altro che l’esteriorizzazione di giochi mentali e di un’abile dialettica. Ma può essere pure che una vera conoscenza s’esprima brillantemente mentre la rudezza non nasconda un bel nulla. Solo approfondendo si può comprendere.
L’attitudine superficiale è quanto di più lontano dalla Tradizione vi possa essere. È l’uomo che deve fare uno sforzo (jihâd, kung-fu), sforzo meritevole, d’avvicinarsi alla Tradizione, che, quanto ad essa, è stata il più possibile avvicinata agli uomini, riconoscendo che, senza lo sforzo di dare, non si può chiedere lo sforzo di essere.
Ed ecco lo scopo dell’opera di Guénon: fare un improbo sforzo d’espressione, di martirio, cioè di testimonianza dei Principi - dei quali mai e poi mai Guénon si reputò “possessore” - unendo a tale sforzo la critica del mondo moderno, proprio per rendere più assimilabili ed intelligibili tali Princìpi.
Dimenticarsi questa necessità dello sforzo meritevole significa non essere tradizionali, essere lontani dallo spirito della Tradizione, vuol dire essere di quei ”tradizionalisti” che credono di avere già quel che debbono cercare di essere, sforzandosi. Quando si trova una tale lontananza dallo spirito tradizionale da parte persino di coloro che si vorrebbero (ed in evidente buona fede) ad esso vicini, ecco che cose come il “New Age” diventano comunemente diffuse, e comunemente confuse con la vera spiritualità. Ma il problema è a monte: queste sono le conseguenze, gli “epifenomeni”, ciò che appare nel dominio più esteriore, mentre non è mai nell’apparenza che vanno cercate le cause profonde.
Altro cahier de doléance: l’allontanamento sempre maggiore tra forme exoteriche (religiose) e spirito tradizionale. Qui distinguerei le deviazioni in due gruppi, che potremmo denominare rispettivamente “sadduceismo” e “fariseismo”, usando tali termini nel senso deteriore che hanno comunemente assunto nel linguaggio comune.
Il primo atteggiamento (“sadduceismo”) è rappresentato soprattutto nel Cristianesimo e nel Buddhismo: si cerca di accettare il mondo moderno, al quale si cede, nel tentativo d’influenzarlo; il secondo atteggiamento (“fariseismo”) è rappresentato soprattutto nell’Islamismo (ed in talune parti dell’Ebraismo): si cerca di combattere il mondo moderno, dal quale però si mutuano comunque atteggiamenti mentali e tendenze profonde. Beninteso: in tutte le forme religiose vi sono ambedue le tendenze, ma l’accento cade o sull’una o sull’altra con gran chiarezza. La qual cosa è la peggiore, la più grave che potesse mai accadere, perché intacca e opera fratture, di fatto, nell’ombrello protettivo del mondo umano. In tali condizioni, non solo non ci stupisce che l’idea di Tradizione sia non compresa, ma si comprende bene come sarebbe persino possibile che oggi si sia aperta la porta al Regno dell’Anticristo.
Quest’avvento “all’inverso” è stato annunciato da Guénon, ma oggi noi ne siamo forse alle porte? Ciò implicherebbe che quel che Guénon proponeva ai tempi suoi oggi non sia più sufficiente, bastevole, ché la nostra situazione sarebbe ben peggiore. E non solo per il pullulare di sette e settucole varie, per le incredibili divisioni che sorgono su ogni piccola cosa, per la grande incapacità di comprendere le intenzioni soggiacenti e non la lettera. Questi mali ci sono sempre stati, anche se oggi, a mio avviso, siamo ben oltre il livello di guardia.
Ma è sempre dall’idea di Tradizione che occorrerebbe partire, dai Princìpi che Guénon ha esposto applicandoli alla concreta situazione del mondo moderno. È di una resurrezione dello spirito tradizionale, della consapevolezza d’una Luce non di questo mondo che tuttavia s’esprima in questo mondo, che noi abbiamo bisogno come l’assetato dell’acqua, come terra riarsa, riarsa dallo scatenamento, organizzato e pianificato, delle passioni umane, che hanno reso questa terra il deserto di Seth. Non è in potere dell’uomo far piovere. Tuttavia, è dovere dell’uomo che fa uno sforzo (jihâd, kung-fu) per lo spirito della Tradizione “in sé” invocare perché la pioggia cada. Quest’invocazione di per sé dimostra che si è compreso il senso della Tradizione.
È risibile lo stuolo inutile - veramente osceno nel senso antico del termine, che voleva dire di cattivo auspicio - di polemiche fra “tradizionalisti”: bambini che si baloccano del simulacro della Tradizione. Risultano altresì ridicoli coloro i quali hanno trasformato l’opera di Guénon in un feticcio da scagliare; e questo del tutto in contrasto con le affermazioni perentorie di Guénon che non voleva discepoli. I primi son vittima dell’incomprensione, dell’“ignoranza”, non come mancanza di sapere, ma come inconsapevolezza di ciò di cui si vorrebbe parlare, della grandezza della Tradizione, dello Spirito che dovrebbe animarla, di quello Spirito che, così spesso al giorno d’oggi, diserta i santuari acclamati per rifugiarsi nella Caverna, nel ventre della Balena. Gli altri, al contrario, ben più consapevoli di che cos’è la Tradizione, sono autori d’un vero e proprio tradimento; e mi riferisco al settarismo.
Ambedue, poi, sono inconsapevoli che Guénon, come sempre non sufficientemente meditato, costantemente sottolineava che ciò che uno prende per comprensione è solo la possibilità di averla, ché la vera comprensione avviene solo con la nostra maturazione interiore. Scriveva nel lontano 1927: «Noi entriamo in un’epoca in cui sarà particolarmente difficile ‘distinguere il grano dalla mala erba’, effettuare realmente quel che i teologi chiamano ‘la discriminazione degli spiriti’; ciò, per via di manifestazioni disordinate che s’intensificheranno e moltiplicheranno e altresì per il difetto di vera conoscenza in coloro, la funzione normale dei quali dovrebbe essere di guidare gli altri, mentre oggi troppo spesso non sono che delle ‘guide cieche’. Si vedrà allora se, in tali condizioni, le sottigliezze dialettiche saranno d’una qualche utilità, e se una ‘filosofia’, sia anche la migliore possibile, basterà per arrestare lo scatenamento delle ‘potenze infernali’» (*)
(*) René Guénon: La Crisi del mondo moderno, Mediterranee 1972, p.160, sottol. mie.
Questo vale anche per le disquisizioni vane sulla “tradizione” senza lo spirito tradizionale, perché proprio questo spirito bisogna riaffermare. Tutto inizia da questo. «Un cammino di diecimila li inizia col primo passo», dice da qualche parte il Tao-Te-Ching (cito a memoria). Finché non c’è il primo passo, si è fermi, bloccati. Questa è la realtà, cioè la situazione, oggi. Occorrerebbe costituire il terreno dove piantare il “germe” di cui qui si sta parlando. Quel germe che, sinora, non si è mai riusciti a piantare davvero (il che non può essere un mero “caso”).
Dev’essere chiaro che non è che chi scrive proponga di formare “un’armata Brancaleone” per andare alle Crociate. Non è che la legge ciclica o la degenerazione dell’umanità possano esser modificate. Qui Schuon è stato molto realistico ed obiettivo, nonostante i suoi errori a livello individuale:
«non va dimenticato che taluni modi d’agire dipendono largamente dalle circostanze e che l’uomo collettivo rimane sempre una specie di belva, per lo meno nell’‘età del ferro’ […]. Le religioni possono riformare l’uomo individuale se egli vi consente - e la religione non ha mai il cómpito di supplire all’assenza di tale consenso - ma nessuno può cambiare in profondità quell’‘idra dalle mille teste’ che è l’uomo collettivo, e perciò questa non è mai stata l’intenzione d’alcuna religione; tutto quel che la Legge rivelata può fare è d’arginare l’egoismo e la ferocia della società incanalandone bene o male le tendenze». (*)
(*) Frithjof Schuon: Sguardi sui mondi antichi, Mediterranee 1996, p.18. Circa gli errori di Schuon, si considerino il suo culto della nudità, l’antinomismo de facto dovuto alla mescolanza di metodi di varie forme tradizionali: Schuon non era sincretista teoricamente, ma lo è stato metodologicamente. Con ciò non intendo che dovesse conformarsi alla “scuola guénonista”, che troppo spesso è stato un semplice settarismo, dove si adotta un autore e così facendo troppo spesso lo si tradisce. Né contesto che il culto della nudità abbia un suo ruolo tradizionale, per esempio nel Tantrismo. Ma Schuon era “tantrista”? No. Perché allora usare il metodo tantrico in àmbito islamico? Non dico: perché non apprezzare il Tantrismo in àmbito islamico, perché questo sarebbe legittimo e se Schuon avesse fatto solo questo sarebbe altamente stimabile. D’altro canto, la tradizione islamica ha un suo lato affine a quello tantrico: perché non sviluppare questo? Schuon ha avuto la tendenza alla mescolanza dei metodi, ed è qui il suo errore. Inoltre gli vanno rimproverate le sue critiche a Guénon, alcune davvero ingiuste. Lui che reclamava tanto che si badasse alle intenzioni soggiacenti, perché non l’ha fatto con Guénon? Probabilmente perché doveva “competere” con lui, e questo è un segno all’occorrenza ben chiaro. Precisiamo tuttavia ancor meglio: che Schuon, sebbene corretto teoricamente, sul piano del metodo abbia ceduto ad un certo eclettismo non è cosa che lo situi all’inferno, semplicemente pone certi limiti anche a ciò che diceva lui: spesso è stilisticamente perfetto ma meno profondo di quel che si pensi.
La Tradizione non è mai stata, né è, né mai sarà, un’occasione per accumulare informazioni morte, non vivificate. O si ha la visione complessiva, cioè il progetto dell’edificio, oppure si possono solo accumulare materiali che rimangono sullo stesso piano, senza mai strutturarsi, cioè differenziarsi, “qualificarsi” dando forma ad un edificio. E questo indipendentemente dal fatto che il progetto sia ultimato del tutto. Neanche l’opera di Guénon è completa; eppure, nessuno può dubitare del suo essere un edificio: si tratta solo di comprenderne profondamente il progetto, cioè di averne una visione complessiva. Si può anche proporre un altro progetto, ma dev’essere di nuovo una visione complessiva.
Per quel che mi riguarda, poiché reputo l’opera di Guénon provvidenziale, in quanto il solo Guénon è stato in grado di proporre una visione - di certo con materiali non suoi, tuttavia costruendo un quadro complessivo - della “fine dei tempi” e della contraddizione che passa tra le forme tradizionali - tutte - e la modernità, non più tra le forme tradizionali stesse, sostengo che sia opportuno completare quella visione, modificandola in ciò che ha di datato. L’azione principale dell’opera di Guénon è stata quella di porre delle pietre miliari (quelle cosmologiche molto ben riassunte nelle Riflessioni sui cicli storici di Anonimo).
Ed allora, è davvero ridicolo questo ripetere ciò che diceva Guénon, come un bambino che ripete una lezioncina o come uno studente che deve passare un esame. Non c’è nessun esame. Tutto dev’esser visto in relazione alla propria interiorità (al-bâtin), in quanto abbiamo visto come lo scopo delle varie forme tradizionali riguardi tale interiorità, mai l’esteriorità. Perché è lì che si gioca la partita vera.
Ciò non significa per niente che le circostanze esteriori siano trascurabili o minimizzabili: è vero l’opposto. Questo è precisamente uno di quei punti dove il moto ciclico discendente sempre più accelerato e tumultuoso del nostro mondo ci spinge a conoscere e ad elaborare posizioni molto più definite di quelle che poteva permettersi di avere Guénon all’epoca sua. Ma non bisogna confondere questi due punti di vista, che si collegano ma che non si equivalgono per niente, il punto di vista principiale dovendo sempre avere il primo posto non certo perché si tratta di un campo particolare reputato, a torto o a ragione poco importa, quello “superiore”, ma invece perché si tratta del “campo dei campi”, che congloba tutti gli altri, e nel quale tutti gli altri campi, tutte le possibili applicazioni devono trovare il loro principio.
Ma perché? Perché è il campo dei Princìpi: la Metafisica. Questa è la Metafisica. Tutto questo ci riporta direttamente allo scopo dell’opera di Guénon, alla quale dobbiamo fermamente ricollegarci nei Princìpi, mai e poi mai nella scolastica sterile. Lo scopo dell’opera di Guénon non era per niente quello d’invocare la pioggia o di piantare il “germe”: così la pochezza della ricezione ed il fallimentare bilancio della risposta non la toccano. Lo scopo della testimonianza (cioè “martirio”) di Guénon è stato (perché appartiene al passato) quello di operare una discriminazione fra Tradizione ed antitradizione, iniziazione e controiniziazione, civiltà tradizionali e mondo moderno. Il tutto inserito nel vasto quadro dell’interpretazione tradizionale della dottrina dei cicli.
Se la sua opera non è stata correttamente recepita, ma si è dispersa in mille rivoli o è stata illegittimamente coagulata, “ghiacciata”, non vuol dire che la discriminazione non sia avvenuta. Vuol dire che la discriminazione è stata operata davvero, ma il suo esito è stato negativo.
Perché non è per nulla giusto non dirsi le cose come stanno e nascondere la testa sotto la sabbia (servisse a qualcosa poi, ma non porta che ad autoilludersi): l’esito della discriminazione testimoniata dall’opera di Guénon è stato negativo. Cosa che Guénon non ignorava per nulla. Perché l’opera di Guénon aveva un importante fine in positivo: operata la discriminazione, Guénon spingeva perché l’Occidente si ri-orientasse al ritorno verso la Tradizione, perché ri-trovasse il suo Oriens-Origo (*)
(*) Si veda per esempio "La Riforma della mentalità moderna", 1° cap. di Simboli della Scienza sacra, ma questo tema costella tutta l'opera di Guénon. Cito quest'articolo solo come un esempio possibile fra tanti e per la semplicità di esposizione del concetto basilare.
Ciò che conta dunque è sottolineare che il ri-trovare il proprio Oriens-Origo, il ri-entrare in contatto con l’Oriente era per lui il punto d’inizio del Ritorno.
Sottolineo e ripeto: il punto d’inizio, e non il fine.
Il mezzo, cioè l’attore di tale Ritorno, per lui sarebbe dovuta essere l’élite intellettuale (cioè spirituale) occidentale.
Attenzione, perché siamo ad un punto d’importanza decisiva, dove si opera la discriminazione fra il grano e la pula; chi legga ponderi, cioè soppesi, ovvero pesi (“pesare” e “pensare” hanno la stessa radice) con grande attenzione questo punto. Il punto è questo: Guénon non dà inizio all’élite; egli non la fonda (ci provò da giovane, ma, per molti motivi, non ebbe successo).
Guénon presenta e propone, ma non dà inizio all’élite. Se in Occidente vi fosse stata una rimanenza dello spirito - non solo delle forme - tradizionale, allora lo stimolo dato dall’opera guénoniana e dalla sua funzione avrebbe dovuto generare una risposta reale, che non c’è stata. In Oriente ed Occidente, del 1924 (e n’è passata d’acqua sotto i ponti), Guénon aggiunse un breve scritto nel 1948; tale aggiunta è importante, perché Guénon sarebbe improvvisamente morto di lì a poco nel 1950, senz’aver potuto completare l’edificio cui aveva posto mano, mentre d'altra parte Il Regno della Quantità è del 1945. Siamo dunque in presenza d’una specie di “lascito testamentario”, in cui Guénon ritornò su di un tema che l’aveva particolarmente interessato e coinvolto.
E scrisse allora parole lapidarie, che dovrebbero essere sempre presenti a chi s’interessa davvero della Tradizione, ma respinge il settarismo suicida o si rifiuta di coltivare chimere in vaso chiuso:
«Se l’Occidente possiede ancora in se stesso i mezzi per ritornare alla propria tradizione e restaurarla pienamente, sta ad esso il provarlo. Nell’attesa, siamo obbligati a dichiarare che finora non abbiamo rilevato il minimo indizio che ci autorizzi a supporre che l’Occidente, abbandonato a se stesso, sia realmente in grado di portare a termine questo cómpito, qualunque sia la forza con la quale s’imponga ad esso l’idea della sua necessità» (*)
(*) René Guénon, Oriente ed Occidente, Ediz. Studi Tradizionali 1965, Aggiunta del 1948, p.251, sottol. mie.
Non basta neppure che l’idea della necessità del ritorno alla Tradizione s’imponga, e non si è di certo imposta, visto che sinora si è qui parlato proprio dell’incomprensione dell’idea di Tradizione da parte anche di coloro i quali vorrebbero in tutta sincerità comprenderla.
Il fatto è che l’uomo si può allontanare dalla Tradizione, ma non può ritornarvi per volontà, desiderio, necessità proprie. Se Guénon ha stimolato, testimoniato e quindi operato una discriminazione, ma non ha dato inizio ad un cammino, allora egli non è un “maestro”, né del resto mai e poi mai l’ha voluto essere; per questo è così scandaloso il settarismo.
Se dunque nessuno può essere “discepolo” di Guénon, neanch’io che scrivo posso esserlo. E allora? Allora occorre sempre far riferimento ai Princìpi esposti da Guénon, adattandoli senza tradirli, senza scolastica sterile, ma invece comprendendo ed accettando il momento che stiamo attraversando nel divenire ciclico. La dottrina quella è; non ci possiamo inventare nulla. Guénon l’ha esposta in una particolare prospettiva, accettabile, degna di essere seguita, recando anche chiavi specifiche, dalle quali si evince che siamo sull’orlo della “fine dei Tempi”.
Nasce allora il problema: come può porsi la questione dell’élite intellettuale occidentale se quanto detto qui sopra è vero? Ecco un problema che Guénon non poteva porsi all’epoca sua. Noi non siamo Guénon né viviamo nella prima metà del secolo XX d.C. Altro problema collegato: la situazione, anche politica, del nostro mondo attuale quale vera chance dà per poter operare nel senso del ritorno alla Tradizione? Problema decisivo perché occorre lo spazio per poter operare in tal senso, e sinora non c’è mai stato, per un motivo o per un altro.
Altro problema, last but not least: fra i Princìpi e la vita quotidiana s’è aperto uno iato che è divenuto un vero baratro; è possibile costruire un ponte costituito da una lama d’una spada che taglia le carni e tuttavia permette di passare dall’altro lato del fiume? Ci son differenze legittime all’interno d’un certo quadro, e differenze che indicano che non si comprende ciò di cui si parla.
Nell’àmbito della Tradizione una, vi sono molte forme e prospettive legittimamente diverse. Ma come distinguere differenze legittime da illegittime deviazioni? Qui, e precisamente qui, l’opera di Guénon non ci è necessaria: ci è indispensabile.
Uscire dalla scuola rappresentata dall’opera di Guénon vuol dire saper operare tale discriminazione, e non certo per propensione individuale (è buono ciò che piace a me, è cattivo quel che non mi piace). Né c’è spazio per l’esclusivismo degli exoterismi religiosi. Beninteso: l’exoterismo è necessario; esso forma la società. Se fosse in buona salute, tanti stupidi malintesi non esisterebbero. Purtroppo, come si è già detto, le forme religiose sono in degenerazione, vuoi per “sadduceismo”, vuoi per “fariseismo”.
Vedendo lo “spettacolo” di questi “tradizionalisti” non tradizionali, che s’improvvisano pseudo-guardiani della fiamma, mentre non ci sono “guardiani” dell’opera di Guénon - con la quale può esserci solo un legame di corrispondenza relativo ai Princìpi ed alla prospettiva per mezzo della quale li si guarda - mi chiedo fin dove si arriverà nell’alterazione della Tradizione.
Così come non ha senso combattere l’oscurità scacciandola, bastando invece accendere la luce, allo stesso modo non avrebbe senso combattere l’errore punto per punto. Basterebbe, a Dio piacendo, avere un centro in cui si proponga la visione della Tradizione come spirito, come scienza sacra che propone all’uomo orizzonti davvero illimitati, non solo “informazione”. Ma sta proprio qui la difficoltà iniziale, non certo “casuale”, che blocca ogni opera in tal senso. Per “centro” infatti si deve intendere non un’organizzazione, magari con statuti ecc., bensì un motore, ovvero “qualcosa che dà moto”.
Oggi che ogni sciocchezza ha libero corso, proprio questa voce ha difficoltà a venir fuori: non è un caso. È che l’accesso ai mezzi di diffusione della parola e dello scritto senza quelle qualificazioni che una società tradizionale richiederebbe, ha di fatto formato un vortice terribile, per cui è come parlare contro un vento forte, contrario e persistente. Di qui le difficoltà: perché la Tradizione contiene ogni forma, purché vera, però non può accettare di dividere il comando con altro da sé. Vi è qui una difficoltà dunque sostanziale, inerente alla situazione del mondo com’è oggi, un ostacolo di fatto insuperabile (salvo che “a Dio piaccia” che altrimenti sia, ma in tal caso avremmo di fatto il “germe” dell’élite della quale tanto parlò Guénon: come si vede, le cose sono semplici e tutto inizia da uno spazio “salvato”; ripetiamo: la difficoltà sta precisamente qui, chi ha tentato ha fallito qui, e non è un caso che le cose siano così).
Ho detto “a Dio piacendo”: formula religiosa. Ma in effetti così accade: prima hai la fede, poi la certezza. È così anche nella Metafisica: all’inizio devi aver fede in cose per le quali non c’è prova possibile. Poi crescerà in te la certezza, quando vedrai Ciò in te oltre te: il Sé. Gnosis: conoscenza per identificazione. È il Cuore, quindi pure il Graal, che si trova nel Centro medesimo di ogni Mistero Sacro; anzi: è il Mistero Sacro Primordiale. La Conoscenza di Dio per mezzo d’Iddio.
Lo Spirito Si può conoscere solo per mezzo della Spirito. L’uomo si può trasformare solo per mezzo dello Spirito. Lo spirito nell’uomo può attivamente, consapevolmente, animicamente ricongiungersi allo Spirito Universale solo per mezzo dello Spirito stesso. La Tradizione può ritornare solo per mezzo della Tradizione, non mai con norma non-tradizionale. È precisamente qui che tutti i tentavi sono divenuti, anzi nati, infruttuosi: non si torna alla Tradizione con mezzi non tradizionali, non con libri, conferenze, incontri, studi, azioni di un qualche genere, ma dalla nuova nascita di quello spirito che, se non è sparito, si è però davvero oscurato. La Tradizione, difatti, c’è per la salvezza del genere umano, che, lasciato a se stesso, degenera, come il mondo moderno dimostra per sovrappiù. Senza Tradizione non c’è salvezza.
L’uomo da solo non può salvarsi. Se, però, gli animi son così fortemente ingolfati nella nera pece delle passioni scatenate, è chiaro che la Tradizione non trova spazio, che tali passioni siano consce o subconsce. Ed abbiamo visto che il problema di uno spazio “salvato” è decisivo. Allora, bisogna dire la Verità per quanto possibile, ché l’Assoluta Verità non può esser detta, poiché è l’inesprimibile, quel Cuore, quel Graal, quel Mistero Primordiale che è l’identificazione senza confusione, il rispecchiamento del Divino nel Cuore, l’albergare del Divino nel Cuore, nella Caverna, nel Graal. Ed ecco la Sura XVIII del Corano, ed il simbolismo della Balena, che vuol dire che tutto passerà, pure le forme tradizionali, ma rimarrà quel nucleo, quel Centro indistruttibile che è il Graal.
Così, la Fine coincide con l’inizio, nella Camera di Mezzo. È questo il Mistero che la Tradizione conserva, come il mito di Re Artù, che è il simbolo del Corpus della Tradizione colpito dalla controiniziazione (la mezza sorella d’Artù), mentre Artù stesso chiede chi lo rivivifichi, cioè dia nuova vita al Corpus della Tradizione colpita e né viva né morta.
E davvero Lì vi è la Forza più forte d’ogni forza. A differenza dell’inesprimibile ineffabile segreto del Divino “in Sé”, la Tradizione è invece esprimibile: Spirito fattosi Atto e rivestito di forma per presentarsi nell’arena della parte più esterna della Manifestazione Universale, linfa che fiotta fuori sul tronco come resina balsamica e salvifica. È l’Inesprimibile che Si esprime, per quanto possibile, in un determinato contesto ed in un preciso momento ciclico.
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