Nelle tue vene
Deliro, amico mio, deliro. Ho chiome arcuate come la luna, occhi che sfavillano nelle notti della sua morte. Sui seni mi si sciolgonoi capelli e una selvaggia solitudine risplende sul mio viso illuminato dai tuoi sguardi.
Deliro, amico mio, deliro. I sigilli del mio ventre voglio infrangere, e piantar le radici del tuo albero nella terra ove corrono i miei fiumi. Voglio scorrere in te, nelle tue vene; con te essere, mio fiore di delirio, una bruna vittoria a due corpi.
29.I.1976
Fujiwara no Kiyosuke
“L’età che m’era parsa triste ora m’è divenuta cara”. Fujiwara no Kiyosuke, poeta del tempo vero, conoscitore, quest’immobile mondo muta anch’esso come il pensiero.
2.2.1976
Ero felice
Colpii col ginocchio uno spigolo: sentii male, non pensavo a nulla. Dissi: Non è questo il segreto? Ero felice.
2.2.1976
Per il verde silenzio
Con strane contorsioni cresce il rampicante. Lo guardo con attenzione: vorrei avesse parole. Ma è per il verde silenzio che l’edera cresce.
2.2.1976
Una donna m’attende
Lacerato nel mezzo io mi sento e è il mio essere solo una metà. Più lontano qualcuno anche lui cerca la sua mezza persona e non la trova.
Una donna m’attende o forse un dio.
Io non so perché mai mi senta tale e so solo che non si può restare con lo spirito e il corpo lacerati. Ben ragiona colui che mi disprezzi e mi dica ammattito ed ignorante, ma non ha la sua voce peso alcuno per fermar la ferita che dilaga. Che ragioni gli potrò mai dare per chiarir la stranezza dell’evento?
Una donna m’attende o forse un dio.
5.2.1976
Troppo alte cose
Troppo alte cose illudevano la mente. Ora convengo che la verità ha segni che nei roghi non appaiono.
5.2.1976
Il bambino
Il bambino, che è un simbolo eterno, lo guardi e dici: Avevamo. Ma io sorrido felice e dico: Ho. Forse qualcuno si volta e mi chiede: Che cosa? Ma io taccio, io taccio: non ho parole.
5.2.1976
Comparire sulla scena
Comparire sulla scena del mondo - mi pensavo un attore - mettere in scena la burla senza fine, ridere della morte del riso e propagare avvilita conoscenza. Ma è notte, gli invisibili orizzonti lanciano fremiti, il profumo dei tigli sale alla mia stanza: come potrei soffrire se non una dolce sofferenza?
5.2.1976
Per sentieri sfuggenti
Una macchina corre nella strada. Si protende la musica celeste per seguirla - il cuore si fa vuoto. Tutta è protesa la sua viva sete per andarsene ai giri delle strade. E m’incammino, come un uomo solo, per sentieri sfuggenti.
5.2.1976
Notte di pioggia
Scende la pioggia; nel suo abbraccio vorrei protendermi, irrecusabile dono.
Ho tuttavia timore ch’essa non cambi tono, e così io cadrei verso la terra di morte.
Innumerevoli sono le sue promesse; non v’è posto in esse per un piccolo volo?
Sì, so bene che non mi potrebbe respingere se anche soltanto un attimo durasse il mio volo.
E perciò, dolce notte, perché non ti protendi? Non è questa speranza la tua lode più pura?
5.2.1976 Il suo corso fremente
Spesso sogno un torrente che discende dall’alto, e sedermi alla riva e ascoltare il suo gorgo.
Nella sera guardare il suo corso fremente, rannicchiato in coperte contro il freddo dei colli.
Un po’ più in là la nebbia precluda ogni visione, così che io resti separato dal mondo.
E a questo punto la mia infanzia sorride. Non verrà forse anche lei, per un lieve bacio?
5.2.1976
Il libro della stellata oscurità
L’umanità dorme, i suoi sogni escono dai mondi dell’inconsapevolezza, intrecciano danze di desideri un tempo sopiti che riemergono a imprimere il loro segreto nel libro invisibile della stellata oscurità.
5.2.1976
Solo carezze
Non avere parole è un gran buon segno. E perché dunque scrivi? chiederete. Ma non sono parole invero, queste. Sono solo carezze, ariosi sogni.
5.2.1976
Questo dilemma scaltro
Corri il rischio di diventare savio: la minaccia è lanciata e chi è avvertito mezzo è salvato e mezzo è già perito. Così m’han detto, o forse m’è sembrato. Ma non è la saviezza che m’attira, è ben altro, è ben altro, né granché mi par giusto fuggirla, se viene. Non è questo e neppure quest’altro. Cos’è dunque? E che so? Forse persino questo dilemma scaltro.
5.2.1976
Attendi ancora
Assai spesso neppur trovo la strada. Malinconico vago. Ed allora mi dico: Attendi ancora. Certamente vedrai ciò che t’accieca.
5.2.1976
Il domani
Il domani è passato prima d’essere venuto. In piccoli istanti il tempo infinito è costretto.
5.2.1976
Se all’isola sacra
Se all’isola sacra volgi la tua prua, ricordati di me, o viaggiatore. Ma se anche te ne dovessi scordare, basterà l’abbondare del tuo cuore. 5.2.1976
Ciò che esce dal cuore
E questo, che ciò che esce dal cuore riempie i mondi e muove le stelle e sorregge il vecchio cosmo, questo, se anche parlarne è vano, io affermo, sottoscrivo e suggello.
5.2.1976
Un grande vuoto
Un grande vuoto è fatto. Tutte le cose stanno come so. I nostri amici impazziti del mondo possono volger consigli e separarmi dall’Occhio del mondo un istante, ma soltanto un istante, e poi mi volgo, mi volgo e guardo verso la mia estate.
5.2.1976
Ignorare
Perfettamente sereno me ne sto sul limite dell’ignoranza. Ed ignorare è la mia sola meta.
5.2.1976
Il gioco
È bello il gioco, è l’unica saggezza. E se giocare davvero non volete, subito allontanatevi da me.
5.2.1976
Come a Mosè gli ebrei
Sorreggo a me medesimo le braccia, come a Mosè gli ebrei. Così, scrivendo con la stanca mano, mi procuro un ricordo d’infinito.
5.2.1976
Meditare o cantare
Meditare o cantare: dov’è il segreto di diamante, il rubino della purezza, zaffiro dei pensieri lievi? Dov’è la pura visione che dona alle sfere di nebbia degli occhi un senso? Dove l’impronta degli uccelli svaniti nel cielo, l’acqua di bufera danzante su e giù nei grovigli di favola notturna? Come decidere di aprire lo scrigno, come vivere una vita conclusa anzitempo, come morire se non d’una morte di betulle splendenti? Meditare o cantare: quale donna assetata d’accenti di purezze quotidiane, quale uomo, bisognoso di pensieri di valli coronate di fiori, quale bimbo, dal sorriso di antica lampada, che torna dal ricordo come un vecchio fauno, quale creatura dal grembo dell’inverno può portare per noi segreti di ninfea, di radici composte nel segreto di melma, di steli insorti come brevi sogni? Chi di noi può vantare ferro di spada di silenzio e il canto verde subissato di stelle d’una stanza che, bimbi, nel suo ventre di gloriosa Medusa ci chiudeva e filava per noi luminosi infiniti? Meditare o cantare: come scegliere la spada per un cuore, infiggerla in mille, e disprezzare con voluttà d’Eolo amoroso ogni cosa che è ferma, ogni sostare, se anche ingemmato ne è il seggio o inghirlandato.
9.2.1976
La distruzione
Questa notte invocherò la distruzione delle utopie che infestano il mondo, invocherò la dimenticanza sopra le bandiere dei fanatici. Ecco guarda, osserva, rifletti: i figli dell’Islàm ammazzarono gli Amici, progenie del Messia sorsero gli inquisitori, dal seno della scienza crebbero i distruttori.
Furono essi cantori di vittorie? Diedero luce agli uomini con le loro menti persuase? Furono i loro stermini più che insensata ebbrezza? I nipoti di Tolomeo si mostrarono stolti, i figli di Aristotele nemici del pensiero; ne seguì forse che Galileo mentisse, o piuttosto non mentivano essi stessi? Figli di tradizioni di vita e indipendenza, alcuni crescono come flauti interrotti; privi di luce, ostaggi del passato.
E s’adirano quando dalla sede del tempo se n’esce il presente. Ed odiosi minacciano distruzione di tutto ed orrore ad ognuno: spregiatori del mondo sono indegni di vivere. Lapidi
Ciò che fu vero, se lo porti nell’oggi, è come un nume di lapidi morte.
Di sopra pietre chi caverà, se non è saggio, spirito e vita?
18.2.1976
La coppa oscura
Guardo la coppa oscura della valle: segue il mio cuore un rivo che vi scende.
Ed ecco a un tratto mi colpisce il vento e gli occhi leggono immagini nel cielo.
Guardo le nubi, sento quel richiamo, e triste chino il capo sospirando.
18.2.1976
Sopra un seggio d’attesa
Vi son giorni che passano dentro l'ozio e il disagio. Io mi distendo allora sopra un seggio d’attesa senza lottare, sapendo che le cose dispaiono. Alla fine del giorno il grigiore s’attenua, poi nel grembo notturno è infinito riposo.
18.2.1976
Soltanto quel cielo
Perché rivolgi gli occhi al cielo, dimmi, perché tu guardi il cielo?
Non so la causa, non so neppure il modo, soltanto so quel cielo.
18.2.1976 Non ho molto da dire
Non ho molto da dire, in fondo; ho un solo pensiero, in fondo. Perdonami se non ti do canzoni per quelle ore che non ho vissuto, ma il mio fastello di silenzio brucia sempre più, sempre più.
18.2.1976
Marinai di terre lontane
Marinai di terre lontane, trovatori, ciambellani, buffoni, ridatemi il mondo che non può tornare, il mondo delle vaste imprudenze del bambino ignaro. Ma forse rivivrei come è stato, non saprei come fare altrimenti.
18.2.1976
Padroneggia la vita
Padroneggia la vita e non scordare d’esser fecondo. Ma se non dai nessun seme alla terra, si sa, la pianta tua non crescerà. Così non credere che perché è un’era folle tu debba vivere privo di ragione, ma estirpa fuori dalla tua campagna le gramigne di morte e decadenza. Abbi pigrizia nell’alzar lamenti e invece fretta a deriderli, assai più. Infatti al mondo non stanno le cose come tu credi ma come tu vuoi: se più non vuoi, rovescia la tua mente e affida al cielo la tua rivoluzione. S’empiranno di fiori frutti e foglie, nobile amico, i rami del tuo albero.
18.2.1976
L’anfora dei venti
Venite all’anfora dei venti e rinchiudetevi in essa. Per mille e mille luoghi danzerete, vedrete e udrete turbini e canzoni. E tremerà la vostra mente, timorosa che non s’incrinino i pilastri della terra.
18.2.1976
Corre dentro la mia speranza
Un bambino corre dentro la mia speranza e è fede, luce e fuoco il volo dei suoi passi. Non rimarrò nella nuda terra fra gli esseri oscuri. Alzerò i miei stendardi verso le sorgenti del ripido cosmo e troverò nel buio vorticosa rinascita.
25.2.1976
El Eliòn nato due volte
El Eliòn nato due volte dopo che dimenticato l’avevo è tornato a distruggere le mille menti di morte che in spire di fumo avvolgevano i miei canti di bimbo. Come potevo cantare se lui non veniva per ardere nel suo fuoco di sterpi gli occhi di Mosè? Nei canti di Quello che di più lungi viene, nato due volte io ravviverò la memoria alla luce dei misteri che mi pare d’aver compreso a volte, mentre poi a più alto luogo se ne fuggono rapidi accecandomi d’immortale nostalgia nata due volte.
17.III.1976
Alle porte del senso
Alle porte del senso mi affaccio e guardo al di là. Pare talvolta che andare si possa, eppure sempre ci chiude l’anima il sigillo oscuro. Venti da noi corrono alla meta, e non possiamo seguire noi stessi, e la corsa si chiude in cavità da noi lontane ancora, e siamo, con doloroso spasmo, ancora due in uno, e non sappiamo quest’esilio perché si protragga, e cercare noi stessi ancora dobbiamo sebbene il luogo e l’entrata altre volte abbiamo contemplato, e veduto in rapidi secondi il viso di noi più vero, quello che nel silenzio scolora di quest’ora la vita.
17.III.1976
Disarcionare Dio
Perché accetti l’incenso e bruci i sacrifici dell’anima, Elohìm? Perché non bruci l’anima? Forse dovrei lanciare potenti richiami ai forti cavalli dell’anima mia che cavalcando sempre mi rapisci su montagne lontane trascinandoli separati da me, che non ho briglie per trarli a me. Disarcionare Dio: come potrei? Pure tu dici, tu canti, tu sfidi: Infine uccidi in Me stesso te stesso.
17.III.1976
Lo scherzo del dio
Per lunghi giorni in giro se ne va questo mio io, e poi guarda e si avvede che un dio gli ha giocato uno scherzo, fatto bere il rosso calice che moltiplica l’istante, che divide ciò che sta unito.
17.III.1976
Per amore del mare e della luna
Come spuma nel mare mi figuro il mondo, come bolla che un po’ in alto si tende, s’ingrossa, s’incavalla ad acque, svanisce nel salire al frangente dall’abisso per amore del mare e della luna.
17.III.1976
A cercare la mela
T’alzi verso il ramo più alto a cercare la mela. Ecco stai ferma, non chinare le braccia e lascia andare la mela. Resta così, la mano tesa. Non vedi la speranza che ti lacera, protesa, nell’intervallo dal tuo cuore al cielo?
17.III.1976
Dal balcone dell’Ospite
Se il corpo opprime, l’anima è legata, non c’è una spada che mi faccia in pezzi? Buona sorte se ci uccide un dio: non potrà ricusare di mostrarsi. Da noi la morte non sarà veduta: le nostre ceneri giocose bruceranno nei gorghi del vento. Nessuna memoria di noi, così la morte non saprà dove andare e noi staremo affacciati a guardarla dal balcone dell’Ospite che nessuno ricorda.
17.III.1976
Mi sorprendo talvolta
Mi sorprendo talvolta che non so più né tempo né spazio, me ne sto fisso a guardare una cosa qualunque senza emozione, senza riflessione. Ma poco dura e, subito riscosso, torno al pensiero che avevo rimosso.
17.III.1976
Impedito a ferire
Tu dolce riposo, ninnananna dei pensieri lievi, tranquillo gioco del tempo, oceano dell’assoluto, tu morte che dissolvi la frode e il rimpianto, chiave di volta della nostalgia, cupa insanguinata bandiera della speranza, figlia della verità, tu balia del dolore dell’uomo, madre dell’innocenza, onda che fluttuasti all’origine, terra ove disparvero gli alti voli tesi nel cielo, uccello cieco che fosti luce agli uccelli incatenati dalla luce, tu morte, manto dei ripetuti silenzi, grembo d’acque, seme di rigogli vegetali, segreto degli affetti, lato nascosto d’ogni paravento, parola di Dio, mi tendo ai miei fini perduti, mi tendo alle disperse cose del silenzio, alla vergine foresta dell’ingenuità, mi tendo al tuo cuore con archi e lance, e povero e nudo mi spogli e mi guardo impedito a ferire, impedito a sanguinare.
21.III.1976
Sansone e Delilà
I. Nella notte Delilà, impegnando la tua anima, derubi Sansone di tutti i suoi segreti; però non puoi rubargli la parola che gli spezza la vita. Inutilmente insisti, Delilà, lungamente chiedendogli il segreto; il suo sguardo d’un tratto egli richiude e più nulla ti dice. Tu piangi e ti disperi, con ardore veritiero lo abbracci, Delilà. Sansone pensa che l’ami e tu, tutta pervasa di sete di sapere, lo assicuri. Sansone ha ucciso molti, le sue mani grondano sangue di mille filistei; il suo pensiero anche è così stanco: desidera riposo, Delilà. Tu lo conosci, conosci la sua mente rude, inadatta a un conoscere sottile, e con parole stillanti sicurezza chiedi a Sansone che t'apra il suo cuore. Preme il segreto con lance solitarie la sovrumana grandezza di Sansone; sopra il tuo seno, entro il tuo ventre dolce prometti, Delilà, la pace. L’eroe vorrebbe completo riposo, di te si fida, in te si vuol vuotare; solo rimane come un paravento contro di te il seme di El Sciaddài. Come una dea, Delilà, ti ergi davanti agli occhi abbagliati di Sansone; e come dea gli addossi come colpa questo silenzio di separazione Irrequieto, trafitto dal segreto, desideroso d’averti, l’eroe mente; ma come dea che conosce il mentire la sua menzogna gli provi, Delilà. Per ogni volta, Delilà, che mente, con mille spade gli trafiggi il cuore; a dura prova lo metti, ché egli vuole sempre più avvicinarsi al tuo mistero. Coi tuoi capelli nella notte scura, Sansone, avvolgi la tua Delilà; ma non delira, è come freddo sasso, il muro del segreto sta tra voi. Ed ecco che sussulta in tutto il corpo e si fa dolce e t’avvolge con le mani: “Oh perché mai non cacci la tua spada dentro il mio petto, che più io non soffra?” Mille catene d’un tratto ora t’appare facile sciogliere, con poche parole; lei svelerà il suo mistero infuocato, e allora parli e tutto si rinnova. Sta Delilà con te e t’accarezza ogni pensiero, ogni perduto anfratto, e nella notte profonda e serena gusta il dolcissimo frutto del potere. La vittoria che adesso appare a entrambi è come un fremito di sangue splendente: sogna Sansone i luoghi dell’Antico, beve il latte di vita Delilà. Finché la luna si fa chiara in cielo giace Sansone, dorme ed ha visioni; la lunga chioma abbraccia Delilà, la bacia, taglia e prende fra le mani. Attratti, giungono ora i filistei; con catene Sansone vien legato, mentre lo abbraccia Delilà nel sonno che ancora dura qualche breve istante. All’improvviso poi si rizza in piedi ma non sa infrangere le proprie catene; malcerti vengono vicino i filistei, mentre ferma lo guarda Delilà. Fissano gli occhi l’uno dentro l’altra, lui sbalordito, ebbra Delilà, che anche lo bacia. E tace il forte eroe, penetrando il mistero della morte. Rassicurati, tornano i soldati, da Sansone dividon Delilà; rabbiosamente Delilà si oppone nello splendore della sua potenza. Ma i filistei non sentono ragioni e la separano violenti da Sansone; egli la guarda addolorato e stanco, mentre è abbattuta in terra Delilà. Corrono via, trascinano Sansone senza curarsi di lei, senza vederla; sotto il fardello d’un disprezzo antico Delilà crolla, priva d’ogni forza. Ma poi d’un tratto il mistero si compie e la perduta potenza va inseguendo: nelle sue mani ha la chioma di Sansone e dentro il cuore ha amore, Delilà... II. Sansone è cieco, per amore cieco, Delilà è cieca, per amore cieca. El Sciaddài va pregando Sansone, verso di lui si fa strada Delilà. Come una volta Sansone non sarà, ma non si uccide con gli occhi un mistero; sopra il suo seno gli darà riposo, e dalle labbra la potenza perduta. Ecco lo segue sui gradini del tempio, tra le colonne lo vede appoggiarsi; forte lo sente ancora come un tempo e una violenza selvaggia la percuote. Ecco si tende Sansone, ecco con rabbia di Delilà sente l’ultimo grido; su Delilà crolla il tempio e la vita, crolla il tempio e la vita su Sansone. Le colonne si spezzano e trionfa con la forza di Sansone El Sciaddài. Una gloria di sangue e di mistero la sua grazia riversa sulla morte. Ecco si levano Sansone e Delilà dai propri corpi, ecco se ne vanno: la loro ultima selvaggia solitudine si discioglie in oceani di stelle. La potenza perduta di Sansone, la potenza insorta in Delilà, ecco sono una unica potenza, una bacca dell’albero perduto sopra gli occhi di entrambi.
22.III.1976
Edera bianca
Ho congiunto per te le sette colonne d’argento dell’universo, per te ho inventato amache di liane da un pilastro all’altro del mondo. Tu giochi con mani di stelle dentro lo specchio galattico, e sostengo i tuoi piedi con anima d’arcobaleno, mentre tu ti tendi, ti tendi verso il grido della città perduta. Padrona dell’anima mia, concedi a me turbato cantatore una morte di riposo sereno tra le tue mani e il tuo corpo di edera bianca.
25.III.1976
L’elica dorata del tempo
Strisce di giallo lucente sciabolano nel cielo il blu; le acque azzurre sciaborda un’elica dorata di tempo. Vanenti remiganti passano verso il tramonto e presto dispariranno. Solo me ne sto con gli occhi fissi al bianco di più vicine regioni, intento a scrivere sotto il cielo che attende la notte.
25.III.1976
Slegate il cordone d’argento
Slegate il cordone d’argento, lasciate trascorrere l’anima, sconfinata, nel nulla. Le onde del mare fluttuanti gettano schiume alla luna: sciogliete le onde del desiderio e lasciatele ricadere sul cuore.
Non v’è cosa che si possa fermare: la cima del monte d’acqua ricadendo spezzerà la vita. Lasciatevi cullare dal vento, dal vento che porta nel mare: vi condurrà lontano, con ali invisibili, in mare.
25.III.1976
La chiave girerò io stesso?
“Maestro vieni, accorri” – così dice il discepolo, così può dire. “Maestro dammi una parola di verità, un verbo che conceda allegria” – ma io che dirò? Io, solo, muto, di me stesso la chiave girerò io stesso? Potrei volgere la mente a cose straniere, cercare la menzogna che mi metta in pace; ma chi sopporterà così forte in cuore il peso assurdo dell’ignoranza? Potrei divenire di me stesso maestro; ma quale orgoglio potrebbe condurmi? Se un uomo venisse e m’insegnasse, e io credessi ai suoi insegnamenti, a me stesso crederei eppure penserei che a lui ho creduto e così salverei l’interiore umiltà. Ma se nessuno viene - non posso accecarmi - come mai potrò sfuggire la schiacciante grandezza che ferisce il cuore?
25.III.1976
Lamento del poeta che non ha una donna che gli scaldi le giornate
Il quale, troppo certo di volere libera donna padrona di sé, finisce per restare solo e in dubbio se non cercasse invero se medesimo. Il quale dubbio angustiandolo a fondo, lo fa guardare attento fuor di sé, ma non trovando allora alcuna donna decide infine di tornare indietro. E tornato che è indietro, ecco continua col rimanere solo, e più non spera trovar la donna amata, e ricomincia a colorir fantasticando i giorni. E allora si lamenta e ride e canta e più non vuole mutare condizione: vorrebbe dare amore per la vita, ma dov’è il ricco che riceva il dono? 29.III.1976
Una notte
Una volta ci siamo incontrati sotto il manto di stelle. Poco importa fosse un manto artificiale con lampadine al posto delle stelle e tanta gente attorno che danzava: subito io e te fummo persuasi che una nuova esistenza s’appressava. Il gran frastuono più non sentivamo, quasi nessuno attorno a noi danzasse, e la marea di folla con malizia a poco a poco ci spinse fuor dell’uscio. Non c’erano stelle né più lampadine, aguzzavamo gli occhi nel gran buio e camminammo e camminammo, finché si fece silenzio nelle strade. Un ubriaco passava cantando, lo seguimmo; ma ci vide e fuggì. Seduti su un muretto, un uomo e una donna si abbracciavano; ma ci videro, salirono in macchina e corsero via. Sentimmo dietro l'angolo un miagolio: svoltammo, e non c’era nessuno. Un bimbo su un balcone ci guardava curioso; ma venne qualcuno, lo trasse a forza in casa, chiuse le persiane e crebbe ancora il buio. Allora ci sentimmo liberi di vivere e ci fermammo nel silenzio della via deserta. Dentro di noi ardeva il desiderio: ci congiungemmo nella notte fonda. Si avvicinò un passante, ma non ci muovemmo: chi ha giudizio, di notte non passa per strada, riposa nel sonno, già esausto del suo vivere diurno; non ha fantasia, non pensa che io e te ci possiamo anche unire di notte, per strada, perciò non ci cerca, perciò non ci vede, perciò non ci odia, perciò il nostro amare intatto perdura. Il passante svanì nella notte, era perso in pensieri, neppure ci vide. Di notte, di notte suonano chitarre. Di notte, di notte scintillano fuochi. Di notte, di notte, su sabbie marine, di notte, di notte, in sentieri montani, di notte, di notte, su asfalti e su viali, di notte, di notte si fanno canzoni. Si fanno canzoni di notte, si fanno ricordi per giorni ancora a venire, per giorni e momenti in cui poseremo senza rimpianti di fronte alla vita, quando l’età c’imbiondirà i capelli, raddolcirà l’ardente cuore e i sensi, quando chi avrà ricordi spegnerà volentieri la luce della sua esistenza. Ricco di cose, non si volterà. Tutto ha nel cuore: perché si volterebbe? Solo alla sera si volge chi ha paura, chi dietro sé non ha nessuna strada: vede la vita come un muro alto che ostruisce il cammino. Ma in questa notte noi ci leveremo verso le dune del cielo, chiameremo la sorella del sonno: O tu che alla ventura corri nel mondo, fermati qui presso, vieni qui subito, non ti recare altrove. Ma la richiesta esaudita non è, maliziosa la morte se ne va lontano: ama inseguire chi cerca di fuggire e per fuggire dimentica la vita. Che farebbe di noi, come potrebbe privarsi della veste di dolore? La congiunzione nostra è così vasta: sicuramente perderebbe la strada. Vanno a zonzo per il cielo le stelle, con le nuvole giocando a nascondino; a moscacieca invece gioca il cuore di chi guarda nel blu.
3.IV.1976
I cavalli scuri
Tanta gente dietro di me ho lasciato: dove si sono fermati? dove sono andati? Quale uomo o donna mai potrà seguirmi, accostarmi, parlare? Ecco fuggono via i cavalli scuri: nella pista di gara io solo fisso le stelle notturne.
24.IV.1976
Le isole
Scioglierò i nodi del tempo. Lo spirito e l’anima si protendono e fuggono tra le cuspidi gialle del sole i mille pensieri. Tosto io cado dentro un abisso profondo e qui inquieto annerisco al fumo dei distruttori, salendone come per voto verso i celesti cardini dell’ora. Quali chimere voleranno lontano, affinché le segua nel loro perdersi oscuro? Mille vortici divini furono sotterrati in cuori putrefatti, avviliti recisero da se stessi la vita. Astarte, Afrodite, grande Dea del mare, in questo lontanissimo nulla i vostri segreti come, come ritorneranno? Gelidi, ambiziosi di morte, i Mortali eterni dove deposero i figli, i Mosè delle acque? I Simboli delle notti, delle stelle, delle nostre parole profonde come oceani, succhiarono latte dal seno delle Madri e dai vortici delle parole spente trassero sopra il mondo silenzio. Ho veduto Isole vaganti sopraffare la sordità del cuore, le Isole lontane dei mostri obliosi dell’infanzia. Ho udito le Parole evocate nei canali del corpo vagare, in cerca d’un’anima che dolore o speranza accendessero infine, e non ebbero voce, e spezzate ricaddero nel vortice quieto. Poiché un giorno forse torneremo dai nostri esilii e guarderemo negli occhi brucianti gli Dei del cielo, tornati ad essere i nostri Avi interiori che lunghe vite e viaggio e ritorno cantarono, conosceremo allora, come mantici gioiosi accendendo la vita nella spirale dell’abbraccio, le Parole dell’essere e la terra.
25.IV.1976
Osservare le stelle
Di sopra le vane chimere del tempo volgo lo sguardo entro il mare dell’essere. Lentamente si muove di là dai nostri occhi l'immoto nume genitore dell’esistere. Noi non possiamo conoscerne la strada, essa è come un’onda che sempre s’infrange. Dell’onda spezzata nessuno troverà in nessun luogo del mondo la sede: essa è un paradiso d’innocenza perduta, dispersa nel volo di cento pensieri. Si stende nel cielo a mille soli la sete di uomini che sempre ritornano alla terra: per tale sete io più non tornerò, trovando il morire come fonte di luce. Ciò che infine resta è soltanto la morte: di là da questa soglia perché non andare? Tutto ciò che sta di qua è solo canto: si riposa il cantore di là dal nero velo. Chi canta, chi ride infine troverà ragione del canto, una causa per il riso. Di noi sulla terra ragione non esiste e mente pauroso chi dice di saperla. Saggezza è ricordare d’osservare le stelle, infrangere il tempo con mille visioni.
Di qua dalla vita fantasmi del futuro ritornano anche, se tu li sai vedere.
30.IV.1976
Bella ragazza dal cuore di vento
Bella ragazza dal cuore di vento, porta lontano dolore e ricordo. Lasciami immerso in un lago di stelle, cantore cieco perduto nel sogno. Verrà la notte e mi perderò dentro uno stormo di uccelli profondi.
16.V.1976
Io non dimentico
Perché t’avvicini? Perché t’allontani? Resta dove sei. Io non dimentico.
16.V.1976
L’uccello dorato
L’uccello dorato volava sopra la terra. E su ogni terra lasciò cadere una piuma. E ogni piuma divenne un essere umano. E l’essere umano si fece uccello dorato. E volò lontano verso i mille tramonti.
17.V.1976
Attraverso la morte
Come fasci di rose si sono perduti, come voli nell’aria da nessuno veduti. Sono andati lontano dove il mare si perde, dentro abissi di gemme non ancora fiorite. Come nuvola in volo trascinata dal vento attraversa gli spazi il Vascello di Luce.
18.V.1976
Fermarsi alla soglia
Anni ed anni e qualcuno viene, ti guarda nel volto e ti dice: Chi sei tu? Anni ed anni e qualcuno è fuggito, e nella sua corsa folle si volge e ti dice: Chi sei tu? Anni ed anni e qualcuno si è perduto, e dai suoi sogni emerge e ti dice: Chi sei tu? Anni ed anni e qualcuno il suo peso ha portato, il suo cuore ha alleviato e ti dice: Chi sei tu? Anni ed anni e qualcuno ha cessato il suo dire, il suo fare, e ti fermi alla soglia e non senti nessuno, ed ascolti, ed ascolti dentro il vuoto, lontano, ed ascolti, ed ascolti, e vorresti sentire, e nessuno tu puoi più sentire.
2.VI.1976
Le parole dei bimbi
Libere come stormi d’aurighi nell’alto cielo perduti, guidano i carri di Febo le parole dei bimbi, cariche di bianche previsioni remote.
2.VI.1976
Le nostre grevi speranze
Da noi qui sulla terra verrà un giorno forse Qualcuno. Ciberà di vento le nostre grevi speranze.
2.VI.1976
Una palla di uomo
Una palla di uomo, un nanerottolo ho veduto una volta sulla strada, e mi parve una stella che guidasse la fiumana dei sogni.
2.VI.1976
Non annaspò neppure Si fermò, stette, ristette e si guardò ben bene sul pelo dell’acqua e si gettò, e scomparve giù in fondo, fece pluff, non annaspò neppure, fece pluff. Inutilmente ho atteso tutto il giorno che ritornasse a galla, gonfio d’acqua, il mio cadavere, ma su non è tornato. Ditemi, amici, ditemi perbacco: chi lo ha veduto?
2.VI.1976
L’enigma che piange
Un enigma, oh il bell’enigma! Guardatelo in faccia, guardate l’enigma ben bene sulla faccia. L’enigma piange: perché mai piange questo mio enigma?
2.VI.1976
Talora un mondo si dissolve
Talora un mondo si dissolve, un domani precipita e condensa e si fa presente. Noi dimentichiamo le cose passate, ciò che credevamo non ha più spazio alcuno. Tace la storia, tacciono i passati richiami, ché ogni cosa è destinata a perdersi nel nulla, o forse più lontano del nulla.
5.VI.1976
Quaranta giorni e quaranta notti
Quaranta giorni e quaranta notti, quaranta giorni e quaranta notti camminò Elia per giungere al Chorév. Camminò quaranta giorni e poi quaranta notti finché si fermò davanti al Chorév a deporre se stesso. Nel suo cammino quaranta giorni stette, quaranta creazioni, e poi vide il cielo.
8.VIII.1976
Un piccolo luminoso elfo
Lampeggia un piccolo luminoso elfo ed io ogni volta odo il suo nome, Nulla, e mi dissuado dall’azione inattuata. Mi ritrovo, da sepolto che ero, mentre volo libero verso l’inafferrabile indicibile unica meta.
15.VIII.1976
Giglio e rosa
Giglio incrociato a rosa, la purezza e il sangue, a notte un uomo va cercando intorno alla luce lunare, la perversa tetra follia fuggendo. Chiara dentro luoghi cosparsi di dolore è la stanza profonda, viva di fiabeschi commiati, arie di bimbo che con palle di vento gioca in cielo. Pure cerca l’uomo nel mezzo delle morti, dentro il segreto delle disperazioni, l’urna di vetro fragile che insegna a tenere la sorte dolcemente senza fuggire mai, senza guardare troppo di fianco, troppo di lontano. Giglio incrociato a rosa, la purezza di ogni cosa che vive, sangue rosso fluente che si contrappone per vie diverse nella stessa via, via che corre, dentro il buio, un uomo sopraffatto dal sole.
15.VIII.1976 In un eremo inaccessibile
In un eremo inaccessibile, senza nessuno che parli, ingiudicato e senza giudicare, quello è un posto adatto. Osservare da fuori, dalle porte del nulla, gli uomini, le bestie, il grande mondo, gli alberi. E rimanere liberi per sentire la voce di se stessi quando più non c’è voce. Restare così, un frutto abbandonato come per consuetudine nel campo del raccolto, un frutto soltanto, lasciato nel campo per le mani del viandante, di chi va lontano.
1.XII.1976
Con gemme di esperienza
Con gemme di esperienza arricchisco ogni giorno il prezioso tesoro dei tuoi doni. Tra le rive del pianto tu mi sei di guida come un dolce vento d’autunno. Docile la mia mano si aggrappa all’esistere, pronta a lasciar la presa se appena ti veda. Ancora per un attimo, un nulla innanzi a te, io resterò quaggiù arricchendo il tesoro.
1.XII.1976
Ad Antonella che mi portò una rosa La vidi entrare con la rosa in mano: Shenandoah solleva gli occhi al cielo, sorge la luce dal profondo azzurro. La vidi entrare col suo rosso fiore: Shenandoah mi canta dentro il cuore il leggero sussurro d’un giorno nuovo. Io sospirai parole dolci quando mi prese Shenandoah. Shenandoah guarda la luna, la falce specchiata dal mare: nel mare degli occhi si specchia lei, si specchia negli occhi miei Shenandoah. Fu una rosa che tendeva alle stelle il primo pensiero di Shenandoah, il primo dono alla vita fu il sogno d’un calice rosso dall’aroma lieve. Shenandoah si china sull’onda del mare profondo, dal glauco fluire: nella galassia delle sue mani pongo la sfera dei miei pensieri. Ripongo il destino cullato dal vento dentro i correnti rapidi flutti che con le braccia levate alle stelle lancia nel cielo Shenandoah.
3.XII.1976
Un dies irae Un dies irae, un cammino perduto nel bosco tra i demòni notturni, gli gnomi scipiti grigi come lo smog che ricopre la vita di noi uomini e donne sopraffatti dal niente; un parlare di canti e d'annate lontane, un vantare di spenti deliri incendiari, un narrare di vite ce ne andiamo a cercare tra lo scrivere vano di Petrolpoietài. Pietroburgo se anche si scosse una volta sotto il fuoco dell’odio, e Versaglia e Berlino, senza fine nel mondo potremmo cercare una furia di vita, un desiderio ebbro nei silos vuoti in cui, protetti dall’ozio, pigri si giacciono i seguaci di Hedoné. Anche oggi tuttavian odio ad essi, la nota pura udiremo, eterno flauto.
3.XII.1976
Anime in fuga
Intorno ai marmi rosati dei templi antichi, spossate d’irrefrenabili unioni di donne, uomini e sogni, su strade colme di serpi che si rigirano al sole, nell’aria tersa al mattino, nel bianco incesto aurorale, volgono i passi a ritroso anime in fuga da sempre.
1.I.1977
Antica immagine in danza
Subito ardendo chiuderti fra le braccia come un fiore d’oro, come un fiore di vento. Sciogliere nel fuoco le chitarre del cuore, ferire con spine di rosa le tue cosce danzanti. Colmare con neve sciolta e trasportare in cielo mille ruscelli di vita sopra il tuo ventre e il mio. Modulare con flauti e zampogne di fauno le melodie barbariche delle ere di fuoco. Cogliere dal tuo respiro nubi radiose e leggere e premere in cieli notturni i calchi delle tue braccia. Un’antica immagine danza con mani al di sopra del capo, traendo nel gorgo profondo i cento pensieri d’un uomo. E l’uomo si sferza, si frusta con occhi di onda lacustre, in stagni fissando lo sguardo, fremendo di sete di mare.
23.I.1977 |