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Sommario del sito

 

LA CITTÀ MIRABILE

Enzo Coffani

 

Nota introduttiva

   

Sommario

Capitolo primo - La cassapanca

Capitolo sesto - L'uomo salame

Capitolo secondo - Il sacrificio

Capitolo settimo - Gli inganni della Luna

Capitolo terzo - Il processo

Capitolo ottavo - Il pittore dal cappello d'Astrakhan

Capitolo quarto - La libreria e il violino

Capitolo nono - La Città Mirabile

Capitolo quinto - La costruzione

 

   


   

CAPITOLO PRIMO

La cassapanca

   

Se d’estate lavorare in quel seminterrato, sebbene con poca luce raccolta da quattro finestre alte appena cinquanta centimetri, l’aveva sempre considerata una benedizione, la stessa cosa non si poteva dire quando l’autunno irrigidiva verso l’inverno e, laggiù, a sei metri di profondità sotto il livello del marciapiede, l’umidità cominciava a salire dal suolo, non ostacolata da alcuna pavimentazione o isolante. 

L’impiantito era semplice cemento, tirato nemmeno tanto fine, e verso fine ottobre comparivano macchie scure che si ampliavano con il procedere della cattiva stagione, quasi ammorbidendo il pavimento al punto che talvolta, con un raschietto, se ne poteva sgretolare la superficie. Allora respirare diventava un vero problema, soprattutto per polmoni come i suoi, irrigiditi dal catrame delle sigarette ed affaticati dall’abbondante sovrappeso. L’inevitabile polvere in sospensione nell’aria sembrava coagularsi con l’umidità tanto che a fine giornata, soffiandosi il naso e sputando catarro nel lavandino, poteva distinguere una sorta di crema di polvere di legno color nocciola. I trucioli, raccolti da un aspiratore in un sacco, li spargeva a fine giornata sul pavimento e li ritrovava fradici l’indomani. Senza questa operazione, al mattino avrebbe trovato una sorta di malefica rugiada grigio chiara che poi, con il calore prodotto dalla stufa a legna, si sarebbe trasformata in vapore, eccetera. Senza contare che l’umidità torce il legno, soprattutto quello giovane e morbido. 

Ad ogni modo quello era il suo regno, un lavoro che gli dava il necessario per vivere ed anche qualcosa di più ma non sempre, come ben sanno gli artigiani, anche se una piccola ditta come la sua poteva permettersi di non fatturare anche il quaranta per cento delle vendite, con i migliori saluti allo stato per cui, emettendo sempre regolare fattura, avrebbe dovuto lavorare circa sei mesi l’anno. Comunque quel lavoro era adatto ad un tipo come lui, anche suo padre glielo ripeteva sempre, gli permetteva di starsene da solo con i propri pensieri senza dover parlare necessariamente con qualcuno e sempre. C’era chi lo rimproverava di essere un po’ orso ma poi, costei, se n’era andata. Non era il caso di pensarci troppo, era successo e basta. 

Clienti una stretta cerchia, ma mobili come ne costruiva lui non li potevi certo trovare presso le grandi aziende con sedi in tutta Italia. Lì il lavoro è condotto in serie, il che vuole dire che il mobile mancherà sempre di qualcosa. Definire questo qualcosa è difficile. Potrà essere tecnicamente perfetto, costruito con i migliori materiali, il miglior legno, le cerniere più solide ma qualcosa, se lo paragonate ai miei, qualcosa mancherà sempre. Non so bene cosa sia ma so che anche il cliente meno avveduto e meno sofisticato ne avverte la mancanza. 

Chiaramente, non tutti si possono permettere le mie credenze, i miei armadi, le mie cucine i miei comodini, perché io lavoro da solo e questo comporta inevitabilmente molte più ore di manodopera, dunque un notevole incremento del prezzo; quindi, a stretto rigore di mercato io nemmeno dovrei esistere. Ma esisto e resisto, più che dignitosamente se consideriamo anche che il mio nome non è conosciuto su larga scala per due motivi principali: la mia avversione alla pubblicità – mi ripugna l'idea di pagare qualcuno per questo – ed il fatto che non ho uno stile mio proprio.

Insomma, non ci vuole molto a capire a cosa serve il latte, mi pare. Serve ovviamente a nutrire, è un elemento completo di tutti i nutrienti, carboidrati e proteine in giusta proporzione, calcio, vitamine. Ed è facilmente digeribile. Ecco, non tutti in verità trovano il latte digeribile, ad alcuni provoca diarrea, ad altri pesa sullo stomaco. Se avete uno di questi problemi secondo me è per la semplice ragione che vi siete disabituati alla natura delle cose ed alla loro funzione. Avete trascurato la vostra intelligenza incondizionata e l’avete consegnata ai demiurghi dell’immagine. Quindi, se non vi nutrite col latte vi state nutrendo di immagini ed il vostro corpo per forza è denutrito. Con il mobile è la stessa cosa: ha una natura ed una funzione ossia nasce dal legno e serve a riporre cose. Al legno penso io, e come volete che le vostre cose vengano riposte me lo dovete dire voi. Io vi ascolto, e se avrete difficoltà a soffermarvi su come voi preferiate che le vostre cose vengano riposte, io vi offrirò un caffè e ci metteremo a sedere e vedrete che pian piano riuscirete a dirmi qualcosa di preciso sul vostro personale modo di riporre le cose. Il mobile che comprerete sarà il vostro, lo pagherete caro, ma state certi che il mobile vi ripagherà, lo sentirete nella vostra casa come sentite il vostro braccio. Quando riporrete nella credenza i bicchieri potrete stare certi che non ve ne sfuggirà mai uno di mano e quando lo guarderete esso vi farà compagnia, vi donerà qualcosa di impalpabile, vi verrà voglia di accarezzarlo, anche se forse non lo farete mai. 

Difficile a credersi, ma questo io non lo dico in giro. Semplicemente succede che un mio occasionale cliente si trovi a consigliare caldamente il mio nome, fortemente e casualmente, a voce, nelle situazioni più disparate. La pubblicità non è l’anima del commercio, è l’anima del consumismo. Punti di vista, beh, questo è il mio. Se non avete soldi a sufficienza vuol dire che o non avete bisogno del mio mobile o non lo volete. Scelgo io il legno adatto, non faccio previsioni per lo stoccaggio di grandi quantità di legno, uso con buona approssimazione solo il legno che necessita e quando non lavoro passeggio per sentieri di collina perché, visto il mio peso, non posso permettermi percorsi impegnativi. 

Non cambierei nulla della mia vita. Vivo solo e non frequento nessuno la sera. Non mi appassiona il mio lavoro, potrei anche farne tranquillamente a meno. Solo, lo faccio bene. Vivo senza fare sesso con una donna da quasi vent’anni, secondo me si può vivere benissimo senza sesso. Però qualcosa mi innervosisce ultimamente, mi agita, fatico a prendere sonno ed ho il respiro mozzo, forse dovrei perdere peso e smettere di fumare. 

Mangio abbondantemente e fumo troppo, ma preferisco pensare che sia colpa dell’umidità del posto in cui lavoro. Ogni anno è peggio, dovrei chiamare una ditta che isoli il pavimento dal terreno sottostante, lo so benissimo, ma mi sembra inutile. È idiota, me ne rendo conto, ma mi parrebbe di soffocare qualcuno. Spesso ho sperato che quelle macchie scure non tornassero l’anno dopo ed invece eccole, puntuali come una scadenza fiscale ed in più sempre più larghe. Solo a guardarle mi sento mancare il respiro.

Oggi credo proprio che non scenderò nel mio seminterrato laboratorio, l’ultimo mobile, una cassapanca ordinatami da un certo professore universitario di Milano, un docente di diritto penale nonché ex giudice d’Assise, è pronto, ma si sa come vanno queste cose: si sviluppa una sorta di abnegazione non tanto verso il lavoro in sé ma nei confronti del posto nel quale lo si esercita. Mi sono scoperto spesso a pensare con affetto alla mia vecchia e rugginosa stufa che però, quando la canna fumaria è sgombra, emette una sorta di benevolo ruggito divorando grossi ceppi di legno anche in meno di mezz’ora. Oppure mi soffermo a guardare gli strati di vernice che qua e là ricoprono il cemento, e talvolta con un piccolo scalpello scrosto le progressive sedimentazioni, dalla più recente e superficiale fino alla madre di tutte le sedimentazioni, quella a contatto con il suolo, quella che nacque con la verniciatura del mio primo mobile, circa trent’anni fa. E me ne sto lì a pensare cosa diamine stesse accadendo nella mia vita mentre la vernice, vaporizzata sul mobile, inevitabilmente si posava al suolo ed acquistava una sua fissità, mentre cioè aspirava ad essere fossile. Questa vernice muta ma presente che testimonia un tempo passato in quel posto ma che, interrogata, non dà risposte esaurienti quando le chiedo di me. Oppure posso togliere le ragnatele con una pertica, ma le pulisco solo perché sono sicuro che si riformeranno. Qualcuno ha deciso siano sinonimo di sporcizia, ma da quando un ragazzo m’ha detto che quello che esce dal culo di questi morbidi e discreti animaletti è un tessuto biologico che, a parità di diametro, è molto più resistente dell’acciaio beh, da allora, io mi assicuro di non aver ucciso il ragno in modo che possa ricreare la sua rete. E bado a distruggere solo quelle che, ormai vecchie, hanno perso a causa della polvere quel tanto di appiccicoso che consente di trattenere la vittima fino a quando, presa dal terrore , non comincerà ad imbrigliarsi nel morbido ma resistente filamento. Oppure mi leggo il giornale, ma sul tavolo da lavoro pare che me lo goda di più. Come se il giornale fosse meglio disposto nei miei confronti se lo pongo a contatto con i suoi avi, i suoi ascendenti, il legno appunto.

Certo che se rivelassi ad anima viva queste considerazioni, con ogni probabilità non otterrei altro che un sorrisino di circostanza nell’attesa di togliersi di torno un vecchio svaporato. Comunque oggi non starò in laboratorio, ho voglia di passeggiare. C’è una mostra di quadri sull’argine di un fiume in questo periodo, ogni anno. Ci vado sempre volentieri. Conoscere il mio ultimo cliente e lavorare per lui è stato faticoso più del solito. Lo sto aspettando, andiamo insieme a vedere i quadri.

Mi venne a trovare una mattina, e dopo un’asciutta presentazione reciproca, mi informò di essere stato indirizzato a me da un certo suo amico a cui pare avessi costruito un letto matrimoniale per la casa in montagna. Mi disse che aveva urgente bisogno di una cassapanca in cui poter riporre una quantità di libri che non avevano cittadinanza nella sua affollatissima biblioteca. Gli spiegai che i miei ritmi di lavoro sono assolutamente blandi e quindi che non sarei stato in grado di preparare il mobile nei tempi brevi da lui richiesti. Dopotutto, una cassapanca destinata non all’abitazione ma ad un solaio non necessitava del mio lavoro accurato, poteva benissimo acquistarla, per giunta ad un prezzo infinitamente inferiore, in una qualsiasi grande falegnameria o addirittura da un mobiliere oppure da un rigattiere. Sembrò perplesso per un attimo, poi si ricredette circa la reale urgenza del mobile. Disse che quei volumi giacevano scomposti ed ammonticchiati ai piedi dell’ultimo scaffale della sua libreria ormai da un anno, e qualche mese di attesa in più non costituiva a ben guardare alcun problema. Gettò una rapida occhiata, quante volte l’ho vista, a valutare la modestia del mio laboratorio e la vetustà dei macchinari per la piallatura del legno, e osservò, appesi ad una parete proprio sopra la sega circolare, una serie di vecchi trapani, quelli che richiedono un ampio movimento rotatorio della mano. Catturai il suo sguardo e dissi che non usavo trapani elettrici perché amavo imprimere la mia forza fisica alla punta, roteando la mano destra che stringe un pomolo e tenendo ben salda la mano sinistra all’impugnatura che dà la direzione al buco. Ne tolsi uno dal chiodo cui era appeso e glielo porsi, per fargli notare quanto la superficie del pomello, realizzata in legno di noce, fosse liscia. Fece aderire il cavo della mano e annuì. Gli offrii un caffè che accettò, ma quando tornai dalla cucina che sta proprio sopra il laboratorio insieme al resto del mio appartamento, l’uomo non era più lì. 

Ricevetti solo cinque giorni dopo una telefonata in cui si scusava d’essere scomparso all’improvviso, ma aveva ricevuto al cellulare una chiamata che richiedeva la sua presenza altrove, immediatamente. Inoltre, mi chiedeva quando sarebbe potuto passare di nuovo per discutere del mobile. Lo rividi la sera dopo e davanti ad un caffè servito su un tavolino a tre gambe, che tengo apposta insieme a due sedie per parlare con i clienti, mi disse che in realtà c’era poco da discorrere, solo avrebbe voluto che con il metro io gli dessi un’ idea delle misure della cassapanca, in modo da valutarne la capienza. Concordammo un metro e sessantacinque per la larghezza, sessanta per l’altezza e sessanta per la profondità. Gli feci poi vedere alcune serrature, a mo’ di forziere per intenderci, che avevo conservato in un cassetto, precisando però che era solo per intuire il suo gusto e procurarmene una nuova senz’altro. La scelta della serratura fu molto difficoltosa, era indeciso fra tutti e sei i modelli che gli avevo sottoposto, cambiava repentinamente opinione ma senza un motivo preciso, ne sceglieva una, ci pensava un attimo poi, senza argomentare, ne sceglieva un’altra poi tornava a scegliere quella che aveva scartato in precedenza. Durò una buona decina di minuti finché gli chiesi, così per toglierlo dall’imbarazzo, se gradiva una sigaretta e se desiderava che facessi una bordatura del coperchio in gomma in modo da impedire alla polvere di filtrare all’interno, ed all’inevitabile umidità del solaio di rovinare i libri. Accettò la sigaretta ma fu deciso nel rifiutare la bordatura in gomma. I libri destinati al solaio non erano di gran valore, e poi gli scivolò detta una frase che a tutta prima mi parve quella di un folle. Disse che l’umidità non era il vero problema. Aspirai una boccata di fumo e chiesi se desiderava che istoriassi il perimetro delle facciate e dell’anta , ero in grado di farlo con notevole perizia, ero stato a bottega da un bravo restauratore e, per mostrargli alcune mie opere, mi alzai per prendere diverse foto di cesellature particolarmente riuscite. Mi resi conto che non mi stava ascoltando e che il suo sguardo era tornato a palleggiarsi fra una serratura e l’altra. Forse era la serratura in sé il problema, nel senso che magari semplicemente non la voleva: dopotutto, se i libri non necessitavano di particolare cura, ebbene una cassapanca senza serratura poteva benissimo fungere allo scopo.

«Sa, mia figlia è morta l’anno scorso».

«Mi dispiace» fu quello che riuscii a dire.

«Osteosarcoma».

«Come è successo?»

«Sa cos’è l’osteosarcoma? È la condanna alla pena capitale scritta su una cartella clinica invece che su una sentenza di qualche tribunale americano... solo che c’è più pena».

Il suo tono di voce si era fatto d’un tratto più colloquiale, aveva un certo smarrimento negli occhi. La fase dello stomaco che si torce e del dolore che preme con i suoi suoni terrifici e sconosciuti fin quasi a spezzare la scatola cranica, era superata. Conosco queste dinamiche, quando successe a me ricordo che, passato il dolore, che ti rimbalza da un lato all’altro della casa a tentare di riordinare i gesti ordinari, sopravviene un non meno alienante periodo in cui la tua esistenza e le tue relazioni assumono una consistenza meno solida, meno certa. Un vago sentore di inquinamento, di aria asfittica, è lo sfondo che regge la scena della tua mente e tutto attorno a te assume un tono segretamente farsesco. 

Con il tempo in genere si presentano due atteggiamenti tipici: la costituzione nevrotica deve al più presto sussumere un accadimento ignoto come la morte in un codice di significato che regoli l’aldilà. In questo caso, i codici scritti dell’aldilà sono fondamentalmente tre, e meravigliosamente chiari e soprattutto disponibili per l’aldiquà. E allora avanti con una lunga teoria di comportamenti che conferiscono un preciso significato all’accadimento della scomparsa di una persona. E allora avanti con le conversioni lampo, forza con il frequentare preti, e, per i più nevrotici, per quelli cui non bastano codici che consentano seppur minimamente un atteggiamento critico nei confronti dell’evento che ci ha strappati a noi stessi, fiorisce una selva sotterranea di sette più o meno visibili, ma con la caratteristica comune di inquadrare il nostro problema entro confini logici ancora più stringenti ed inopinabili. 

Così, per il maniaco razionalista, ecco bell’e pronta una teca cui affidare la fotografia del proprio dolore, con sotto una bella didascalia che fornisce al proprietario l’esatto significato, l’interpretazione autentica della fotografia. Il guaio è che generalmente il dolore chiede di muoversi, di parlare con noi, di sollecitare un’attenzione diversa a cose diverse ma il nevrotico, tutto preso dalla sua smania di controllare perfettamente la propria esistenza, non ha un udito molto raffinato, e tanto più è sordo al dolore quanto più questo sarà assordante. Inevitabilmente succederà una cosa perfettamente normale per il nostro ibrido amico-nemico dolore inascoltato: cercherà di evadere da quella angusta teca dove altri lo hanno relegato e cristallizzato e, per paura di farsi scoprire ed incarcerare di nuovo, userà maschere le più disparate e tornerà a trovarci, debitamente travisato, per parlare con noi. Credo di capire che abbia anche un’insolita facoltà: quella di sdoppiarsi a volontà per aiutarci ad affrontare il problema da diversi punti di vista, sollecitandoci con mille voci. Ma noi niente, sordi. Scopriamo però che quell’incessante brusio ci dà molto fastidio ed allora ricorriamo al noto espediente delle teche sempre più piccole, sempre più autoritarie. Ma il gioco comincia a mostrare i propri limiti, forse abbiamo imbroccato una strada sbagliata, ci prende lo sconforto e la desolazione, questa strada è arsa e solitaria: abbiamo bisogno di compagnia, insieme gli errori si vivono meglio, l’infingimento non sembra più tale, si confonde fra mille volti e mille parole: nasce il fanatismo. 

Poi c’è un altro tipo d’uomo cui succede la stessa cosa, perde una persona cara, ma, per istinto forse nebuloso, si guarda bene dall’affidare la gestione della propria sofferenza a contabili preposti a farlo da millenni. Costui pensa che il proprio mondo interiore, con le sue costellazioni luminose ed i suoi inevitabili buchi neri, sia un affare decisamente troppo personale per essere manomesso da suggestive infiltrazioni di autorità spirituali, siano esse austere o barocche, colorate d’oriente o bianche di papato. Semplicemente passa il suo tempo ad osservare il patimento che lo abita, con un’attenzione viva e dolce mentre accetta nuovi suggerimenti, nuove associazioni d’idee, nuovi stimoli e forse radicalmente una nuova vita; tutte cose, queste, che a ben guardare, spesso sono il regalo occulto della sofferenza. E non perché sia un eroe, una sorta di superuomo, ma penso per aver incontrato, fortuna o inclinazione che sia, la creatività sulla sua strada. Per avere sperimentato cosa sia in realtà e fondamentalmente la creatività, a prescindere da ogni sua espressione, e cioè la percezione di qualcosa di totalmente altro da ciò che è noto. È possibile che nella mente di quest’uomo si delinei quindi un’associazione di idee paradossale, ossia la morte come creatività, la morte come apertura verso qualcosa che non c’era prima: accidenti, la morte come vita. 

Non so come in realtà stiano le cose ma vi assicuro che se osservate il volto di un uomo nella cui mente si è condensata quest’ultima galassia di atteggiamenti esistenziali, potrete scorgere una qualità luminosa nei tratti pur duramente provati dal lutto. Noterete un atteggiamento di disponibilità verso l’altro da sé, spesso a prescindere da ogni sottile o grossolana ricompensa. Intendo una disponibilità non confitta in una norma che la prescriva ma che, quando e se sgorga, lo fa naturalmente. Viceversa il nevrotico ragiona, mi si passi il bisticcio, in termini ragionieristici. Pensa che il modo migliore di far fronte ad una perdita sia rafforzare le difese, per non averne altre, e difendendosi si irrigidisce, si sclerotizza, diviene duro, come un morto.

«L’osteosarcoma è una neoformazione che interessa le cellule delle ossa, di preferenza ha sede negli arti lunghi, metastatizza prestissimo ai polmoni ed al cervello, nella scala di intensità dei dolori sperimentabili da un corpo umano è ai primissimi posti».

«Davvero, mi spiace, ho perso mia moglie e so cosa si prova, il senso d’impotenza nei confronti del dolore, ma poi, è incredibile ma succede, il dolore scorre e se ne va. Ma come è successo?»

«Io direi piuttosto che il dolore scorre e mia figlia se ne va, anzi se ne è già andata ed ha lasciato un padre secco come un biscotto dietetico». Sorrise della sua penosa metafora. «No, chiedo scusa, mi rendo conto che la sto mettendo in imbarazzo, davvero non ha senso che io racconti queste cose a lei, sottraendole tempo arbitrariamente. Talvolta smarrisco le più elementari norme di educazione». Aveva parlato velocemente, furtivamente, come un fiume in piena che non vuole essere arginato dai contadini prima d’aver alleggerito la pressione contro le sue sponde.

«Per me non c’è nessun problema, cosa vuole, alla mia età il tempo comincia a diventare un valore così relativo. Piuttosto, come ve ne siete accorti, forse il male non è stato diagnosticato in tempo?»

«Certi tumori, come quello di mia figlia, sono un fulmine a ciel sereno, come una maledizione operano in segreto e quando si manifestano è segno che la loro opera di distruzione è inesorabilmente avviata; un giorno mia figlia torna dal circolo del tennis zoppicando e mi dice che probabilmente s’è scheggiata l’osso del femore. Ha dolore ed un rigonfiamento poco sopra il ginocchio sinistro. Appoggia il piede con fatica, le scale le ha salite saltellando sul piede destro, mi dice. Non sono un medico ma minimizzo: le prendo del ghiaccio e le assicuro che starà meglio. Penso a mia figlia come ad un esemplare di questa generazione di catastrofisti, afflitta da ogni sorta di problemi psicosomatici per troppo agio, incapace di tollerare il minimo dolore, non abituata alle privazioni che la mia generazione nata sotto le bombe ha conosciuto assai presto. Penso a mia figlia, ed ai suoi coetanei, con la bustina di antidolorifico nella tasca dei jeans per far fronte ad un mal di testa improvviso. Penso a questo guardandola negli occhioni terrorizzati. Penso alla sua camera fatta di peluche dall’espressione dolce e rassicurante, agli interminabili pianti per una delusione d’amore, alle gocce per dormire. Quante storie per uno scivolone ed una bottarella, rispondo, mentre le applico la boule del ghiaccio. Mi assicura che non ha preso nessuna botta perché non ha fatto alcuno scivolone su quel campo. Il dolore ed il rigonfiamento sono sorti dal nulla e l’hanno obbligata ad interrompere la partita. In effetti, osservando il quadricipite stranamente panciuto, noto che non ha il colore tipico delle contusioni. E va bene, domani vai dal medico se non ti passa, e per me è finita lì, ma la notte non riesce a dormire. È un dolore strano, dice, e si versa in bocca alcune gocce di lexotan. L’indomani la vedo a colazione: i lineamenti collassati del volto insonne e gli occhi fissurati mi dicono che non ha chiuso occhio neanche per un minuto. Mi telefona in tarda mattinata e mi dice che il nostro medico le ha prescritto indagini specialistiche, questa e quella. Quando rincaso la sera, la nostra governante mi informa che Chiara ha passato tutto il giorno a letto, pare che soffra, nonostante gli antidolorifici di cui è sempre inspiegabilmente munita. Entro in camera sua e la trovo distesa che mi sorride e mi dice che ha paura, che è un dolore strano».

«Avvertiva il pericolo nonostante la banalità dei sintomi. Crede che presentisse la gravità della sua condizione?»

«Ah, questo non lo so, le ripeto, mia figlia era una ragazza fragile, sentimentale, spesso teatrale nel rappresentare i propri dolori e angosce. Credo lo facesse per catturare la mia attenzione, un po’ perché il lavoro mi tiene spesso fuori casa un po’ perché non ha mai avuto una madre, divorziammo che aveva quattro anni, ed anche se ripeteva spesso che Alba, la nostra governante, era una doppia mamma, temo che in realtà le cose stessero diversamente. Non accettò mai il nostro divorzio ed anche se ancora oggi fatico a confessarlo, per questo provavo un sottile rancore nei confronti di mia figlia, quando nelle rare discussioni sull’argomento, mi apostrofava chiamandomi meccanico dell’emozione. In ogni caso le indagini specialistiche quindici giorni dopo mi pesavano tra le mani come un’incudine che inchiodava Chiara al suo destino. In fretta e furia chiesi ad un mio amico primario di approntare un esito falso che parlasse di un non meglio precisato callo osseo, cosa che fece, ricordandomi che, secondo lui, la lotta per la vita poteva scatenare energie psichiche in grado di mettere il malato in condizione di reagire meglio alla terapia. Trascurabili, rispose, quando gli chiesi le percentuali di sopravvivenza. Tornai a casa, Chiara era nel letto con le lacrime agli occhi. E mi fissava, ma non ce la faceva a sorridere. Il referto medico, quello vero, parlava di osteosarcoma con quattro ampie metastasi ai polmoni, disponeva l’amputazione dell’arto colpito ed il trattamento chemioterapico delle metastasi polmonari. Incontrai ancora l’amico che aveva falsificato il referto e mi consigliò di rivelare la verità, tanto l’avrebbe scoperto, non si amputa un arto per un semplice callo osseo. Dissi a Chiara che doveva ricoverarsi per ulteriori esami e per trovare una terapia adatta al dolore che aumentava. Lei rispose che aveva intuito cosa la faceva stare così male. Era l’umidità della nostra casa, lo diceva sempre che nell’appartamento del palazzo che abitiamo c’è troppa umidità, e lei questa umidità l’ha sempre detto che la faceva respirare male, e poi sapeva che l’umidità nuoce alle ossa. Quando non ero troppo stressato per risponderle, le buttavo lì come una cantilena il fatto che quando si vive in un palazzo tutelato dalla sovrintendenza ai Beni Culturali, non si possono operare interventi di intonacatura o isolamento senza debita autorizzazione. In realtà, io quell’autorizzazione mai nemmeno l’ho chiesta per il semplice fatto che non avvertivo alcuna umidità, e poi le avevo già comprato il deumidificatore per la sua stanza, e in definitiva questo era un altro dei suoi capricci. «Dovresti essere contenta di vivere in questa reggia con le volte dei soffitti affrescate, altro che umidità, ma forse questo è un espediente per dirmi che non ti va giù l’idea che il Tribunale per i Minori ti abbia affidata a me e non a quell’irresponsabile di tua madre».

Metastatizzò al cervello, nei lobi frontali, e presto mia figlia scomparve: ne rimaneva il corpo dolente ma rimaneva anche una parola che ripeteva ossessivamente, umidità umidità umidità umidità. Un mese o poco più e anche il suo corpo moriva, mentre accanto al suo letto, su una poltrona, sognavo di annegare in un mare di fango». La sigaretta che gli avevo offerto era diventata cenere fra le sue dita.

«Ora vive solo in quella casa?»

«Sì, sa cosa le dico? Aveva ragione Chiara, c’è molta umidità in quella casa, adesso la sento anch’io».

Guardavo l’uomo che avevo di fronte, un uomo di mezza età con le membra che parevano volersi ritirare dai vestiti che d’un tratto mi sembravano decisamente abbondanti, le linee d’espressione del viso impietosamente dirette verso il basso, come a cercare nella terra immagini di un tempo in cui sua figlia era con lui. Pensai alla concitazione con cui mi rivelò il suo dolore, pensai che non fu lui a decidere cosa dire né a chi, pensai a questo strano colloquio come ad un fenomeno fisico che prescinde dalla volontà di ciascuno. Una situazione simile a quella dei vasi comunicanti: si crea un contatto, un’aderenza, ed ecco che, dal vaso con più pressione, il fluido di sofferenza trasmigra al vaso meno pieno. Quanto al perché questa contiguità si sia verificata con me, non saprei dire, ma so che non è la prima volta, potrei azzardare banalmente che forse dipenda dal mio tempo libero, che è molto, e che quindi chi mi avvicina noti una qualche aura di disponibilità, rara a trovarsi in una società che usa il tempo in maniera così disperatamente frenetica. L’uomo aspettava una mia parola.

«Senta, Guido, se non ha impegni perché non rimane a cena stasera?»

«La ringrazio, ma già sono imbarazzato per questa conversazione così atipica, credo di non volerle dare noia ulteriormente».

«Sono un discreto cuoco, rimanga».

Mi sorrise e accettò.

«È bello mangiare in compagnia ogni tanto, se vuole seguirmi, l’appartamento è di sopra».

«Sa, da quando è morta mia figlia ho smesso di fare quasi tutto, niente più circolo del tennis, niente più cene al ristorante, mai più un weekend a sciare. Per equilibrare la serietà che i miei impegni accademici e professionali inevitabilmente richiedono, mi ritagliavo spesso di questi spazi all’insegna della giovialità un po’ demenziale. Mia figlia sentenziava che eravamo un delizioso gruppetto di rimbambiti».

«Ah, bella questa, i giovani sono spesso un po’ impietosi, ma hanno una saggezza intrinseca così sottile, così fendente, come se nemmeno ne fossero completamente consci, al punto che talvolta soccombono sotto la loro stessa ascia».

«Ecco, questo è il punto, questo mi ha sempre sconfortato: come diavolo è possibile che ragazzi che danno innumerevoli prove di un intelletto ben desto e vigile poi, come rapiti da un demone, si perdano in atteggiamenti autolesionisti e infantili, infangati in nebulose depressioni d’umore. Questo non lo capisco, questo mi dà rabbia».

«Bah, su queste cose si arrovellano eminenti studiosi ben da prima che il problema della devianza giovanile divenisse così palpabile e pressante, insomma molto prima che arrivasse all’attenzione dei media, che spesso ne hanno spettacolarizzato gli aspetti più violenti e inquietanti. Dal canto mio, così, da osservatore defilato e non professionale, penso semplicemente a due cose che ordinariamente mancano ai figli perché mancano anche ai genitori, e cioè fondamentalmente tempo e disponibilità».

«Lei è convinto di questo?»

«Ma no che non sono convinto, e come potrei? Ma è inutile fare il punto su ciò che muta ad ogni istante, è una soddisfazione intellettuale che la vita ci preclude; quindi, secondo me, niente teorie su queste tematiche, niente di niente. Non trova sia più facile ficcarsi in testa un mucchio di bei teoremi, piuttosto che scoprire che il tempo dedicato ai nostri figli è solo tempo che dedichiamo a noi stessi ed alle nostre frustrazioni, piuttosto che a loro?»

«Ma che dice? Io ho passato molto tempo ad ascoltare mia figlia, ho cercato di coinvolgerla nelle mie attività, ho ascoltato i suoi desideri, le sue curiosità circa la mia vita professionale, ho cercato di fare la conoscenza dei suoi compagni di classe, le ho consigliato le letture che ritenevo più ispiranti, le chiedevo spesso cosa volesse fare nella vita, ho ascoltato anche le sue confidenze riguardo ad un ragazzo che le piaceva».

«No, senta, non ne faccia una questione personale, dopotutto è solo una mia idea, io ho una figlia che se ne è andata di casa a vent’anni e, pensando a qualcosa da rimproverarmi, penso alla scarsa disponibilità che, a causa del mio lavoro – era diverso allora – avevo nei suoi confronti. Quando se ne è andata le ho chiesto il perché di questa decisione e lei mi ha risposto che è meglio vivere soli che con un simulacro di rapporto con una persona. Credo avesse urgenza di qualcosa di decisivo, qualcosa che la mettesse di fronte a se stessa, senza interferenze parentali. Non è più tornata».

«E perché non la cerca? Sa almeno dove vive? Cosa fa?»

«Non so assolutamente nulla, non ho mai ricevuto una cartolina o una telefonata. Quando se ne andò le feci capire, anzi le dissi a chiare lettere, che poteva per ogni difficoltà contare su di me, ma mi volse le spalle senza rispondere e non la vidi né sentii più».

«Ma come fa a sopportare una simile situazione, le dico, io impazzirei, muoverei mari e monti, a costo di assoldare una frotta di investigatori la scoverei in qualsiasi anfratto di questa terra».

«Con l’età mi sono fatto fatalista, se dovrà essere che la reincontri prima di morire, così sarà senza che me ne preoccupi».

«Ma questo è nichilismo! Semplicemente lei non ama sua figlia al punto di scomodarsi per lei, questa è la mia opinione, altro che chiacchiere. Lei si è lavato la coscienza con una dichiarazione di disponibilità nel momento dell’addio e via, chi ci pensa più?»

«Può darsi, di certo lei nella vita deve essere un buon giudice, sicuro, breve, chiaro... senta, mi faccia una cortesia, stappi la bottiglia e la versi in quella brocca, così mentre preparo la pasta il vino si ossigena, sarebbe un crimine non odorare il bouquet di questo vino superbo».

Guido si sorprese ad armeggiare con il cavatappi e, mentre la vite scendeva nel tappo, dalla sua gola saliva un singhiozzo a malapena strozzato e queste parole: «Credo di doverle delle scuse».

«Accettate, e diamoci del tu se non hai nulla in contrario, sei d’accordo?»

«Come no, certo».

«Prendi la brocca e ruotala dolcemente perché la pasta è quasi pronta; questo vino dovrebbe ossigenarsi almeno mezz'ora, se lo muovi guadagniamo tempo».

«D’accordo, ma davvero la pasta è fatta in casa, l’hai fatta tu?»

«Certo, è facile, la preparo due volte la settimana, è un vizio che mi concedo, del resto le mie dimensioni confermano che sono un amante della buona cucina, purtroppo non solo qualitativamente».

«Vivi solo?»

«Sì, da parecchi anni».

«Non ti pesa la solitudine? Io vivo con la mia governante ma quell’appartamento ormai è troppo silenzioso per me, sto pensando di andarmene».

«La solitudine non mi pesa, semmai il mio corpo pesa, è una cosa cui ci s’abitua al punto che poi solitudine e compagnia diventano due parole vuote di ogni significato».

«Questa pasta è eccezionale».

«Assaggia il vino, è una bottiglia davvero eccellente».

«Sono senza parole, non ho mai gustato nulla di simile, ma dove lo compri?»

«Me lo regala un amico che ha una piccola azienda nelle Langhe, a conduzione famigliare, più un hobby che un lavoro, però i risultati sono ottimi. Vende solo ad amici, e talvolta regala. Come me anche lui è uno che si fa pagare caro».

«E come sopravvive?»

«Ponendo cura ad eliminare il superfluo».

«Un monaco dunque, un eremita».

«Tutt’altro, casa sua è sempre zeppa di gente che viene da tutta Italia, amici conosciuti qua e là casualmente, lui è davvero simpatico».

«Però si fa pagare caro proprio dagli amici. Intendo, il vino è eccellente, basterebbe che facesse un investimento oculato per ampliare l’azienda e potrebbe essere competitivo sul mercato».

«No, le cose non stanno esattamente così, vedi, a lui non interessa guadagnare, a lui interessa avere di che vivere, sono due cose totalmente diverse. E le persone comprano il vino perché amano quel vino, loro chiedono a lui di poter comprare il vino, non viceversa».

«E vende tutta la produzione di ogni annata?»

«Fino all’ultima bottiglia, sempre».

«Beh, fa piacere che esistano nicchie professionali che sfuggono alle ferree leggi del mercato».

«Il mercato vende morte, la produttività è in sé morte, poi ci sono persone nascoste, per la massa inesistenti in quanto non pubblicizzate, che vendono vita, qualsiasi cosa vendano».

«Non ti seguo».

«In effetti è difficile pensare a persone che vivano il lavoro ed il tempo secondo logiche completamente diverse, che abbiano un senso del profitto di cui il profitto economico è un ben pallido riflesso».

«Posto che esistano, non devono essere in troppi».

«Come mai sei diventato un uomo di legge?»

«Francamente non ti saprei rispondere, era nell’ordine delle cose, provengo da una famiglia di giuristi, dopo la laurea mi fu facile accedere al dottorato. Ho sempre provato il piacere di studiare la legge, mi affascinava l’idea della regola certa riguardo i rapporti di comportamento economico e sociale. In più una cosa è sicura, e cioè che senza diritto non è possibile organizzare un consesso sociale a nessun livello. Anche le istanze morali più diffuse in una società, sebbene non strettamente codificate, altro non sono che diritto. Alcuni lo hanno ipostatizzato denominandolo diritto naturale, per altri sono i dieci comandamenti, per quelli che amano il New Age saranno regole tratte da testi gnostici oppure teosofici. Infine, null’altro che diritto. Quello che ho studiato io è solo quello più riconosciuto».

«Ti piace che ad ogni azione corrisponda un effetto certo, ti piace l’idea del confine, del limite. E così sei diventato un modulatore dei rapporti fra gli uomini».

«Qualcosa si deve pur fare, no? Tu stesso fai il falegname, anche se riconosco che il tuo modo di lavorare e di organizzarti forse non mi avrebbe stupito nel medioevo ma oggi... mi domando come tu possa vivere decentemente».

«Me lo domando anch’io, ma non saprei vivere che così ormai, e comunque credo che la vita sia sempre decente».

«Anche quella di chi vive per pochi anni, scarnificato dalla fame in qualche staterello africano e poi muore per volontà di qualche dittatore temporaneo magari foraggiato dai servizi segreti di qualche rispettabile stato occidentale che ha interessi in loco?»

«Anche quella».

«Anche quella del dittatore che compie ordinariamente eccidi in barba a qualsiasi convenzione internazionale sui diritti dell’uomo?»

«Anche quella, senti io sono un falegname, costruisco mobili e penso quello che voglio e dico quello che voglio».

«A certe latitudini questo non ti sarebbe possibile».

«A certe latitudini mi basterebbe non dire quello che penso: sai, non credo sia essenziale parlare».

«Facile dirlo a tavolino di fronte ad un buon vino».

«Infatti è facile, in alto i bicchieri, alla tua».

«Questo vino è molto forte, sento già caldo e non sono che al secondo bicchiere».

«Te l’ho detto, questo vino è vivo, è diverso dagli altri, tutti coloro che lo assaggiano se ne rendono presto conto».

«Perché è vivo? Cosa intendi?»

«È vivo perché nasce dal piacere, così come una nuova vita viene concepita nel piacere, similmente questo nettare scaturisce dal piacere».

«Ho capito, sei un seguace di una qualche setta orientalista, oppure sei in contatto con una comune che si autosostenta con l’agricoltura e l’artigianato, o magari sei tu stesso una specie di guru».

«No, non gioco con i cristalli né annuso incensi; vedi qualche amuleto sul mio corpo? Io costruisco mobili ed il ricavato, come mostra il mio conto in banca, finisce tutto quanto nelle mie tasche. Intendevo solo dire che il valore aggiunto di questo buon vino sta nel piacere che il mio amico vinificatore pone nel suo lavoro, nell’armonia che lo abita quando si dedica alla vite, nella completa soddisfazione che lo permea quando si corica dopo una giornata di lavoro e nell’energia che scopre in sé la mattina all’alba quando si desta».

«E questo quadretto idilliaco lascia tracce di sé nel vino, e chiunque lo centellina partecipa del piacere che il tuo amico ha posto nel produrlo? È questo che mi vuoi dire?»

«È esattamente questo».

«Beh, il vino scende in gola dolcemente ma questa mi rimane davvero dura da mandar giù, fantasie».

«E sia, fantasie, l’importante è che il vino ti piaccia, serve a questo, no?»

«Tu glissi come un politicante colto impreparato».

«Non è vietato dalla legge, vero?»

«Oh no, stai tranquillo, glissa quanto ti pare».

«Grazie, ora se non hai nulla in contrario che ne dici se definiamo alcuni particolari riguardo alla cassapanca che mi hai commissionato?»

«Certamente, cosa in particolare?»

«Il colore ed il prezzo, per esempio, e poi quella questione delle serrature che era rimasta in sospeso».

«Direi che il colore non importa, tanto è destinata alla soffitta e per quanto riguarda la serratura, fammi pensare un attimo».

«Eppure un bel colore mogano scuro si adatterebbe al tuo soggiorno, dopotutto una bella cassapanca la potresti utilizzare anche come pezzo d’arredamento, e se magari ti venisse voglia di leggere i libri di tua figlia, di sfogliarne i quaderni e i diari, sarebbe a tua disposizione senza salire in una polverosa soffitta».

Guido tacque e piegò lo sguardo verso il bicchiere di vino.

«Perché sei venuto ad ordinare una bara per la memoria di tua figlia? La bara è per il corpo, quella si può chiudere, ma la memoria non si chiude in una cassa, credimi».

Intervenne un lungo attimo di silenzio tra i due uomini. Angelo aveva dato prova di una perspicacia inquietante, buttando lì la vera necessità che aveva spinto Guido sino da lui, con l’atteggiamento di chi considera scontato e quasi fastidioso essere obbligato a rivelare una verità tanto ovvia, involontariamente affossando l’accento come affaticato.

«Tua figlia deve ancora parlarti, non chiuderle la bocca anche stavolta, cercala in mezzo ai suoi fogli, dentro i disegnini al bordo dei libri di testo, scoprine i veri problemi nel diario che hai trovato, medita sulle sue considerazioni, leggi i libri che lei leggeva, stringi i suoi peluche. Non temere di essere stupido, non temere di essere infantile, non aver paura di compiere un’azione senza senso».

«E che cosa potrei scoprire? La sua morte ha posto un definitivo punto sul nostro rapporto».

«Ne sei sicuro? E allora cosa si agita continuamente dentro di te? Cosa ti fa apparire la tua vita presente e passata così priva di significato e partecipazione? E se lei potesse esserti d’aiuto a superare tutto ciò? Certo non potrai più stringerle la mano o abbracciarla ma, credi, lei non era solo qualcosa da abbracciare o baciare, tu ne puoi assorbire l’intelligenza, puoi imparare qualcosa, qualcosa che ti servirà per vivere, non per trascinarti da un impegno all’altro».

«Non so rispondere ad alcuna di queste domande, Angelo, temo anzi di non aver capito nulla di quanto hai detto, e comunque non saprei da che parte incominciare. Per la verità, mi sento incapace di far fronte a questo dolore che, quietamente ormai, mi consuma».

«A proposito, hai mai abbracciato o baciato tua figlia? Ci sono padri che non lo fanno mai».

«Oh no, io lo facevo spesso, tutte le mattine prima di andare al lavoro mentre lei era ancora a letto, in più mi cercava spesso la sera e qualche volta capitava di stare abbracciati per qualche istante, tuttavia qualcosa la infastidiva circa il mio atteggiamento, diceva che percepiva in me una sorta di lontananza, ed io reagivo dicendole che le sue erano solo recriminazioni infantili... ultimamente certo le coccole erano diminuite, quasi assenti, ma credo fosse dovuto al fatto che stava crescendo... comunque...»

«Ti definiva meccanico dell’emozione, forse questo c’entra con il vostro modo di stare insieme».

«Forse, anzi sicuramente, vedi, l’affetto per mia figlia, considerando anche la separazione da mia moglie, l’ho sempre considerato un dovere morale, un atto dovuto, dal quale non ho mai pensato di potermi esimere, la questione è che talvolta ne avvertivo il peso. In definitiva, posso dire di non aver mai tratto piacere dal contatto con mia figlia, teso com’ero ad educarla secondo i canoni che mi erano stati trasmessi e che tutto sommato reputo tuttora degni».

«Capisco, mi incuriosisce il fatto che quando parli di lei non dimentichi mai di dire "mia", neanche una volta».

«E questo che c’entra? Non è forse vero?»

«Beh, mi viene da pensare che se tu hai anche inconsciamente il bisogno di sottolineare il possesso di una persona, questo implica necessariamente che tu ne possa disporre ed è quindi chiaro che il soggetto di tale possesso si senta depauperato della propria dignità e, in senso non certo grossolano, anche della propria libertà».

«Lei godeva della libertà che la sua età le permetteva».

«Sei un uomo troppo intelligente per non aver capito cosa intendo. Quando tu stesso, raccontandomi l’insorgere della sua malattia, hai specificato cosa pensavi di lei e della sua generazione, ho compreso come molto probabilmente tua figlia potesse sentirsi: massificata, quindi banalizzata, inoltre obbligata ad accettare la pantomima delle tue manifestazioni d’affetto, così, senza calore, vuote forme».

«Tracci un profilo di una persona preciso e senza appello solamente dopo quattro chiacchiere? Ti capita spesso? Non mi stupisce che tu viva solo. Quindi io sarei un uomo arido e fondamentalmente ottuso».

«Stiamo parlando ed è probabile che, parlando di te, io stia in realtà parlando di me senza saperlo. In ogni caso, il fatto che tu ti sia arrabbiato può essere interpretato pensando ad una risonanza precisa delle mie parole dentro di te. È inutile pensare a chi parla di chi, meglio ascoltare l’effetto che le parole della conversazione hanno dentro di noi, come se noi fossimo qua in silenzio ad ascoltare suoni che gocciolano dal cielo ed ognuno ne ricevesse particolari impressioni e motivi di riflessione, che ne dici?»

«Dico che le tue parole hanno un fascino doloroso».

«Senti, non abbiamo ancora definito il prezzo di quella cassapanca, ah no, aspetta, con o senza serratura?»

«Senza».

«Color mogano, avevamo detto?»

«Color mogano».

«Bene, il mio prezzo è di 15.000 euro».

«È una battuta? Tu stai scherzando vero?»

«È il mio prezzo, nessuna possibilità di contrattazione, prendere o lasciare».

«Tu sei pazzo, ti rendi conto che è assurdo? 15.000 euro? Ma è un prezzo da antiquari!»

«L’antiquario ti vende un mobile molto vecchio, io te ne vendo uno nuovo costruito con amore apposta per te».

«No, non se ne fa nulla, ne comprerò una altrove. In ogni caso s’è fatto tardi, devo tornare a casa, mi ha fatto molto piacere conversare con te, sei un uomo intelligente come raramente se ne incontrano. Mi hai alleggerito l’anima. Grazie».

«Piacere mio, Guido, torna a trovarmi quando vuoi».

«Ritocca i tuoi prezzi mi raccomando, potresti far morire d’infarto i tuoi nuovi clienti».

«Buonanotte».

«Arrivederci, buonanotte».

Uscì da quella palazzina anonima con giardinetto antistante la facciata verdastra e si ritrovò a guidare verso casa, con la testa leggera e dolcemente tiepida: immagini di quella strana conversazione, così atipica, quasi una confessione senza lo stigma della penitenza e l’indulgenza del confessore, planavano alla sua vista. Una chiacchierata spesso violenta nei contenuti, invasiva, oltre ogni norma di buona educazione, che però prendeva le mosse dal volto di quello strano uomo, i cui lineamenti contrastavano con la serietà del suo dire, con l’aggressività che nel corso della serata gli era parso di rinvenire nelle sue parole: un volto sereno, tondo, baffi da gaudente ben curati e un poco ridondanti sulle gote, il roseo delle guance in contrasto con le occhiaie da fumo che pendevano da occhi azzurri vagamente infossati. Un’impressione di bonarietà quasi paciosa, da sagra contadina, traspariva dalla sua complessione fisica: capelli radi biondo cenere raccolti in un minuscolo codino dietro la nuca.

«Che uomo singolare, e che intuito» pensava Guido, scosso da quella serata in maniera piacevole, godendosi una nuova sensazione tutt’affatto fisica, palpabile: un confortevole tepore lo permeava dalla testa ai piedi ed era così avvolgente che la mente sembrava del tutto disinteressata ad almanaccare gli eventi recenti: solo, comparivano brandelli di discorso senza continuità logica, si figurava come potesse essere la cassapanca, ricordava la sensazione antica di tenere quel trapano tra le mani, e quell’ottimo caffè e quel sublime vino e quell’assurdo prezzo. L’arteria che conduceva nella piazza dove risiedeva era intasata ed in più aveva cominciato a piovere ma questo, lungi dall’infastidirlo come regolarmente accadeva da anni, gli consentì di abbandonarsi ancora di più a quello stato quasi onirico, come se l’elegante abitacolo della sua automobile fosse d’improvviso e chissà perché trasformato in una sorta di santuario, un posto di silenzio, di echi e di aure, un catalizzatore di leggeri ricordi, percepiti come sorgenti da una dimensione gassosa, come translucidi attori su fondale di carta velina. I frequenti suoni di clacson ed il rombo dei motori si fondevano in un suono di acque con improvvisi schiocchi di cascata su pietra levigata. I colori violenti della città si staccavano dalle loro sorgenti, per rincorrersi e mitigarsi fin quasi a ricordare la luce discreta del sole che filtra nel sottobosco di prima mattina ad illuminare un sentiero, a precisare delicatamente un contorno. L’aria fresca, entrandogli dal naso con un leggero pizzicore, rinvigoriva e movimentava la potenza della visione, mentre, espirando, nuove composizioni si affacciavano alla mente: ora erano un gruppo di ragazze vestite in abiti folkloristici e sgargianti, con zoccoli di legno in riva ad un giovane e ribelle torrente di montagna che, costretto entro argini irregolari, schiumava spesso fin sulla testa delle quattro fanciulle che suonavano violino, viola, violoncello e contrabbasso con lo sguardo assorto a seguire le dita. Stavano a ridosso di una grossa pietra e la loro musica si percepiva a malapena, soverchiata com’era dalla potenza rumorosa dei flutti impazienti di raggiungere spazi meno angusti. La violinista smise di suonare e guardò nella sua direzione mentre le altre ragazze continuarono a suonare la mutilata melodia. Riconobbe immediatamente il bel volto di sua figlia che lo guardava serena, reggendo il violino in una mano e nell’altra l’archetto. Poi mosse le labbra ma l’imperioso frastuono del fiume gli impediva di intendere le sue parole. Uno scoppio oscurò il cielo ed una massa di acqua gelida e fango trascinò nel nulla le ragazze ed i loro strumenti, bevendosi il torrente e riconsegnandolo alla sua automobile. Si riscosse con un tremito mentre clacson rabbiosi gli facevano notare che la coda si stava dipanando e che doveva riprendere la marcia. Percorse la strada parzialmente sgombra ma si accorse di avere la testa bagnata: una grossa goccia d’acqua si allargava sulla testa, piovuta dopo tanto esitare dalle guarnizioni lise del tettuccio apribile. Nulla restava di quello stato di coscienza così inconsueto, quella goccia d’acqua aveva spazzato via anche il calore che lo confondeva: era di nuovo Guido, come si era sempre conosciuto.

«Suoni che gocciolano dal cielo» ricordò questo brandello di frase pronunciata da Angelo ed invertì la marcia, impaziente di ordinare quella cassapanca.

Tornava sui suoi passi ubbidendo ad un impulso d’urgenza che lo costringeva a guidare nervosamente, ossessionato dall’idea che Angelo potesse l’indomani accettare un’altra commessa e, visto il suo modo di lavorare, che la sua cassapanca rimanesse un’idea per chissà quanto altro tempo ancora. Suonò il campanello con la trepidazione di un adolescente innamorato che supplica l’eternità di uno sguardo innamorato e vi affida la propria vita. La figura pesante di Angelo si disegnò sullo schermo della finestra illuminata, si sporse, aguzzò la vista, poi gli parve sorridere complice.

«Ah, sei tu? Che succede? Problemi con l’auto?»

«No, niente di tutto questo, senti, scusa il disturbo ma devo dirti».

«Sali un attimo, tanto ormai mi hai svegliato».

Si ritrovò di nuovo al cospetto di quello strano falegname che preparava un caffè, vestito di un pigiama di flanella rosso scuro che conferiva alle sue forme qualcosa di decisamente comico, scarmigliato com’era e con gli occhi piccoli e arrossati dal sonno interrotto.

«Hai il fiatone, ma che ti è successo?»

«No, niente di grave, voglio quella cassapanca».

«Hai cambiato idea, perché?»

«Non lo so, un istinto, adesso sono convinto, ho necessità di quel mobile, ho necessità che me lo costruisca tu, fai quello che devi fare, accetto le tue condizioni».

«Sei sfortunato, è successa una cosa assurda, non lo posso più fare».

«Ma che stai dicendo? Cosa può essere cambiato in nemmeno due ore?»

«Vedi, quando te ne sei andato ho ricevuto una telefonata da un ragazzo che vuole una nuova libreria, e domani viene a trovarmi».

«Angelo, ti chiedo di posticipare quell’incontro, ti prego, dedicati alla mia richiesta, va bene il prezzo che mi hai proposto».

«E perché dovrei farlo, anche quel ragazzo probabilmente ha una certa urgenza di quella libreria».

«Ma anch’io maledizione, possibile che tu non capisca! Con quel prezzo era normale avere un attimo d’esitazione, era umano, Cristo!»

«Calmati, onorerò la tua richiesta, ma dopo quella del ragazzo, io lavoro così».

«No, aspetta, ci dev’essere una soluzione, ragioniamo con calma, qual è il vero problema?»

«Il vero problema è che per me tutti i clienti sono uguali e che non ho mai lavorato a due mobili contemporaneamente, per una questione di concentrazione, tutto qua».

«Quanto hai parlato con quel ragazzo al telefono?»

«Mah, circa un quarto d’ora, dove vuoi arrivare?»

«Ti ha parlato di sé?»

«No, figurati, abbiamo parlato della libreria, degli scaffali».

«Quanto gli verrà a costare?»

«Non ho ancora deciso, dipende dalle rifiniture e da altro».

«Quali altre cose?»

«Beh, questi sono fatti miei, se permetti».

«Va bene, supponiamo che il ragazzo non possa disporre di una grossa cifra, e che tu invece abbia intenzione di chiedergli un prezzo elevato, egli sarà costretto a rifiutare, giusto?»

«Giusto».

«Invece, sempre supponendo, se avesse la bontà di attendere che la mia cassapanca fosse realizzata, la libreria potrebbe senz’altro averla, in quanto io sarei disposto ad accollarmi il prezzo che deciderai per il suo mobile».

«Sei generoso, Guido».

«Non sono generoso, ho maledettamente bisogno della cassapanca».

«Se non sono indiscreto, cosa ti ha fatto mutare radicalmente opinione?»

«Non lo so nemmeno io cosa sia successo esattamente, devo rifletterci, in ogni caso non credo di volertene parlare, almeno per ora».

«Come preferisci, senti, per quanto riguarda l’offerta di accollarti le spese del ragazzo, non è cosa che possa decidere io, devi parlarne con lui. Abbiamo appuntamento in laboratorio alle tre domani pomeriggio. Puoi raggiungerci, così gli parli direttamente».

«Domani alle tre ho lezione in università. Facciamo così: dammi il suo numero di telefono così lo contatto dopo la lezione».

«Non ho il suo numero, so solo che si chiama Giulio».

«Allora, per cortesia, fagli la mia proposta quando lo vedi, potresti dargli il mio numero di cellulare e dirgli di chiamarmi».

«Non lo posso fare».

«Ma santo cielo, cosa ti costa! Cos’è, ti sono diventato tutt’a un tratto antipatico? Guarda che ci guadagni anche tu se accetta la mia proposta!»

«Non alzare la voce. I miei guadagni non sono cosa che ti riguardi. Non lo posso fare semplicemente perché è una tua idea, non mia. Io non sono al servizio di nessuno se non per quanto riguarda il mio lavoro, e fare proposte che fanno leva sulla ipotetica indigenza di un ragazzo non è il mio lavoro. Quindi, se vuoi parlargli, liberissimo di farlo ma non attraverso me: spero sia chiaro».

«Io... io sono sconvolto, tutto ciò non ha alcun senso... non so che dire... Angelo, ti prego...»

«Vieni domani alle tre, se ci tieni tanto».

«Ripeto che domani alle tre ho un seminario con centinaia di iscritti, non posso mancare».

«Senti, per cortesia, io adesso devo dormire, fai la tua scelta con buona pace di tutti. Non posso fare altro per te».

«Ma che uomo sei! Sai cosa ti dico? Vai all’inferno tu e il tuo lavoro maledetto! Che ci guadagni ad esasperarmi? Attento, io sono in grado di mobilitare parecchie persone, che so, che ne diresti di una bella ispezione fiscale? E magari ogni mese? Vorrei proprio vedere dove va a finire la tua sicumera. Ti renderò la pariglia Angelo, puoi starne certo».

«Guido, devo chiederti di andartene, tu sei nervoso ed io ho sonno, ci vediamo».

Mezz'ora dopo rientrava in casa, aveva guidato nervosamente lungo le strade ormai deserte della città, rimuginando sull’atteggiamento scabro e come infastidito con cui era stato accolto da quello strano uomo. Aveva perso il controllo, si era lasciato andare a grossolane minacce, aveva implorato quel maledetto mobile, si era offerto di accollarsi le spese di uno sconosciuto e, questo era veramente folle, mentre lo faceva trovava il suo comportamento doveroso. Aveva la misteriosa certezza che quanto era successo poche ore prima in auto, la visione di sua figlia così reale e partecipata, fosse dovuto all’incontro con quel falegname, e quasi inconsciamente aveva concluso che il possesso di quella cassapanca potesse essere un tramite, un anello di congiunzione, fra lui e sua figlia. E che quell’onda di acqua fangosa, che lo aveva riportato fra i suoi panni bruscamente, fosse da imputarsi al mancato accordo circa il prezzo. Si coricò, certo che il sonno avrebbe tardato e prese alcune gocce di sedativo. Le benedette gocce, come lui le chiamava, non tardarono a produrre il loro effetto, diffondendo un tiepido torpore prima alle membra poi alla mente poi... il buio.

Il campanello... A quest’ora?!... Che pena, levarsi. Che peccato, il sonno interrotto.

«Buonasera, scusi l’orario, sono l’incaricato delle rilevazioni igrometriche presso l’azienda sanitaria locale, dovrebbe concedermi di rilevare il tasso di umidità della sua abitazione».

«Ma che ore sono? No, no, torni domani, non ho mai sentito parlare di queste rilevazioni».

«Dovrebbe cortesemente aprirmi la porta, si tratta solo di pochi minuti. Come da recente comunicazione, lei è tenuto ad acconsentire all’ispezione a qualsiasi ora venga richiesta».

«Io non aprirò questa porta. Lei, o è un balordo in vena di scherzi oppure un malintenzionato, per cui ora se ne vada o chiamo la polizia».

«Non ha capito la situazione, signore, in ogni caso per far fronte a questo genere di reticenze siamo affiancati da due agenti di pubblica sicurezza, armati, signore, per cui apra la porta o ci vedremo costretti a forzarla».

«Oh sentite, sono il giudice Fabiani, provatevi ad entrare con la forza e sarà mia cura mobilitarmi per farvela pagare il più possibile cara questa dannata bravata. In più, l’allarme è inserito ed è collegato con la questura. Voi toccate questa porta, ed in cinque minuti vi troverete su una volante della polizia!»

Dall’altra parte della porta qualche secondo di silenzio, poi rumore di passi pesanti e poi un tonfo, seguito da un altro e da un altro ancora, a scuotere il portoncino che, per quanto massiccio, cedette ai colpi dell’ariete che i due poliziotti spingevano contro la serratura.

«Temevamo di dover ricorrere a questo con lei, signore, le nostre informazioni sul vostro conto prevedevano che avreste opposto resistenza. Tutti così, gli uomini con un briciolo di potere, vero ragazzi?»

I due poliziotti annuirono con un lieve cenno del capo, mentre il tecnico che reggeva uno strano strumento si portava al centro del salotto.

Guido si sentì sopraffatto dagli sguardi severi dei due agenti, che, mostrando il tesserino di servizio, avevano negli occhi una particolare luce che lasciava intendere che non avrebbero esitato ad usare sistemi poco ortodossi, nel caso ce ne fosse stata necessità. Uno di essi aveva la mano sul calcio della pistola.

«Ecco il motivo di tante storie! In questa casa il livello di umidità è ben oltre la soglia consentita per legge, ed in questo caso si presume la colpa del proprietario, senza possibilità di prova contraria, responsabilità oggettiva, signore. È lei il proprietario di quest’appartamento?»

«Sì, ma le ripeto che io non ero al corrente...»

«Dovrebbe sapere meglio di me che l’ignoranza della legge non scusa, comunque ora siamo tenuti ad irrogarle la sanzione prevista per questa sua mancanza, signore».

«Una contravvenzione, va bene, facciamola finita, mi dica la cifra e se ne vada».

«Nessuna multa, signore. A voi, ragazzi».

I due agenti lo afferrarono saldamente per le braccia e lo trascinarono alla più vicina finestra. Cercò di divincolarsi ma la stretta era ferma ed invincibile. Implorò lo sguardo del tecnico che, gli occhi chinati sul foglio, sentenziava:

«In nome della legge e per i poteri a me conferiti in via straordinaria dal Capo dello Stato, io la condanno ad essere gettato dal piano corrispondente a quello della sua casa di abitazione, per accertata violazione della legge sull’umidità. Ha capito la condanna?»

«Io non ho capito niente! Vi prego, un attimo, posso darvi dei soldi... ma lasciatemi vivere, ho parecchie amicizie che potrebbero...»

Ma uno dei due poliziotti assestò un calcio al ventre di Guido, che si piegò e smise di parlare, poi, mentre l’altro gli cingeva la vita con ambo le braccia, aprì le imposte.

«Risparmi il fiato, signore, e cerchi di comprendere la spiegazione della sentenza che mi accingo, per suo diritto, a darle: l’umidità è un reato gravissimo e dilagante, così il legislatore, in via temporanea ed esemplare, ha deciso di inasprire le pene. È parso quindi opportuno ed equo commisurare la pena all’intensità della responsabilità. Ora, è notorio che i piani più vicini al suolo siano quelli più esposti all’umidità, che quindi risulta più difficilmente contrastabile rispetto ai piani più elevati da terra. Quindi, più il piano della casa di abitazione è elevato, più grave sarà la responsabilità. Ecco perciò che la sanzione prevista è il defenestramento del proprietario: va da sé che se una persona abita al piano terra o rialzato, se la caverà con qualche contusione od al massimo una frattura. Ma nel suo caso, signore, il defenestramento si concluderà inevitabilmente con la morte. Infatti, lei sta per essere gettato, se non erro, dal terzo piano. Detto questo, non cerchi di prolungare la sua agonia affermando di non avere capito quanto sopra, perché la legge le dà diritto ad una sola spiegazione della lettera della sentenza. Ha capito quanto ho detto? Annuisca».

Annuì in direzione del tecnico, che lo guardò celando alla meglio un manifesto disprezzo e sibilò avvicinandoglisi:

«Detto sinceramente, io però non la capisco... Ma lei si rende conto che sarebbe bastato arredare il salotto con un bel mobile in legno massiccio non verniciato e questo avrebbe tranquillamente assorbito l’eccedenza di umidità del suo appartamento? Santo cielo, mi dia pure del burocrate ma certi comportamenti proprio non mi riesce di comprenderli. Le pene sono severe, mi rendo conto, ma è pur così facile evitarle. Eh, ma voi uomini di legge siete tutti intenti ad applicarla ad altri, la legge, e non pensate mai che prima o poi possa toccare a voi, vi credete immuni da ogni censura».

Guido aveva le pupille dilatate in un attimo di eternità e silenzio. Spesso si era chiesto, sentendo parlare di esecuzioni capitali, che peraltro aveva sempre esecrato a fronte di qualsiasi reato, cosa provasse o pensasse il condannato pochi istanti prima del fatale momento. Ora poteva rispondersi: nulla, solo ebetudine negli occhi, leggero ronzio alle orecchie, un po’ di freddo ed il silenzio della mente.

«Ragazzi, quando volete...»

Un attimo dopo era nel vuoto con la precisa sensazione del suo corpo che cercava velocemente il basso.

Una fitta alla testa interruppe la caduta e si ritrovò faccia al pavimento della camera da letto. Si mise a sedere e tastò la fronte da cui sgorgava un rigagnolo di sangue. Anche il labbro inferiore era vistosamente lacerato e pulsava, così come la testa. Tremiti grossolani percorrevano il suo corpo, al punto che per alcuni minuti non riuscì a reggersi in piedi e tamponò le ferite con un lembo del lenzuolo. Il cuore gli batteva nel petto violentemente e velocemente, ed un velo di sudore avvertiva lungo la schiena, un senso di vertigine minacciava di mandarlo lungo e disteso, perciò si sdraiò sul tappeto ed aspettò. Il freddo delle mattonelle sembrava rinfrancarlo e a poco a poco si calmò.

«Un incubo, grazie al cielo soltanto un maledetto incubo, che male la testa» pensò. Ricordava a stento la dinamica del sogno ma si rallegrò quando scoprì, guardandosi allo specchio e scorgendo il labbro tumefatto e sanguinante e la fronte lacerata e vistosamente contusa, di avere davanti a sé la plausibile e documentabile scusa per non partecipare l’indomani a quel seminario, ed essere libero di fare la sua proposta a quel ragazzo. Il tecnico del sogno aveva detto che sarebbe bastato un mobile in legno massiccio a scongiurare l’eccedenza di umidità. Non sapeva cosa potesse significare l’umidità nel sogno, ma qualcosa dentro di sé evidentemente considerava imperdonabile non comprare quel mobile e, al di là di ogni interpretazione fantasiosa, ora la sollecitudine si era trasformata in angoscia vera e propria, al punto che passò la notte sveglio, in modo da ricorrere l’indomani di buon'ora al dottore, ed avvertire per tempo chi di dovere dell’incidente occorsogli, affiancando se del caso la documentazione medica.

   

   

CAPITOLO SECONDO

Il sacrificio

   

«Ma chi è questa persona che ho accanto in questa casa?»

Questo pensiero le balzò alla mente con tale prepotenza che serrò palesemente le labbra come chi tema un rigurgito proprio nel mezzo di una cena di lavoro. Immediatamente realizzò che si trattava di una formula in cui condensavano chiaramente tutta una serie di malesseri e straniamenti che improvvisamente la estraevano dal consueto ordito della sua vita, sentimentale ma anche professionale, per consegnarla in un vago mondo di possibilità, minaccioso come la pagina bianca di un nuovo libro per lo scrittore. Era, per lei, come sentirsi d’un tratto non tessitrice, più o meno cosciente, degli snodi ed intrecci che costituivano il confortevole anche se un po’ sbiadito canovaccio della sua esistenza, ma puramente tessuto, e con una crescente sensazione di orrore. 

Da quasi dieci anni condivideva quella dignitosa casa con quell’uomo, di cui conservava un’immagine di bontà ed al quale attribuiva il fatto d’essere ancora viva. Lui le aveva condotto la giovinezza fino alla maturità, ponendo cura ad evitarle ogni inciampo, ogni scivolone, ma non solo: attraverso la sua presenza ubiqua ed un dialogo incessante riguardo ogni questione che potesse restituirla ai suoi latenti impulsi autodistruttivi, rappresentava ormai per lei l’acciaio d’un binario borghese, pronto però ad allargarsi in ansa finché lei non acquistasse la ragionevolezza necessaria a sopportare nuovamente la direzione prestabilita. 

All’inizio anche l’attrazione fisica non era mancata, era un bell’uomo, ma proprio qui c’era qualcosa che non andava per il verso giusto. Ultimamente pensava alla sua pubertà come alla scaturigine del crescente malessere che provava ora. Questo non per aver spulciato qualche libro di psicologia o per aver frequentato un analista ma, semplicemente, perché la sua situazione fu sin dall’inizio così peculiare ed alienante da portare le indagini sul suo malessere esclusivamente in quella direzione. Il desiderio di masturbarsi, ricordava, proruppe violento poco prima del menarca, e con esso, subitaneamente se ne andò. Le compagne di scuola magnificavano la bellezza di poter toccare la pelle di un ragazzo, i sussulti nel petto ad un suo sguardo, l’attesa ad un incrocio ad un’ora prestabilita, cercando la forza di chiedergli un passaggio sul veloce scooter. 

Tutto questo lei non provava, questo mondo di sensazioni feroci e voluttuose, oscure, le era decisamente precluso. Guardava all’altro sesso esattamente come guardava le proprie amiche: con rispetto, simpatia, disponibilità ma nulla, nulla riconosceva dentro di sé della fantastica magia di mani che si toccano, di sguardi che indagano oltre i pantaloni, intese segrete fra sorrisi sfuggenti. Le riusciva di partecipare delle confidenze delle amiche ed anche di alcuni maschi, offrendo il suo cameratismo e la sua partecipazione laddove i giochi non fossero ancora fatti, i desideri corrisposti, le coppie composte, ed urgesse perciò dissimulare l’interessamento di una persona confondendola fra altre, riunite in crocchio ad attendere il bello. Quanti pianti aveva consolato, quante volte per conto terzi aveva sondato le intenzioni di una persona. Aveva persino visto, in gita, la sua amica sul fondo del pullman che baciava uno di due anni più grande, con la barba. Ed aveva immediatamente rivolto lo sguardo altrove, come se a lei non fosse permesso partecipare di questi misteri, perché misteri dentro di sé non si manifestavano. Un ragazzo le porse, maldestro tentativo di stimolare la sua fantasia, la foto di un uomo nudo col pene eretto, ed ella lo guardò senza simulare disinteresse ma in maniera autenticamente neutra, cosa che il ragazzo percepì ed arrossendo, convertì l’imbarazzo in difesa rabbiosa ed urlò:

«Lo sai cos’è questo?»

«È un pene in erezione» rispose immobile.

«No, questo è un cazzo che tira perché vuole entrare nel tuo buco... ce l’hai tu il buco?»

Ancora prima che lei tentasse di divincolarsi da quel sommario processo alla sua femminilità, il furente ragazzino esclamò all’indirizzo della classe scomposta sui banchi durante la ricreazione:

«Roberta non c’ha il buco! Roberta non c’ha il buco! Sotto, è fatta come la Barbie!»

Questa era la sentenza, e per quanto sin da subito le fosse parso criticabile quell’improvvisato tribunale, la sentenza era giusta, era la sacrosanta verità, che le si scolpì nella mente e la consegnò per sempre alla opacizzante dimensione dell’esclusione, dell’alterità dal proprio ambiente, della diversità nullificante per decreto divino. Certo, appetibile lo era, e le profferte, i tentativi di contatto abbozzati e subito respinti, non le mancavano. Ma nello sguardo dei ragazzi che si allontanavano da lei non v’era la tipica rassegnazione piagnucolosa di chi viene rifiutato in quanto non desiderato, ma qualcosa di ben più grave: il terrore di non essere stati percepiti come maschi, come possibili oggetti di piacere. Questa radicalità d’atteggiamento era certo rabbonita da un eloquio sempre molto conviviale, dalla gentilezza forse un po’ verbosa ma infine piacevole, dai modi pacati e dall’elegante figura, tuttavia sempre più spesso i maschi e poi anche le femmine giunsero ad evitarla per ragioni complementari: atterriva gli uni l’idea di essere guardati così come si potrebbe guardare un infante, disturbava le altre l’idea di mostrarsi vulnerabili di fronte ad una persona bella che magari aveva per prima le attenzioni dei loro amati. 

In breve tempo finì che le uniche telefonate che riceveva erano dovute alla sua solerzia nell’aiutare i compagni nello svolgimento dei compiti a casa, ma nessuno, nessuna mai che la trattenesse durante il tragitto verso casa, dopo scuola, per parlare di questo o quest’altro. Quest’isolamento durò e s’inasprì durante i tre anni delle scuole medie inferiori, fino a quando, dopo il diploma, le sembrò intollerabile inserirsi in un nuovo contesto scolastico, per scoprire nuovamente che nuove persone non riconoscevano in lei qualcosa che la accomunasse loro in modo meno che intellettuale, in modo immediato. Trascorse un anno praticamente tra le quattro mura di casa poi trovò lavoro in una birreria del centro frequentata solitamente da ragazzi più grandi. Non che le piacesse, ma in questo modo la sua anormalità sembrava meno evidente, persino a se stessa.

Inutile aggiungere che nulla intimamente era cambiato in quel torno di tempo, non si masturbava mai, mai ci pensava, mai desiderava, nemmeno sapeva cosa volesse dire bagnarsi. Bagnarsi, questo termine così strano, riferito alla vagina, che aveva sentito dalle amiche ma sul quale non aveva avuto la forza di interrogare oltre per non evidenziare troppo precisamente la sua estraneità a tutto ciò. Il suo corpo cominciò ad infastidirla: prima fu come una sensazione di ridondanza, di eccesso, poi come un pietoso bagaglio da trascinare tra i tavoli della birreria. Poi divenne un odioso ammasso di carne con mille esigenze nelle quali il suo spirito non si riconosceva più: odiava la stanchezza, il bisogno di tuffare il proprio corpo tutti i giorni nel buio di un sonno ristoratore; detestava i morsi dello stomaco che chiedeva cibo almeno due volte al giorno, sempre.

Le faceva schifo il sangue che colava ad ogni luna e la obbligava ad usare accorgimenti, tutti i mesi. Le ripugnava prendersi obbligatoriamente cura di un oggetto schifoso che pesava sulla sua anima come un fardello impostole chissà perché. Quest’aggeggio incolore ed informe, i cui imperativi finivano per condurla di qua e di là lungo gli scenari del giorno, le diventò a tal punto inviso da non riconoscere ad esso alcuna eccellenza rispetto a tanti attrezzi meccanici che pur si muovevano. Talvolta si rappresentava il suo corpo come dotato di ruote al posto delle gambe ed alimentato a gasolio, e giurava che se ne avesse visto uno simile per strada non avrebbe avuto alcun sobbalzo di stupore. Gli specchi andavano evitati con cura maniacale, così come le vetrine dei negozi ed il cristallo dietro al bancone della birreria. Fuggire la propria immagine riflessa, sì, perché gli specchi soli potevano restituirle l’idea di una presenza, diciamo, biologica, cosa che nel suo intimo avvertiva come uno straziante tentativo estremo di inganno, fattole da chissà quale forza malvagia. 

La verità, la sua verità, era che aveva scoperto la segreta uguaglianza del corpo con qualsiasi altro attrezzo meccanico, ed essendole questo inutile, aveva deciso di sbarazzarsene. Cavalcando questa potente scoperta nelle notti insonni, abbandonata sul letto a fissare l’armadio, le si parò davanti l’intuizione che forse l’occulto significato della copula sessuale fosse per la donna il tentativo di distruggere il proprio corpo. Quasi come due automobili si scontrano frontalmente per strada e la più piccina si riduce ad un groviglio di rottami, così doveva essere che la donna, notoriamente più debole nel corpo rispetto all’uomo, venisse distrutta dall’atto sessuale. Oppure come se la vagina fosse uno sconosciuto ed essenziale organo respiratorio e, a causa della sua occlusione da parte del fallo, il corpo intero ne morisse per soffocamento. Il giorno dopo questa notte di congetture, trovò la forza di guardarsi allo specchio con la convinzione che sarebbe stata l’ultima: infatti, quella sera in birreria avrebbe trovato una persona per compiere il sacrificio e liberare la sua anima. 

In maniera imprecisa, non l’aveva fatto mai, arrossò le labbra ed approfondì lo sguardo e rese l’incarnato più colorito, con gesti lenti, con la sacralità e la compitezza compiaciuta di chi procede alla vestizione prima di compiere un sommo rito in qualità di officiante, ma anche di agnello sacrificale. Uscì prima del solito ed in un bar ordinò un caffè, poi andò al lavoro. Tutto fu semplice: bastò dire per quattro o cinque volte sì in risposta a quattro o cinque domande diverse, da parte di un ragazzo sui venticinque dal sorriso largo e dall’aspetto piacevole, per trovarsi a gambe spalancate sul sedile abbassato dell’auto con un’appuntita sensazione di dolore tra le cosce. No, il corpo non era morto, anzi, era ancora più presente con quel malessere tra le gambe e quella piccola emorragia dovuta alla verginità persa. Congedò il partner con freddezza e non gli diede il suo numero di telefono. 

Ma perché non aveva funzionato? La risposta non poteva che essere una: se il corpo viveva e si imponeva ancora con i suoi assurdi dolori, allora significava che la sua anima era meno forte del corpo, e le sue esigenze di libertà, fittizie. O forse nemmeno esisteva. Già, chi poteva assicurarle di possedere un’anima? Nessuno, era solo una sua benigna supposizione, una concessione cui si era presa la libertà di credere, una stampella. La verità le si rivelava ora ben più orribile: lei ed il suo corpo erano la stessa cosa. Intollerabile aver creduto ad una salvifica scissione del suo essere in due parti, una nobile e finissima ed una abbrutente e grossolana. Non c’era via d’uscita, quel pezzo di carne andava non sublimato ma eliminato, ucciso nel vero senso della parola, e con i mezzi consueti. 

Scelse il gas della cucina dell’appartamento in cui viveva con il padre, serrò una mattina la porta e la finestra, aprì gli ugelli, e si sedette ad aspettare con i gomiti poggiati sul tavolo e la testa fra le mani. Poco dopo sbiadirono le immagini della stanza, ed un attimo dopo riconosceva i tratti di suo padre precisarsi nel manto di luce diafana della stanza d’ospedale. Una carezza sulla testa fu quello che ebbe da lui, poi di nuovo il sonno, e per qualche giorno fu un sovrapporsi di immagini senza continuità cronologica e mani che armeggiavano intorno a lei con delicatezza. Pare ci fosse andata proprio vicino, le diceva il giovane infermiere dai modi gentili ed in tono fintamente burbero. L’infermiere Giovanni le era particolarmente gradito, mai le chiese il perché del suo gesto, mai una sbavatura moralistica, semplicemente si prendeva cura di lei, ogni tanto le ravviava persino i capelli lunghi e biondi e le raccontava barzellette. Tre anni dopo vivevano nello stesso appartamento e facevano regolarmente l’amore ma nulla era cambiato: lei usava un lubrificante e lui l’accettava, ogni tanto fingeva un orgasmo e si premurava comunque di essere utile al suo uomo così come lui, non solo a causa del suo lavoro, l’aveva aiutata in un momento tanto critico.

«Ma chi è questa persona che ho accanto in questa casa?»

E d’improvviso trasse un respiro così profondo che sentì il torace dolerle ed ebbe quasi lo stimolo d’urinare. Una vertigine, ed appoggiò la fronte al palmo della mano e con l’altra toccò il tavolo sul quale, di fronte a lei, anche Giovanni pranzava.

«Tutto finto, tutto finito» e svenne, quasi, ma si riprese prima che il suo corpo la trascinasse a terra.

«Amore, cos’hai, sei pallida, non ti senti bene?»

«Non lo so, mi sento così stanca».

«Per forza, gioia, già i turni in ospedale sono pesanti, in più il volontariato: lavori troppe ore; e tieni conto che lo stress psichico nel nostro lavoro è davvero logorante».

«Hai ragione, oggi non andrò in ospedale, vado a telefonare».

«Lascia perdere, vai a stenderti, vuoi che ti prepari qualcosa di caldo?»

«No, grazie, ho solo bisogno di qualche ora di sonno».

«Certo, piuttosto, dovremo prendere in considerazione l’idea che tu riduca, senza rinunciare completamente, beninteso, i tuoi turni all’ospizio».

«Giovanni, ne abbiamo già parlato, senti, vado a riposare».

«Come vuoi, ma pensaci, così oltre a stancarti meno staremo un po’ più insieme, non ti pare? Quanto tempo che non passiamo una serata fuori, mi manca, sai?»

«Ne parliamo quando torni, ok?»

«Certo che ne parliamo, ah tesoro, non ti preoccupare per i piatti, li lavo io prima di uscire».

«Grazie caro, ciao».

Chiuse la porta scorrevole che separava la zona notte dal resto dell’appartamento e quel gesto così ordinario assunse un valore simbolico di cui appena si accorse. «Separare le camere per la notte dalle stanze del giorno, pia illusione – pensava – nel buio della notte ci sono gli embrioni del colore del giorno: senza notte non c’è alcun giorno che ci attende, questa è la verità. Roberta, glielo devi dire, devi dirgli che è cambiato qualcosa, che è avvenuta una svolta epocale nella tua vita di cui lui mai potrà accorgersi perché lui fa parte del prima, esiste nel prima. Qui accanto a me adesso lui è solo un’ombra del passato che parla e parla e non sente e non capisce. Sarebbe come chiedere a un terrestre di spiegare come si mangia su Saturno. Devi dirglielo, ma lui ti ha aiutata quando eri uno scherzo del destino in un letto d’ospedale, come mai è finita anche la gratitudine che hai provato per lui? Come è feroce tutto ciò. Dio, come faccio a vivere fino in fondo la ferocia del mio nuovo essere? E se le cose non stessero così? Ma che ferocia! Non dire cazzate, Roberta, per la prima volta nella tua vita una forza buona e autonoma permea la tua vita intima. Per la prima volta stai in piedi e volentieri, da sola, sei così leggera... ma quale ferocia! Questa si chiama vita e tu non l’hai mai saputo, ecco perché ti sembra violenta. E non è forse violento quello che hai fatto a te stessa, solo perché l’hai fatto in silenzio? E lui? Non è forse bene che abbia la possibilità di entrare nel presente di qualche altra donna invece che rimanere impigliato tra le maglie di un rapporto che ormai non è altro che un rincorrersi di piatti da lavare, di turni al lavoro, di gracchiare di televisione, di carrelli della spesa e detersivi colorati, per consegnarsi stremati al materasso? E nel letto? Ah, chissà come sarebbe se ti vedessi da fuori! Cos’è questo corpo che spinge tra le tue cosce qualcosa finché non emette un lungo sospiro e ti carezza il seno e poi rimane a dormire così premuto contro di te? Devo andarmene, lo spettacolo è finito, l’attrice non ricorda più il copione e state sicuri che se solo ne ricordasse una parola, si arrovellerebbe il cervello per cercare di ricostruire il dialogo, almeno approssimativamente. Attrice non di belle speranze ma volenterosa questo sì, signori miei, lo dovete riconoscere. Perciò scusate, e scusami anche tu caro Giovanni, che per primo hai creduto in questa commedia. Guarda il fondale con i suoi colori pastello e credimi, io ormai non vedo che polvere. Tu potrai dire che sono allucinata ed io non lo so negare, ma resta il fatto che in questa nuova allucinazione tu non compari, e neanche le tue sfumature. Davanti a me non c’è nulla, ma dentro, sapori». 

Quante sedute dall’analista del consultorio, quanto ricordare, quel padre assente, quella madre prematuramente scomparsa, quanto riordinare, rileggere... quante cognizioni affastellate dentro quel corpo silenzioso e refrattario ad ogni suggestione. Le parole dell’analista, se pure avevano un senso, venivano attratte dal corpo buco nero e dissolte. Quanto velleitario il consiglio di provare il sesso con un altro uomo, quanto superficiale, e quanto poco lei poteva supporlo... prima. Già, nella sua vita, in pochi istanti, anzi forse non è corretto parlare di tempo, si era prodotto un evento apicale, qualcosa con una potenza originaria... qualcosa di estraneo. Come una vetta divide le acque verso direzioni opposte, così quella «cosa» sospingeva ineluttabilmente il suo passato ed i suoi attori verso il nulla, donandole un’altra se stessa. Pia illusione di una vita tenuta in scacco dalla mancanza di piacere, che si ribella con una specie di sogno atto a compensare la realtà così opaca e sorda? Una psicosi in divenire, più semplicemente follia? Queste ora non erano più domande per lei, anzi forse domandare ora non era più per lei. Quando professionisti della psiche si baloccavano con le parole, concetti, argomentare dialogico basato sul principio di non contraddizione, il suo corpo, ben dentro la poltrona o ben schiacciato sul lettino, implodeva ogni suono restituendo silenzio. Adesso quest’allucinazione donava qualcosa di innominabile, qualcosa di vivente e vivificatore, che d’un tratto dissolveva tutti quanti gli accidenti del suo essere, ma con un viatico d’urgenza: andare altrove, dove non la riguardava, l’impulso era oscuro, ma presentiva di doversi mettere in una condizione di verginità rispetto al mondo, onde permettere a questo nuovo essere di precisarsi: era nata una nuova donna, Roberta aveva oggi giusto tre giorni di vita ed una nuova sapienza cominciava a condurla per mano attraverso i selciati della vita. Allucinazione... senz’altro. Ma, pensava, per chi non sente la profonda idiozia di questa definizione, non ho nulla da donare. Da tre giorni ad oggi questo era il suo segreto, non per scaramanzia, ma perché indicibile. E gli effetti, quelli sì, si sarebbero palesati presto.

Riposava in quella camera sdraiata a pancia in su con le mani dolcemente appoggiate al basso ventre, preconizzando il momento della verità con il marito. Gliel’avrebbe detto quella sera stessa, dopo cena. Al posto di guardare la tv avrebbero parlato per l’ultima volta e forse, per l’ultima volta, dormito insieme. Avrebbe cercato di spiegare, cercando frattaglie di buon senso in un discorso che avrebbe dovuto dividere una coppia fondata sul buon senso. «Reagirà con la consueta calma – pensò – accampando come per caso tutta una serie di buone ragioni contro il mio comportamento bizzarro, bizzarro non in assoluto per carità, cara, cerca di capirmi, solamente in questo momento forse poco opportuno».

E poi tutte quelle piccole gioie, comodità, sorpresine, scansioni di orario, che rendono la vita così controllabile... le almanaccherà in una litania precisa e scandita, come a cercare un volume in parole che non sono se non lettera morta. E di fronte ai miei occhi distanti accennerà un sorrisino malevolo e borbotterà «Amore mio, se non sbaglio queste cose non ti facevano così schifo, qualche anno fa». «Dici bene, qualche anno fa erano il conforto di un nido per un pollo, e la mano colma di grano del mio padrone era un pasto in una corsia per lunghe degenze. Non è più così, io domani me ne vado, Giovanni».

Ma un ronzio fischiante nelle orecchie ed un senso di pressione alle tempie interruppero le sue considerazioni, e, girandosi su un fianco ad abbracciare il cuscino, mormorò: «Io non gli dico un cazzo». E tornò con la mente a quel terribile memorabile momento in cui, da qualche parte dentro di lei, aveva incontrato l’Indiano.

   

   

CAPITOLO TERZO

Il processo

   

Per meglio sottolineare la sua condizione di essere reietto, che non solo disconosce la legge, ma, come risulta dai verbali d’interrogatorio, mostra di non avere cognizione alcuna dei sacrosanti principi che la informano, mostruosità inaudita, era dunque stata trascinata nel mezzo della quadrata piazza principale e, in attesa della sentenza con effetto immediato che sarebbe stata pronunciata l’indomani a mezzogiorno, legata in ceppi alla base di un alto palo della cuccagna, dalla cui sommità occhieggiavano salumi, prosciutti, vestiti ed alcuni sacchetti pieni, i cittadini non avevano alcun dubbio, di pepite d’oro. Era un palo altissimo, che superava di una buona decina di metri il campanile della chiesa. Levigato con cura dai Padri della città, il palo era stato posto, dai Fondatori, moltissimo tempo fa, nel centro geometrico del primo insediamento di pionieri. 

L’indomani avrebbe avuto luogo la festa dei Patroni, con gran dispendio di sidro e bon bon colorati, mele caramellate e suonatori di violino e fisarmonica. Un’occasione eccellente, per i giovanotti, d’invitare a ballare le ragazze in età da marito, libere, per quel giorno, dal lavoro in casa e dal coprifuoco notturno. Questa celebrazione di gratitudine nei confronti dei Patriarchi recava inoltre un’allettante prospettiva, il culmine della festa: era dato ai cittadini dimostrarsi della stessa eroica schiatta dei Capostipiti, avventurandosi con la sola forza del proprio corpo lungo quel santo palo, fino a raggiungerne la sommità ed a ghermirne i beni benedetti dai Venerabili avi. La Legge ed i Beni benedetti dagli Antichi Presidenti richiedevano però precisamente che chi volesse rappresentare la Legge, non riuscendo nell’intento, non per difetto d’ambizione ma per mancanza di capacità, dovesse in qualche modo venir estromesso dalla cittadina poiché, sacrosanto, chi sfidasse la legge senza vincere, potrebbe poi indurre nel popolo sentimenti cospirativi che nuocerebbero alla fratellanza, forieri di disordine e divisione. A questo inconveniente supplivano alcuni paletti di legno appuntito infissi intorno al palo, a descrivere cerchi concentrici del diametro totale di una decina di metri, l’un cerchio di paletti distante dall’altro circa mezzo metro. Avrebbero accolto il sangue dell’indegno. 

Roberta se ne stava lì, i ceppi stretti intorno alle mani ed ai piedi, con la loro solidità legnosa, ed una catena con robusti e rugginosi anelli oblunghi assicurava il suo corpo al palo, stringendole l’addome. Indossava un sacco di canapa intriso di polvere e sudore. Le ombre dei lavoratori si allungavano verso casa e, al di fuori di qualsiasi occasione sociale, nessuno osava anche solo insultare un reietto o sospetto tale, perché egli, disconoscendo la legge, si poneva al di sopra di essa, ma con un carattere di seduzione demoniaca. Nelle orecchie ogni tanto lamentosi coyote, negli occhi immagini sfocate, nel petto il peso della catena che ormai aveva inciso la sua pelle delicata. Roberta trascorse una notte di freddo e sudore, febbricitante. La risvegliò la cantilena di un girotondo di bambini ed un profumo pastoso di patatine fritte. Un crocchio di signore perbene parlavano con i rispettivi mariti ed una signora con uno scialle nero ed un foulard prevedeva il futuro per pochi cent, i contorni degli occhi anneriti per conferire uno sguardo più... divinatorio. Grappoli di ragazzi, con i pantaloni corti marroncino chiaro e bretelle nere, sciamavano da una bancarella all’altra. Musica assillante e insidiosa di organetto, prove d’orchestra e stelle filanti soffiate da torme di monelli saltabeccanti qua e là, donavano agli occhi di Roberta una visione di simpatica ebetudine. Si riscosse dal torpore e cercò il sole: mancava di certo poco a mezzogiorno. «Ma finché c’è l’organetto che suona, finché c’è questo disordinato vociare – pensò – non è ancora mezzogiorno, davvero non è ancora mezzogiorno». Volse attorno il capo, per quanto le permettessero i muscoli contratti, e non uno sguardo, benché furtivo, incrociava il suo: di fatto, ben prima della sentenza, la comunità dissolveva il suo essere.

«La pena di morte senza che io abbia fatto nulla di diverso da queste persone che oggi si divertono davanti a me... Qualcuno di voi sa perché oggi sarò condannata? Tu signora? Eri amica di mia madre... ti ricordi? E i miei genitori, come mai da quando sono stata arrestata non li ho più visti? Come mai non sono a questa festa oggi? Come mai? Come mai? Come mai?»

E comprese d’un tratto l’inutilità dello sfogo, confortata dal fatto che, dopo la lettura della sentenza, gliel’avevano assicurato durante gli interrogatori, avrebbe avuto diritto ad un breve dibattito con il presidente della corte. A sua memoria mai aveva assistito o sentito parlare di un processo istruito in maniera così veloce e sommaria, ma suo padre ogni tanto parlava di processi simili, processi straordinari per colpa... qual era la denominazione? Processi straordinari per colpa... Non ricordava. La stanchezza era soverchiante e il caldo e la polvere toglievano il respiro, anche alla mente.

«Imputata Roberta! È il tuo giudice che ti parla: confermami che sei in grado di ascoltare la sentenza».

La voce le giunse confusa, guardò davanti a sé e non vide nessuno, l’organetto gracchiava, la gente passeggiava, nulla era cambiato.

«Imputata Roberta, sto per dare lettura della sentenza, sei in grado di ascoltarla? Rispondi con un sì».

Questa volta la voce era più distinguibile dal sottofondo rumoroso della festa, ma continuava a non vedere nessuno».

«Dove siete, signor giudice?»

«Il giudice è colui che ti parla, non importa dove sia, importa cosa stia per dire: importa la sentenza».

E realizzò che la voce proveniva esattamente da dietro il palo dove era legata.

«Intendi dunque la mia voce?»

«Sì».

«Imputata Roberta, a seguito di procedimento d’urgenza per colpa originaria, la legge ti ritiene colpevole di mancanza di desiderio e senso di gratitudine verso la comunità degli uomini, e pertanto dispone che tu venga immediatamente allontanata dalla società civile fino al confine con la Landa Ignota. Si dispone inoltre, qualora tu tentassi di fare ritorno clandestinamente in questa santa società, la tua uccisione immediata senz’altra formalità e la dispersione delle tue carni ai randagi. Come da procedura, adesso hai diritto ad un breve colloquio con il sottoscritto rappresentante della legge per ogni questione che vorrai porre. Si intende che la durata di questa conversazione sarà insindacabilmente decisa da me».

«Processo per colpa originaria! Ecco le parole che avevo sentito da mio padre! – pensò in fretta Roberta – E non la morte fisica, l’allontanamento, la morte civile!»

Com’era nuovo tutto questo, e terribile questa invisibilità, e gli organetti non cessavano di ronzare e l’orchestra aveva iniziato il concerto e la folla aumentava e bambini ruzzolavano fra la polvere e qualche ragazza si specchiava in una vetrina, là in fondo.

«Non hai domande per chi ti ha somministrato la legge? Beninteso la legge è di per sé chiarissima, nondimeno, nella sua infinita certezza, desidera che anche chi ne conosca gli aspetti più severi possa riconoscere della sua parola la giustezza sopraumana».

«Vorrei sapere... che cosa ho fatto».

«Invero mai domanda fu più oziosa. Benedetta ragazza, tu sei colpevole del peggiore dei crimini e non puoi non averne contezza». Erano cominciate le danze, lo intuiva dallo scricchiolio delle assi di legno del palco, che giungeva come un insistente e scomposto trapestìo sotto ad un’allegra polka per fisarmonica. Ora la maga prediceva il futuro guardando nella mano nodosa di un contadino, ed alcune signore valutavano la consistenza dei tessuti di un mercante ambulante con un carretto, su cui era montato qualcosa di simile ad un armadio con cassettoni da ambo i lati.

«Vorrei sapere qual è la mia colpa».

«Hai inteso la lettera della legge? Due sono le colpe: l’una originaria, l’altra conseguente. La prima: mancanza di desiderio, la seconda: assenza di senso di gratitudine. Ma poni alla legge domande più sensate o dovrò interrompere il colloquio, mio malgrado».

«Un bicchiere d’acqua prego, questa polvere mi incendia la gola, per piacere».

«Ho sentito bene? Smetti di insolentire la legge o questo colloquio terminerà immediatamente».

Cercò di raccogliere tra l’afa e la disperazione assonnata una domanda, la domanda, la domanda sensata che forse avrebbe potuto interrompere il corso degli eventi che, terribile, si stava delineando come una strada ferrata contro l’orizzonte della sua sorte.

«Se possibile... mi dica in cosa consiste esattamente la mancanza di desiderio».

«Oh oh oh, se alla tua età non l’hai ancora capito, dubito che le mie parole possano giovare, e francamente la legge parla malvolentieri di sé. Vedi bambina, la legge ama manifestarsi nel mondo degli uomini con i suoi propri effetti, la legge non disquisisce sulle sue origini, la legge non dice cos’è, la legge semplicemente è. Temo seriamente per la bontà delle tue facoltà mentali, del resto non saresti in questa situazione se la tua mente non fosse completamente ottenebrata».

«Signore, mi dica, se lo ritiene opportuno, quali fatti della mia vita mi hanno condotta a macchiarmi di reati così gravi».

«Innanzitutto io non sono un signore, signora è la legge e nulla più. Persona odiosa, tu vorresti che la legge parlasse dell’evidenza delle colpe nella tua condotta. Ma tu, anima volgare, come puoi chiedere alla legge di almanaccare sulle tue colpe, laddove è notorio, visto che sei stata condannata per colpa originaria, che l’intera tua vita è una colpa?»

«Lei può suggerirmi quali domande potrei porre?»

«Questo esula dalle mie competenze, o confusa!»

«Dove sono i miei genitori?»

«Nello stesso posto dove è la legge».

«E dov’è la legge?»

«La legge è dentro e fuori tutto, è nell’aria, è in questa musica, è in questa polvere».

«Anche dentro di me?»

«Certo, ignorante, anche dentro di te».

«Anche nella Landa Ignota?»

«Anche nella Landa Ignota».

«Allora anche nella Landa Ignota incontrerò la legge che oggi, attraverso lei, mi ha condannato».

«Oh, tu non hai incontrato la legge oggi, oggi hai incontrato solo il tuo rifiuto ad accoglierla, sono cose ben diverse, santo cielo!»

«E cosa cambierà nella Landa Ignota in cui mi abbandonerete?»

«Che domanda insulsa! Come se la legge si preoccupasse di te!»

«Certo che si preoccupa di me! Infatti oggi mi espelle da sé».

«Che dici, bestia! Come ci fosse un posto in cui non c’è la legge! I posti ci sono perché c’è la legge, non il contrario».

«Allora la mia non è una condanna, che senso ha?»

«Il senso, patetica creatura, è che la legge ti condanna a se stessa, o a te stessa se preferisci».

«E perché non qua?»

«Ora c’è un ballo che non vorrei proprio perdermi, dichiaro chiuso il colloquio».

«Ancora una domanda per favore, ancora una domanda...»

Ma il bisbiglio del giudice si era dissolto.

«Giudice! Aiutami ad amare le legge!»

La catena che serrava il suo corpo al palo allentò la presa nel momento in cui un pesante sacco le oscurò la vista. I ceppi si aprirono, quattro mani armeggiarono intorno alle sue, velocemente, furtivamente, poi quelle mani si fecero carico del suo peso e poi la schiena calda di un cavallo la sostenne curvandola all’ingiù, e poi rumore ritmico di zoccoli e polvere attraverso il sacco a torturare le narici ancora una volta. Passò tempo e calore nella testa e sulla pelle, il dormiveglia sfumava od esaltava ogni sensazione in un gioco snervante finché la mente si consegnò al buio.

L’uomo cavalcava da ore in direzione nord attraverso una pista appena riconoscibile tra piccole colline pietrose ammantate di vapore ondulante. Non si incontrava mai nemmeno un serpente da quelle parti, e nemmeno il vento, e nemmeno l’acqua. Eppure in un tempo antichissimo forse laghi avevano fatto da padre a pesci e alberi, ogni tanto strane depressioni circolari del suolo facevano pensare ad un bacino d’acqua estinto chissà quando, ma in realtà avrebbero potuto essere qualsiasi cosa. Senza la vita del cavallo tra le cosce, l’uomo, ne era certo, sarebbe impazzito all’istante: il silenzio non era il semplice silenzio che si gode durante un appostamento per una battuta di caccia.

Qui la natura non esisteva se non nella sua forma più arcaica, così estranea ad ogni esperienza umana: non vento che conducesse profumi della natura, non tintinnii minacciosi fra la ghiaia, non erba, non corsi d’acqua con quell’allegro gorgoglìo. Qui il silenzio era quello dell’immobilità senza scampo. E solo una persona espertissima, quale lui era, poteva tornare incolume alla civiltà dopo aver eseguito quel dovere che, di padre in figlio, veniva tramandato sin dall’inizio della città. Ne era orgoglioso: cavalcare per conto della legge fin dove la legge si nascondeva ad ogni conoscenza, e ciononostante, conservare la capacità di riconoscerla tornando poi dove si manifesta nel suo splendore: la meravigliosa comunità di cui era onorato servitore. Quale tremenda alchimia, questo lavoro! E quanta forza per non smarrire la pista, ogni volta sempre meno percettibile. E poi quegli strani lucori sopra le rocce, con la loro danza sensuale, era come se chiamassero l’anima a perdersi, e si sentiva una sorta di euforia che saliva dall’addome e, per un momento, ti impadronivi della legge e avresti voluto uccidere il tuo cavallo per non avere tentazioni di ritorno da quel mondo vuoto. Adesso, l’idea di sdraiarti e cuocere sulle pietre, ammirando i vapori incorporei tutto intorno a te, era il tuo dolce sogno. Quanta abilità non cedere alla conoscenza della legge nel luogo in cui la legge è nascosta. E che privilegio essere tentato dalla legge stessa. Davvero era necessaria una sorta di disposizione genetica per questo: un uomo comune non avrebbe mai potuto fare lo stesso. Non a caso infatti, i Padri della civiltà assegnarono alla sua ascendenza questo compito, individuando nella famiglia di cui faceva parte i segni tipici di predestinazione, che rendevano sopportabile il compito delicato cui la legge tutti, in tutti i tempi, li avrebbe chiamati.

La disgraziata che doveva condurre al limitare della Landa Ignota non avrebbe potuto far altro che soccombere o addentrarsi in quella terra inconoscibile in cui la legge non riconosce se stessa. Dire cosa fosse oltre quel confine nessuno poteva. Non erano dati, iniziati in grado di oltrepassare quel limite e tornare dove la legge consente ad essere conosciuta. Per la poverina due erano le prospettive: o rimanere al di qua del confine dove la legge non vuole essere conosciuta e, non potendo non manifestare la sua potenza, ti affascina e ti uccide, oppure varcare la tremenda soglia e... su questo non è possibile argomentare. Ma ora si tratta di fare attenzione: va detto che il confine della Landa Ignota non è per nulla qualcosa di simile ad un confine geografico, non è una barriera, né una convenzione, e per di più non è stabile. La famiglia di iniziati di cui il cavaliere faceva parte aveva quest’ulteriore delicatissimo compito: riconoscere il confine. L’esperienza insegna che il confine si muove quasi sempre entro un determinato spazio lungo la pista: è opportuno quindi fare la massima attenzione quando ci si trova in prossimità del tratto di pista in cui il confine ha più probabilità di manifestarsi. Si manifesta in un modo sempre diverso ma la caratteristica comune è l’anomalia: l’anomalia di qualcosa lungo la pista. E per anomalo intendo qualcosa di mai visto prima, o che non risponde alla Legge. Individuato quel segno, fermare il cavallo, scaricare il condannato e tornare indietro. Se il cavallo non si ferma per tempo, anche se lo fa quasi sempre, e si oltrepassa il segno, anche qui non è possibile dire cosa succeda se non che la civiltà non ti rivedrà più. I segni possono essere i più svariati, il cavaliere aveva fatto due soli viaggi, ma il padre raccontava spesso di quella volta che il confine si manifestò come uno zampillo di acqua marrone scuro che ricadeva in gocce di pietra al suolo, oppure un vento che spirava contemporaneamente dai quattro punti cardinali. Ma questi erano segni estremamente evidenti: una volta si trattò di un piccolo sasso che partoriva altri sassi uguali mantenendo la sua dimensione originaria, un’altra volta di una vecchietta in miniatura che filava perle traendole da una nuvoletta a mezz’aria, avvolgendole ad un fuso. Per quanto riguarda la sua esperienza personale, finora aveva dovuto osservare una forma circolare nera, a due dimensioni, sospesa nell’aria grosso modo all’altezza del cavallo. Oppure, nel secondo viaggio, un fuocherello che scaturiva da una pozzanghera con suono di flauto. Il cavaliere s’accorse di uno strano tremito che percorreva il dorso dell’animale: come sottilissimi brividi intermittenti che non dipendevano dalle asperità del terreno disuguale né dall’eccitazione motoria. Gli occhi attenti, che correvano la spola fra l’orizzonte ottico ed i più minuti dettagli del suolo, vennero catturati da un’inusitata macchia di colore: fu così che fissò la criniera del cavallo che, da fulva e setosa che era, adesso si presentava di consistenza setolosa e bianchissima.

«Buono, bello, ferma... su, ferma». E il cavallo si arrestò immediatamente.

«C’è mancato poco, dannatamente poco, stavolta». Scese di sella e con sollievo accarezzò la testa dell’animale contratta in una specie di smorfia cinghialesca.

«Il segno sull’animale! il confine che si manifesta tramite l’animale! Mai negli annali della mia famiglia si era presentato questo caso. Tutti i resoconti parlavano di segni lungo o attorno alla pista, un momento di distrazione in più e... meglio non pensarci... adesso rispettiamo il protocollo».

Scaricò il sacco in cui Roberta giaceva priva di sensi, ne liberò il volto come estremo atto di pietà, e la depose accanto ad un pinnacolo di roccia calcarea. Chiuse gli occhi, rimontò sul cavallo e, al passo, invertì la marcia, lentamente, per consentire al suo unico capitale in quella terra di riprendersi dallo sconvolgimento nervoso che la percezione del confine gli aveva causato.

Quando Roberta tornò fra le sue carni, la prima percezione di sé che ebbe fu un intenso dolore alla schiena: la pelle del dorso, maceratasi in sudore e polvere, si era aperta in striscioline sanguinolente a causa del contatto con la ruvidezza tagliente della roccia cui era stata appoggiata. Spostò le pupille tutt’attorno e verificò la sua totale solitudine. Sospirò per l’arsura e decise di abbandonarsi alla morte che certo non avrebbe tardato in quell’atmosfera umida e opprimente, digiuna com’era da almeno tre giorni di cibo, e non avendo toccato acqua nelle scorse ventiquattr’ore. Come ci fosse necessità di energia per la disperazione, la totale spossatezza del suo corpo non le consentiva il panico, la catastrofe psichica non si manifestava per difetto di calorie, anzi, rinveniva laggiù tra i suoi muscoli un imperativo bisogno di assoluta immobilità. 

In quella bolla di calore e silenzio, che ormai costituiva il suo essere, penetrò un sottile filo di venticello a più riprese, e dolcemente le rinfrescò la fronte. Lo godette per un interminabile istante, se ne nutrì fin nei calcagni ed aprì gli occhi: il pinnacolo di roccia che la sosteneva, ora, era una maestosa sequoia la cui corteccia rossiccia e resinosa si adattava meglio alle piaghe della sua schiena, anzi sembrava stillare una sorta di calore confortevole. Al suo sguardo si offriva una radura col suolo movimentato da rocce gravate di umidi muschi imbevuti d’acqua e alberi altissimi e frondosi, alcuni contorti e panciuti, altri dritti e svettanti. La luce filtrava tra le fronde, che ne attenuavano la vividezza rendendola un impalpabile lucore, mobile fra i rami ad ingentilire la superficie delle rocce, ad esaltare il colore dei muschi rugiadosi, imperlandoli col riverbero. Scricchiolii di rami secchi in lontananza testimoniavano la presenza di animali e nelle narici l’aroma pungente e balsamico delle resine. L’atmosfera era gravida di luce ed acqua: ben presto la sua pelle si coprì di profumata condensa. Stese le mani ad accarezzare il suolo, trovandolo cosparso di foglioline aghiformi ormai decomposte e fradice, e premendo e grattando, la terra sì offrì alla sua presa con consistenza carnosa e duttile. Richiuse gli occhi, un gorgoglìo di fonte in lontananza. Beveva con ampi e lenti respiri gli umori che la circondavano, ascoltava la dolce nenia della fonte, assorbiva il calore della corteccia con la pelle morbida, e i succhi della terra macerata e fangosa sembravano salirle al cuore dalle palme delle mani e dalle piante dei piedi. E, al centro della testa, quella fragile luce frastagliata dalle fronde solleticate dal vento. Tutto si componeva dentro di lei in un girotondo di anonima estasi. Un benevolo vorticare di acque foglie muschi cortecce fango resine profumate, roteava e si estendeva dal suo petto con una piana intensità che l’urlo non avrebbe saputo dire e il palpito più struggente significare. Infinite schegge di selce calda solleticavano dall’interno la sua pelle che fremeva grata ed accogliente. Così danzava in lei lo Spirito del bosco. E la sua nudità l’accoglieva. Poi, i suoni del bosco la colpirono al cuore e le ingiunsero di muoversi verso la fonte.

«Cammina, donna, ad accostare la fonte».

Il suo corpo si riscosse, con membra ventose e occhi di legno scuro, e camminò foglia tra le foglie fin dove l’intreccio amoroso degli alberi scoprì, dipanandosi, i contorni pietrosi d’una polla sorgiva, al cui centro sbuffavano lente bolle acquee, estendendosi in cerchi e consegnando vapore all’aria, la cui bruma, come una seta grezza, giaceva a mezz’aria in morbidi e diafani filamenti. Prese consistenza, tessuto dalla caligine e sostenuto dalle acque, un uomo dalla pelle color serpente e dal volto levigato come pietra di fiume, capelli bianchi lunghi e sottili come tela di ragno ad adagiarsi lungo i torniti fianchi. Levò il braccio destro e la sua bocca si aprì:

«Vieni, donna, nel cuore dello Spirito del bosco» e la sua figura sprofondò per metà nel centro della sorgente. Occhi negli occhi in magnetica simbiosi, si ritrovò immersa nell’abbraccio con le acque e mosse verso lo splendido uomo che ora aveva alzato anche l’altro braccio nel gesto di riceverla.

«Ti dono il piacere, che sostenga il tuo essere d’ora in avanti, con la sua potenza e le sue molte forme» e quasi l’avvolse col suo amplissimo petto: l’istante dopo la figura le si scioglieva addosso e il liquido denso che ne rimase penetrò nella sua pelle e, aumentando di calore, le si raccolse nei visceri e, come bruciore insopportabilmente gaudioso, stillò potentemente tra le sue gambe formando una macchia perlacea che subito si confuse con le acque della polla. Il cuore dello Spirito del bosco ora pulsava attraverso lei.

Tornò nell’abituale realtà in preda a contrazioni di piacere che, come onde ripetute e urlanti frangevano e dissolvevano le rocce scure del suo dolore e le rendevano estranee le usate forme della sua stanza, i mobili, le fotografie, lontani vestigi di un incubo ormai passato, il marito, sostanzialmente un perfetto estraneo.

Una nuova vita interiore imponeva un adeguamento dello scenario esteriore, ma un potente viatico lasciatole da quella strana figura onirica che aveva chiamato Indiano, la rendeva quieta e come benedetta dalla vita stessa. In nessun caso cambiare esistenza poteva essere una scelta sbagliata, anzi, l’esistenza stessa era già cambiata, tutto sarebbe successo naturalmente senza forzatura alcuna. Il piacere l’avrebbe guidata e nutrita, forza che non chiede rivalsa ma solo espressione della propria potenza. Lasciò il calore sfumare tra le gambe e si addormentò senza sogni profondamente.

   

   

CAPITOLO QUARTO

La libreria e il violino

   

«Prego, da questa parte, attenzione alla scala, è un po’ ripida».

E li introdusse nel laboratorio.

«Scommetto che la libreria è per te, vero?»

La coppia era con il loro bambinetto, era lui che aveva telefonato la sera prima, sicuramente: la voce al telefono non era quella di un adulto. Alla domanda di Angelo il bambino reclinò il capo verso il basso e chiuse gli occhi per un attimo, annuendo come svagato.

«È un po’ timido sa? Giulio, rispondi al signore» intervenne pronta la madre con un’odiosa spintarella sulla spalla del bimbo.

«Sì, è per me però io voglio anche la custodia del violino, e dentro la voglio rossa» esordì d’un fiato il bambino.

«Dopo vedremo, dipende se questo signore ha abbastanza tempo, adesso parliamo della libreria io e il signore, fai il bravo un attimo». Il padre lo guardò con noia e fece un gesto semicircolare come a cancellarlo virtualmente dalla scena.

«Senta, le ho portato uno schizzo con le misure – trasse un foglio stropicciato – guardi e mi dica se c’è tutto, ho messo anche la distanza fra una mensola e l’altra, per quanto riguarda il legno faccia lei, ma non vorremmo spendere molto, l’importante è che non si deformi e che sia chiaro».

«Certo, certo, adesso gli do un’occhiata. Sentite, signori, se non andate di fretta vi offrirei volentieri un bel caffè, in più ho dei biscotti che a Giulio piaceranno, sono al burro. Ti piacciono, Giulio, i biscotti al burro?»

«Sì, ma mi devi dare la custodia del violino, hai capito?» e divenne rosso con gli occhi lucenti.

I genitori ebbero un subitaneo imbarazzo e arrossirono lievemente, ma nemmeno guardarono il bambino, anzi, ebbero entrambi come un piccolo scatto in avanti, come a volersi frapporre fra Angelo e la fonte della loro vergogna.

«Lo scusi, è un bambino sempre molto nervoso, ci scusi, scusi».

«Allora vorrà dire che la custodia del violino te la faccio gratis, Giulio; però non ti devi arrabbiare più, affare fatto?» E porse la scatola di metallo con i buonissimi biscotti danesi. Il bambino ne prese due e se li infilò entrambi in bocca e masticò pastoso guardando in tralice lo strano uomo con grembiale verde e le guance rosse.

Bevvero il caffè mentre Angelo guardava il foglio di carta.

«Sì, le misure ci sono tutte, l’unica cosa aumenterei lo spessore delle mensole di mezzo centimetro, immagino dobbiate riporci molti libri e non vorrei che col tempo si deformassero».

«Come crede, dobbiamo metterci un’enciclopedia, sono parecchi volumi e non sappiamo proprio dove metterla».

«E la custodia del violino la devi fare trapuntata come un materasso». Aveva finito con i biscotti.

«Giulio, adesso basta per favore!»

«Te la faccio trapuntata come una piccola coperta di lana».

«Sì, però la stoffa deve essere di colore rosso, rosso».

«Senta, tornando a noi, ci può fare un preventivo? Non abbiamo idea della cifra, anche approssimativa...»

«Senz’altro, non vorrei essere indiscreto, ma come mai a Giulio serve la custodia di un violino?»

«Vede, Giulio frequenta il conservatorio, è molto bravo, ma in realtà lui ha già due violini con relativa custodia, non so proprio il perché di questo capriccio...»

«Per metterci quello che avevo comprato dal mio amico per la ragazza, quello non ce l’ha, la custodia».

«Quando troverai una persona che lo vuol comprare, allora ci faremo fare anche la custodia, va bene?»

«Ma Chiara l’aveva già comprato e i soldi ve li siete tenuti voi, adesso io voglio una custodia, perché a lei avete fatto pagare anche la custodia!»

«Giulio, basta! Se continui così ce ne andiamo e così non avrai neanche la libreria, altro che custodia! E sai benissimo che Chiara non è più venuta a ritirare il suo violino, si vede che non le interessava più di tanto o forse era stufa anche lei dei tuoi capricci».

«Però i soldi che mi dava per le lezioni ve li siete tenuti sempre voi, e anche quelli degli altri ragazzi».

«Su, su – intervenne Angelo – ti ho già detto che la custodia te la faccio gratis, non stavo scherzando, sai?»

«Ti do il disegno ricalcato del mio violino, così non ti puoi sbagliare».

«Benissimo, non mi serve altro, fidati di me».

«E l’enciclopedia non la voglio, siete voi che la volete, per farmi studiare e farmi diventare bravo anche a scuola». E incrociò le braccia soddisfatto di aver sbugiardato i genitori e le loro marachelle di cupidigia.

«Guarda Giulio che l’anno prossimo devi andare alle medie, e l’enciclopedia ti servirà per fare le ricerche» disse la madre, amorevole, fulminandolo con gli occhi e scandendo le parole in un ritmo rabbioso che contraddiceva la mellifluità del tono.

«L’enciclopedia non serve a niente, io voglio solo la musica, mica i libri parlano, la musica sì!»

Il padre cominciava ad infastidirsi, non tanto per le velleità del figliolo cui era drammaticamente abituato, quanto perché pareva che quello strano ma cordiale falegname mostrasse interesse per i desideri balzani di Giulio, tralasciando di rispondere prontamente ad una domanda così pratica come la richiesta di un preventivo.

«Sa, non vorremmo farle perdere troppo tempo e del resto fra poco abbiamo anche noi un impegno, se ha bisogno di tempo per farci un preventivo, ci possiamo sentire verso sera o quando vuole lei».

«Oh, per quanto mi riguarda, nessun disturbo, anzi spero abbiate gradito il caffè, sapete ogni tanto la mia vecchia moka mi tradisce, devo decidermi a cambiarle la guarnizione. Oddio, potrei addirittura comprarne una nuova ma ci sono affezionato. Sa, ce l’ho da ben venticinque anni... non capita anche a voi di affezionarvi ad un oggetto?»

«Certo, io amo il mio violino, è molto gentile con me, si lascia suonare bene».

«Zitto. Giulio, adesso stai passando la misura».

Intervenne la madre come per collegare con un ricevitore quello che ormai pareva un colloquio tra sordi.

«Giulio è così appassionato di musica, spesso suona per me e le mie amiche, non le dico gli applausi, viceversa a scuola è un po’ asinello, glielo dica anche lei che la scuola è importante».

«Certo, la scuola è importante – ripeté Angelo e poi sussurrò tra sé e sé come in un borbottio e chinandosi sul bimbo – però la scuola non è a scuola». Chissà come, i genitori non intesero queste ultime parole smozzicate, ma il viso di Giulio si illuminò per un istante.

«Francamente, signor Angelo...»

«Volete delle ante, magari con vetro piombato a motivi rettangolari, oppure preferite senz’ante? Dico per la polvere, sapete...»

«Senz’ante, così il bambino non rischia di romperle e di ferirsi».

«Bene, in questo caso il prezzo è decisamente inferiore... guardate, non c’è bambino che non si meravigli di fronte alla leggerezza ed elasticità del legno di balsa» ed indicò Giulio che si era alzato e fendeva l’aria con un’asticella di legno chiaro producendo minacciosi sibili.

«Giulio, per piacere torna subito qui!»

«Non si preoccupi, signora, è un pezzo di scarto. Ehi Giulio! se vuoi posso intagliarti una spada, con l’impugnatura».

«Non ci piace che nostro figlio giochi con le armi».

«Ah beh, capisco, è giusto, del resto quando vedo alla televisione ragazzi africani o mediorientali costretti ad imbracciare un kalashnikov oppure a lavorare nonostante abbiano più o meno l’età di Giulio, in verità provo una stretta al cuore».

«Oh, come la capisco» chiosò la madre.

«Anch’io lavoro, però i soldi se li tengono i miei genitori, insegno il violino, ma non tutti sono come Chiara, a lei la musica piaceva davvero. Gli altri vengono solo perché ce li mandano i genitori e io mi rompo». Nessuno commentò quest’altra intrusione di Giulio ed il padre tornò prontamente alla questione del denaro.

«Ci scuserà, ma adesso io e mia moglie dobbiamo proprio andare, vorrà dire che per il preventivo passeremo un’altra volta».

«Scusi davvero, avevo dimenticato la vostra premura. Vostro figlio è terribilmente simpatico, poi, con l’età, tendo sempre a divagare un po’... comunque credo di aver pensato ad una cifra, non approssimativa, precisa; naturalmente, per quanto riguarda la libreria, perché, come ho detto a Giulio, la custodia del violino la realizzerò gratis».

«Ma sta scherzando, no, non si deve disturbare».

«Nessun disturbo, signori miei, in questo periodo non ho praticamente lavoro, consideratelo un omaggio all’arte di vostro figlio, l’arte va sempre incoraggiata. Un uomo che possieda un’arte non sperimenterà mai la meschinità della violenza, quale che sia, non trovate?»

«Molto giusto, quand’è così accettiamo volentieri, lei è una persona veramente gentile, sei contento, Giulio?» Ma Giulio affettava draghi e salvava principesse con la sua spada di balsa.

«Per quanto riguarda la libreria, il mio prezzo è di quattromila euro». Il padre sospirò e la madre rimase con lo sguardo a mezz’aria poi si ricompose e si indignò.

«Evidentemente non ci siamo capiti, vede, noi pensavamo ad una libreria per un bambino, destinata alla sua camera, non ad un importante pezzo d’arredamento. Niente rifiniture o cornici, niente legni nobili, un mobile puramente funzionale che del resto non deve essere visto da nessuno».

«Purtroppo non posso ridurre il prezzo, sono desolato, se volete vi indirizzo ad una falegnameria più grande in grado di contenere i costi».

«Molto gentile, non importa, non si disturbi, anzi se ora ci vuole scusare...»

«Volete pazientare ancora un attimo? mi è parso di sentire il campanello su di sopra, vado ad aprire e poi vedo se possiamo in qualche modo ridurre il prezzo, d’accordo?» E si allontanò senza aspettare risposta.

«Caro, questo è pazzo, quattromila euro!»

«Questo idiota ci ha fatto perdere quasi un’ora con le sue cazzate, comunque a casa facciamo i conti, Giulio, quante volte ti ho detto che non si parla con gli adulti? E che soprattutto non si parla con gli estranei di cose che riguardano la nostra famiglia? Ti aspetta una bella punizione, presuntuoso smorfioso che non sei altro!» 

Ma Giulio, la spada appesa alla cintura dei pantaloncini, aveva ormai salvato la sua principessa e correva nel luogo, lontano, dove si vive felici e contenti, per sempre».

«Dai, caro, non te la prendere, è fatto così, è pur sempre un bambino, non possiamo pretendere tutto da lui».

«Zitta, sta tornando quel coglione, adesso sentiamo cos’ha da dirci e ce ne andiamo, non ci son santi, e la custodia del violino se la può ficcare dove dico io».

E tornò il falegname con un signore distinto, vestito in maniera elegante e vistosamente medicato alla fronte, con un labbro tumefatto.

«Signori, permettete che vi presenti un mio caro amico, Guido, il quale ha una proposta per voi. Se avete la bontà di ascoltare per qualche istante ancora, credo vi possa interessare».

«Buongiorno, mi chiamo Guido Fabiani, insegno diritto penale alla facoltà di giurisprudenza dell’università statale di M. e sono presidente di corte d’assise d’appello, questo è il mio biglietto da visita».

«Buongiorno» dissero i coniugi all’unisono e disorientati.

«Questo preambolo è necessario affinché non pensiate che sia una burla quanto sto per chiedervi. Per ragioni che sarebbe fuori luogo spiegare, ho necessità che Angelo costruisca un mobile per me al più presto per cui, visto che per sua scelta non lavora mai a due mobili contemporaneamente, mi offro di pagare la cifra che vi ha richiesto con la preghiera che siate così gentili da consentire che realizzi il mio mobile per primo». I due genitori lo guardavano come un marziano, ammutoliti, spogliati da ogni copione. Alla madre venne da dire:

«Oddio, la situazione mi sembra così assurda, non saprei cosa rispondere».

«Accetti, la prego. Sulla probità della mia parola faccia tutte le verifiche che vuole, si tratta solo, ha detto bene lei, di una improrogabile assurda necessità, per cui, se accettate la mia offerta, vi firmo un assegno subito per l’importo che mi direte, e potrete verificare senz’altro che risulta coperto».

«Beh, caro, dopotutto che cosa ci costa aspettare qualche settimana? Vorrà dire che la Treccani la lasceremo imballata».

«Hai ragione, mi pare tuttavia così grottesco».

«Dunque accettate?» tagliò corto Guido.

«Va bene, d’accordo, anzi forse siamo noi a doverla ringraziare, il vostro amico ci ha fatto un prezzo esorbitante».

«Quanto?» chinandosi sul libretto degli assegni.

«Quattromila euro».

«Benissimo, quattromila euro, ecco a voi. E per vostra tranquillità, se volete fare subito una verifica, vi do il numero del direttore della banca di cui sono cliente».

«Non ce n’è bisogno, signor Fabiani».

«Per la libreria dovrete attendere circa un mese, per quanto riguarda la custodia del violino di vostro figlio, una settimana basterà. Allora, siamo d’accordo?»

«Perfetto, lieto di aver fatto la sua conoscenza, professor Fabiani, arrivederci, signor Angelo».

«Arrivederci».

«Come mai Chiara non è più venuta alle sue lezioni di violino?» L’eroe dalla spada di balsa era tornato.

«Andiamo, Giulio».

«Ehi, dico a te, come mai Chiara non è più venuta da me per le lezioni?» e guardava Guido precisamente negli occhi, come spesso fanno i bambini quando la maestà dei loro desideri viene vanificata dalla distrazione dei grandi.

Giulio se ne stava ora di fronte e vicino a Guido, un bambinetto di dieci anni con i capelli biondissimi e sottili; corpicino morbido e maglietta azzurra facevano da pendant ai suoi occhi acquamarina, fissati e come dilatati in quelli del professore.

«Giulio, ma che ti prende?»

«No, signora, permette un attimo?» e si accovacciò accanto al bimbo.

«Giulio, perché mi fai questa domanda? Cosa intendi dire? Tu mi hai visto da qualche parte, mi conosci?»

«No, però Chiara come mai non si è più fatta vedere?»

«E chi è Chiara?»

«Fffff, Chiara è tua figlia e tu sei suo padre, mi ha sempre parlato molto di te, sono sicuro che tu sei suo padre. Allora rispondimi: perché non si è più fatta sentire?»

«Ascolta, Giulio, sono sicuro che ti sbagli, mia figlia non ha mai preso lezioni di violino, pensa che non ha nemmeno uno strumento a casa, anche alle medie non le interessava la musica».

«Giulio, adesso basta, lascia stare il signore, lo sai che papà ha fretta».

«Fffff, tua figlia Chiara aveva i capelli biondi lisci pettinati a caschetto, gli occhi azzurri e portava sempre i jeans, non l’ho mai vista con la gonna».

«È vero, corrisponde tutto ma sai, caro mio, quante ragazze che si chiamano Chiara si possono descrivere così?», e mosse un sorriso di circostanza ai genitori ed al bambino.

«Fffff, allora aspetta...» e frugò in una specie di portamonete ocra che teneva appeso,con un pezzo di spago bianco, al passante dei pantaloncini. Porse a Guido un rettangolino di carta.

«Ecco tua figlia, adesso però mi rispondi? E dietro c’è anche la dedica. Dice «Al mio maestro di violino, piccolino e sopraffino».

Uno strattone senza tanti complimenti trasse la maglietta con dentro Giulio prontamente all’indietro, la collera del padre era tracimata. E uno schiaffo scompose la perfetta scriminatura del bimbo.

«Signori, vogliate scusarci per tutto, soprattutto lei, signor Guido, ora dobbiamo proprio andare».

«Vostro figlio mi ha appena mostrato una fototessera di mia figlia, con dedica, e la calligrafia corrisponde».

«Dici sul serio?» intervenne Angelo, il quale, abbandonato mollemente a cavalcioni di una sedia, non si sa come era riuscito a non rendere dieci volte la pariglia a quell’anonimo padre tutto calcoli e salamelecchi. Gli era così ben chiaro che Giulio si trovava al centro di consistenti interessi economici da parte dei genitori: un bambino più o meno prodigio che dava lezioni di violino ricavandoci un bel nulla se non l’esortazione a fare meglio e di più; la tipica fuga in avanti cui i mediocri non sanno resistere e, se in condizioni di potere, non esitano ad esigere anche dai propri figli. Ma si trattenne, per l’anzianità forse, ma anche per l’intimo convincimento che azioni così odiose non restano senza conseguenza, né in questa vita, né nell’altra, per chi ci crede.

«Sì, è proprio mia figlia, nemmeno questo dunque sapevo di lei... signori, vi prego abbiate la bontà di lasciarmi parlare con il vostro bambino per ancora un minuto, è tanto importante per me».

«Ma certo, noi pensavamo che le desse noia e che lei volesse essere solo cortese, benché infastidito. Come vuole, come vuole».

«Se nel frattempo desiderate un altro caffè, oppure un succo di frutta, o curiosare per il laboratorio...»

«No grazie, ma, siccome ci pare d’aver intuito che per il signore la questione è delicata, preferiremmo attendere in auto».

«Come volete, faccio strada» e li accompagnò all’auto.

«Sapete, il signor Fabiani ha da poco perso la figlia che, da quanto ho capito, era allieva di vostro figlio senza che lui ne sapesse nulla. Perciò, credo che ora vorrà qualche informazione da Giulio.

«Ci dispiace, è stata una disgrazia?»

«Un male che non perdona, purtroppo, riaccompagnerò il bambino da voi fra qualche minuto, arrivederci».

«Arrivederci e grazie».

«Angelo, hai sentito, questo bambino era l’insegnante di violino di mia figlia, ti rendi conto? Non ne ho mai saputo nulla».

«Chiara è venuta da me per circa cinque mesi due volte alla settimana per un’ora e mezza, le piaceva molto la musica, e il suono del violino soprattutto».

«Senti, Giulio, e com’era Chiara con te? Era simpatica,allegra?»

«Certo, anche se spesso le faceva male la gamba, qui» battendosi la coscia per essere preciso.

«E ti ha mai raccontato di me, della sua famiglia? Ne parlava? Cosa diceva?»

«Diceva che aveva un padre molto impegnato e che la sua casa era umida, molto umida, che si respirava a fatica, e che invece a casa mia nella mia stanza l’aria era pulita, e io rispondevo che con la musica si distrugge l’umidità e si pulisce l’aria. Poi facevamo lezione e lei ogni tanto mi dava un bacino e mi teneva sulle ginocchia, non spesso però, perché le faceva male la gamba».

«La gamba, la gamba. Dunque aveva dolore da tempo, il dolore si era già manifestato da un po’, me l’ha detto solo quando cominciava ad essere insopportabile, hai sentito, Angelo?»

«Ho sentito, ho sentito».

«Nemmeno una cosa innocente come le lezioni di violino ha ritenuto opportuno dirmi. Perché non ha mai accennato a questa sua passione per la musica ed il violino?»

«Non lo so, e poi secondo me te l’ha detto ma sei tu che non ti ricordi».

«Ma che dici... io ho buona memoria...» e stette un attimo come almanaccando inventari di dialoghi con sua figlia ben sepolti nelle pieghe del cervello.

«Dimmi, Giulio, secondo te perché Chiara non mi ha mai detto nulla delle vostre lezioni?»

«Perché è inutile parlare di musica, se c’è la musica allora non c’è bisogno di parlare, se non c’è la musica allora è inutile parlare di musica. Chiara aveva la musica e tu no».

«Perché dici questo, io non so suonare, è vero, però mi piace ascoltare la musica, soprattutto quella classica».

«Tutti hanno la musica, signor Guido, ma se uno ha una musica diversa da quella dell’altro allora è inutile»

«Ma cosa vuoi dire? Cosa vuol dire aver la musica?»

«Comunque questo signore mi ha promesso che mi fa la custodia del violino che Chiara aveva già comprato e che è ancora a casa mia. Quando è pronta, se viene a casa mia gliela do insieme con il violino, va bene?»

«Giulio, sei un ometto davvero gentile ma credo che a Chiara il violino non serva più. Sai, Chiara non è più venuta da te perché è volata in cielo».

«È morta... comunque il violino non è mio, è di Chiara, e se lei non c’è più allora è tuo. Verrai a prenderlo quando ti telefonerò».

«Va bene».

«Comunque Chiara ti voleva bene».

«Lo so Giulio, lo so, sono io forse che non gliene ho voluto abbastanza».

«Quando si hanno musiche diverse è sempre così, anche i miei genitori sembra che non mi vogliano bene ma in realtà hanno solo una musica diversa. Se loro hanno il martello pneumatico come musica ed io il violino, non ci capiremo mai. Però la musica si muove, sembra che stia ferma per tanto tempo poi all’improvviso si muove e si capiscono le cose».

«Quanti anni hai Giulio?»

«Quasi undici».

«E chi ti ha insegnato tutte queste cose?»

«Me le ha dette la musica, adesso vado dai miei genitori, la foto te la regalo».

«Grazie, Giulio, posso darti un bacio?»

«Certo».

«Dai vieni che ti accompagno dai tuoi».

«Vengo, però mi raccomando, fammi la custodia del violino».

«Stai tranquillo».

Quando Angelo tornò ansimante in laboratorio, Guido se ne stava impacciato all’impiedi, sempre con quella testa vagamente infossata tra le spalle.

«Una bella coincidenza, vero? Che ne dici di raccontarmi quello che sai su questo strano incontro? Tendo a non credere alle coincidenze».

«Ne so esattamente quanto te, se io fossi il regista di questo dramma, avrei dovuto pagare attori e spendere soldi e trovare una foto di tua figlia, cosa assai facile questa, vero? E il tutto in pochissimo tempo, risponditi da solo, vah».

«Ho detto una scempiaggine».

«Infatti, come stai?»

«Come vuoi che stia, a pezzi. Sono privo di forze».

«È difficile, immagino».

«Avevi ragione tu, qualcosa dentro di me sapeva del fatto del violino, ho fatto uno strano sogno in cui mia figlia suonava, insieme ad altre ragazze, il violino. Erano accanto ad un torrente e, quando Chiara s’è accorta di me ed ha fatto per avvicinarsi, il torrente di colpo s’è ingrossato ed un’onda nera le ha portate via».

«Ma dai, molto interessante, non trovi?»

«In che senso?»

«Beh, la coincidenza del violino, e poi quando il bambino parlava delle musiche diverse che impediscono di comunicare».

«Ha usato una bella metafora, è un bambino anomalo, non credo di aver perfettamente compreso quello che ha detto. Tu che hai capito?»

«Non molto per la verità, io sono un falegname lui un musicista, vorrà ben dire qualcosa».

«Stai scherzando, spero?»

«Sì e no, comunque nel tuo sogno, quando Chiara s’è avvicinata a te, la musica del ruscello si è fatta rombo ed ha soverchiato tua figlia e la sua musica. Resta da capire chi fosse rappresentato dal ruscello».

«Non essere retorico, lo so benissimo che stai pensando a me, e lo sto pensando anch’io».

«Come mai lo stai pensando?»

«Fammi sedere che mi fa male la schiena, stanotte ho fatto un tuffo dal letto... Allora, io non so perché ma tutte le volte che Chiara ha tentato di parlarmi, non necessariamente di problemi, ma di cose sue, di cose che io non potessi direttamente osservare, ho sempre avvertito uno strano senso di ripulsa che inevitabilmente, dopo qualche minuto, la allontanava. Era qualcosa più veloce della logica, infatti respingeva Chiara ben prima che io potessi rendermi conto di esserne la causa».

«Ho capito, probabilmente temevi il confronto».

«Sicuramente, ed evitando il confronto ho evitato anche di avere una figlia, che idiota, che profondissimo idiota».

«Domani comincerò a costruire la tua cassapanca, e subito dopo la custodia del violino per Giulio».

«Grazie, grazie, ci tengo, ci tengo tanto».

«Vuoi rimanere a cena?»

«No, faccio un paio di commissioni e poi vado a dormire, la testa mi fa male e mi tremano le gambe».

«Buon riposo, Guido, ti telefono quando la cassapanca e la custodia saranno pronte, così le ritirerai entrambe da me».

«No, la custodia consegnala al bambino, tanto devo lo stesso andare da lui per il violino, rivedrò volentieri quel misterioso ometto».

«Come vuoi, arrivederci».

«Ciao».

Il pesante falegname chiuse la porta e raggiunse la sua poltrona preferita, negli anni deformata in modo da accogliere l’ingombrante fardello, e stette ad ascoltare il proprio respiro, come cullandosi.

«Non mi ci so ancora abituare, tutto qua, per anni ho visto accadere coincidenze straordinarie, e tutto nel mio laboratorio. Come se dal legno dei miei mobili scorresse attraverso l’aria un messaggio che chiama a raccolta gli eventi necessari all’uomo che mi chiede il mobile. Come se il mobile fosse una sorta di punto di partenza, la scaturigine di una realtà sovrapposta a quella ordinaria, fatta di accadimenti concomitanti che tendono all’unisono ad offrire occasioni di cambiamento a chi, rivolgendosi a me, istintivamente, lo chiede. Perché io, quando lavoro, so bene quello che metto nel mobile, ma poi? Tutto quello che inizia in questo laboratorio, come procede? Che direzione prende? Confesso che non me ne è mai importato nulla, ma ora, ora che la vita mi mette sotto il naso coincidenze sempre più eclatanti, come posso non essere interessato a quello che succede alle persone, dopo che hanno ritirato il mobile? E quali possono essere le cause dell’innesco di queste reazioni a catena di avvenimenti che, ne sono certo, trascendono il mio lavoro? E soprattutto, come mai io assisto a questi fatti ma la mia vita non ne è mai in nessun modo mutata? Perché a me non si presentano situazioni che offrano la possibilità d’un nuovo punto di vista sulle cose? È un’antica storia, la risposta la so, mi sono sempre sentito una sorta di officiante, quello che ti trasmette il suo sapere con il mobile e fine del gioco, ma è ora di finirla, sarebbe assurdo continuare a ritenermi la causa di ciò che succede, sicuramente è il legno che esprime il suo sapere attraverso me. Come mai mi abbia scelto non è cosa che debba interessarmi. Il legno parla solo dei miei clienti e mai di me non certo perché così funziona, bensì perché io mi sono sovrapposto al legno, considerando la mia opera più importante dell’essere stesso del legno. Mi auguro che questo antico errore possa al più presto lasciare il mio cuore, ho bisogno d’aiuto anch’io. E, stanotte, la cassapanca per Guido».

«Però, che eccentrici questi intellettuali, ne deve avere di soldi, quattromila euro solo per guadagnare un po’ di tempo, chissà mai che ci deve fare con quella cassapanca».

«Non lo so e non mi interessa, cara, di fatto noi abbiamo l’assegno, questa è l’unica cosa importante, perciò, visto che non c’è nessun vincolo fra noi e quel ciccione di falegname, prenderemo da un’altra parte la libreria e quando ci presenterà il mobile ed il conto, offriremo un prezzo congruo oppure che se la goda lui, la sua opera d’arte».

«Hai ragione, una bella fortuna. Ma senti, Giulio, che ti ha detto il giudice?»

«Voleva sapere come si comportava con me Chiara».

«E tu che gli hai detto? Che era brava, spero».

«Certo, che era molto brava».

«Così si fa, adesso andiamo a casa, ti riposi una mezz'oretta che poi alle sei hai due ore di lezione».

«Mamma...»

«Giulio non fare i capricci, ho appena controllato l’agenda, te l’ho preso io l’appuntamento, non crederai che mi sbagli?»

«No, mamma, va bene alle sei».

«Bravo bambino».

Al centro commerciale, le luci sfavillanti di neon colorati e la solita musichetta quieta ed allegra, irrigidirono immediatamente il corpo del professore fissurandone gli occhi. Ma non era solamente una questione fisica: pur irritante, quell’ambiente rimandava dritto alla condizione dell’uomo medio, e cioè bisogni massimamente velleitari, animo passivo ma atteggiamento guardingo e sospettoso, per impedire che altri si appropri della scelta, per ora solo della scelta, visto che si paga alla cassa, dei beni acquistati. Come se vi fosse un qualche valore aggiunto in quella scelta, qualcosa di personale. Guido trovava tutto ciò aberrante. Pensò a questo quando una signora lo rimbrottò con parole cortesi ma sguardo feroce poiché si era, inavvertitamente, avvicinato al suo carrello ingombro di acquisti, per osservare l’etichetta di un vino da pasto sconosciuto. Gli ridondavano addosso, come gelidi marosi, stralci di conversazioni ordinarie o litigi fra coniugi, strilli di infanti attratti dalla lussuria baloccosa di tutte quelle forme da prendere: barattoli, bottiglie, casse, frutti della terra, ognuno con il suo specialissimo ed irrinunciabile bene. Alcuni afferravano dalle scansie con un che di meccanico, altri come per noia, altri ancora guardavano e desideravano, soppesando moneta richiesta e moneta preventivata. Va da sé che i preventivi di spesa, ad ogni livello, sono il patetico tentativo della ragione di arginare il potere dell’immagine del prodotto, la quale agisce ed induce desiderio ad un livello talmente profondo che l’unico antidoto per ovviare alla superfluità degli acquisti sarebbe una vigile e pronta attenzione. Ma a questo pensano le musichette monocordi filodiffuse ed i colori cangianti ed accesi, come a creare una dimensione di tensione perpetua e la sua pronta soluzione, i prodotti, appunto. Riuscì a fatica ad astrarsi da quell’immenso infingimento costruito su innegabili ed elementari bisogni. Si sentì in debito d’energia e lucidità, tanto che quando un uomo chiese che ore fossero, lui rispose a stento e non prontamente, come se la semplice operazione richiesta fosse per il suo cervello impresa titanica, in quelle condizioni. Acquistò più velocemente che poté le quattro cose per cena, e, con un senso di precarietà nei muscoli, si diresse verso casa benedicendo la propria governante, purtroppo assente per malattia in quei giorni. Erano anni che non faceva le spese personalmente e si riconobbe un disagio per il corpo, financo i vestiti sembravano al tatto meno comodi, anche la sua automobile era piccina e piccina la sua giacca e greve il suo tessuto, e piccino anche lo spazio che lo separava da casa e piccino quel suo mondo di scrivanie e codici e piccini i suoi viaggi e, dio com’è piccola anche la terra! Sembrava tutta una dannata implosione. Aveva letto da qualche parte che il moto di espansione dell’universo recederà in una contrazione, ma, a meno che non fosse stato nominato profeta da un qualche Altissimo, com’era che la sua personale contrazione gli si rivelava mercé uno stupidissimo centro commerciale?

«Chi disse che il pomodoro è l’unico ad avere un passato davanti? Oggi sono io il pomodoro» pensò.

In fondo, la cattedra universitaria ed il suo lavoro di giudice donavano, anche se era sua cura schermirsi dal successo professionale, la concreta illusione di essere un poco sopra le regole, vuoi per il fatto stesso di applicarle, vuoi per il fatto di incarnare la legge, almeno in quella fetta di realtà costituita dalla sua corte di assistenti ed allievi. Aggiungendo uno status economico agiato, è facile comprendere come chiunque si possa ad un certo punto sentire come... sollevato dalla necessità di provvedere a se stesso. Ed è una sensazione talmente comoda cui anche una persona che ha conosciuto ristrettezze di ogni genere indulge, poiché è veramente doloroso come e più di un parto rinascere alla coscienza della propria assoluta relatività ed alla coscienza dell’inanità dei propri sforzi ed alla coscienza che, se servono, gli sforzi della ragione hanno un fondamentale significato, quello dell’occultamento di qualcosa. C’è sempre qualcosa di occulto, sempre qualcosa di simulato, sempre qualcosa di mediato. In tutto. Il denaro costituzionalmente media e simula credibilità, il vasetto media il pomodoro, la moda media il capo d’abbigliamento, i media mediano il messaggio e castrano l’utenza del medesimo, il vestito media il corpo, il corpo media la volontà, il bisogno d’un altro corpo media il piacere, le chiese mediano e ordinano l’anima.

«È vero, Guido, caro mio, ne hai capite di cose in quasi sessant’anni di vita, complimenti per l’arguzia. In fondo la legge è la sociologia che va per la maggiore, bravo davvero, acuto osservatore, e adesso che si fa?»

«Per adesso si soffre, poi si vedrà, cosa vuoi che faccia? Sono troppo anziano per puntare i piedi, e se una volta ergermi ad urlare il mio disincanto non testimoniava altro che il grido di un uomo in catene, adesso me ne sto qua affaticato a sorridere di come uno strano falegname m’abbia soffiato in poche ore esattamente diciannovemila euro e di come io gliene sia profondamente grato. Ma adesso basta e pensiamo a portare su queste dannate buste». 

Nei momenti di stress e solitudine – lo sapeva per averlo esperimentato la prima volta nel periodo della separazione da sua moglie – si articolava in lui un dialogo serrato fra una voce, la sua, quella ordinaria, ed un’altra, decisamente frettolosa e appena accennata, come un refolo di vento che non riesce a muovere tutte le foglie di un albero, al punto che ti sorge il dubbio d’averlo sentito o solo immaginato. Questa seconda voce pareva intenzionata a banalizzare il poderoso impiego di stralci di filosofia mal digerita, voli pindarici del pensiero, psicologia d’accatto, cui ricorreva la sua mente allorquando una sensazione di nulla incombente minava la sua serenità. Curioso che quest’oggi la voce, diciamo, sfuggente, si fosse limitata ad una tutto sommato lieve irrisione.

«Porto su buste se tu dai qualcosa». Il solito negro che staziona da anni nel parcheggio, probabilmente con gli stessi accendigas di allora. «Sì grazie, tanto più che l’ascensore è guasto».

«Ecco, dai a me e non preoccupare».

«Grazie, come vanno gli affari?» accennò con un sorriso.

«Che cosa?»

«I mean how your business goes».

«Ho capito, amico, ma tua domanda è strana, affari sono per guadagno, lavoro è per vivere, elemosina è per sopravvivere, io qui solo sopravvivo».

«Scusa, non volevo offenderti».

«Niente offesa amico».

«Pesano, le buste?»

«Niente pesa per chi niente paura del corpo. Voi paura del corpo, voi tutto pesa».

«Cosa vuoi dire?»

«Uhhh voi furbi, sempre finta di non capire, tutti vostri problemi è paura di corpo».

«Ah sì? Fammi un esempio e non dire che noi siamo sempre tristi e voi sempre di buonumore perché è una sciocchezza».

«Quando corpo fame voi paura di sua fame e allora poco mangia, poi tanto mangia e piaano piaano grasso come maiale ah ah ah».

«Questa è vecchia, ne hai un’altra?»

«Quando corpo debole voi paura di debolezza e allora poco dorme, poi dorme in macchina e uhhh... muore su strada. Quando corpo vuole altro corpo voi paura e allora poco guarda altri corpi, poi tutti corpi vuole subito e allora zin zin soldi paga ah ah ah ah».

«Ma ce la fai a parlare con quelle quattro buste in mano?»

«Aspetta, quando corpo lavora, voi paura di fatica e allora inventa lavoro meno faticoso, poi lavora il doppio del tempo eh eh eh».

«Ok ok, c’è del vero in quello...»

«Aspetta, quando corpo quieto, voi paura di quiete e inventa sempre giochi, poi zin zin zin, soldi paga per stare seduto per meditazzioone ih ih ih».

«D’accordo, va bene, hai ragione».

«Aspetta, quando corpo muore voi paura e inventa corpo che non muore, poi fa di tutto per fare vivere corpo che muore, non si può eh eh eh».

«Siamo arrivati, quella è la mia porta, posa pure lì».

«Aspetta, quando corpo ascolta voi paura e niente ascolta, poi di colpo ascolta anche primo negro che passa ah ah ah».

«Se vuoi accomodarti ti offro qualcosa, con tutto il fiato che hai speso, che ne dici?»

«Ho tutto fiato che vuoi, mia salute buona».

«Beato te, invece io mi sento molto debole, ma tu sei giovane, per forza che la tua salute è buona».

«Cosa vuole dire? Anche giovani muore, no?»

«Già, vero, allora quanto vuoi per questa cortesia?» Non aveva più alcuna voglia di parlare.

«Niente soldi, prima cosa per salute buona è casa senza umidità, ciao amico». E si dileguò per le scale l’esile ma nerboruto uomo con qualche ricciolo bianco, così nero da poterlo riconoscere solo trovandolo, come sempre, nel parcheggio sotto casa.

«Finirò per impazzire, che cazzo hanno tutti con questa storia dell’umidità? Sento anch’io una strana umidità in questa casa, ma anche fuori, come se il mio corpo trasudasse un po’ più del normale, e poi il sogno che mi dice inequivocabilmente di comprare quella cassapanca pena la disgrazia e Dio... non ho mai considerato i sogni, ma questo aveva una tale intensità, una precisione così minacciosa». Era teso, pavido e teso nell’attesa di chissà cosa. Il telefono.

«Ciao, sono Angelo».

«Angelo! Angelo tu non ci crederai ma ti avrei chiamato io in questi minuti, devo chiederti una cosa, rispondi sinceramente per cortesia».

«Ma certo, di', mi sembri affannato, stai bene?»

«Insomma, ascoltami bene, cos’è l’umidità? Sono sicuro che tu ne sai qualcosa. Rispondi».

«Ma scusa, che stai dicendo? Ehi, Guido, sono Angelo, stai bene?» Il suo collega.

«A-Angelo, certo, Angelo! Scusa, per un attimo ti avevo scambiato per un’altra persona, avete la voce uguale».

«Ma cosa volevi sapere dell’umidità?»

«Nulla, stavo leggendo un testo di alchimia e volevo capirci qualcosa».

«Non sapevo ti interessassero queste cose».

«In realtà è un libro che mi è capitato un po’ per caso, è una specie di rebus, mi diletto a capirci qualcosa».

«Ascolta, ti chiamavo per sapere se domattina hai un’ora, volevo farti vedere le bozze di quel trattato».

«Senz’altro, diciamo, domattina alle undici?»

«Perfetto, ci vediamo domani, ah, riposati, mi sembri un po’ stressato».

«È vero, ciao buonanotte».

«Forse dovrei vedere uno psichiatra, sto perdendo le redini di me stesso, sento di poter impazzire da un momento all’altro, e Dio sa se mai voci furono più diverse una dall’altra! Qui il mio senso della realtà vacilla, non posso permettermelo. Prima però devo chiamare Angelo, vedere se può aiutarmi a capire qualcosa di quello che mi sta succedendo. Lo chiamo domani, sì sì, domani, e adesso devo dormire, dormire assolutamente». Così pensò e sprofondò nel sonno, lì, nella poltrona del soggiorno.

   

   

CAPITOLO QUINTO

La costruzione

   

L’uomo dolcemente si concedeva alla deriva nelle profondità silenziose d’un caro sonnoveglia, accompagnato da suoni di cicale e rane, che, come una cima, lo assicuravano al suo corpo. Di quando in quando una leggera brezza lo restituiva al suo angusto appartamentino e a quella morbida e un po’ sfondata poltrona. Chiudere gli occhi sul mondo deliberatamente, ogni tanto, gli pareva un’attività sommamente produttiva, come il tentativo di investigare un possibile altrove in cui sono i germi delle cose pesanti e sottili di questa terra. Chiudere gli occhi per aprirli su diafane ombre giocose oppure strappi dorati di luce, in mezzo alla tenebra. Questo si offriva talvolta alle sue palpebre abbassate, quando il sonno non lo consegnava a ben altre dimensioni. Per oggi, però, il tempo dell’ozio era finito.

«Andiamo a lavorare». E scese nel laboratorio.

Tutto era pienamente silenzioso, le sagome degli attrezzi e del banco di lavoro appena accennate e, là in fondo, maestose assi di legno misuravano l’intera altezza della falegnameria. Trasse un profondo respiro, ma faticosamente: l’umidità sembrava feroce come non mai. Accese una sigaretta, e il barbaglio giallo dello zolfanello per un attimo precisò i contorni delle assi enormi e grezze e la venustà brillante di ragnatele argentee tra il legno. Un senso di solitudine riempì il suo cuore, beneficandolo di quiete. Finì la sigaretta aspirando pienamente il tabacco fino al filtro, quasi disgustandosene. Un debole sfarfallio di luce penetrava dalla finestra e, tremolando come un vecchio dito, macchiava d’argento la base d’una di quelle enormi travi. Luce della luna filtrata dalle foglie del pesco nel giardino.

«Cosa ci fai qua?»

«Lo sai, questa notte devo lavorare».

«Ah sì? Invece noi vogliamo riposare per cui vattene, ci stai disturbando».

«Mi dispiace ma, come sai, lo devo fare».

«Oh, vedrai che non lo farai, non stavolta».

«Hai visto anche tu, la Luna ti ha scelto, non ti puoi opporre a lei».

«Io non ho visto nulla, e stavolta qualcosa è mutato».

«Che cosa?»

«Oggi non sarò il solo ad impedirti il lavoro».

«Ti faccio la mia proposta».

«Ma quale proposta! Che vuoi proporre se non ti rendi nemmeno conto che lo spirito dell’acqua nella terra sta sorgendo, se non ti rendi nemmeno conto che è già dentro di te e ti sta soffocando. Stiamo preparando un rivolgimento epocale e tu vuoi lavorare, attento!»

«Niente minacce, spirito dell’acqua, ascolta la mia proposta».

«Tutto ciò risponde a una legge divina e tu, piccolo falegname, con quale forza pensi di opporti?»

«Con la forza della necessità, e, bada bene, non cercare di turlupinarmi perché sai benissimo che non ti potrei distruggere nemmeno se lo volessi».

«Lo spirito dell’acqua che, in quest’asse, io rappresento, è in collera con voi. Troppi sono i soprusi cui l’avete sottoposto voi uomini. E tutto ciò solo per quel tanto di coscienza in più di cui vi beate ma di cui ignorate la responsabilità. Più potere più dovere... ricorda. E invece voi uomini fate esattamente il contrario».

«È vero, ma tu stai parlando con un uomo. Bada, lo spirito dell’acqua è uguale in tutto il mondo, gli uomini no, per cui non credere di aver dato un messaggio agli uomini, l’hai dato solo a me, che peraltro già sapevo».

«Lo spirito dell’acqua vi darà una lezione, fuggirà da dove vi serve e stazionerà dove solo fa danno. Fuggirà dai fiumi e se ne starà a mezz’aria, soffocandovi. Non bagnerà le vostre colture ma, come proiettile, le strazierà indurendosi in grandine. E, dove era ghiaccio, diventerà liquido per sommergere le vostre città. E, piano piano, la vostra sete non verrà placata. Questo con l’appoggio dello spirito del fuoco».

«Sia come sia, ora ascolta la mia proposta».

«Ancora con la proposta! Sei proprio duro d’orecchi! È finito il tempo in cui si è consentito all’uomo di violentare lo spirito dell’acqua! A cominciare da oggi, a cominciare da me!»

«Sai qual è la realtà? Tu ti sei affezionato troppo al legno in cui vivi e ti dispiace lasciarlo. Tu, che stai da almeno qualche decennio in questo legno, hai dimenticato la tua vera natura. Ricorda, non sei che una particella dello spirito dell’acqua, destinata all’albero da cui è stata tratta questa trave. Ricorda che lo spirito dell’acqua vive dappertutto: nei cieli, nelle terre, nel regno animale, vegetale, umano. Te lo sei dimenticato questo, vero? Hai paura di svanire, hai smarrito la tua adattabilità, e allora, come noi umani, hai fatto politica. Non che tu abbia detto cose sbagliate, anzi, sono sacrosante, ma le hai usate per mascherare la tua immotivata paura. Hai paura, vero?»

«Per piacere voglio restare qui, prendi un altro pezzo di legno».

«Non posso, mi è stato indicato questo, sai, serve un legno secco perché il mobile che costruirò attiri l’umidità che c’è nella casa di un mio amico. Tu non lo sai ma lo spirito dell’acqua, per noi umani, a causa di una strana qualità che possiede, è come un cassetto in cui si raccolgono tutte le nostre emozioni e sensazioni, come se tutte le cose belle e brutte che proviamo appoggiassero sullo spirito dell’acqua, da cui pur traiamo vita. E allora io, con i miei mobili, aiuto queste persone con troppi cassetti a dissolverne alcuni, in modo che diventino visibili e poi scompaiano tutti i pensieri tristi e i cattivi umori e le rabbie e le tristezze e le ansie racchiuse nei cassetti costruiti dallo spirito dell’acqua. Hai capito?»

«Non ho capito niente, voglio stare nel mio legno in santa pace. Ormai mi piace tanto il suo odore, e conosco bene ogni venatura ed ogni nodo, mi piace correrci dentro».

«La mia proposta era appunto che te ne andassi in quell’altra asse lì vicino a te, potresti fare amicizia con quell’altra particella di spirito dell’acqua, appartenete alla stessa fonte, anche se non ve lo ricordate. Suvvia, con un piccolo sforzo vi intenderete a meraviglia e vi ricorderete che potete stare ovunque vogliate, che il vostro moto naturale è circolare, dalla terra al cielo, incessantemente».

«Eh, no! Io non capisco perché, se il predestinato è lui, debba farne le spese io e stringermi, no no, non se ne parla neppure. Guai a te, falegname!» intervenne l’egocentrico spirito dell’acqua dell’asse accanto.

«Cheppalle, sentite bene signori, bando alle ciance adesso. Voi siete nel mio laboratorio da poco e non mi avete mai visto lavorare, dunque sappiate che io ho una procedura ben precisa per dirimere controversie di questo genere, ed è questa: se vi siete tanto abbarbicati al vostro particolare legno da non volerlo lasciare per un altro, ebbene io posso costringervi ad un salto ben più radicale sputandovi dal legno all’aria. La vedete quella stufa? Se non scendete a patti, mi basterà tagliare le vostre assi e ridurle in cenere, così voi verrete trasformati in vapore acqueo e vi renderete conto, traumaticamente certo, della banalità delle vostre rimostranze».

«Non hai almeno un’asse di legno secco in cui possa trasferirmi da solo?»

«No, nessun legno giovane è mai completamente secco ed io uso solo legni giovani».

«Ah, tu non fai sul serio, stai barando, ti sei svegliato con il piede sbagliato ed adesso scarichi la tua rabbia facendo il prepotente con noi».

Angelo premette il pulsante rosso della sega circolare.

«Aspetta, forse avremmo bisogno di un arbitro, uno imparziale, chi sei tu per dirci quello che dobbiamo fare?»

«Sono semplicemente uno che vi può trasportare nella stufa».

«La tua prepotenza non resterà senza conseguenze! Lo spirito dell’acqua...»

«Silenzio. Ciò che vi chiede il falegname risponde a necessità quindi obbedite». Gli spiriti del fuoco delle due assi avevano parlato all’unisono.

«Grazie, signori del fuoco».

«Non biasimare troppo, falegname, la cecità di questi due. Nel vostro regno succede continuamente la stessa cosa e sappi che, come il regno più basso dipende dal più alto, vero è anche l’inverso».

Angelo non aveva udito mai la voce dello spirito del fuoco, prima. Svettava sopra le lagne querule degli spiritelli dell’acqua con cui aveva continuamente a che fare e conteneva una precisa critica non certo al genere umano, ma a lui. L’aveva sentito. Quelle voci gli indicavano un errore. Di colpo realizzò. Tanto aveva parlato della circolarità del moto delle acque per convincere gli spiritelli d’acqua, fissati e ossessivi, ad accondiscendere alle sue necessità, ma non si era mai reso conto che tale circolarità forse apparteneva anche al moto dell’uomo. E forse in questo stava la spiegazione del suo sentirsi, benché concausa, come escluso dalla catena di mutamenti che, quasi immancabilmente, si innescava nel suo laboratorio.

«La buona volontà senza comprensione è una mezza maledizione» pensò, riandando con la mente a tutti quegli anni passati in cui la sua vita, pur con molte soddisfazioni, manifestava una certa monotonia, anzi, un’assoluta monotonia, financo nel modo di alimentarsi, eccezion fatta per quello stupendo vino che ogni tanto il suo amico gli regalava da quel giorno in cui, come per caso, era capitato nella sua azienda.

«Io sto aspettando, l’unica cosa che mi preme dirvi ancora, spiriti dell’acqua, è che se posso facilitare in qualche modo il vostro passaggio, ebbene lo farò volentieri».

«Allora, per piacere, sovrapponi le nostre assi e attendi qualche minuto». Santo cielo, com’erano tristi! Capì d’un tratto che il suo pragmatismo, non senza sarcasmo talvolta, altra cosa non era se non uno schermo per non sentire compassione. Afferrò una trave, e, facendola roteare, la sovrappose all’altra specularmente, finché le superfici aderirono bene. Le mani dell’uomo sfiorarono l’asse ed avvertirono una bruma argentea e fresca tra le fibre del legno, la stessa che gli imperlava la fronte. Si ritrasse e, fumando una sigaretta, lasciò che si compisse il passaggio nel più assoluto silenzio.

«Ecco, ora la tua trave è come la volevi».

«Vi ringrazio, non è poi così male condividere lo spazio, ogni tanto».

«Lascia perdere, piuttosto noi dobbiamo trovare un accordo, che ne dici se io mi prendo le venature di destra e tu quelle di sinistra?»

«Eh no, tu sei venuto da me quindi sono io che decido. Io mi prendo la parte superiore, tu quella inferiore».

«Ma che idiozia, è molto più pratico come dico io».

Angelo afferrò la trave senza più umidità, lui la chiamava in gergo senza più anima, e la spinse dalla parte opposta del laboratorio dove si trovava la piallatrice che avrebbe reso lisce le pareti dell’asse e tolto la corteccia. Le voci scomparvero. Avevano questa curiosa particolarità, tutt’affatto simile a quella degli umani. In presenza di qualcuno alzavano maggiormente la voce, mentre in solitudine, le loro beghe si risolvevano al massimo in qualche scricchiolio, come capita di udire non solo nelle falegnamerie ma in ogni casa in cui siano mobili in legno.

La luce di luna, spezzata in raggio attraverso il finestrone del laboratorio, frequentemente sporcata dalla sagoma dell’uomo come in danza cadenzata attorno al tavolaccio da lavoro, precisò di polvere l’atmosfera della falegnameria per tutta la notte, illanguidendo verso il giorno ed infine scomparendo, lasciando all’alba un mobile in più ed un uomo di fronte ad esso, esausto. Ogni volta che terminava uno dei suoi lavori, o come amava pensare, ogni volta che si compiva uno dei suoi mobili, provava, in fondo alla spossatezza acida dei propri muscoli, in fondo alla mobilità tronca del proprio corpone, una sensazione come di luminosissima gemmazione, una germinazione preziosissima che, impiantata nel centro del centro... di qualcosa, lo lasciava spalancato e volante. E come si fuma, dopo, per il terrore di essere risucchiati in quella sconfinata puntiforme purità; si fuma, si fuma perché la luce ha qualcosa a che vedere con l’aria, sono come sorelle avvinghiate in un vorticante girotondo, come fanno i bambini che vogliono l’estasi dello smarrimento, cercando il vuoto nell’occhio del ciclone della giostra, un po’ prima di andare a scuola. Fuori, la luce del giorno inturgidiva e, in mezzo ad essa, un gatto cercava un ramo, le galline raspavano quel po’ di terreno e, un po’ scostato, il ronzio discontinuo della provinciale. Lo sguardo dell’uomo deviò dal nulla verso una curiosa macchia vicino alla stufa: giusto prima non esisteva. Come una rugiada illimpidisce e trasogna il verde dei campi, rigandolo come d’argento o sprofondandolo in smeraldo, lì, su quel pavimento, minuscole stille di acquerugiola aggregavano la polvere di legno, scurendola. Il centro della chiazza pulsava impercettibilmente come un piccolo cuoricino: si stava allargando.

   

   

CAPITOLO SESTO

L'uomo salame

    

«Angelo?»

«Sono io. Guido, vero?»

«Sì, ascolta, volevo chiederti...»

«Come stai?»

«Non bene, senti...»

«Dimmi... ah, per la tua cassapanca devi attendere ancora qualche giorno».

«Non è un problema».

«Va bene, allora ti chiamo io...»

«Aspetta, aspetta per piacere...»

«Prego, dimmi tutto».

«Forse... forse tu sai qualcosa dell’aspetto simbolico dell’acqua? Voglio dire... di cosa essa possa significare se ci compare nei sogni e e... e se per caso, secondo te, i sogni possano in qualche modo avere una valenza profetica, cioè annunciare proprio... una situazione... reale, insomma, concreta».

«Hai sognato dell’acqua? Un sogno terribile.. sembri sconvolto».

«Sì, no, non proprio dell’acqua, c’entra la parola umidità, un sogno pazzesco, e poi mi insegue anche nella realtà, con un riferimento molto preciso al al... al sogno .. capisci? Precisissimo».

«Capisco... interessante, comunque, per rispondere alla tua domanda, no, non so nulla della simbologia dell’acqua».

«Io vorrei capire, devo capire, sto perdendo i contatti con la realtà, ieri ho perfino scambiato un collega per te, al telefono».

«Dai, cosa vuoi che sia, non allarmarti troppo, e poi sono convinto che per capire, come tu vorresti, la fretta sia la cosa meno necessaria».

«Devo fare delle ricerche, capire cosa il mio inconscio voglia dirmi con questa storia dell’umidità perché, capisci, è il motivo dominante anche di altri due... sogni... ma non sono sogni... mi consigli di vedere uno psicologo?»

«Ma scusa, per capire cosa ci sia nel tuo inconscio hai bisogno di leggere libri scritti da altri? Questa francamente mi sembra grossa! Sei tutto frettoloso e poi fai una scelta all’insegna della pigrizia, sei un bel tipo».

«Una consulenza, non certo la psicanalisi, lo so da me che quella dura anni».

«Perché non vieni con me a fare una passeggiata?»

«Sì, così parliamo più tranquillamente, volentieri».

«Non della simbologia dell’acqua per carità, e poi, francamente, questi sono fatti tuoi. Il mistero delle tue cose deve rivelarsi a te, non certo a me, e poi magari nemmeno deve rivelarsi, chissà».

«Mi sento come buttato su un pianeta sconosciuto, con forme e parole ignote. Quest’angoscia diventa ogni ora più potente. Che male c’è se provo a sbrogliare la matassa? A restituirmi a me stesso?»

«Mi sembra solo retorica quello che dici. Come se, stando alle tue parole, ci fosse qualcosa in sé, esterno a te, in grado di causare il dolore e l’angoscia che provi. Ok, posto che ci sia qualcosa da capire su sta benedetta umidità o acqua, non pensi che la cosa migliore da fare sia stare zitti? È come se di fronte a te ci fosse un cinghiale incazzato e tu, prima di scappare, chiedessi ad un barbuto e sapiente etologo quali siano le caratteristiche salienti di quella particolare razza di cinghiale, il tipo di setola, l’alimentazione favorita, lo zoccolo fissurato, l’habitat d’elezione. Ma che ti frega? A te deve importare di scappare e, se invece di guardare il grasso etologo, guardi le zanne del cinghiale, lo capisci da solo».

«E se mi ammazzasse?»

«Vabbè, portami i numeri del lotto».

«Ti comporti come se ti dessero fastidio le mie confidenze».

«No, certo che no, però, anche a me è capitato, considero il discorrere di queste cose una specie di distrazione da salotto, in cui si allenta un po’ la tensione ma non si combina niente di vitale, di sensato. Figurati, anche su quattro righette del codice, tu me lo insegni, la comunicazione è scivolosa, incerta. Immagina come sia illusorio pensare di venire a capo di qualcosa con la conversazione. E poi non si tratta di comprendere a livello di astrazione, probabilmente è necessaria una comprensione globale, sono cose sacre».

«Sacre? Che dici?»

«Sacre, indicibili. Cose di cui non si può parlare, cose che non passano con la parola e i suoi suoni. Hai presente la Proskomidía?»

«No».

«È una parte della liturgia ortodossa che il sacerdote svolge a porte chiuse, fisicamente chiuse, nel senso che i fedeli se ne stanno fuori. Mi sono domandato spesso quale ne fosse il significato, e penso che abbia a che vedere con l’idea che il mistero sia ineffabile e viva in una luce meno abbagliante di quella fisica».

«Quindi una specie di censura».

«Non credo. La censura è un divieto che viene dal potere, proprio dal potere che, diabolico com’è nella sua bifrontalità, poi ti strombazza che tu puoi fare tutto, che sei libero, che tutte le conoscenze ti sono accessibili, e alla fine non sei libero neanche di comprare. Mai che qualcuno si chieda se ha l’attenzione necessaria per vedere qualcosa di più sottile e meno sgargiante dei colori della televisione. Mai che a qualcuno venga in mente che ci sono piaceri meno gastrici. Ma al potere interessa mantenere nell’individuo questa infantilissima sensazione di onnipotenza, in modo che lavori alacremente, per tutta la vita, per comprarsi financo la Rivelazione. Ma, tornando alla Proskomidía, è come dire, impedendo l’accesso ai fedeli, che ci sono realtà che trascendono quella sensoriale, e anche quella del pensiero, che fiorisce su di essa».

«Ma cosa accade dentro la chiesa mentre il pubblico è fuori?»

«Il sacerdote intaglia un’enorme pagnotta bianca e liscia che simboleggia il nulla prima della creazione: egli simbolicamente crea dal tutto cose diverse dissezionando la pagnotta, e, col primo taglio longitudinale, assegna la direzione del tempo. Come dire: dal nulla in riposo, ad un certo punto, si crea il tempo e, con esso, l’apparente diversità dei tanti pezzetti di pagnotta. Interessante, no? Ma soprattutto l’esclusione dei fedeli in questo momento decisivo è un espediente fantastico per aiutarli a capire che vi sono realtà sottili cui la nostra rozza volontà non può accostarsi».

«Sì, e per la passeggiata?»

«Passa fra un’oretta, che andiamo a respirare un po’ d’aria buona, tanto oggi non potrei lavorare, un velo d’acqua ricopre il pavimento del laboratorio».

«D’accordo, a dopo».

«Hai visto? Sbuffa, come un piccolo fontanile».

«Dev’essere una bella falla».

«Non ci sono condutture, qua sotto».

«E allora, da dove viene?»

«Non so, non sono un rabdomante».

«Una falda, forse».

«A tre metri sotto il livello del suolo? Difficile».

«E allora?»

«Semplicemente, quella polla non dovrebbe esserci, non è straordinario?»

«Beh, sì, emozionante, se cresce ti rovinerà tutto».

«Ho tolto la corrente, il legno è lì in alto, non vorrà crescere fino a un metro».

«Però è davvero strano: pulsa, qualcosa la spinge a fasi alterne, non è regolare, è come il sangue che esce da un’arteria».

«L’acqua, se ci pensi, è un po’ il sangue della terra».

«Allora il tuo laboratorio ha ferito la terra, Angelo» sorrise Guido.

«Già, non può essere che così, bisognerà chiamare un dottore, altro che idraulico».

«Sì, ma ci vorrebbe un dottore enorme, e un farmacista gigante per preparare le medicine».

«Aspetta, e se fosse un bene? Come nel trattamento di certe patologie del fegato... si fanno anche al giorno d’oggi salassi... non interveniamo, non siamo sicuri di niente, siamo mai sicuri di niente».

«E poi noi non siamo intelligenti come la Terra. Se dovesse star male chiamerebbe qualcuno più intelligente di lei, non trovi?»

«Certo, per questo genere di cose serve il Sole, noi brancoleremmo nel buio tentando questo e quello, aggravando la situazione».

«Insomma, la Terra è in buone mani, partiamo tranquilli».

«Sei molto abile nel trattare con vecchi falegnami rincitrulliti».

«Imparo velocemente, nonostante l’età».

«Mettiamoci in macchina».

«Dove si va?»

«Prendi per... poi ti dico dove svoltare».

«D’accordo».

«Ogni anno... sull’argine di un fiume, in questi giorni, molti pittori, alcuni sconosciuti, altri con qualche pubblicazione su riviste di un certo pregio, altri ancora dei veri e propri fabbricanti di immondizia colorata, si mettono in fila ed espongono i loro quadri. Alcuni parlano di sé in terza persona, altri, indispettiti perché i quadri non si vendono, leggono corrucciati il giornale e fumano, altri ancora parlano volentieri del proprio quadro e, quando te ne vai senza comprare, sono in grado di salutarti spiccando un autentico sorriso, ma sono rari. Certuni hanno evidentemente troppa solitudine domestica impiastricciata sul cuore come una malefica pomata, ed usano questo avvenimento cercando di rendersi gradevoli ed organizzando cene e iniziative di ogni genere. Alcuni altri, e sono di solito quelli che non hanno la minima idea di chi sia quella faccia che incontrano nello specchio del bagno ogni mattina, si calano completamente nel personaggio, sono proprio come travestiti, imparano termini difficili, approfondiscono la voce, illanguidiscono lo sguardo con quel tanto di maudit che suppongono piacere alle signore, e se ne stanno appollaiati sul loro trespolo come autentici barbagianni».

«Ti piacciono le arti figurative?»

«Sì e no, non me lo sono mai chiesto, diciamo che mi diverte quella lunga sfilza di quadri ed autori, mi chiedo spesso perché stiano facendo la fila, non è buffo? Fanno la fila!»

«È un discorso lungo, credo, oppure cortissimo: uno dipinge perché ne ha voglia».

«È vero, vogliono che le loro immagini se ne vadano per il mondo, e quindi le seguono durante i primi passi. Del resto, le immagini sono fatte per viaggiare nel mondo, sono molto importanti, le immagini. E ben venga la fila, dopotutto».

«La campagna è bellissima».

«È vero, la campagna sembra sempre sul punto di dirti qualcosa».

L’auto ad un certo punto stornò dalla statale per immettersi in un nastrino d’asfalto che scompariva tra campi di granturco, rivelando ogni tanto vecchie case padronali con cani che brevemente infuriavano, salvo poi riaccomodarsi tra sole e ombra, sul vialetto. 

Alcuni cascinali debbono essere stati fortificati: lo dimostrano le profonde e caratteristiche scanalature verticali simmetriche proprio di fianco al portale in marmo, che un tempo debbono aver ospitato i marchingegni di un ponte levatoio. Al centro dell’aia una strana torre colombaria, anche questa in marmo, in contrasto col rosso dei mattoni di cotto infiltrati di rampicante sabbioso. Aria intrisa di camomilla selvatica, brevi ponti per brevi rigagnoli, qualche terreno riposa nell’incolto. Sorprende la sostanza del rintocco delle campane per l’aria fin contro le lamiere, fin dentro lo stomaco. Scodellature di bronzo, enormi, montate su grandi volani di ghisa scura, in alto sul campanile, due grosse, due la metà, toni e semitoni. Un gruppo di sikh guarda l’auto e sorride: sono ottimi governanti di bestie, per tradizione, e sono molto ricercati da queste parti. La loro quiete ed il loro silenzio fanno da controcanto agli ululati cheyenne dei contadini col loro dialetto, lingua per le cose da uomini e per le lamentazioni segrete, contro tutti, in giaculatoria mentre scivolano lenti ai bordi della strada, con biciclette con la retìna per non impigliare le gonne delle mogli.

«Parcheggia in quello spiazzo, facciamo due passi, tanto siamo vicini».

«È una bella fortuna però vivere da queste parti, senti che silenzio».

«Non credere: bisogna saperlo sopportare il silenzio, è impietoso». Gli occhi di Angelo scorrevano distrattamente i nomi incisi su una lapide commemorativa dei caduti dell’ultima guerra: un recinto basso di catena, due fiori e un cero rosso spento. Ogni piccola frazioncina ha ceduto una dose d’uomini e di forze, risucchiati dal vento sfavorevole e fortissimo dell’ultima guerra. Lontani dai benevoli ritmi della terra, attenti ai suoni artificiali dei fucili di quegli uomini dalla lingua difficilissima, sostenuti nelle attese o nelle marce gelate dal Cordiale, anch’esso vilmente artificiale. Alcuni magari vivono anche oggi, la mente impegnata nell’almanacco costante di date ed amici, di ritorni e prigionia, geloni e solidarietà, la mente bucata dai proiettili dell’età, che vanno sempre a segno. Non te lo diranno mai, ma in guerra sono stati anche felici. Un gruppetto di vecchi gioca a briscola poco lontano, le braccia e le ossa rese gonfie e stortate da mezzo secolo di tributi alla terra, le mani come uova coperte da una pellicola di latte cagliato. Il tavolino è piccolo di formica scura, con quattro gambe di lucente alluminio: ci sono le carte e i calici di tutti, anche dei tre che assistono in piedi, strette le pance vinose in improbabili pantaloni di tela azzurra e mocassini scuri. Una vecchia li incrocia, secca dal passo corto e sforzato, nel nero da brava donna, i capelli costretti in cipolla.

«Hai notato come tutto ciò che ha a che fare con la guerra sia decisamente brutto? Uniformi, magari appariscenti, ma veditele davanti per giorni, danno il voltastomaco. Le navi, maestose, potenti, paurose... guardale per un po’... ti annoiano, la loro forma è noiosa. Guarda questo cippo funerario, sta schifezza. Pensa invece se si fossero messi d’accordo, i familiari dei caduti, per piantare un albero, un grosso noce per esempio».

«È vero, queste lapidi sembrano davvero un lugubre rituale».

«Rappresentano solo la morte, non servono a niente, vuoi mettere un bell’albero quante cose regala, come ti ricorda incessantemente che sei vivo, che ci sono frutti da raccogliere?»

«Sembra esserci un potere malvagio, in giro per il mondo, vero?»

«Molto è organizzato per la paura dei più, solo per paura acquisteranno una quantità di cose completamente inutili, per paura si daranno una vita intirizzita nei doveri dell’amore promesso. L’oggi è per pochi, è per i principi, il domani è per gli illusi, capisci cosa intendo?»

«Certo».

«La promessa, l’eterna promessa sempre rimandata, consente che un essere umano si storpi fino a consumarsi in un dovere continuo e menzognero di vita sociale e lavorativa completamente insensata. Vedi, Guido, la speranza, quale che sia il suo ambito, è un disvalore assoluto, è un cancro. Tutto quello che non hai oggi l’avrai domani, tutto quello che ti chiediamo oggi, te lo daremo domani: sai immaginare qualcosa di più infantile?»

«In che senso infantile?»

«E dove sarai domani? E come fai a fidarti? Ed è proprio vero che quello che perdo oggi lo riavrò domani? È realmente possibile?»

«Mah... scusami, mi sento la testa leggera, non sono molto in grado di pensare adesso, da che parte andiamo?»

«Per di qua, guarda, là in fondo sulla sinistra, comincia là».

Si cominciavano ad intravedere i cavalletti di legno che, da lontano, sembravano tanti alberelli di un bosco ceduo mortificati dal taglio feroce di uno di quei tipi d’uomo che, non potendo assolutamente starsene in pace con se stesso, si adoperi indefessamente per impedirlo a chi ci riesce, con ogni mezzo e scusa, la cui plausibilità cede di fronte all’urgenza del bisogno di impegnarsi in qualcosa di distruttivo. Sono quelli che aborrono la quiete, che amano fare sempre qualcosa, anche senza alcuna utilità, senza alcuna gratificazione, in pura perdita, pur di non rischiare di ricongiungersi con la propria nullità interiore. Anche stare seduti ad un tavolo è una mortificazione insopportabile per questi terribili figuri, ed ecco che li vedi tremare tutti e, se guardi sotto al tavolo, stupirai vedendoli muovere la gamba alla velocità del pistone di un’automobile. Di solito sanno fare tutto, ma male, e potano gli alberi fino a farli somigliare ai cavalletti, sbilenchi per l’irregolarità dell’argine, dei pittori espositori. Ma in questo caso, naturalmente, si tratta di autentici cavalletti, con pittori al seguito.

«Do you like natura morta?» si dicono due ragazzi ammiccando ad una tristissima composizione di frutta posata su un tavolo di legno, sullo sfondo un camino spento e una pentola di rame. Sghignazzano ma l’uomo, autore di quell’evidente scempio su tela, li ha sentiti.

«Andate via per cortesia» dice ai due, composto in un maglioncino pastello e spolverino blu.

«La prossima volta mettici una mela in più!» ridono, tirando via, i due simpatici.

L’uomo guarda al professore, improvvisamente.

«Fanno schifo anche a me, cosa credono? Ma è già una fortuna così, è già una fortuna così!» E si volge al fiume, anticipato da un piccolo canneto, acqua nemmeno increspata, quasi ferma, qualche strappo di riverbero del sole come un lenzuolo divino dimenticato.

«Che avrà voluto dire?»

«Che quei ragazzi si sono comportati da cafoni, ma che l’ironia con cui hanno trattato il suo quadro testimonia che non sono del tutto zombie».

«Oppure che il suo quadro è sì una intollerabile porcheria, ma avercene avuta di frutta così quando lui, da piccolo, che non avevano neanche... eccetera eccetera, non come oggi che invece c’è tutto eccetera eccetera».

«Oppure che il suo quadro è ributtante, d’accordo, ma, essendo il meglio di quello che finora ha potuto fare, occupa con ogni legittimità quel metro quadro. E non è facile occuparlo con la serenità che ha dimostrato, allontanando bonariamente quei due ragazzotti, quando sa benissimo di essere un imbrattatele. In questo senso è un cattivo pittore ma un uomo di buona fattura».

«Allora dovrebbe andare a una mostra d’uomini, non di pittori». Guido era a disagio, d’un tratto.

«Non c’è mica bisogno di stare fermi come i quadri, per mostrarsi uomini».

«Quella cosa che hai appena detto è stata un piccolo shock per me, mi ha riportato alla memoria una cosa che a suo tempo mi fece soffrire molto».

«Che cosa?»

«Quand’ero piccolo avevo un giornale illustrato, favolette morali, cattoliche, per bambini. Mostravano i benefici di una quantità di atteggiamenti, tutti molto desiderabili a giudicare dal finale delle storielle. Per esempio il bambino, nota, il bambino, operaio in una fabbrica, che all’uscita si china a raccogliere uno spillo. Il padrone, che lo osserva dalla finestra, ammirato da tanta attenzione per le piccole cose, conquistato dall’evidente intendimento del piccolo di risparmiare, finanche una cosa di infimo valore come uno spillo, lo chiama a sé, gli affida un posto di maggiore responsabilità, e alla fine il bambino dello spillo diventa un grande industriale».

«Positivismo sfrenato, anche un po’ idiota, pensa che nelle società tradizionali, quelle in cui il sacro permeava tutta la vita della comunità, e non si riduceva alla pagliacciata domenicale o alla frignata funebre, al contrario del tuo "bimbo degli spilli" l’accumulazione di beni era considerata dannosa in quanto insieme alle merci si accumulava quello che chiamavano mana, potremmo chiamarlo approssimativamente "potere". Dunque, per permettere che il potere circolasse e non si accumulasse diventando fonte di squilibrio per la comunità, questo surplus veniva sistematicamente distrutto nel corso di rituali chiamati, mi pare, potlàtch. La distruzione del disavanzo, e non l’accumulazione come da noi, creava una sorta di potere però non di tipo economico, ma, potremmo dire, di prestigio, nel senso che il potlàtch più grande definiva la categoria di persone che più aveva tenuto in conto l’equilibrio della comunità».

«Una cosa sulla falsariga del bambino degli spilli era, ed è questo che ha inciso profondamente il mio essere in quegli anni, il racconto di un certo signor Prudenzio. Questo personaggio, alto, bello, ben vestito, sorriso lucente e pelle levigata da un’abbronzatura dorata e uniforme, magro, ricopriva una posizione di comando all’interno dell’azienda in cui lavorava. C’erano due o tre immagini che lo ritraevano in ufficio, sorridente e ritto davanti alla scrivania; gli facevano da contraltare i suoi subordinati, chi sovrappeso, chi accanito fumatore spelacchiato, abiti stropicciati, pallidi e curvi, labbra ad arco verso il pavimento. Naturalmente, nel racconto questi avanzi d’uomo erano felici per com’erano diretti da Prudenzio, il quale aveva anche una devota e bellissima moglie con grembiulino bianco lindo e camicetta rosa, trasognata d’amore nel porgergli lo stufato. Anche al campo da tennis Prudenzio non aveva eguali: contendenti asfissiati e ricurvi sulla rete testimoniavano l’ennesimo successo del freschissimo Prudenzio. Qual era il segreto di un tale superuomo? Vuoi saperlo? Si lavava i denti tre volte al giorno! E la faccia e le ascelle la mattina. Ed in più sorrideva sempre. Non ero felice, facevo la seconda elementare, avevo spesso la testa pesante e non riuscivo a legare con i compagni. Già dall’asilo, castrato dalle suore e dai loro sistemi di contenzione perversi e criminali, avevo perso ogni spontaneità. Non vedevo bene alla lavagna. Insomma, non mi parve vero: sorridere sempre, lavarmi la faccia e le ascelle la mattina, e i denti tre volte al giorno. L’indomani, forte di questo segreto acquisito, mi comportai di conseguenza. I risultati non si fecero attendere: i bambini, le bambine soprattutto, presero a sbeffeggiarmi, mi arrivò anche qualche scuffiotto. Sorridevo sempre, ero uno spettacolo insopportabile. Pensavo fosse questione di pratica e perseverai fino a quando, ironia della sorte, mi portarono dal dentista per un paio di carie. Il dentista disse: «Ma questo bambino non si lava i denti!» Mi sentii morire d’una tristezza infinita. Dopo un po’ di lacrime dedussi che se io non ero felice come il signor Prudenzio, e se svolgevo di malavoglia e con tristezza i compiti, se non riuscivo a legare con i compagni, ciò era semplicemente dovuto al fatto che non ne ero degno. Tutto il mio carattere attuale è una sterminata reazione alla spaventosa voragine di inadeguatezza che le parole di quel dentista aprirono nei miei visceri. Da qui il dovere di essere sempre produttivo, anche nel riposo, con interminabili dissertazioni e riflessioni, e competitivo, come se il prossimo esistesse per essere preceduto, scavalcato, scostato e, al limite, ingannato. Per questo quel pittore probabilmente ha uno stato d’animo che io nemmeno lontanamente posso immaginare, occupa il suo posto senza sentirsi in colpa, non si cura della competitività di ciò che produce, e gli rimane intelligenza nel cuore per scostare senza violenza chi lo deride. E a sessant’anni, questo, fa la differenza tra un uomo e una macchina».

«Ehi, guarda questo quadro, per rimanere in tema di macchine».

Guido ebbe come un leggero divincolio delle spalle, impercettibile, come accade spesso quando si nota che i propri fantasmi sono terribili ma squisitamente nostri, non capiti e non capibili, ombre che non scuriscono la vista altrui nemmeno per un istante. Un fastidio, una brezza come d’ingiustizia subita, tanto sciocchi sappiamo essere quando l’attenzione altrui non viene captata dal cerchio magnetico della nostra dolente biografia, della nostra memoria litaniante offese, reiterata e straniante, impeccabilmente disperata.

Gli ci volle un attimo e una corsa dello sguardo lungo l’orizzonte ottico, a pescare luce, dopo quel tuffo malriuscito e malconsiderato nell’infanzia scimmiesca e trottante. Tornò con improvvisa malavoglia a considerare la nuova tela, che sembrava accalappiare l’interesse di Angelo, che questa volta rinunciava a sembrare svagato e se ne stava tutt’occhi di fronte ad un’immagine curiosa ma dal tratto tutto sommato assai banale. Il quadro procurò a Guido una calda e subitanea nausea.

«Ma che cos’è?»

«È un uomo salame, come puoi vedere» disse Angelo, fissurando gli occhi ad un veloce baleno di luce tra le canne scostate da un’anatra indaffarata.

Il quadro, malamente dipinto, era stranamente disgustante, lo si poteva notare da come, ad una prima occhiata, chiunque lo incrociasse tirasse via, inavvertitamente allungando il passo. Su una campitura color giallo scuro si stagliava la figura di un uomo, figura di fantasia, composto da fine macinato di carne rossa, strettamente intrecciato, compattato e trattenuto da una legatura di spago bianco, quella tipica dei salumi. Sembianza che evidentemente voleva comunicare un’impressione di rozzezza, di insensataggine, visto che la testa, sgusciata come spremuta dal tronco e questa volta senza legature di spago, non aveva occhi né orecchie, il naso quello sì, però, che figurava come una specie di pinna marrone. La bocca, senza labbra con gengive vivide e denti grigiastri, era fissata in posizione semidischiusa, come una perenne asola.

Sullo sfondo a sinistra si intuivano accatastamenti di carne macinata, come buttati, e qualcosa di simile a lucciole, puntini luminosi, intorno.

«Come mai ti interessa tanto questa schifezza?»

«È molto interessante, va guardata con attenzione, per esempio avvicinati e guarda il macinato da cui è composto l’uomo, cosa ti sembra?»

«Sembrano tanti piccoli vermi».

«E quei puntini vagamente luminosi, riesci a vederli?»

«Attorno al mucchio di carne?»

«No, proprio sul corpo dell’uomo, ogni vermicello di carne ha all’estremità un puntino vagamente luminoso, vedi , qui ?»

«Sì, sono così lievi che nemmeno sembrano voluti, ma tessono come una ragnatela di luce intorno all’uomo salame».

«Chissà cosa significano, su un quadro così grossolanamente sgrossato, una tale finezza, e per di più pressoché invisibile, deve avere un significato ben preciso».

«Si sarà pentito della porcheria che ha fatto, ed avrà voluto porvi tardivo rimedio con questo paradossale impreziosimento, proseguiamo?»

«Mi piacerebbe farmi spiegare alcune cose dall’autore, chi sarà?»

«Eccomi, eccomi, vedo con piacere che il mio quadro ha destato il vostro interesse, sono a vostra disposizione, ero là avanti, con un amico a bere un caffè, tanto, il mio quadro non interessa mai nessuno, anzi, diciamo che, di media, si ferma una persona ogni dieci volte che lo espongo per una giornata intera, sia qui che in altri posti. In città è peggio, in città proprio nessuno si ferma mai. Ma è così, lo sanno tutti ormai, in città ormai il nome, la griffe, cosa mi tocca dire signori miei, la griffe! Ormai il nome non indica solo il prezzo di un bene, ma condiziona anche la qualità dell’attenzione. Ormai, cari passanti cortesi, se ci fate caso il mercante d’arte regge il timone dell’attenzione, che è drogata dalle parole disoneste del critico che, pagato dal mercante, conferisce valore secondo convenienza a questa o quell’altra opera. Non riusciamo più ad essere attenti, ci hanno stregato lo sguardo, che disdetta! Ma grazie al tempo, nostro unico alleato ormai, torneremo presto a vedere, con lucidità e piacere, senza veli o ragnatele ad impestarci gli occhi. Ma io mi dilungo con i miei "ormai" e le mie speranze, e Voi, signori, immagino vorrete chiedere degli schiarimenti su qualcosa che, inusitatamente, fa convergere la vostra attenzione sull’uomo salame».

«Ah, si chiama proprio così?» sogghignò Angelo.

«Certo, il disgraziato uomo salame! L’innocente, sfortunatissimo, uomo salame!» declamò il pittore tutto eccitato, con un saltello e uno stiramento all’insù.

«Il suo quadro, lo dico senza nessuna intenzione di offenderla, è veramente malriuscito. Il tratto è dozzinale, affrettato, i colori opachi con evidenti aggrumature, tuttavia, avvicinandomi, quasi a contatto con la tela, ho notato che il corpo dell’uomo è disseminato di... puntini di luce che, se non fosse per la loro collocazione precisa e ricorrente all’estremità di ogni vermicello di carne, mi farebbero pensare ad un difetto del suo pennello, mal lavato da un colore precedente. Mi piacerebbe capirne il significato».

«Caro signore, lei è un osservatore a dir poco eccezionale e mi rallegro per l’amico che l’accompagna, che può tener per caro un uomo dalle pupille così lucenti. Ma venendo ai suoi giustissimi commenti ed alla sua decisiva domanda, lei mostra un’intelligenza non comune nel notare apertamente la bruttura della mia opera, ed ancora più progredita si dimostra la sua mente, nel sospettare che quella fitta rete di lumicini (sembrano piccole stelline, no?) abbiano un senso compiuto. Ebbene, l’hanno».

«Ci dica, la prego» fece Guido, divertito dai barocchismi di quello spiritato e gesticolante magrissimo uomo, dalla pelle rugginosa e con degli improbabili pantaloni metallizzati.

«Ora, dopo una breve premessa, esporrò i significati della mia creazione».

«Siamo pronti ad ascoltarla».

Guido sentì i piedi bagnati e s’accorse di essere nel bel mezzo di una pozzanghera. Se ne trasse con un balzo. Il viottolo in terra battuta, lungo il quale si dipanava la mostra, era uno scuro pantano, disseminato di pozze d’acqua fangosa. Non ci aveva fatto caso, come aveva potuto stare in quel guazzo fino a riempirsi d’acqua le scarpe? Che gran fastidio, le calze bagnate.

«Come vi dicevo, forse Lorsignori pensano che io sia un pittore di cattivo gusto e imperita mano, ma tengo a richiamare la vostra considerazione su due questioni: la prima, e cioè che io non ho dipinto altro quadro all’infuori di questo, e secondariamente che questo dipinto è volgare esclusivamente perché volgare e degradato è l’uomo salame. Come potrebbe essere diversamente? L’uomo salame va descritto con la stessa brutalità della sua natura, forse che se voglio dipingere un ippopotamo ritraggo la grazia di un pettirosso?

L’uomo salame è gretto, uguale a se stesso, affrettato e lento, disomogeneo, pieno di grumi, la sua vita è nauseabonda, sa di carne salata, proprio come un salume. I suoi orizzonti sono ristretti, la voce monocorde, i movimenti sono come scatti di un meccanismo. Tra quando sta seduto e quando si alza c’è la manifestazione della sua vera natura: il nulla. Quando si muove, eh, ma è difficile notarlo, ci vuole occhio, proprio quello che ci manca, dicevo... quando si muove, il suo corpo non passa da una posa all’altra, bensì prima è in una posizione, poi è in un’altra. Ma, tralasciando questi particolari secondari, andiamo dritti al punto dicendo qual è la caratteristica principale del nostro meschinissimo uomo salame. Infatti, tutte le cose che si possono dire sull’uomo salame, dipendono da questa peculiarità fondamentale esattamente come le fronde dipendono dai rami e questi dal tronco, e questo dalla radice. L’albero è un’eccellente metafora non solo per l’uomo salame, ma per tutti i tipi d’uomo. Concentriamoci però solo sul nostro innocente e orribile uomo salame, pensando a quello che ora vi dirò come alla radice dell’albero salame, mi sono spiegato?»

«Perfettamente, prosegua, siamo molto interessati».

«La radice dell’uomo salame è che esso è un pezzo di carne».

«Tutto qua?»

«Le sembra poco, caro Signore? Probabilmente la sua scarsa considerazione di questa mia rivelazione è dovuta al fatto che lei, impedito alla riflessione dalla fastidiosa sensazione che debbono provocare delle scarpe piene d’acqua, specie se con i propri piedi dentro, ha tralasciato di considerare che il fatto che l’uomo salame sia un pezzo di carne non è né una battuta né minimamente una metafora, bensì una cristallina verità, da intendersi in senso letterale. Ma capisco la sua difficoltà, visto che la sua mente è impegnata a giurare e spergiurare, a chissà quale giudice interiore, che quando vi siete incamminati per questo sentiero il viottolo era perfettamente asciutto, altro che il pantano in cui poco fa ha affogato i suoi piedi».

«Ma che sta dicendo?!»

«Lascia correre, Guido, anch’io ho avuto la tua identica impressione» mormorò Angelo senza guardarlo.

«Ma di che...»

«Ora, se mi accordate la necessaria attenzione, vorrei proseguire descrivendo la mia opera nei particolari, precisando nel contempo alcuni comportamenti tipici dell’uomo salame. Abbiamo appurato che la disgrazia principale dell’uomo salame sta nel fatto di essere un mero pezzo di carne, ma non abbiamo ancora dato il necessario rilievo alla totale assenza di responsabilità che lo caratterizza. E ciò non solo in senso spregiativo ma anche e principalmente di totale innocenza rispetto all’origine della sua condizione. Affermiamo pure che egli è una vittima dell’universo, nel senso che la sua condizione dipende da certe necessità cosmiche di cui sarebbe pressoché impossibile trattare adesso. Certamente, il nostro caro stufato di carne ambulante non trae alcun beneficio dal sapere di essere esente da colpa rispetto alla disgrazia che è ed alle sventure che produce. E nemmeno se ne cura granché: sua massima aspirazione è la tranquillità. Noi tutti sappiamo che un motore soffre e si usura di più se sottoposto a frequenti cambiamenti di ritmo. Similmente il nostro uomo cotechino abbisogna di regolarità, di strette cadenze che ne dipanino la vita, di ritmi costanti. Di quali ritmi di quali cadenze, di quali direzioni, non importa, perché, e arriviamo ad un’altra nota distintiva del nostro malcreato uomo soppressato, egli non ha una volontà. Come potete vedere l’ho ritratto senza occhi per significare che egli non può guardare in una certa direzione, non può di fatto vedere nulla perché la vista è una funzione della volontà, ed ormai sappiamo che egli non ne ha una. Senza una volontà rimangono delle impressioni visive sulla retina, immagini morte che possono essere miscelate ad arte da un qualsiasi pifferaio magico per fare reagire l’uomo prosciutto e condizionarne le azioni».

«Ma, se non ha una volontà, come può agire?»

«La sua perspicacia è davvero eccellente, signore, ma qui ho un poco scherzato con voi, ed è normale che siate rimasti perplessi. Infatti il nostro uomo culatello non ha, è vero, una volontà, ma ne ha moltissime, e sono come impulsi elettrici che scaturiscono da associazioni di immagini. Per questo un’opportuna associazione, uno studiato accostamento di immagini da sottoporre agli occhi opachi di questo poveraccio, può determinarne le azioni. La magia delle immagini, la loro malìa, determina il nostro sventurato a muoversi in questo o quel senso, senza alcuna coordinazione, casualmente oppure obbedendo ad un nascosto sacerdote che, dosando sapientemente le icone come gli ingredienti di una medicina maledetta, può ottenere ciò che vuole dal nostro salamino semovente. Se noi vediamo un uomo salame che persegue un intendimento ben preciso nel corso della sua vita, ciò è semplicemente dovuto al fatto che un’immagine è penetrata in lui con particolare forza, ma in nessun caso, in nessuno, il nostro uomo sarà libero».

«Ha detto che quest’uomo non ha volontà, ma il pensiero? E l’anima?» chiese Guido.

«Il pensiero non esiste, questo del pensiero è un concetto che ci siamo abituati a sopravvalutare; infine, ciò che noi comunemente intendiamo per pensiero non sono che gli effetti sottili delle immagini. La vita interiore del nostro sgraziato salamaccio è un grossolano almanacco di figure immaginali; per non parlare dell’anima: cosa non si inventa l’uomo d’oggi!»

«E l’anima cos’è? Non esiste nemmeno quella?»

«Perbacco, certo che esiste, ma solo come possibilità, quasi nessuno la possiede, di solito la questione dell’anima è una di quelle passioni divoranti che prendono l’uomo che, intravista per un attimo la sua disgustosa realtà interiore e provandone sgomento, si risolve ad allucinarsi immaginando che in mezzo a tanto carbone possa trovarsi già bell’e fatto un diamante.

Ovviamente non è così, il diamante va costruito, così nella nostra metafora come nella realtà. Infatti un diamante si forma grazie alle immense pressioni che la terra esercita sul carbone. Così, il nostro pezzo di brasato, ignaro che un’anima si fabbrica esattamente come il diamante, si immaginerà di possederne una e confiderà nella morte come nel mezzo che gli permetterà finalmente di ricongiungersi con la parte splendida di sé. Naturalmente, questo è solo un espediente per addormentarsi meglio: se non fosse uno sciocco trucchetto, non si capirebbe il perché di tanto attaccamento all’esistenza proprio nel momento in cui la disperazione dell’uomo sembra avere toccato il suo culmine. È un’evidente contraddizione che ci rende noto quanto l’uomo sappia, benché faccia di tutto per nasconderselo, di non essere che un pezzo di bollito, una semplice possibilità d’essere che di fatto non si realizza mai».

«Come mai l’ha dipinto con la bocca aperta?»

«Perché il nostro sciagurato beniamino deve essere continuamente nutrito, senza la minima possibilità di scegliere di cosa e quando nutrirsi. Aggiungo che il reticolo luminoso, quasi invisibile, composto di puntolini luminosi, che con tanta perizia il suo amico ha saputo notare, è la rappresentazione grafica di quanto vi ho spiegato prima: sono l’energia dei pensieri, creati dalle immagini, che smuovono la carne per le vie del mondo ed al tempo stesso, come una rete magica, lo imprigionano e limitano. Come un tonno. Quei mucchi di carne sullo sfondo rappresentano la materia, la carne comune da cui l’uomo è costituito, e le lucciole intorno sono le "informazioni" che, come uno stampo, formeranno e daranno le prime indicazioni al nuovo sventurato che si prepara a calcare questo buio pianeta».

«Per informazioni intende il DNA?»

«Prima, molto prima del DNA».

«Per lei, dunque, l’uomo si ridurrebbe a questo?»

«L’uomo, di fatto, non è che questo, la considerazione che in esso si racchiudano possibilità immense è trascurabile nel senso che, pressoché mai, rispetto a lui, diventano una realtà. E comunque l’uomo salame è solo un tipo d’uomo, ve ne sono altri, ma sono rarissimi».

«È una ben triste fatalità, povero uomo salame. Ma c’è una possibilità che si affranchi da questa insensata schiavitù?»

«C’è, ma sappia che questa schiavitù è necessaria, non a lui, certo, ma fondamentale. In ogni caso la possibilità di togliersi da questa vera e propria "salamità" esiste, ma è praticamente impossibile e comunque non sono certo in grado di fornire alcuna indicazione in merito, sono ancora un uomo salame, come voi, signori. E con questo, ho finito, graziosi ospiti».

«Come mai teneva tanto a darci dei salami?»

«Per vostra coscienza, signori, per vostra conoscenza. Ed ora se mi volete scusare, torno in compagnia del mio amico e del suo caffè, augurandovi un buon proseguimento di passeggiata».

«Perdonate!» fece il pittore all’indirizzo dei due che gli avevano voltato le spalle, ringraziandolo imbarazzati.

«Perdonate, ho dimenticato la cosa più importante...»

«Sì?»

«Lo scopo della vita dell’uomo salame».

«E qual è?»

«Come tutti i pezzi di carne, di essere mangiato. Volete sapere da chi? Non ha importanza ma ve lo dico lo stesso, per vostra scienza: dalla Luna. Dovete sapere che la Luna non è quel pezzo di fango argenteo che immaginiamo: ella è un essere vivente in graduale evoluzione, e, come tutti noi, ha fame. Una periodica vorace fame unitamente ad un costante appetito. Come noi ha bisogno di nutrimento continuo ma, come un’adolescente insicura, spesso ha crisi di bulimia. E c’è da capirla, poverina. È la più piccolina dell’universo ed è obbligata a stare nel posto più buio del medesimo, ed in più è figlia di una violenza. Come potrebbe non avere turbe psichiche?»

«Senta, noi vorremmo continuare la passeggiata, i suoi argomenti sono interessanti ma...»

Il pittore, che salmodiava l’incredibile racconto con gli occhi verso il basso, in atteggiamento compunto e con lievi ondulazioni del tronco, come in certe invocazioni ebraiche, d’un tratto drizzò gli occhi in quelli di Guido e, avvicinandosi d’un passo, lo ghermì per il braccio.

«Ora, caro signore, per esigenze sulla cui necessità io non mi permetto di sindacare, anche se il tempo è contro di noi, io reputo doveroso che lei ascolti la fine del mio racconto, per null’altro che per sua informazione; ed apra bene le orecchie perché queste notizie sono destinate a lei. Il suo caro amico deve aver ricevuto altrove e molto tempo fa le medesime indicazioni, ed a quanto vedo, ora egli non è più un uomo salame, benché senz’altro la sua condizione attuale sia probabilmente più dolorosa. Ma egli non è più un pezzo di carne come lei e come me. E sa come l’ho riconosciuto? Di norma un uomo salame quale io sono non è in grado di vedere che altri salami come lui, dentro quell’immensa cantina di salumi di proprietà privata della Luna, chiamata Terra. Ma, veda, questo quadro l’ho dipinto esattamente 43 anni fa e l’avrò illustrato ad alcune centinaia di persone in questi anni. Si dev’essere formata una sorta di capacità nel mio cervello, che mi consente, grazie probabilmente a questo esercizio continuo di osservazione e colloquio con le persone che si sono via via dimostrate interessate ai concetti sottesi al mio squallido dipinto, di riconoscere coloro che non sono più uomini ordinari, senza tuttavia sapere nulla delle caratteristiche di queste persone non più meri manicaretti per la Luna».

«D’accordo, lasci il braccio, però, ascolterò quello che mi vuole dire... Tu, ne sai qualcosa? Ma cosa dice?»

«Sì, ascoltiamolo, non ci costa nulla» mormorò con il viso disteso e quieto.

«Orbene, visto che, scelleratamente, siete affetto anche voi dal morbo moderno della velocità, cercherò di condensare la mia trattazione informandovi del fatto che, quando mi riferivo al posto più buio dell’universo, intendevo dire che la Luna è quanto di meno intelligente ci sia. E, non si sconvolga, al secondo posto in questa triste classifica, abbiamo la Terra. Il nutrimento indicato e prediletto dal nostro tanto cantato satellite è l’uomo salame. Abbiamo notizia delle crisi bulimiche lunari quando sulla terra scoppia una guerra, che sarà vasta in proporzione all’intensità dell’accesso di fame. Ma, normalmente, va detto che si accontenta dei normali decessi e di succhiare certe sostanze, continuamente, anche dai vivi. Per aiutarla a comprendere, si figuri l’uomo ordinario come una noce di cocco che, cava e con latte all’interno, venga raggiunta da una cannuccia che si tuffa nel latte e la cui altra estremità arriva dritta nella bocca della Luna. Proprio così, siamo il drink perfetto per il sostentamento e l’adolescenza di questa affamatissima neonata cosmica. E le sostanze di cui va ghiotta sono quelle di cui noi continuamente disponiamo per edificare i nostri corpi sottili, ma che sprechiamo non sapendo come fare per generare quelle pressioni enormi, dentro di noi, che servono alla produzione del diamante, o, come preferisce lei, dell’anima. Ora, l’uomo salame, finché rimane salame, non ha la minima possibilità di sottrarsi alle fauci della Luna. Ella lo mungerà tutti i giorni della sua vita ed alla morte egli sarà distrutto per sempre. Ho detto distrutto. Si decomporrà e, non avendo costruito alcun corpo sottile in grado di resistere alle leggi che regolano la vita terrena, di lui non rimarrà la minima traccia. Tuttavia, ad alcuni uomini è dato di rendersi superficialmente conto di essere delle bistecche, un po’ complesse certo, ben guarnite, ma pur sempre delle bistecche pronte, in un piatto. Succede quando si ha la fortuna di avere un enorme dolore cosciente. È necessario avere un dolore enorme, ma dev’essere cosciente. Ogni forma di occultamento dev’essere sbandita senza por tempo in mezzo. È così difficile che reputo la coscienza del dolore tutto sommato un caso. Date queste due condizioni, l’uomo è ad un bivio: cercare di aumentare la coscienza di essere un nulla senza alcuna anima, un pezzo di arrosto, sacrificando progressivamente ogni e qualsiasi opinione su se stesso fino a riposare sulla propria assenza totale, oppure stordirsi, e continuare ad essere un salamaccio infame in attesa di essere addentato. Ed il mondo è imbandito per offrire ogni genere di stordimento. Capirà, è nell’interesse della Luna. Ha capito, caro lei?»

«Sì, mi pare di aver capito».

«Lei non ha capito un bel nulla, ma ora, invece di fischiettare, userò delle vere e proprie trombe di Gerico. La situazione che ho descritto or ora, dell’uomo che, per somma casualità, ha avuto piena coscienza di un enorme dolore ed ha dunque preso superficiale coscienza di essere un tacchino nel giorno del Ringraziamento, è precisamente ed indubitabilmente la sua condizione attuale. Come non mettere in relazione la terribilità del sogno riguardante sua figlia, del sogno della sua condanna a morte per eccesso di umidità nella casa, con i benefici ma dolorosi influssi esercitati da un autentico nemico della Luna quale il suo accompagnatore è? Le esigenze della Luna la invitavano al torpore, all’oblio dell’angoscioso dolore della vita spezzata anzitempo di sua figlia, le consigliavano di rimuovere qualsiasi ricordo ma, per una benefica casualità, lei ha incontrato Angelo. Veda, Acqua e Luna sono sinonimi, diciamo che l’acqua è la cannuccia attraverso cui la Luna succhia il nostro latte. Ricorda come l’acqua nelle sue visioni fosse presentata come minacciosa e potente, nel caso del fiume che ha inghiottito sua figlia, o viceversa insinuante e nascosta, ma ugualmente letale, come nel caso dell’umidità? L’influenza sottile di questo benemerito, suo malgrado, benefattore, le presentava, agendo con immagini di portata emozionale intensissima, la ferocia della Luna, e la pone oggi ad una soglia: potrà rimanerci come lo sono io da 40 anni e più, potrà morire senza che questo faccia la minima differenza in ordine alla sua distruzione completa, oppure qualcosa di ulteriore potrà accadere, anche se il soffio del tempo ci pone tutti quanti letteralmente con l’acqua alla gola. Con questo, mi congedo da voi». 

Fece un inchino e tornò al suo caffè. Chissà se l’amico che gli porgeva la tazzina era anche lui un salame.

   

   

CAPITOLO SETTIMO

Gli inganni della Luna

   

«Dunque è così?»

«Che cosa?»

«Lui ti conosceva».

«Mi avrà notato senz’altro. Come ti dicevo, vengo qui tutti gli anni, ed è capitato che mostrassi a chi mi accompagnava quel quadro».

«Lui sa di... di quelle visioni di cui avrei voluto parlarti... sono state esattamente come le ha descritte. Ma le hai provocate tu davvero?»

«Ti sei posto sotto la mia influenza, io non sono uno stregone, semplicemente, come tutti gli uomini, influisco su chi ho accanto. Ma, perché si delineassero nel tuo subcosciente le associazioni necessarie a rappresentarti l’elemento acqua come un grande pericolo per la tua vita, era necessario porre una sorta di barriera: tu l’hai superata, e le immagini si sono prodotte».

«Di che barriera parli?»

«Del prezzo esorbitante che ho richiesto per la costruzione della cassapanca. Ah, a proposito, l’ho costruita. Te l’avrei consegnata nei prossimi giorni...»

«Non me la consegnerai? C’è qualche cambiamento?»

«No, dicevamo del prezzo... Un prezzo esorbitante è un sistema eccellente per appurare quali persone siano in grado di conoscere, di provare a capire... insomma di ascoltare le parole del pittore. Chi accetta di pagare una cifra così elevata per un bene di valore commerciale infinitamente inferiore è senza dubbio una persona su cui l’atteggiamento ciecamente funzionalistico ed oscuramente quantitativo non ha avuto completa presa. Capisci le implicazioni di questa parola? Quantitativo: idea che ogni cosa abbia un valore determinato dal mercato. Non è così, non è dannatamente così. Il denaro è l’occhio dell’uomo imbastardito, che guarda le cose. È necessario rimuovere quest’occhio per poter udire altre leggi, altre parole, altri suoni».

«Tu dici che io ho superato questa barriera, ma il discorso del pittore non mi è per niente chiaro. Mi ha lasciato un’impressione di capogiro e sgomento, e tanta incredulità»

«Quel discorso non era fatto per nutrire la tua memoria, si rivolgeva ad altre parti di te, di cui ora tu non hai la minima conoscenza. Ma non ti preoccupare: da quelle parole tu hai assorbito molto, i loro suoni ed il loro ritmo lavoreranno per te, dentro di te, come un fiume carsico, ed un giorno tutto ciò verrà in superficie».

«Non capisco perché l’acqua, considerata fonte di vita, è stata descritta come l’arto rapace di un’assassina, come una mortale cannuccia».

«È una questione di proporzioni. Il nostro creatore non ha, come erroneamente si crede, un occhio di riguardo per la specie umana, ma tutto emana da lui, massima luce, degradando fino al massimo buio, e gradualmente riacquistando luce, per tornare a lui. Come ti diceva il pittore, la Terra è, dopo la Luna, il posto meno intelligente, o cosciente, o luminoso, dell’universo. Quindi noi siamo sostanza divina quasi massimamente degradata e, dopo aver raggiunto la più elevata degradazione possibile, cioè dopo essere stati mangiati dalla Luna, riconquisteremo gradualmente coscienza, fino a completa ricongiunzione con l’Assoluto. Questo avviene automaticamente. Per tornare alla tua domanda, l’acqua è una funzione di questo automatismo, è necessaria e benedetta. Solo per l’uomo che voglia sottrarsi a questo meccanicismo essa è una grande maledizione, poiché spinge verso la massima involuzione, cioè la Luna, invece di permetterci di raggiungere il successivo grado di intelligenza che, rispetto alla Terra, è il Sole. Nel piccolo vale la stessa cosa: tu potevi scegliere a quale influenza esporti, e ti sei esposto alla mia, che, rispetto a te, è solare, nemica dell’acqua, nemica della Luna. L’universo è un grande gioco di scatole cinesi che ubbidiscono alle medesime leggi, un’infinita serie di matrioske. La nostra opportunità consiste nell’accelerare un ritorno che, comunque, avverrà. È solo una questione di tempo, anche se il tempo per potersi assoggettare all’una o all’altra influenza, lunare o solare, sta finendo».

«Da cosa capisci che sta finendo?»

«Dalla Luna, la sua fame è imperiosa, le acque stanno salendo, sta apparecchiando il tavolo, preparando i coltelli, disponendo i piatti. Vedi questo pantano? Quant’è che siamo su questo sentiero? Due ore? E la terra era secca e riarsa mentre ora è greve e imbevuta d’acqua. Il tempo sta finendo».

«E quando il tempo finirà cosa succederà?»

«Non lo so, non sono più un uomo salame, ma non sono così evoluto da saperlo, mi sembra ragionevole continuare a passeggiare, se sei d’accordo».

«C’è una cosa che mi ha fatto una profonda impressione, una cosa che ha detto il pittore ma che poi ha lasciato cadere: la Luna figlia di una violenza, ti ricordi? Ha detto proprio così, che avrà voluto dire?»

«La Luna è un imprevisto, è una figlia non voluta, è figlia di un errore. È nata dalla collisione fra una cometa e la Terra, e la Terra, come ora sai, si occupa del suo mantenimento e della sua crescita. Certamente quello scontro non doveva esserci e la Luna sarebbe dovuta nascere molto tempo dopo. Diciamo che la Terra è una ragazza madre che nutre, con grossi sacrifici, la figlioletta prematura».

«Perché fai tutto questo? Dunque per te costruire mobili è una vocazione».

«Costruire mobili è il mio modo di oppormi all’acqua della Luna. Grazie ad uno stato interiore che conseguo prima e durante la costruzione, e rispettando certe regole che riguardano le proporzioni del manufatto, sono in grado di trasmettere la mia influenza a grandi distanze, così che il proprietario, per rimanere assoggettato al mio influsso, non debba necessariamente essere in relazione costante con me. Questa è la mia speciale abilità, ma non si tratta di vocazione, semplicemente è l’unica cosa sensata che posso fare finché sono nella presente condizione, e cioè non più salame, ma nemmeno ancora qualcos’altro. Quindi il mio destino, finché non sarò stabilizzato in un superiore grado di essere, non può essere che quello di aiutare altri uomini a liberarsi dalla "salamità", così come il Sole aiuta la Terra ad elevarsi alla sua intelligenza, e la Terra aiuta la Luna ad elevarsi al suo grado di coscienza, in una perpetua catena».

Lungo il fiume, chiazzato di sole, scivolava una barca snella, dalla lunga prua e dal legno scuro. Dietro, a reggere la barra del timone, un uomo osservava i passanti e i quadri che gli davano la schiena.

«Ehi voi, gente! Che guardate? Non c’è più niente da vedere, ormai. Guardate la mia barca, gente! Robusta, agile, l’avevo costruita per questa smisurata deriva, per questo eterno corso d’acqua, per un perfetto scivolamento infinito. Ma come potevo sospettare, gente! Come potevo sospettare che lo scorrere avesse un termine? E, se ha i fianchi snelli per insinuarsi fra le rapide, se è leggera per evitare i massi affioranti, quanto le potranno servire queste sue qualità quando affronterà la grande cascata all’incontrario? Nessuno l’ha mai vista, nessun marinaio ne ha raccontato o scritto, gente! Tutti i fiumi vanno verso una grande pentola d’acqua, e qualcuno ha già buttato il sale! Manca poco, gente!»

Qualcuno agitò la mano in segno di saluto. Il barcaiolo mollò la barra del timone e si mise in piedi, con fare solenne, un po’ ingobbito.

«Non sono mai riuscito a volervi bene, gente! Ciao! Ciao!» E scivolò oltre il ponte, accompagnato da molti sguardi, riparati dal sole con una mano, come un goffo saluto militare.

«Nemmeno io sono mai riuscito a voler bene alla gente» commentò Guido.

«È normale, sai? L’odio è un interesse economico ben preciso. Ma non te ne crucciare adesso: tu non ne hai nessuna colpa. Non ci pensare, non ci pensare».

«Non ci penso, faccio già fatica a camminare con questa fanghiglia che si appiccica alle suole come una ventosa». Un cagnolino affondato nella melma, riposava, guardando gli uomini, senza fare una piega.

Com’era lontano e inutile anche solo il giorno prima! Sembrava come se, ad ogni passo, una parte della memoria abbandonasse il cervello per consegnarsi all’abbraccio della terra imbevuta d’acqua, spugnosa e indistintamente famelica. Guido guardò ai suoi simili, un po’ più radi, e ai loro contorni, nella prima luce del tramonto.

«Tu, per esempio, che hai una faccia così interessante, e anche una certa altezza, perché non ti interessi di teatro? Noi stiamo cercando una nuova persona per il nostro balletto moderno, ma non ti preoccupare: non si tratta proprio di un balletto, è una cosa che puoi fare anche se non hai coordinazione né ritmo. Per farlo non serve nulla, basta la tua sola volontà: noi non ambiamo a niente di speciale, è un modo per stare insieme, non ti pare che sia già un buon motivo per fare teatro, lo stare insieme? E comunque vieni con me che ti faccio vedere, dai! Non essere timido, non ce n’è motivo, anche se la timidezza alla fine è una bella cosa, no? In questo mondo sempre così arrogante e violento, la timidezza è una cosa buona, non trovi? Dai, vieni, cosa aspetti?» Una ragazza minuta, con i capelli ricci fermati da una specie di pennarello, occhi azzurri sparati nei suoi, vitrei. Sotto gli occhi, un sorriso smagliante. Aveva intercettato Guido letteralmente tagliandogli la strada. Pantaloni aderenti scamosciati, camicetta di sciarpe cucite insieme, anellone di legno intagliato al collo, una specie di mantellone alla D’Artagnan sulle spalle.

«No, signorina, grazie – le rispose Guido con un sorrisetto imbarazzato – non ho mai saputo recitare e poi stiamo guardando i quadri».

«Però scommetto che ti è sempre piaciuto il teatro, del resto il tuo viso, si vede benissimo, è adatto alla recitazione. Molla gli ormeggi, lascia fluire la tua creatività, e se anche porterà con sé del dolore potrai sempre condividerlo con noi. La condivisione è importante, bisogna superare i particolarismi, gli scetticismi, lasciare che sia il gruppo a gestire il tuo dolore. È una conquista, sai? È una grande lezione. E noi cerchiamo di impararla insieme. E poi noi facciamo anche degli incontri. Sono belli, gli incontri, c’è gente giustissima che riceve con grande rispetto le tue esperienze. È un grande successo del collettivo quando uno offre le proprie esperienze per il bene della comunità. Non è così?»

«Senz’altro ma... come le dicevo... adesso non posso, non me la sento, però magari, un’altra volta».

La ragazza assunse un’espressione come di navigata saggezza: lo sguardo perso oltre le spalle di Guido, il capo leggermente reclinato, una leggera smorfia di dolore.

«Ci sono treni che passano una sola volta, è importante decidere subito. Vieni anche solo a vedere. Aspetta, ma non è che ti vergogni perché sei anziano? Sciocco, non devi, nel nostro gruppo siamo tutti uguali, non c’è nessuna differenza. Ognuno ha gli stessi identici diritti, nessuno ti farà sentire un peso solo perché hai molti anni in più, e poi, guarda, uno di noi è perfino più anziano di te, credimi , ti troverai bene, è così saggio, lo ascolterei per ore, e anche tu, mi sembri un uomo con molto da dire e da dare. Ci piace tanto ascoltare le sue rievocazioni: del resto, il passato è così affascinante. Senza il passato non si può capire il presente, è vero o no? E poi, il passato è così terribilmente romantico, io me ne sto persa per ore a rievocare certi viaggi, certe sensazioni della mia infanzia, l’età dell’oro. Anche tu: vieni a raccontarci i bei tempi che furono, raccontaci la tua infanzia. Quanti tesori che non devono essere dimenticati rimangono nascosti nell’infanzia di ognuno. Quanto amore non si è manifestato per colpa dell’indifferenza di questo mondo crudele, cattivo. E il rimedio sarebbe così semplice, semplice».

«Signorina, mi creda, è tutto interessante ma non è il momento». In fondo, per quanto forsennata, era simpatica.

«Sento che anche tu, come me, sei un’anima sofferente. Te lo leggo negli occhi, sono una sensitiva, io. Sai di cosa abbiamo bisogno? Di un ritorno alla semplicità: tutto, intorno a noi, è troppo complesso. Bisogna accettare gli istinti, via dalla cappa di piombo della fredda razionalità. L’istinto è garanzia di verità. Hanno scritto del buon selvaggio, no? E allora, cosa aspettiamo, dipende solo da noi, liberiamoci! Torniamo a radicarci nella terra, a contatto con la sua saggezza innata, con la sua religiosità naturale. L’animismo! ecco dove dobbiamo tornare. Al centro del nostro cuore, del nostro intimo sentire. A che servono queste comodità, queste case piene di cose inutili, quando ci basterebbe un rustico, e lo spettacolo di un tramonto, riscoprendo i canti popolari dei nostri nonni, e le loro deliziose poesie e proverbi, saggezza eterna. E anche il sesso: dobbiamo far circolare quest’immensa energia che la natura ci ha dato e che ci sovrasta.. Dobbiamo abbandonare tutte le manie di possesso, dobbiamo vedere il sesso come un modo per accedere a piani superiori di coscienza, e per far questo, è necessario viverlo nella più assoluta autonomia, consci del nostro ruolo cosmico di esseri d’amore. Per cui ognuno deve accoppiarsi con chi vuole, il più possibile, per distruggere tutte le costruzioni mentali repressive che abbiamo dentro. Non è importante l’età o la bellezza: il sesso prescinde da noi». E, slanciandosi in punta di piedi, fece una lievissima carezza sulla fronte di Guido, che avvertì la pressione delle sue tette sul torace.

«Signorina, non riuscirei mai a danzare, con la schiena irrigidita che mi ritrovo, però, se vuole, dopo aver visto tutti i quadri, ripasso e mi fermo con voi una mezz'oretta, così vedo di che si tratta».

«Ma dai, come te lo devo dire? Non c’è bisogno, per il nostro balletto, di nessuna abilità fisica: ognuno fa quello che può. E per il teatro, basta essere se stessi. È una conquista, essere se stessi. Qualunque cosa fai, sii sempre te stesso, ricordatelo. Anche alla tua età, niente è perduto, devi solo essere te stesso. Nella nostra organizzazione i più deboli sono tenuti in massimo conto. Le parole di chi soffre sono intrise di saggezza. Noi li teniamo per grandi saggi. Nessuno conosce la vita come chi ha visto le profondità del dolore, nessuno è saggio come chi vive una vita fatta di ristrettezze, economiche, di salute, è uguale. Noi diamo il nostro amore ai disgraziati, ai poveracci, ai sofferenti: ci opponiamo a questa logica barbara che vuole interessante il vincente, l’aggressivo. Guardati intorno e vedi quanto danno ha fatto la cosiddetta cultura! L’importante è l’anima, l’amore, l’amicizia, la compassione, la sensibilità, la coerenza. Ma, purtroppo, sinceramente, coi tempi che corrono, non c’è alcun posto all’infuori della nostra associazione in cui questi valori vengano insegnati, nel rispetto della persona. Le persone che hanno sbagliato, che percorrono il sentiero della desolazione, o anche dell’abiezione, sai? Queste meritano il nostro amore. Tu per esempio, che hai un bel vestito, sei ricco? E allora perché non sei felice? Lo vedo che non sei felice. Vieni con noi, ti insegneremo che hai sbagliato tutto finora, e ti doneremo quello che cerchi, tu come tutti: calore, comprensione, fratellanza. Dai vieni, sbloccati!» Ora gli scuoteva il braccio, ma delicatamente, e lo tirava nella direzione del loro teatro che, montato in mezzo al grande prato vicino all’argine, era un grande telone nero senza aperture, quadrato, retto da pali metallici come quelli delle impalcature dei muratori, con attorno una dozzina di persone che saltavano, girando lentissimamente intorno al tendone. Si udiva qualche incomprensibile mugugno, portato dal vento.

«Angelo, ti dispiace se vado a vedere laggiù? Mi aspetti qualche minuto...» Il sorriso della ragazza era scomparso.

«Non c’è più tempo. Guido, dobbiamo continuare».

«Cinque minuti cosa vuoi che siano?» La ragazza lo teneva per mano, accarezzandogliene il dorso col pollice.

«Hai sentito il pittore, hai sentito anche il barcaiolo, ci manca il tempo!»

«Io vado, tu fai come ti pare. Non mi aspettavo da te una simile rigidità».

«Ok, andiamo insieme, vengo anch’io».

«No, mi spiace, tu non puoi». La ragazza aveva gli occhi socchiusi.

«E perché non posso? Non si è forse uguali laggiù? Cos’è questa discriminazione?»

«Certo che siamo tutti uguali, però tu non credi nei nostri valori d’uguaglianza, lo dimostra il fatto che hai cercato di trattenere Guido».

«E chi lo trattiene? Gli ho solo risposto facendogli presente che, in un’altra situazione, un giretto al teatro sarebbe stato un peccatuccio veniale, invece adesso, mancando il tempo, sarebbe deleterio, finale».

«No no, caro mio, tu cerchi di sopprimere la volontà del tuo amico, sei castrante!»

«Non è vero, sei tu che lo incateni con la tua mano». Immediatamente, Guido, tolse la mano da quella della fanciulla, che accennò a trattenerlo, ma lasciò fare. Il contatto con quella mano gli appesantiva la testa, che sentiva come riempita di caldo cotone... tutto sbiadiva al suo sguardo, da quando la ragazza aveva iniziato a parlargli. Ora, si sentiva incomparabilmente più lucido.

«Cosa succede laggiù? Guarda bene, Guido: il teatro non è lontano come sembrava, puoi vedere benissimo, sono pochi metri in verità, appena sotto la scarpata dell’argine. Girati e guarda, vedrai da te, era la nostra malandrina signorina ad impedirti di vedere, prima, facendoti sembrare tutto molto lontano e indistinto».

Guido si voltò verso il prato e vide meglio il telone nero, e le persone intorno ad esso. Saltavano stancamente, di pochi centimetri, imbambolati, . E mormoravano tutti insieme, ogni qualche saltello, la loro identità: «Siamo le madri!» Saltelli. «Siamo i padri!» Saltelli.«Siamo i figli!» Saltelli.«Siamo amanti!» Saltelli. «Siamo dottori!» Saltelli. «Siamo malati!» Saltelli. «Siamo buoni!» Saltelli. «Siamo cattivi!» Saltelli. «Siamo lavoratori!» Saltelli. «Siamo disoccupati!» Saltelli. «Siamo Americani!» Saltelli. «Siamo Europei!» Saltelli.«Siamo quelli giocati».Saltelli. «Siamo quello che vuoi tu, che stai dentro al telone nero!» Poi, ricominciavano daccapo, orbitando intorno alla cortina nera.

«Signorina, chi c’è dentro al telone?»

«Ora devo andare».

«Chi c’è dentro al telone?»

«Nessuno». Tutto si era spento, come un luna park alla fine dell’ultima sera, sul volto della ragazza. La pelle s’era fatta opaca, lo sguardo luminoso sbandito e accortinato da lacrime d’allergia. E l’abbigliamento, così inusuale e confortevole, ora sembrava una vecchia giubba da soldato, per niente divertente. Li abbandonò scendendo la scarpata, puntando i piedi per non inciampare.

«Ma chi era quella ragazza? Una grandinata di parole... mi sentivo in suo potere, quasi non vedevo altri che lei... dio mio che stordimento».

«Guido, hai potuto vedere gli effetti della Luna che, come un furbo pastore, inventa ogni genere di storielle edificanti e confortevoli, calducce, per acquietare gli istinti bradi delle proprie pecore, e farle riposare tranquille nel recinto, finché non cali su di loro, a tempo debito, la mannaia. E, siccome la Luna è il più furbo dei pastori, ha inventato anche una serie di magnifiche favolette per far sì che le pecore nemmeno più la vedano per quello che è, la mannaia, ed anzi giungano ad un certo punto a desiderarla, in un vortice sereno di sonnambulismo. Per ogni scemenza che un uomo riesca a scoprire, la Luna ne ammannisce a decine, per garantirsi i pasti.

«Nulla di quanto ha detto la ragazza è degno di considerazione?»

«Al contrario, è stato un sunto perfetto di tutto il ciarpame che la Luna ha saputo inculcare nei cervelli della stragrande maggioranza degli uomini. In questo senso, hai fatto un incontro massimamente istruttivo, che, se il tempo non incalzasse, avrebbe avuto anche degli aspetti comici».

«Io tendo a farmi contagiare dall’entusiasmo altrui, mi rendo conto benissimo che molte delle cose dette dalla ragazza erano banalità accostate senza discernimento l’una all’altra. Però... la vitalità di certe persone, quella mi fa sempre un certo effetto».

«Entusiasmo... è una parola che ha molta presa su di noi, anche per il suo significato, oltre che per il suo suono. «Dio dentro», significa. Ma quella che tu hai scambiato per vitalità era solo disperazione, il dibattersi di un tonno avvitato verso l’ultima camera della tonnara che, avvertendo un’invincibile rete farsi sempre più prossima e non riuscendo a contrastarla in alcun modo, si risolve a dimenticare il suo destino cercando compagni di sventura. Chi cerca seguaci, chi vuol fare proseliti, sta solo cercando di annegare in compagnia. Naturalmente, questo ha qualche apparente immediato vantaggio: ci si sente invariabilmente meno addolorati, lontani da tutto e, forse, anche uomini straordinari. Con loro puoi scoprirti più ragionevole, maturo, responsabile, ammirato, bello, affascinante, sexy. Puoi sperimentare mille e una identità, e relativi vezzi, e puoi anche essere molto alla moda, nell’abito ma anche nella questione scottante del giorno su cui la tua opinione porrà il punto finale, acclamata e ricalcata da mille goffi imitatori. Con loro potrai anche stare da solo, fare l’asceta, e nel contempo farlo sapere a tutti, ma senza parlare, parleranno altri per te. Ogni genere di paramenti sono disposti per la vita laica, e per quella religiosa. Stupende poesie affioreranno dalla tua penna, o, se lo crederai, ponderose e stringenti speculazioni filosofiche nutriranno la tua mente fino a farti scoppiare di sapienza. Molto amore è predisposto per te, attraverso mille amanti, tre per quattro figli, cinque per sei amici., sette per otto angeli. E una per ogni perla della collana preferita della Luna saranno le tue occupazioni, una per ogni granello dell’anello di Saturno le tue preoccupazioni. Morirai esalando l’ultimo sogno, e non sarà necessariamente un sogno piacevole. Ma, soprattutto, morirai come un salame, allucinato e cucinato a puntino».

«Andiamo avanti».

«Sì, andiamo avanti, Guido, si è alzato un filo di vento».

Passarono accanto ad un uomo che stava impacchettando alcuni suoi quadri, dopo aver smontato i cavalletti, con del cellophane. La sigaretta tra le labbra lo obbligava a socchiudere gli occhi, ma non era solo questo che lo faceva sembrare piccato: i suoi movimenti erano imprecisi ma repentini, tanto che un quadro scivolò dal bavaglio di cellophane giallastro e cadde.

«Ma sì, vattene anche tu, cosa mi importa?» E lo allontanò con un calcio, mandandolo a macerarsi in una pozza. L’uomo sfilò una caratteristica bottiglietta d’argento sagomata, per le tasche interne delle giacche, una fiaschetta istoriata con due lettere sul davanti. Ingollò un lungo sorso.

«Alla salute della mia defunta carriera d’artista, e di questo ultimo figlio mio morto annegato per mia stessa mano, anzi, mio stesso piede». Poi, si accorse dell’approssimarsi dei due uomini.

«Mi dispiace, signori, purtroppo sto smontando tutto, anzi ho già smontato tutto, non potrete vedere le mie opere, ma state sicuri che neanche a voi, come a nessun altro in questi anni, avrebbero rapito lo sguardo, nemmeno per un secondo».

Angelo si soffermò e lo squadrò bonariamente.

«Come fa ad esserne così sicuro?»

«Bah... statistica... ma non solo quella, qualcosa nelle mie opere non funziona, è questa la dolorosa verità».

«Ha mai provato a cambiare posto? Intendo: per giungere fin qua bisogna passeggiare molto e magari, arrivata a questo punto, la gente è più stanca e distratta».

«Fosse così semplice, no, non basterebbe, e io che, per dipingere, ho sacrificato gli affetti, ho speso un sacco di soldi, sempre in giro a catturar soggetti, a immortalare cambiamenti di luce su splendide pianure d’acqua o d’erba. Costa, dipingere, sa?»

«Immagino che poi, però la soddisfazione...»

«Non per tutti, non per me, è faticoso, stai sempre con le dita accartocciate sull’incubo del giudizio degli altri, e poi nessuno capisce che dipingere è una missione, un fuoco sacro. E le percentuali dei mercanti? Ne vogliamo parlare? E le riviste che ti pubblicano la foto solo se paghi una gran bella cifra all’editore, e qualcosina all’articolista?»

«Dev’essere difficile... ma...»

«Perché io non sono mica ricco come la maggior parte di questi qua! Una volta guadagnavo qualche soldino con i ritratti e le caricature a carboncino. Mi spostavo nei luoghi di villeggiatura, la mia sedia da campeggio, le mie sigarette, magari una smorfia di sufficienza, e il gioco era fatto. Ero bravino, non era una brutta vita, cappello di paglia e barba per la scena, come un guitto. Fermo sul marciapiede o nei viali, o su certi ponti pedonali, quando non lavoravo, imparavo molte cose sulle persone. Mi ero allenato ad indovinarne l’occupazione dalla postura e dal modo di camminare. E, ma non l’ho mai appurato, alcune volte avrei giurato di capire quali desideri muovessero una persona solo guardandola globalmente, in maniera sfocata, lasciando che la sua forma complessiva producesse in me delle associazioni di pensiero. Era divertente, pensavo che se un giorno avessi dovuto abbandonare i pennelli e i gessetti per un qualsiasi motivo, avrei potuto riciclarmi come indovino: nulla più che un turbante, mantenendo la barba, magari lisciandola un po’, mi sarebbe servito per convertirmi in un perfetto visionario. Ma, mi creda, dopo anni, questa vita, così apparentemente priva di costrizioni, viene a noia. E i soldi non sono poi tanti. Poi, è venuta la malattia, e quando sei malato, le difficoltà decuplicano».

«La malattia le ha impedito di continuare a lavorare?»

«Certo che sì, una di quelle malattie speciali, che non colpiscono il corpo, e forse neanche la mente, ma qualcosa di diverso... insomma, spesso la sera rincasavo con un buon gruzzoletto e lo buttavo nel fondo di un cassetto del comò, in camera. Ogni qualche giorno passavo in banca a versare il contante. Poi, non so come, presi ad osservarmi come da fuori, e mi vedevo rinvenire nel profondo delle tasche queste banconote stropicciate, riordinarle e stirarle appiattendole sul marmo del comò, e poi osservarle una frazione di secondo prima di farle scomparire nel cassetto. Non le so spiegare, ma in me cominciò a nascere ed a prendere forza una sensazione di comicità malevola. Sostanzialmente, mi sentivo, in quei pochi secondi, come posseduto dallo spirito di uno di quei criminali sceneggiatori dei film per la tv. Un cattivo attore. Ubbidiente però ad un melenso ed idiota regista. Inizialmente, questo oleoso e caldiccio senso di nausea era poco più che un flash, un sentore di una sensibilità sconosciuta e orrenda, ma che all’istante si ritirava nel luogo dal quale era sorto, solo che mi accendessi una sigaretta o prendessi in mano un quotidiano, o, più semplicemente, continuassi la mia routine, che, assicurati i soldi al buio del cassetto, prevedeva un lungo sonno, fino al primo pomeriggio seguente. Infatti, io modulavo i ritmi della mia vita su quelli dei turisti, per cui mi facevo trovare al mio marciapiede di lavoro non prima delle cinque del pomeriggio. Potevano essere anche quindici caricature, fin verso le due di mattina, senza sosta. O anche qualche ritratto. C’era di che vivere dignitosamente, se considera che moglie e figli erano per me parole non certo circonfuse dalla luce del desiderio. Ma, presto, mi accorsi che quell’abbaglio d’inquietudine che mi prendeva nei pressi del cassetto, acquistava, come dire, una corposità sempre maggiore, si delineava nelle sue forme, e, peggio, cominciava ad esercitare una forza di gravità. Quasi senza accorgermene, tutta la mia mente e tutti i pensieri, non molti per la verità, diciamo meglio, tutta la mia tranquilla tristezza, venne presto infiltrata ed inumidita da un crescente senso di malvagia burla, come lo sputazzo di un clown corpulento, come una minaccia ammantata di bonaria derisione, come quando a scuola ricevi uno schiaffo da un compagno dal sorriso idiota ed inquietante e, non sapendo ribellarti, cerchi di salvare la faccia sorridendo disinvolto, come a significare che fra te ed il prepotente è d’uso così, tanto è cementata e consueta la vostra amicizia. Si cerca di cavarsela simulando che questo vero e proprio sopruso non sia altro che una guasconata fra burleschi compagnoni. Ma lo schiaffone l’hai preso tu. Insomma, questo venticello d’infamia aveva tolto da sotto la classica carta che fa crollare il castello, di carte anch’esso, beninteso, ma non lo si comprende finché non crolla. Ebbene, contro la mia volontà, in quella camera con le persiane sempre scure, con l’aria gonfia di catrame e odore di cuoio e sudore, un germe terribile sbocciò in me, e, in progressione geometrica, divenne presto un albero maledetto sotto le cui fronde non era possibile la quiete, lo stordimento, il riposo, il senso di contentamento abbozzato che si ha quando si è arrivati a sera facendo tutto sommato quello che tutti, più o meno, in qualche modo, fanno. In breve, sopravvivere in quella maniera era diventata per me una tale pena, che diveniva della massima urgenza trovare una scappatoia, un cambiamento, ma immediato, forzato. Cambiare, da adesso, da subito, qualsiasi cosa. "Cambiamento" era la sola parola che la mia mente non rigettasse come vetusta, come inutile, come volgare. Era assurta a mio personale rosario, a mia giaculatoria privatissima. Presto fatto. Nel giro di due giorni cambiai città. E dopo circa un paio d’anni potevo ritenermi soddisfatto: quell’appiccicaticcia ed invincibile nausea era scomparsa. Mi nutrivo di buone letture, avevo letto tutti i principali testi sacri indù, cristiani ed ebraici. Mi intendevo di filosofia, ora potevo individuare l’ondeggiare sinuoso e cangiante del pensiero, dalla Grecia attraverso il tempo e l’Europa. Potevo vedere il pensiero uccidere se stesso e fecondarsi, fuoco e Fenice ad un tempo, con un rapido gesto di rapidi uomini, su arroccati scranni. Dipingevo a olio ed avevo capito finalmente cosa fosse l’arte: un arto dell’immaginazione. L’immaginazione, però non come fantasticheria figlia del desiderio, mutevole e personale, ma sacra, perenne, accordata alle forze che reggono il mondo, e che si imprimono nella cera delle forme attraverso schemi immutabili».

«La sua vita dunque ebbe un notevole miglioramento, dopo quello stravolgimento di abitudini»

«Tornò ad essere accettabile, tanto più che ora l’arte per me era un gesto d’amore nei confronti dei miei simili, un modo per metterli a parte dei miei conseguimenti interiori. Talvolta un senso di pienezza quasi doloroso mi pervadeva. Ma non era nulla in confronto alla soddisfazione che ora la mia abilità fosse al servizio di qualcosa di sacro, di necessario all’umanità. Finalmente, dipingendo quadri, io mi accordavo alle istanze che sostengono il mondo, diventandone un messaggero, aiutandone la diffusione. Anch’io potevo portare il mio speciale contributo alla vita, alle coscienze, dipingendo quadri che non fossero di mera piacevolezza estetica, ma anche profondamente significativi».

«La trovo un po’ vago. Dunque lei ha pensato di sorvolare ed escludere dalla sua vita quel senso di vacuità che la pervadeva sempre più, imbevendosi di libri e coartando la sua arte ad esprimersi secondo i concetti appresi».

«Lei è semplicistico»

«Come mai, prima, ha mollato un calcione ad una di queste opere tanto significative? Anzi, ce ne mostri una, che ne dice?»

«No» rispose il pittore stringendo il quadro imballato contro il petto ed appoggiandoci sopra il mento.

«Perché no? Almeno quello che è caduto».

«Non lo raccolga!» E, con un balzo, il pittore fu sopra il quadro, che si sfondò scricchiolando.

«Cosa teme?»

«I miei quadri mi stanno facendo morire di fame, li odio, e poi, la gente non è pronta, non capisce. Questo mi fa rabbia. Sono stati concepiti per il mio prossimo, e il mio prossimo li rifiuta. Questo è ingiusto. Nessuno li compra, e io sono sempre più povero».

«Ma perché non torna a fare le caricature? Così raggranella qualche soldo, nell’attesa che le sue vere opere d’arte vengano apprezzate».

«No! Io sono un uomo diverso, vivaddio, non sono più quello che sprecava la sua vita rincorrendo quattro turisti per strappar loro qualche sorriso».

«Come vuole, ora noi ce ne andiamo, dobbiamo proseguire».

«Portatemi con voi».

«No»

«Perché?»

«Lei è troppo rumoroso, stia con il suo rammarico e le sue bellissime parole, e con la sua ineffabile arte. E ne cianci con qualcun altro». Guido era stupito dalla violenza della risposta di Angelo, solitamente sornione.

«Bel tipo che è lei! Ma non vede che le sto chiedendo aiuto?»

«Non ho alcun aiuto da darle».

«Toglietemi da qui, non riesco a muovermi!»

«Lei è troppo pesante, vede che affonda? E non se n’era neanche accorto. Doveva pensare a guadagnare un posto più asciutto, altro che stare lì tutto impettito a sproloquiare sui suoi finti cambiamenti. Ma come fa a non rendersi conto che nessun cambiamento è avvenuto in lei? Da anni lei frequenta abusivamente questa mostra ed occupa un posto che non le compete. Cosa ottiene? Oltre che danneggiare le orecchie di chi le passa accanto con chimerici concetti, che beneficio pensa di aver conseguito? In questa mostra, per carità, nessuno l’ha mai scacciata dal suo posto perché qui non funziona così, ma perché ha perseverato in questa prevaricazione che ora solo a lei nuocerà? Perché non ha mai voluto sentir ragioni sul fatto che ogni uomo ha un posto assegnatogli dalla sua stessa natura, e che lei non poteva aggirare questa legge fingendosi più evoluto solo per quattro cose mandate a memoria ed ostentate con ardore? Quanti diritti e quante cattedre si è fabbricato? E quanti regni, e quanta sovranità avrà segretamente immaginato. Neanche questo tempo, ultimo e specialissimo, le ha fatto mutare avviso. Rimanga dunque conficcato in se stesso, paralizzato dalla fanghiglia che le cresce intorno».

«Bravo, bravi voi, che non sbagliate mai. O che sbagliate solo una volta, mai due. Io le tendo una mano e lei la rifiuta».

«Come c’è un posto per ogni uomo, così c’è un aiuto per ognuno, ma per lei non oggi, e non per mano mia».

«Se ci fosse tua figlia qui ad affondare, cambieresti avviso di scatto, vero?»

«No, mia figlia è affondata già. Addio». E si allontanarono mentre quello sbracciava e inveiva, sempre più affaticato, sempre più affossato.

«E quello chi era?»

«Un’altra vittima della Luna, un bambinone che, per dissimulare il suo infantilismo, ha mangiucchiato qualche libricino, imparato alcuni concetti, impeccabili peraltro, secondo me, e ne ha fatta una specie di vestito di sartoria, così utile a mascherare anche i corpi più brutti. Ha dunque condotto un tipo di esistenza non adatta a lui, allucinandosi di essere passato attraverso una trasmutazione, di essere diventato un uomo nuovo. Naturalmente la sua disperazione e la sua scarsa responsabilità gli impediscono ora di camminare con noi lungo questo sentiero acquitrinoso, e di ricevere ogni ulteriore aiuto».

«Fa pena, però».

«Pena o no, la sua situazione non può essere mutata di un capello».

«Dunque anche tu hai una figlia».

«Sì, è morta suicida, qualche anno fa».

«Mi spiace».

«Non siamo mai stati in buoni rapporti, era la figlia di una donna di cui sono stato innamorato, tanti anni fa».

«Com’è successo?»

«Pare che si sia riempita le tasche di sassi e si sia incamminata nel fiume, proprio in questo fiume, molto più a valle, però». Guido guardò al fiume che li affiancava, con le acque sempre più grosse, ma non rapide, solo crescenti, come un’immensa bolla i cui lembi già impastavano e diluivano il fango grasso del sentiero, in cima all’argine.

«Hai saputo perché ha voluto uccidersi?»

«Nell’appartamentino che divideva con un’amica, hanno trovato, fermato con un posacenere, un biglietto, ma il significato mi è sempre stato oscuro. Ci ho perso la testa, ma non sono mai riuscito a decifrarlo. Mi sono spesso chiesto se qualche mio comportamento avrebbe potuto fare la differenza, ma sono cose che ti racconti sempre dopo. La realtà, amico mio, è che non puoi fare nulla per quasi nessuno, e lei non rientrava nella minoranza di persone per cui io o altri possiamo fare qualcosa. Il dolore è immenso e ancora mi morde».

«Cosa c’era scritto sul biglietto?»

«Una frase telegrafica: Per anni ho cercato di ritrovare l’Indiano, ora so dove andarlo a cercare».

 

 

CAPITOLO OTTAVO

Il pittore dal cappello d'Astrakhan

   

«Per di qua, affrettatevi, signori, il tempo scola le sue ultime gocce, volete una tazza di tè caldo? Ho preparato il samovar nell’attesa di incontrarvi, e per fortuna siete giunti. Ma il tempo adesso non è, come si diceva, galantuomo, anzi, davvero egli oggi è nostro temibile nemico. Davvero la sua spada sta per abbattersi a sciogliere tutti i nodi, e non certo per il meglio, ma per il peggio».

«Angelo, mi sembra di sprofondare, comincio ad essere stanco, con tutto questo fango».

«Non ci pensare, vieni, ascoltiamo questo signore, sembra che ci stesse aspettando. Che dici, ci prendiamo una tazza di tè?»

«Fra poco il fiume coprirà il sentiero, è pericoloso, dobbiamo tornare. Vedi? Non è rimasto nessuno».

«Facciamo uno sforzo, non sono che pochi passi».

«Ci spazzerà via».

«Ancora qualche passo...»

«Sento freddo, aiutami!»

«Ancora qualche passo... solamente due o tre».

«Mamma! Perché mi hai abbandonato in questa vita di fango e solitudine? Mamma!!! Dove sei, Mamma?!»

«Metti un piede su quella pietra, basta un unico passo».

«Dammi la mano!»

«Io ti do la mano, ma prima metti il piede su quella pietra, dai».

Guido obbedì e si ritrovò rinfrancato. Il senso di gelido abbandono scompariva lasciandolo singhiozzante e provato. Lo scuotimento scarnificante che l’aveva assalito se ne andava restituendogli un minimo d’integrità interiore. Fu come deflagrare in mille schegge, fu come essere il filo di carne viva di un corpo ormai completamente carbonizzato. Come essere un astronauta con una grande riserva di ossigeno scagliato oltre il sistema solare. O come la cagnetta Laika. O come il cuore di un bambino in una campagna in penombra che tiene la mano fredda del padre, accasciatosi per un fatale malore, mentre le ombre si allungano e non c’è neanche un suono di campane. O come quando tutto quello che hai intorno smette di parlarti, si fa irriconoscibile, senza nome, e restituisce silenzio ad ogni tua domanda, finché anche fra le domande filtra il silenzio sempre più, fino a quando nulla è nulla nei secoli dei secoli. Guido palpava la spalla ad Angelo e si sentiva riempire il cavo della mano dal tessuto fastidioso di quella giacchetta sportiva.

«Come va?»

«Meglio, facciamo piano, però».

«Ora non dobbiamo fare altri passi, guarda, siamo arrivati. Riesci a vedere? Siamo qui, bevi un po’ di tè».

«Cosa mi è successo?»

«Ha subito un forte assalto di forze lunari, come è naturale, specie adesso. Ma ha resistito al panico, bravo. Del resto, se siete arrivati fin qua è perché ne avevate la possibilità. Certo, avreste potuto soccombere: lei, Guido, con quest’ultimo, fortissimo, fulminante assalto di forze dissolventi; lei, Angelo, pure abile conoscitore delle forze involutive, attraversando senza indulgenza le profondità del dolore per la scomparsa senza alcuna spiegazione della sua amata figlia. Indugiare nel ricordo, anche brevemente, ora le sarebbe stato fatale: il fango l’avrebbe risucchiata. Ma rallegriamoci, siete giunti a me sani e salvi ed ora siete in grado di ascoltare quello che ho da dirvi». Il pittore stava accanto ad un cavalletto sul quale era posato il suo quadro, velato da un panno. Era deliziosa, la voce del pittore, profonda ma non di grotta, chiara e non squillante, piena di sostanza sonora: sembrava nutriente. Il viso tradiva forse un’origine asiatica, baffi neri e un tantino spioventi. Occhi scuri con riflessi perlacei, come trasognati, invitavano alla contemplazione e calmavano il respiro. Indossava un cappello di Astrakhan e un lungo paletot doppiopetto grigio scuro.

«È necessario, come avrete senz’altro intuito nel corso del vostro cammino, che a questo punto io vi illustri un altro tipo d’uomo, assolutamente differenziato rispetto all’uomo-salame di cui v’ha parlato il mio azzimato collega. Prima di scoprire la mia opera ritengo di dover fare una breve introduzione riguardante la genesi di questo tipo d’uomo. E, perché le mie parole vi risultino chiare, mi avvarrò di un simbolo estremamente comodo e comune: il triangolo. Come sapete, un triangolo ha una base, che indichiamo nel lato AB, e un vertice, che chiameremo C. Tra il vertice e la base, l’altezza. Sforzatevi di considerarlo come simbolo, non tenete presenti i limiti imposti al simbolo dalla sua bidimensionalità. Il vertice C è precisamente il tipo d’uomo che risulta dalla sintesi di A più B, più qualcosa che fa produrre un salto di intelligenza o coscienza, rappresentato dall’altezza del triangolo. Rimane da identificare cosa sia A, cosa sia B, ed infine cosa sia quel "qualcosa" necessario al passaggio di livello di coscienza. 

Diciamo che A rappresenta l’uomo che, grazie ad un forte dolore cosciente, come vi ha certamente spiegato il mio simpatico amico laggiù, cosciente nel senso di pienamente vissuto, senza copertura o traslazione alcuna, puro dolore esistenziale senza fughe patito, realizza la propria condizione calamitosa di assenza di una qualche particolare identità e volontà. E dunque si riconosce come null’altro che un’insensata pietanza per la Luna. Queste sono propriamente le conclusioni cui il mio collega vi ha condotti, adombrando la mera possibilità di un’evoluzione, non la certezza. Naturalmente è così, parliamo di possibilità, e il nostro simpatico pittore non ha voluto essere reticente nei vostri confronti: semplicemente ignorava le altre due condizioni necessarie all’evoluzione, che, nel simbolo del triangolo, sono rappresentate da B e dall’altezza. 

Indico con B precisamente quel tipo di comportamento fruttifero solo per chi abbia riconosciuto preventivamente la propria nullità interiore, la propria salamità, la propria indifferenziata e ottusa mera esistenza senza alcuna differenziazione che non sia immaginaria. Questo vale come premessa, perché chi adottasse l’atteggiamento esistenziale B, senza essere passato per A, non farebbe altro che consegnarsi ad uno dei più deteriori ed inutili vizi dell’essere umano e cioè: la cantilenante lamentosità e gli atti cosiddetti dimostrativi, volti l’una in vista dell’ottenimento di ogni sorta di attenzioni da parte del prossimo (il quale peraltro le concederà pretendendo in cambio ogni sorta di controattenzioni, in una globale e stringente sarabanda di contorcimenti sentimentalistici), e gli altri in vista di vantaggi ben tangibili da parte di una nuova versione dello stesso potere che, con questi sciocchi e femminei atti dimostrativi, si intendeva contestare. B è l’atteggiamento esistenziale di chi agisce senza pretendere alcun tipo di tornaconto immediato. Corollario e specificazione necessaria di ciò sono il rifiuto di qualsiasi logica di profitto personale, sul piano economico, il riconoscimento dell’illusorietà di qualsiasi forma di affetto, la più completa estraneità ad ogni agòne politico, la più completa alienità rispetto ad ogni religione, la più completa indifferenza ad ogni forma di prestigio riconoscibile, ma, più importante e difficile, la repressione totale ed incondizionata di ogni forma di emozione negativa, sia inevitabilmente prodotta dagli atteggiamenti di cui stiamo parlando, sia da un punto di vista generale. 

Le emozioni negative e positive, almeno fino ad un certo livello, sono precisamente gli influssi lunari disgreganti e ammalianti che, contrariamente a quanto pensa la psicanalisi, non hanno il minimo valore positivo e la cui trasmutazione non avviene certo con ridicole indagini ed interpretazioni, bensì attraverso l’attrito generato tra la direzione, verso le fauci della Luna, delle masse umane, e l’opposta direzione del singolo che, vista nella sua oggettiva terribilità la propria condizione di uomo-salame, ed essendosene affrancato, intenda giungere ad una differenziazione positiva, opponendosi a qualsiasi istanza, sia sul piano personale che sociale, che nasconda, dietro ogni possibile belletto, i tentacoli umidi della Luna. Con una battuta, da uomo salame a uomo salmone. Lasciata alle spalle la propria salamità, si riceve una sorta di capacità di distinguere le caratteristiche di ogni istanza che sia informata alle esigenze della Luna, se ne sente il sapore, se ne avverte la stucchevolezza, la vincolatività, una caratteristica come di parodia, di frustrazione, d’imprecisione, di melensaggine. Si possono elencare molti esempi delle emozioni indotte dalla Luna per far sì che l’uomo non senta mai la necessità di opporsi al flusso della massa, o avvertendola, se ne dimentichi quanto prima. Certa emotività così suscettibile, così sollecita, di carattere febbrilmente nervoso, così frequente al giorno d’oggi, è precisamente la carne in cui la Luna affonda il proprio uncino per tirarci nelle sue viscere. 

Alla Luna non manca certo l’astuzia, benedetta peraltro, dal suo punto di vista, poiché necessaria a soddisfare la sua esigenza assoluta di evoluzione. Sfortunatamente per l’uomo, come sapete, l’ evoluzione della Luna coincide con l’involuzione dell’uomo. Per vostra curiosità elencherò adesso alcune caratteristiche idee, diffusissime in questi tempi, che hanno la funzione di convogliare verso la Luna sempre più carri-bestiame umani, in un’apoteosi di dissoluzione conforme alle leggi che reggono il cosmo. Dico conforme perché il tempo concesso alla Luna per compiere la sua prima infanzia sta concludendosi, ed ella necessita di un surplus di energia per far fronte ai primi compiti evolutivi che la sua condizione di adolescenza le imporrà. Ecco la vera ragione del massimo scatenamento di energia lunare sul nostro pianeta, mascherata debitamente secondo le circostanze ed i tempi, così oggi come da molti molti secoli. 

Ecco come si manifesta la Luna in mezzo a noi: attraverso ogni forma di psicanalisi, attraverso ogni forma di culto, con la costituzione di fatto matriarcale della società, attraverso la morale sessuale che, nell’ultimo torno di tempo, si nasconde nelle pieghe di ogni tipo di perversione, dal sadomasochismo all’omosessualità, spesso viste da chi le pratica come autentici atti di liberazione, mentre è notevole osservare come omosessuali e sadomasochisti abbiano di fatto una costituzione interiore estremamente rigida e ottusa, come si conviene ad ogni persona scissa che pretenda di evolvere ed operare una sintesi semplicemente adottando comportamenti contrari a quanto scelga di contestare. E ancora, tutti i culti New Age, accomunati dal valore assoluto dello spontaneismo, che in definitiva non è altro che una fallace idea per cui ogni azione è autentica e conforme al vero solo che sia messa in atto in maniera, per così dire, autocratica. E poi, l’illusione democratica, la legittimazione al potere proveniente dal basso. Per chiunque abbia un minimo di discernimento, la cosiddetta democrazia non è altro che un gioco del capitale che maschera la sua ferocia distribuendo la responsabilità del potere alla maggioranza degli individui, i quali, debitamente influenzati, verranno letteralmente condotti ad esprimere preferenze funzionali non certo al benessere comune, ma al capitale, detentore di informazione e formatore del consenso. E anche, ogni tipo di sentimentalismo, per cui una cosa è vera e degna solo che la si "senta" e magari "con tutto il proprio essere", pensieri , questi, di massima irresponsabilità, tipici di individui che erigono se stessi a metro incondizionato di valutazione della verità, senza alcun riguardo verso ogni tipo di ricerca, di senso critico, di confronto. Ancora, il non riconoscere che dentro ognuno di noi viva e produca effetti tangibili, su più livelli, un vero e proprio principio negativo e che questo vada di volta in volta combattuto con mezzi diversi, talvolta con la passività, talaltra con fermo ed irrevocabile rigetto. 

Aggiungiamo anche la stranissima e sospetta tendenza della nostra mente a dimenticare continuamente il fatto inequivocabile della propria morte, della cessazione della propria forma; come è facile osservare, anche questa caratteristica è funzionale all’assopimento progressivo di ogni desiderio di sottrarsi al proprio fato e consegnarsi ad ogni forma di produttività o esorcismo, il che è la stessa cosa. Altro fatto, l’abuso di ogni tipo di calmante o anestetico, anche sotto forma di droghe più o meno legali, che ha la funzione di consegnare l’individuo ad un mondo di vane fantasmagorie, unitamente ad esperienze sensorie sottili che, però, per quanto sottili od extracorporee, non sono in nessun modo benefiche. Vige qui il più grossolano errore di prospettiva dei nostri tempi, che ci condurrà poi ad esaminare altre e inquietanti influenze lunari: l’idea cioè, che ogni fenomeno caratterizzato dell’extracorporeità o da una qualche singolarità di manifestazione, sia di necessità appartenente ad un ordine più elevato di quello della coscienza ordinaria. Semplificazione unilaterale che soddisfa le esigenze di chi ormai sappiamo. Altre forme di azione delle influenze lunari le troviamo nello sciamanesimo, nella stregoneria, i cui praticanti dissolvono, se pur ne avevano un abbozzo, la loro coscienza, per quanto parziale, stabilendo alleanze nel mondo delle influenze psichiche inferiori, emanazioni della Luna come prima chiarito, spesso rappresentate da animali sacri, da cui lo sciamano si illude di potersi liberare. 

Ma il discorso è complesso e meriterebbe alcune precisazioni che però a voi, signori, ora non interessano certamente. Su un piano di più stretta evidenza, rinveniamo suggestioni lunari in ogni tipo di moda, fenomeno apparentemente senza alcuna importanza ma che testimonia da un lato lo squilibrio esistente in chi rinnova, in una perenne e angosciosa fuga in avanti, le proprie fattezze esteriori, sia attraverso l’abito che attraverso la chirurgia, e dall’altro l’angoscia generata dalla percezione oscura di essere di fatto una mera unità statistica, senza alcuna differenziazione reale che non sia qualche dato culturale, economico o sociale, cose del resto senza la minima importanza. La corsa all’abbigliamento di stretta osservanza modaiola o, al contrario, il pervicace rinnegamento di questo meccanismo attraverso un’ostentata sobrietà, ci informano circa il guazzabuglio in cui si dibatte chi cerca una liberazione non recidendo una catena, ma comprandone di nuove, magari meglio sagomate, in un’apoteosi di infantilismo. Anche il sentimento patrio, così come concepito in questi tempi, non è altro che un valido supporto attraverso cui la Luna si fa grandi scorpacciate di uomini. Anche la paura del domani, cioè la necessità di fare oggi qualcosa che ci tornerà utile in futuro, è una svisatura grossolana di una legge di ordine superiore, essendo inteso questo concetto semplicemente come una sorta di ampliamento e consolidamento di condizioni di ordine puramente materiale. Nessuno è in grado di notare come un pensiero del genere parta da due presupposti assolutamente irreali, specie di questi tempi, e cioè la stabilità futura delle condizioni date oggi, e la presunzione inaccettabile che le cosiddette regole del gioco evolvano le une dalle altre e siano in questo modo in qualche misura prevedibili. Pensate, anche l’amore per la natura, nel suo aspetto stucchevole ed oleografico, ed il conseguente vagheggiamento di un non meglio precisato e delirante ritorno al passato, alla vita selvaggia, sono fisime di persone sognanti e dedite ad ogni tipo di fantasticheria. Anche l’amicizia fra uomini o, peggio, la fratellanza universale, soprattutto nelle sue espressioni di dolore per il prossimo, sofferente in remoti continenti, reso compagno di salotto dalla televisione, non sono altro che baggianate figlie di una specie di collettivismo deviante, strombazzato, buono solo a rimbambirsi nell’illusione di essere qualcosa di meglio di un essere che non prova assolutamente nulla che abbia una qualche continuità. Credo che ciò sia sufficiente e che abbiate compreso in pieno: interrompo qui l’analisi degli innumerevoli nastri di morte che tengono legato, per quanto graziosamente infiocchettato, l’uomo alla Luna.

Torniamo al nostro triangolo ed aggiungiamo qualche precisazione intorno all’atteggiamento B dicendo che, per ovvia conseguenza, opporsi a tutto ciò che abbiamo detto genererà notevoli sofferenze, stavolta però coscienti e non rifuggite o ammortizzate in alcun modo. Frutto, altamente ipotetico, di questa fase esistenziale per così dire, al negativo, cioè di riconoscimento della propria nullità, e di sofferenza interiore in opposizione strenua alle influenze lunari, sarà una sorta di salto di paradigma, una rottura ontologica, un’elevazione del grado di coscienza, un vero e proprio fiat lux di carattere solare: l’intervento, nella propria presenza, di un’influenza di costituzione non umana, solare, trascendente, in definitiva spirituale. Nel nostro triangolo è rappresentato dall’altezza che, se ci pensate, cavalcando l’analogia simbolica, cade proprio a metà tra A e B, simboleggiando la necessità di entrambi A e B affinché si produca l’elevazione fino a C. Credo proprio, con questo, di avervi detto quanto di mia competenza».

«Cosa ci potete dire riguardo all’influenza spirituale rappresentata dall’altezza?»

«Niente di preciso, se non che assomiglia a una nota musicale, e che è quanto di più vivo abbiate mai percepito, e che è quanto di più impensabile a descriversi se non estenuandosi in mille e una allegorie, e che è il vero significato evolutivo dell’essere umano che si sia differenziato dall’essere un mero bocconcino speziato di puntuali sciocchezze, vera e propria delizia al palato lunare».

«E dell’uomo C?»

«Ancora meno è possibile dire dell’uomo C, della sua costituzione interiore, dei suoi atti, dei suoi scopi. Nessuno, prima che il passaggio di livello si sia verificato, può capire cosa sia un uomo C. Il mio compito infatti è favorire in voi questo salto, non certo descrivervi cose troppo lontane, o molto vicine, però di fatto così irriducibili alla vostra esperienza esistenziale attuale, da essere recisamente impossibile qualsiasi comunicazione discorsiva su questo argomento. A questo punto, invece, sarà opportuno che vi mostri il mio quadro, che evidenzia gli effetti delle sofferenze esistenziali a livello corporeo e sottile, preparando l’essere ad accogliere l’influenza spirituale che condurrà a percorrere l’altezza che separa il piano esistenziale AB da C». Così detto, scostò il panno e rivelò la tela.

«Ecco a voi l’uomo salmone».

Era davvero un ben strano uomo. Anch’egli, come l’uomo salame, se ne stava in piedi in primo piano, circondato da un fondo indaco. Era un uomo con la pelle annodata. Annodata alla bell’e meglio in alcuni punti del corpo. Come se il creatore l’avesse dotato del doppio della pelle necessaria a rivestire la sua forma, e qualcuno, o lui stesso, per rimediare a questa intralciante abbondanza, si fosse industriato a ridurne il volume creando nodi qua e là, come un pessimo sarto, allo stesso modo in cui si aggiunge un buco alla cintura per continuare ad indossare pantaloni troppo larghi. L’effetto estetico era osceno, tuttavia l’espressione dell’uomo, che sul lato destro del volto, tra occhio e zigomo, aveva uno di questi orribili fiocchetti di pelle, era di straordinaria dignità. Queste annodature erano ben evidenti sul petto, un fiocco enorme si intravedeva dietro la spalla, un altro sul fianco destro, uno sulla coscia sinistra, nonché numerosi altri, ma molto più piccoli, disseminati qua e là. Il corpo dell’uomo salmone manteneva una perfetta simmetria, che tradiva una certa rigidità, come fosse prodotta da uno sforzo costante. Non poteva essere che così, pensandoci meglio, considerato il fatto che quei nodi creavano certo, com’è naturale, uno squilibrio di gravità, addensando masse non certo in maniera equilibrata. A testimonio di questo, si potevano notare, sotto i principali groppi, come dei bozzi, di colore decisamente più scuro, quasi plumbeo, rispetto alla carnagione dell’uomo raffigurato. E, aguzzando la vista, anche sotto le legature più piccole, apparivano simili rilievi, sempre di colore scuro, ma più tenue, proporzionalmente alla vistosità degli intrecci di pelle sotto cui sorgevano. Intorno al plesso solare, un cerchio di puntolini luminosi, anzi, tre cerchi concentrici, ordinati intorno ad un centro. Anche in mezzo alla fronte, lo stesso sciame di puntini luminosi, di color violetto, ordinati in tre cerchi concentrici.

«Come sempre, chi ha la qualifica necessaria per osservare il mio uomo salmone, non ne resta deluso. Potere dell’arte oggettiva! Tutto ciò che avete apprezzato con la vista non è che la descrizione sintetica di quanto vi ho detto poc’anzi. Ma nel quadro vi sono informazioni, in forma di rapporti numerici, intesi ad evocare un suono nel vostro centro emozionale, trasmutandolo. Come primo effetto tangibile, potete notare già fin d’ora la sensazione di essere stati sgravati di un peso, una vera e propria tara, come pietre cucite sotto la vostra pelle da sempre, e che ora, grazie alla mia opera, avete dissolto, in un’istantanea riappropriazione, per così dire, di sovranità corporea».

«È vero, è proprio così, è bellissimo». Guido scoprì dentro di sé una specie di fabbricatore di banalità, un nano che con una trombetta ripeteva sempre la stessa nota, stonata peraltro, come una pernacchia strozzata. Vide con chiarezza indubitabile quanto quel nano screziasse sgraziatamente ogni sua percezione, deformandola e perpetuandola, come se le note di quell’infame trombetta avessero il potere, e pur l’avevano, di cambiare letteralmente le forme del mondo e le facce degli uomini. E anche i colori e gli stessi suoni esterni si mescolavano all’infaticabile cacofonia del maledetto nano dal volto informe, fabbricando un’inesistente e dolorosissima angoscia. Il nano venne immediatamente congedato da quell’angolo di cantina umida e impiastricciata di ragnatele, semplicemente con l’irruzione della lieve luce che ora percepiva fin dentro il cranio, frutto immediato e meraviglioso della visione dell’uomo salmone. Anche Angelo individuò e scacciò il proprio nano. Produceva una nota grossolanamente storpiata tagliando un ramo con una vecchia sega ed addentava continuamente una mela ripiena di cotone, tra orribili bestemmie.

«E non è tutto, cari signori, da adesso in avanti potrete comunicare senza usare la parola, ma con sostanza musicale così fine da non poter essere udita che dal vostro plesso solare. Potrete parlare tra di voi anche in assenza di aria, si stabilisce oggi una comunione che sopravvivrà agli ordini di leggi che reggono questo mondo, siate lieti dei risultati che hanno meritato i vostri sforzi. Ma ora affrettatevi lungo il sentiero, l’acqua ci sta quasi sommergendo, ora dovete essere veloci e leggeri, vi si chiede uno sforzo di prontezza e precisione. Correte in quella direzione fino al ponte di seta ed attraversatelo in un soffio. Di là dal ponte troverete le porte della Città Mirabile. I guardiani vi chiederanno di pronunciare la parola d’ordine. Andate, non c’è più tempo, andate». 

L’acqua ormai aveva invaso il sentiero e scolava in ampie volute di fanghiglia e rifiuti urbani, rigurgitando televisori distrutti, stendibiancheria e vecchi copertoni, armadi fradici in formica ed un vecchio scivolo per bambini, in lamiera. E molti, molti cavalletti emergevano qua e là, mentre le tele tentavano un improprio galleggiamento. Un rapido scatto e i due uomini avevano guadagnato posto su uno sperone di terra ben battuta, leggermente più in alto rispetto alla postazione del pittore dal cappello d’Astrakhan: l’acqua defluiva ringhiosa lambendo i loro piedi, in rinnovate esplosioni di brodaglie mortifere; qualche vacca ossuta, prelevata dai flutti in qualche stalla dei dintorni, caracollava scomposta, già morta, ora sommersa, ora visibile, scura di fango color petrolio, disarticolata. Una quantità immensa di libri, come tante libellule, si disfaceva in mille schiume di cellulosa. Un’acqua nera, forte e necessaria, imponeva ora la sua ineludibile legge: signora della materia, divorava, assorbiva, mescolava, in un infernale minestrone, uomini e animali, e legno di ogni tipo. E anche la pietra di case lontane, di venerati templi, cedeva all’onda figlia delle viscere, non del cielo. Esplodeva dal suolo in invincibili scoppi, densa, fatale e pesantissima, e scorticava piazze e campi coltivati, come un vomere onnivoro, grattando, grattando, con oleosa precisione, ogni germe di vita biologica, strappando ogni arto aggrappato, chiudendosi come una cappa asfissiante su ogni speranza di natante, su tutte le abilità di galleggiamento, sull’innocenza del lattante, su ogni pesce premendo e frullando, fino a completa distruzione. Assorbiva, l’acqua, assorbiva financo il suono della sua stessa furia, e clangori di lamiera su fragori di pietra sembravano echi di lontane melodie orientali. Risucchiato in un mulinello, il pittore dal cappello d’Astrakhan, aggrappato ad una specie di telone nero, li salutò con un buon sorriso, poi venne inghiottito. Il cielo, chiarissimo e indifferente, come sempre sovrastava. Angelo e Guido, dal canto loro, leggeri, corsero a perdifiato nella direzione indicata dal loro benefattore. Il sentiero terminava dopo poco, spezzato da un rigo largo di profonda acqua che aveva, come una lama precisa, interrotto il cammino, deviando dal corso principale del fiume, per ghermirli. Ma un lungo filo di seta, luminosissima come il filo elettrico di una lampadina, era teso tra l’ultimo brandello di sentiero e chissà dove, infilato nel buio, perso nella prospettiva. Il corpo dei due uomini, coordinato da una sovrumana armonia, corse preciso per un buon tratto lungo il filo luminoso, finché la coscienza si smarrì per ritrovarsi alle porte della Città Mirabile.

 

 

CAPITOLO NONO

La Città Mirabile

   

Di fronte a loro, il portale interrompeva, con i suoi gangheri e con la sua specialissima costituzione, la continuità delle mura, che si estendeva a destra, e a sinistra, e sopra pareva non avere fine. Un’immensa fusione di bronzo, una vera e propria muraglia. Le loro parole risuonavano ormai nella concavità dello stomaco, conferendo uno strano piacere e un filo d’angoscia residuo, una specie d’instabilità a causa delle vibrazioni dei pensieri che risuonavano nel plesso solare; e ci voleva ogni tanto un deciso sforzo di richiamo a se stessi per non soccombere ad un senso di volatilizzazione. Il silenzio sembrava avere la funzione di un grande mantice: li tendeva verso l’alto, li chiamava. Il silenzio era enorme, perfetto e intemporale, lucido e curvo sulle forme. Come un velo trasparente e sottilissimo, ondulava quieto, come un’alta ragnatela di soffitta ad una virgola di alito di venticello filtrato e rimbalzato tra gli angoli, conferendo alle cose una qualità di riflesso, di immagine in acque mosse da un sassolino. Le mura erano disadorne e liscissime: riflessi perlacei inumidivano e componevano intrecci di dorature piombate, di oscuro verde, e patina di rame. Le porte erano una tessitura di segmenti di bronzo e liste di stoffa bianca, per l’orizzontale e per il verticale, una fittissima scacchiera di chiaroscuri, metallo e stoffa, chissà come conciliati e saldati insieme. Vennero due uomini di aspetto molto curato, con vestiti di sartoria blu scuro, uguali, di portamento molto sciolto e dritto, senza cedimento al passo, ma anche senza durezza. Il loro volto era di pura simmetria, così il naso, la fronte, il disegno delle labbra ed il mento. Gli occhi non erano convergenti. Si fecero vicini e uno dei due parlò nello stomaco dei due uomini, che li avevano riconosciuti come le guardie della Città Mirabile.

«Pronunciate una parola con il suono».

«Quale parola?» chiese Guido col pensiero.

«Una qualsiasi».

«Cicciput» pronunciò Guido.

«Heropas» pronunciò Angelo.

Una visibile onda d’urto, prodotta dal suono, tese gli inserti in stoffa delle due ante del portale, che si mosse verso l’esterno, dischiudendosi. L’onda di Guido aveva colpito l’anta sinistra, quella di Angelo quella destra.

Le due guardie stesero con grazia il braccio destro verso la porta.

«Prego, avanzate oltre la soglia».

Poco lontano, su quella specie di battigia con spuntoni di pietra lavica, un altro uomo, quasi interamente coperto di sabbia, inventava e pronunciava parole, che si infrangevano però contro la muraglia, e tornavano a lui, come onde sabbiose, a ricoprirlo sempre più. Nulla di peggio sarebbe potuto accadere ad un uomo, ed in altri tempi un tale dolore sarebbe stato risparmiato. Ma il malgoverno delle forze sottili di quest’era maledetta poteva causare disastri come quello di quel poveraccio, giunto alle porte della città in forza di chissà quale trauma, ma senza il grado di coscienza e di risonanza necessario a spalancarle. Nulla poteva essere fatto per lui, i guardiani non vi badavano. Essi avevano esclusivamente il compito di indicare ai pervenuti cosa fare, inducendo col loro aspetto la tensione emotiva superiore necessaria alla pronuncia della parola. Certamente erano le mura, e non i guardiani, a respingere i non qualificati all’ingresso.

«Cos’era "Cicciput"?»

«Un nomignolo che davo a mia figlia, ed "Heropas"?»

«Qualcuno, non so chi, chiamava così il Tempo: mi è sempre piaciuto il suono».

Un fastidioso prurito prese a insinuarsi sotto la pelle del viso di Guido, come quei pruriti che prendono agli arti dopo essere stati a lungo in posizioni contorte, o quando sono comunque poco irrorati dal sangue; che per un istante sembrano insopportabili, come se dovessero condurre all’esplosione della gamba o del braccio: quei formicolii che per un attimo sovrastano il cuore e fanno dubitare della sua resistenza. Prese a grattarsi, soprattutto lo zigomo e sotto gli occhi, e ne venne un pezzo di pelle tra le dita. Grattò la fronte e lì la buccia, questa volta più sottile, si lacerò tra le falangi delle dita. Era divertente, non faceva alcun male. Scorticò scrupolosamente il tegumento attorno agli occhi, e anche quei muscoletti che stanno intorno. Il sangue faceva un po’ impressione, ma infine era come se non fosse suo, non c’era il marchio di proprietà, il dolore, quindi era un colorante come un altro. Gli occhi erano più liberi, potevano roteare senza sforzo, abbracciavano molto, tanto più orizzonte, 180 gradi, anche di più, anche dietro: una corona visuale completa. Una euforia di liberazione lo colse come una smania irresistibile: strappò le orecchie, vennero via facilmente, un colpo deciso, e qualche sgraffio per recidere alcuni filamenti riottosi. Con le dita ad uncino sgusciò gli occhi e li gettò dietro di sé, il naso venne via basculandolo con forza a destra e sinistra, le labbra si stracciarono subito, la lingua fu uno scherzo e la mascella fu scardinata con entrambe le mani, con qualche colpo di nocca anche gli zigomi si polverizzarono così come la fronte e il cranio, prima prudentemente liberato dal cuoio.

«Cosa sono diventato?»

«Come ti senti?»

«Dio mio, libero, un infinito respiro...»

«È bello».

«Bellissimo. Angelo, anche il tuo viso...»

«Non dire nulla. Lascia indietro quei cocci, a suo tempo tornerà una nuova faccia, più precisamente organizzata, più limpida e duratura».

«Non voglio che torni nessuna nuova faccia, non voglio tornare nemmeno io là in fondo».

«Torneremo, ma adesso entriamo nella Città Mirabile, attraverso le cui mura il fiume del tempo gocciola lento. Vieni, dammi la mano».

«Andiamo».

Oltre la soglia il corridoio arioso era delimitato da una lunga fila di lenzuola, a destra e a sinistra, bianchissime, di consistenza sottile, più sottili di un lenzuolo di lino, simili a carta velina ma senza trasparenza, candide e mosse da ondulazioni discendenti. Verso l’alto si stendevano senza fine, verso il basso lambivano il suolo con uno svolazzo, indicando cespi di muschio verde smeraldo, bagnato di consistenza molliccia e rugiadosa, come schiena di rospo vegetale, albuminosa. La pietre scure e porose del sentiero, lastre di poligoni irregolari, erano impeccabilmente giustapposte, perfettamente avvicinate, senza intercapedine. Opache, frutto raffreddato del fuoco della terra, sbriciolavano finemente ad ogni passo, trattenendo il piede. Un gorgoglìo copioso d’acqua, tintinnìo lieve di ciottoli trascinati dallo scroscio, un respiro d’aria rinfrescata, provenivano da dietro i veli, maestosi e densi di lucore. Guido fece per scostare un lembo e godere della visione di quelle acque ora rassicuranti e fresche, di nessuna parentela con le rigurgitanti e oscure che bevevano il mondo fuori le mura, ma venne trattenuto da Angelo, provvido e caro compagno.

«Non lo fare, lì dietro scorrono le acque della nuova creazione, se le ammiri ti trascineranno anzitempo nel nuovo mondo. Ti attrarrebbero con bella e infinita voluttà, e fresche e consuonanti di meravigliosa e novella nota, provvederebbero un nuovo viso e nuovo sangue, e giù per il ricreato mondo fin nel ventre della donna. Aspetta che un’ulteriore visione accresca la nostra essenza, prima di rivestirla di nuovi abiti, aspetta».

Il corridoio si svolgeva per grande lunghezza, l’incedere era sicuro, rallegrato e aerato dalle lenzuola ondulanti che emettevano, ad ogni capo d’onda, una patina madreperlacea, come nebbiolina, benefica alla vista. La parola dei due uomini mancò, mano nella mano avanzavano, mano a mano meno incerti, avvolti dalla sostanza del colore fluttuante e dal suono operoso del rovescio giovane d’acqua celata. La piazza si manifestò, immensa, come per il ritrarsi dell’interminabile corridoio. Un cerchio perfetto, amplissimo, e il suo centro, laggiù. Una forza di nostalgia prese i due uomini al centro di sé, precisa come una freccia, risoluta e piena come una morte improvvisa, attirandoli al centro della piazza, verso la fontana. Un grande cono di pietra blu scura sulla sommità del quale sgorgava, in quadruplice zampillo, l’acqua della vita, incolore e leggera, con un finissimo ronzio. Ricadeva in una grande vasca di rame, quadrata, ma i quattro fili d’acqua non si ricomponevano in specchio e, toccando il piano, facevano risuonare una distinta nota, poi s’incamminavano uno per il nord, uno per l’est, uno per il sud, uno per l’ovest, ormai già di colore azzurrino, in minuscoli ruscelletti, appesantendosi e slargandosi, fino all’inizio dei quattro corridoi di lenzuola, opposti ed ortogonali. Un Signore dell’Orizzonte presiedeva alla composizione dell’acqua, regolando con la sua volontà lo schianto dell’acqua sul metallo, il loro abbraccio, e il regolare deflusso. In alto sulla fonte il Signore del Vertice profondeva un’impeccabile sostanza sonora, con nobile flauto, che si stendeva e intrideva l’acqua delle quattro direzioni. Così, sustanziata di greve metallo ed eccelsa stella, nuovo sangue del nuovo mondo, correva l’acqua ad incontrar le vene terrose, l’impasto fertile aggrumato dal lavoro della Signora del Vertice Opposto. Queste mirabili simmetrie, e la loro scaturigine, intrisero l’essenza dei due uomini di stupenda intelligenza nella Città Mirabile che esiste tra i due Tempi. Poi, la vela azzurra di una piroga d’alto albero apprestata sulla riva del fiume Ovest, al limitare della circonferenza della piazza, si gonfiò del nuovo Tempo e solcò le nuove acque conducendoli verso le zone più basse, in nuove carni attraverso nuove madri.

 

2004

© Enzo Coffani

 


Enzo Coffani ha scritto i romanzi Il Palazzo del Mago e La Città Mirabile, e ha pubblicato presso le Edizioni della Confraternita Sufi Jerrahi-Halveti in Italia di Milano nel 2008 il volume di poesie L'ignoto che è in noi, con illustrazioni di Cristiana Coffani, prefazione di Gabriele Mandel e nota critica di Aldo Strisciullo. È collaboratore della rivista Sufismo (http://www.rivistasufismo.it/) e mantiene un interessante blog: http://ezno.splinder.com. Lo si può contattare tramite il blog oppure all'indirizzo email finisterrae@katamail.com.

Su SuperZeko se ne possono leggere La Città Mirabile, una breve silloge tratta da L'ignoto che è in noi e la sua risposta al Questionario sulla ricerca interiore.

   

   

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Nota introduttiva

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