Uomini da niente Esseri persi, ed esseri già arresi, con noi venite fuor di queste celle. Chiamo, seppur non veda altri paesi chi non sia spinto da sue stesse stelle.
Freddi, sentite, sono terra e cielo, e ciò che muta è figlio al freddo vento. Ma nella stanza umana, udite, il gelo è mezzo a conseguir segreto intento.
Pur voi restate, uomini da niente, quasi a smentir nostre parole vere, come colui che, sordo, niente sente.
Ma come quello che non può temere, socio alle stelle e a ciò che non mente, vedremo in voi quel che sdegnate avere.
21.VII.1982
Favola
Cuore, Mente e Sogno ebbero un giorno bisogno di dire una parola, che ancora oggi vola. In quel tempo nessuno sapeva quel che l’uomo temeva, ciò che gli doleva o piaceva. Erano gli uomini tutti, belli e brutti, liberi d’ogni malia, privi di fantasia. Ma il Sonatore celeste voleva cantare una storia e nessuno ne aveva memoria. Ma il Danzatore celeste voleva ballare una giga o un rondò, e non si sapeva niente di ciò. La noia allor prese gli Dei, e vollero in terra gettare il peso, la carne e la morte per potere danzare e cantare la sorte. E caddero allora per anni in impareggiabile viaggio, sognando sognando l’assaggio di ciò che sarebbe poi stato. E vollero allora svegliarsi al passato e dormendo fuggire il destino segnato, ma più non avevano carne, né fiato, né peso, né morte, e la vita, ahimè essa era fuggita a sposare la morte, sorella sua in sorte. Per questo da molto essi dormono e il canto, la danza e la vita son sogni da loro inventati, e vissuti e sognati da noi che viviamo qui in terra soffrendo e godendo in questa guerra. Così gli uomini tutti, sian belli o sian brutti, son ricchi di fantasia, ma in preda a malia. Pure, un sogno divino s’è inventato, e così qualche dio s’è risvegliato. Ancora un po’ di tempo passerà e allora il sogno tornerà realtà. E quei che invero credettero vegliare saran veduti immersi nel sognare. E quei che vollero vivere e morire non sapranno se non dormire. Quello solo che suonerà e canterà, sarà lui il signore della realtà.
21.VII.1982
Le gemme ignorate
Gemme splendenti rimangono ignorate, invendute, sprezzate sul banco dell’orefice. Hanno il colore per occhi che non si trovano. Il popolo passa, dice Non è per me, più non ne parla, il popolo dimentica nel suo cercare similoro e cerchi di latta. Le gemme splendenti solitarie perdurano, non le distrugge l’oblio né la morte dei perduti può portarle fuor dell’istante sacro degli occhi che gettano luce. Fu così che un giorno chi troppo vide gettò sulla terra le pietre preziose delle sue visioni, e fu fondato un mondo, e cedette all’abisso il pensiero, fuor della fredda mano del tempo. O trionfo! Un ventaglio tutt’attorno gettato dal sole! Un alone stracciato la mia anima! Uno sguardo ha gridato luce! Smeraldo del vento. Acque della memoria su vaste rive posarono conchiglie, perle di dolore, vasi di conoscenza effimera, strappando terra presso i fondali oscuri ove nascono le pietre di visione. Vacilla il caos: preso tra il suo ventre e la mano del sogno vivo una strana orgia e sprofondo nel sonno perché qualcosa infine possa nascere nei paesi senza spettatori del mio essere. O Teatro del mondo! Un singolare autore celò il suo estro fin nel luogo d’ombra dietro la scena. Dietro il Pilastro d’Oro un magico Pifferaio incanta le stelle dell’ombra e invoca verso la luce le meraviglie della notte. O Teatro deserto! Dove son fuggiti gli illusi del second’ordine? Fuggiti una volta, la seconda presi per timore e abitudine, ciò che un dì li salvò li ha ora perduti. O Teatro deserto! Ricòlmati dei miei pensieri e apri le porte d’acciaio, ch’io rida dei tuoi segreti di variopinta cotonina. Tanto rumore per nulla, tanto vento per un’esile fiamma. Non valeva proprio la pena correr tanto, non fosse che in tal modo potemmo ridere, sorbendo il nostro oro liquido in mezzo alla folla, l’ultima eterna risata, la gemma senza pari sprezzata, invenduta, calda ironia dei solitari sul banco ingannevole dell’orefice.
21.XII.1982
I viandanti del mattino
Ho veduto il vento luminoso dei viandanti del mattino congiungersi amoroso con l’ombra della luna in una radice d’albero sacro.
Strati di bianco oblio furon tessuti poi di sopra al fuoco; ma l’abisso dell’Occhio è senza fine.
21.I.1983
Il mio segreto
Un bimbo mi vide, congiunse i suoi occhi ai miei occhi e ricercava, avido, il mio segreto.
21.I.1983
Dentro gli sguardi che s’incrociano
Per ogni attore mille spettatori, che sempre sognano d’essere ammirati. Dentro gli sguardi ciechi che s’incrociano, il mio segreto, vago, non veduto, mi è arcano riparo dal mondo. 21.I.1983
La scala di Giacobbe
Ora potrei morire: freccia di parole, scala di Giacobbe, uccello proteso verso l’eterno cielo.
21.I.1983
Il fulmine
Dopo che Dio cantò per primo, fe’ eco l’uomo e poi poté morire, e agognato fu il viaggio dei mortali verso l’Immortale.
Ora vagano per il mondo gli spettri: la Morte, la Menzogna, la Paura.
Parti dunque, cantore. Ti colpisca con amore violento Eros dal cielo. E ti rubi in un fulmine. 21.I.1983
Tra centomila
Tra centomila un uomo, forse, non mente: non è sacrilego rimanere nel mondo?
21.I.1983
Il destino
Ridestino il proprio destino coloro che vogliono sorridere della morte.
Illusi dal vaniloquio son gl’inetti idolatri del vivere.
21.I.1983
La farfalla
Segui la farfalla coi tuoi occhi sacri nell’eterno mattino oltre il tempo.
21.I.1983
Genii della notte e del sogno
Venite, Genii della notte e del sogno, regnanti di fiori e di stelle.
O voi che la storia perenne cantate, date a quest’uomo un piccolo posto buio.
Non vuole altro che sentire il racconto e dimenticarsi nel mezzo del suo destino.
E forse il suo destino è: ricordarvi cantare.
21.I.1983
La ruota del tempo
Gira la ruota del mio destino... Non ho chiamato uomini, non ho chiamato dèi... Lei sola, colei che siede nel cuore, gira la ruota e fa intendere il suo dolcissimo canto.
Ascoltatemi questa notte, uditemi, figli della terra: gira la ruota del mio destino mentre ch’io guardo in silenzio nello specchio del vivere.
Vivi e morti ora tramano ardite congiure: si muove il Potente! In verità l’ho veduto abbracciato dalla giovine Dea.
Non ho chiamato uomini, non ho chiamato dèi... Apparenze più nobili vengono, e più presso è la morte. Il Gran Viaggio ricordo, e ricordo la nave, e le immagini state.
Ho perduto nel silenzio della vita le chiavi del passato. La memoria vado a cercare, l’antico tesoro, il vessillo arcano del mio amore.
Lei mi serra nel cuore l’anima con mani di fuoco impenetrabile. Vola il Signore alato della sua passione lungo i violenti abissi del destino.
O Signora del tempo, in questa notte m’ascoltino le ombre, gli animali perduti, le Fenici in attesa.
Tu mi scruti entro il cuore e vi svolgi la ruota del destino: rossa ruota, bella ruota, un fiore di notte, anche un angelo, e per me un vivo fuoco dove danzano le stelle. 3.V.1983 La strada per il paese di nessuno
Nel segreto del mio cuore alcuni vollero penetrare; mi chiesero con parole indagatrici qual fosse la strada per il paese di nessuno. Risposi e seguirono quel che la voce diceva.
Or soffia tenue il vento e scendono fiori e foglie alle radici segrete, mentre alcuni vagano per informi sentieri il cui corpo è una parola perduta.
Volli io stesso poi che penetrassero nel solitario incanto del mio cuore. Diedi loro una strada di memoria, ogni sasso era un cuore, un respiro ogni vento.
Celato nella notte, un contafavole sussurrava; dai suoi occhi salivano verso le stelle tutti i laghi del mondo.
E furon preda gli esseri tutti del sonno, e la sua voce soltanto risonava, e il paese di nessuno raccontava.
Scosse il sonno: si presentò la morte. Scosse la morte: si presentò l’inganno. Scosse l’inganno: non si presentò alcuno.
E giacque il contafavole, annegato dentro i laghi del suo stesso cuore.
3.V.1983
I bambini splendenti
Due bambini che non conoscono la storia del mondo gridano nel deserto delle mie passioni parole senza fine. Com’è grande il deserto! Sopravvivono ancora, falchi lontani irraggiungibili, le mie ultime visioni, il rosso amore segreto. E i bambini splendenti, dèi nascosti imperiosi, disciolgono la radiosa notte in perle eterne di lacrime e di luna. 16.VII.1983
I figli del sole
Stamane i figli del sole sono scesi a parlarmi. Trame si tessono fin verso le luci invisibili degli abissi.
Io guardo con cuore avido di voli il Tempio della Luce. La vita mi è esilio, mi è gioco, mi è spazio.
Vagano i miei pensieri, incerti, sul manto del giorno, ricordando tutte le aurore e i tramonti e lo stupore di nascere, nascere ancora.
4.IX.1983
Sedotto dalla donna Sole
Sedotto dalla donna Sole abbraccerei l’universo; abbraccerei ogni essere, sotto l’oscuro manto, nel suo cuore.
4.IX.1983
La Terra segreta
Un luogo ci attende, che crearono le nostre parole d’inascoltati artefici, di voci senz’eco: ebbero i desideri della nostra purezza una parte di cielo, il regno luminoso.
Quando ci troveremo, amici, di là dal tempo, andranno le nostre barche lungo i fiumi infiniti, e lì coglieremo dalle canne e dai vortici voli di farfalle vermiglie e pesci dorati guizzanti.
Certo il nostro corpo, già schiavo, splenderà come la luna e il sole e, astro, guizzerà tra altre stelle che posero antichi vati nel cielo.
Ma il cielo, amici miei, non è quello che vedono gli occhi ciechi al mattino; è quel che ha veduto il mio cuore, la sconfinata Terra segreta.
La stella del mio cuore vi si posa, in attimi che non vorrò scordare.
4.IX.1983
Una luce di folgore bianca
Vorrei chieder saggezza, ma chieder saggezza a chi? La gemma del lago interiore sempre splende, non è mai opaca.
Cerco la forza per entrar nel profondo. Il delfino e il vento mi guidano, il mare e la pietra del cuore.
Chiedo al destino, interrogo le stelle: l’amore muto, una sfinge di marmo, mi obbliga a chiudere gli occhi.
Ti guardo, Signora, e ne soffro, e vorrebbe coprirmi l’oblio. Spezzata, la roccia mi getta una luce di folgore bianca. 26.X.1983
La rosa delle rovine
Canta, Arpista, chiudi gli occhi e suona: il destino intona profetiche melodie.
Non si è mai dato che solitudine lasciasse il poeta nella sua cerca favolosa.
Piange e sanguina l’essere mio profondo. Dalle rovine però sorge una rosa che bacerà la flautista cieca del sogno. 28.XI.1983
Mille cuori
Questa mia terra muore. Eppur io guardo e tutto pare fermo. Ho mille cuori: ne vedo pochi, gli altri ora combattono per morir tutti o tutti trapassare nella terra del Sole. Bisogna anche spezzare questo che veggo con la luce nera della memoria: faticoso compito, non potendo scordare tanti errori, né fuggir le passioni. Morrà certo supponendo sua morte un dolce oblio. L’ingannatore getterà se stesso in disfrenata danza.
1983 circa
Sotto il velo incongruo
Volevo un tempo dimostrarmiti uomo. Vedi ora se nel gorgo dei paradossi fantastici, nei regni iperbolici dell’umanità, sotto il velo incongruo, il ballo autocritico delle parole non ci sia, scagliato verso il cielo a guisa di stella, qualcosa, una vita, una patria, forse anche una antica umanità, una roccia d’amore.
1983 circa
Donna aurora
Un’anima s’è aperta in me ed ho veduto mostrarsi il mondo illusione, e esser la terra un fungo madido di ego lontani e morbidi.
Esser vivi, com’è proprio a miseria e spenta cenere, sotto cui cova oblio un radioso splendore.
La raggiera del mondo è tutto un cuore uscito dal tuo petto. Chi si china lo vede, vede tutto, ma non si china che il grande umile mare nei tuoi fori perduti, o Sogno.
Ombre vagano e in fretta occhi si storcono a non vederle, a non compirle, a farne solo un oblio celato, un’implosione di fuoco nero. Incide in cielo il solitario mio stupore una cifra che mai si perde, un santo glifo d’amore nel tenero abbraccio della donna aurora. 1983 circa |