Alfesibea perduta
ADE Oggi che si compie l’anno ventidue io a letto in procinto d’iniziare la prolifica giornata dormendo per nove dieci ore chissà e poi andare in nessun modo mutato in nessun luogo (o forse è scuro l’occhio, e infatti miope in più concreto senso già lo sono; o forse è muto il cuore, non persuaso di veementi parole odio amore, forse rimpianto e noia ed è già troppo, troppo stende le mani in sete eterna ahankàra la morte il falso io) cosa farò nel tempo che mi spetta? (nel giorno breve nelle poche ore pochi minuti, spettri, ballo tenue d’Ore danzanti nella breve notte il sabba idiota grondante di satanassi per il Mystik Power senza fantasia che confonde la tiptologia dei Napoleoni evocati e la teologia) O potere incombente del kolchòz, potere dei re della definizione! Io povero schiavo fuggitivo come Spartaco destinato su croci a perire dissanguato tra quest’orda di ribelli e flagelli di Dio, povero come chiosa d’una vecchia Vita di suor Maria Agostina della Congregazione delle Suore di San Giuseppe in Torino, povero come un inutile protendersi verso le cosiddette parole inutili del cielo, mentre tuonano le profetiche imprecisioni dei notabili al culmine della querimonia. O regno da cui fugge Scaramelli col suo Direttorio interessato a condurre 1857 sulla via della contemplazione le anime, figurati un po’, le anime, ohibò. Fuori del tempo, stantio come un ritratto di uomini che raro parlano, in quest’era sociale, dentro la folla densa di multiformi amori, io al compiere ventidue il Tau del vivere (shalòm) nessun uomo, nessuna donna rinnego neppure i chiosatori strizzaocchi seri e faceti dei ministri di Mammona. Solo consolandomi con ira e con fragile interesse contemplo la Morte incarnata per æones.
ERACLE Mettiti la maschera rossa, mettiti la sciarpa nera, mettiti il mantello dorato, mettiti il cappello colorato. O mia Chimera, mentre così inveivano, ho volto gli occhi e sono corso via. Essi non m’hanno visto, han continuato a parlare, sicché credo come i Titani ancora rotolino massi. Ho volto lo sguardo al Sole, ebbi fatica a guardare; immerso nel grigiore connesso in diecimila connessioni, ci voleva Eracle perché potessi accendere il rogo. Più forte di lui fui: la camicia di Nesso immersi nel gran lago di neve e ancora non cessa di bruciare; certo brucerà tutto il mondo. Nel mondo riarso io, uomo arso, carpirò al vento la vita.
DIANA Giusto è inaugurare se stessi con versi, giusto e bello, e vero come l’autunno, stagione senza prezzo, sommersa dal ghiaccio di un’età a venire, scuro esito che porta di là dal mondo... Iperborei, e voi che fuggiste nascosti nella notte... O Diana, tu che hai dato riposo presto svegliali e ricacciali a vivere. Per me preferisco star solo e non guardarmi mai alle spalle se qualcuno rida: rida pure e ne possa trar coraggio, ovvero suoni nella gran marea come il fastidio d’un rumore inutile, labile fuoco sul mare.
DIONISO Venne al mondo: lo imprigionarono perché era nudo.
ERMETE La cosa inutile è stare soli al mondo piangendo Alfesibea perduta. Per voi è scartabellare dizionari e libri. I diecimila vocaboli in più Tommaseo conobbe, forse centomila. Altri copiarono pedissequamente. Guardaci! gridano, ma l’Ombre e il loro specchio tacciono sempre: di là arsero i libri. L’Akh e il Ba danzano cento balletti incomprensibili. Guardati dentro nel cuore, sii felice a contemplare hevél, sii felice. Sii felice alla porta di Gehinnòm, sii felice, dammi la tua mano, voglio legger la sorte. Vuoi scappare? Ben mi sta che tu fuggi, ben ti sta che tu fuggi, vo i’ cantando come Arnaut e Jaufré con la mia lira echi di Pound. Può darsi anche che il mondo si fermi un istante. Può anche darsi che sbocci un fiore nel vuoto più vasto. Ah, un istante! Arnaut chiude la porta, di là rimangano le stelle e la luna, i fiori e il sole. Arnaut se n’è andato; Cheiro, Croiset, dateci ragione: non c’è verso di raggiungere lo Swami.
ANANKE Spesso danzando al suono delle parole (Parigi Londra Tokyo Turku Pietroburgo Malaysia Swaziland Terra del Fuoco Bukhara Manciukuò Siàm e luoghi anche un poco più remoti) viaggiai lontano. Viaggi? domandano; mentire è necessario. Quando una volta il mondo era com’era, nessuno chiedeva così poco, forse: Lontano è il cielo? Le stelle erano atomi, soffocava l’umanità di Empedoklès nel vulcano del mondo. Eràclito, splendido Eràclito, sapevi tu dare un’occasione dorata? Tornano dal mare lontano navigatori d’Indie, ed i racconti s’accordano coi miei, navigatore dell’ombra. Alfesibea la chioma lunga e sottile mi offre, e la tenera necessità di vivere. Così io guardo nel ventre doloroso della notte: oltre il cammino mi si offre Ananke, la Necessità, madre struggente. Io rivolgo le mani a afferrare la pioggia del cielo.
28.I.1978
Agili nel sogno
Oh, dov’è la stirpe di coloro che cantano, agili bimbi nel sogno?
10.2.1978
La caduta dal mondo
Talvolta - quando cado dal mondo sulle sponde riarse d’un deserto in margine alla valle impenetrabile dove si perdono i vivi, porta di Ade - tra le mani il calice fresco d’un fiore sboccia, e baciando il suo cuore scendo giù per la ripida erta verso valle ove sorge, sommesso, in lontananza, un lago, che vaghezza non cinge che a morirvi. E io, che le sue onde scruto, compongo canzoni a risvegliar memorie, a dar ali alla mente ed al pensiero.
12.III.1978
Erich Zamma
Erich Zamma volava sul vento. Erich Zamma raccoglieva cesti di fiori.
Chi vide Erich Zamma gettarsi nel vasto deserto sotto la luce di Venere quando illuminava la Terra come un sole? Chi vide Erich Zamma danzare tra i silfi gli elfi e i folletti nell’impenetrabile dolcezza d’un’epoca di fate all’inizio del mondo, prima che scoppiasse la vita, principio dell’uomo? Erich Zamma tra l’abisso e il caos spesso procede, per la strada della memoria. I suoi ricordi, la sua anima che fu Erich Zamma con parole non sa esprimere. Egli canta alla Luna, un essere beffardo che lo beffa crudele, ma Erich Zamma non sente. Egli conosce l’agglomerarsi del tempo, i secoli informi come presero esistenza sopraffacendo l’Uomo, la Donna resa schiava dall’illusione eterna, e i figli della morte avvolti in un sudicio vischioso manto, e il fuoco spento che cova sotto la cenere, che Erich Zamma da sempre cercò di riaccendere, il fuoco del Sole, dal velo delle sfere libero come un canto che nessuno può udire. Chi non morì mille volte non è degno di essere, passa beffando se stesso una vita senza scopo e nell’abbraccio freddo conclude la propria speranza. Chi non morì mille volte non è degno di splendere, la sua esile fiamma è soffocata dai vapori e si dissolve in basso sfrigolando con raccapriccio. Chi non morì mille volte non può darti la mano, è un lago di specchi infranti, una madre nera, polo d’incontro delle soffocazioni. Chi non morì mille volte non sa guardarti negli occhi; i tuoi occhi, Erich Zamma, sono una lampada ardente, il fuoco inestinguibile d’un abbraccio che uccide. O tu dipinto in mille versi dalla vita, incoronato di gemme, di germogli giovani, come potrebbe vedere il tuo cuore, la spada del tuo essere colui che oscuramente, pronunziando per noia in una sera di morte parole buie, su monti senza tregua corre sapendo di dover cadere? Chi non morì mille volte non è degno di vederti, Erich Zamma dalle mani d’oro, dal passo senza confine.
Gli Dei trassero se stessi dai vortici della morte, si tessé il loro essere con le maglie della distruzione, la gioia emerse da oceani di dolore.
O tu che voli sopra i mondi, lanciato come un sasso da una mano ignota, chi ti coglierà? Chi saprà raccontare la storia, la verità dei tempi in cui tu colpisti te stesso nell’insopportabile disperazione e una mano ti raccolse, come un fiore nel grembo del mondo, e un volto ti apparve, che ricolmò il tuo essere, e una parola fu detta, adeguata al tuo rimpianto? O Erich Zamma, nostalgia infinita, chi non morì mille volte non merita di udirti, non sa comprendere il tuo abbraccio, la carezza del grande oblio. Veder la Dea non sa, l’origine e il vuoto non ha raggiunto, mano non ha da colpire le Porte, le vede e non può dirne ed ogni volta vuole sfondare, ma senza uno sforzo trova se stesso di là, ma senza luce, senza una mano che gli accenda il fuoco. Così Erich Zamma scelse mille volte di morire, e arrivò proprio sull’orlo; si gettò ad occhi chiusi e fu confitto nel doloroso spazio della morte. Poi emerse dal nulla e intrecciò con le mani una stuoia volante, una speranza insensata, e oltre la follia, nella radice perduta dell’uomo, volò sul margine tra abisso e scienza, tra la Corona e il Nulla. Così gli spiriti della terra più non conobbero l’uomo, così gli spiriti dell’aria più non videro la sua intelligenza, così gli spiriti dell’acqua più non ebbero la sua anima. Erich Zamma volò e si perse, attraversò il fuoco e la morte. Chi ha visto Erich Zamma, dite, chi lo ha visto? Datemi le sue mani per prendere in mano la morte, datemi il suo cuore per fissare lo sguardo nel sole, datemi la sua splendida coraggiosa vittoria. (Ho visto Erich Zamma un giorno, errava sui secoli, al suo sguardo risposi con la mia cautela: diede un riso beffardo e, stupefatto, vidi mutarsi il mondo in uno specchio, e il vortice della morte si dissolse nel cuore, e con lo spirito bruciato dall’incendio vidi me stesso).
14.III.1978
Sulla faccia dell’acqua
Solo è vivere dare a larghe mani sulla faccia dell’acqua vita e amori. Chi si ferma in un porto non può fare la via che porta all’isola lontana. Ha lasciato una traccia sulla terra presto dissolta in sabbia: non esiste.
23.III.1978
Ad Afrodite
Non fuggire, Afrodite, antica amica: mi guidasti dal seno della giovinezza. Figlia di Dio non andare lontano, Afrodite splendente non lasciare la casa. Io sono un tempio, e un altare per te sempre ho approntato, né mai t’ho rifiutata, dolce amica compagna delle estati d’oro. Spesso lasciai la terra per venire a te, Venere Urania inaccessibile e lieta. Ti ho conosciuta dalla giovinezza, non avevo rispetto e tu ridevi allegra. Tu sei bambina per chi bambino è, fuggitiva per chi vuole inseguire; ma a me che non voglio rincorrer questa vita da’ tra i tuoi doni un canto e un abbraccio per cui mai non scordi, o figlia di Dio, d’esserti compagno nelle epoche oscure. Colui che tu conduci per mano ha un grande dono dal cielo, se sa fare del canto sentiero: su questo sentiero io e te corriamo veloci inseguendoci, splendida Afrodite, quasi nel tempo di colui che visse attimi eterni d’infanzia e poi dormiva, Endimione figlio del sonno, e poi dormiva, e a lui Selene dolce veniva e lo guidava nei meandri del sogno. Così anch’io possa con te sognare senza fine cantando inni lucenti verso il cielo, verso il cuore del cielo che tu sai quanto spesso ho guardato per cercare il tuo volto, il tuo vivere gioioso, Afrodite del mare.
4.IV.1978
Nella limpida profondità del mattino
Ho saputo di te che fallisti una meta della tua vita - subito il ricordo m’è tornato dei giorni in cui ti rincorrevo. Tacito, come un sopito lamento mai portato alla fine, lo sguardo s’è chiarito e t’ho veduta nella limpida profondità del mattino.
29.V.1978
Su di noi
Su di noi rimani. Il tuo sguardo percorre tutto il mondo, né mai in luogo alcuno sosta. Non posso fermarti, non posso invitarti. Chiudi tu le silenziose labbra con un bacio.
29.V.1978
Primo canto alla dea oscura
Io sono per te come il vento, le foglie e i rami. Io sono per te come il mare, il gorgo e le scure alghe del fondo. Sono per te l’amante che morendo t’avviva. Tu sei per me la vera tristezza del vivere, il vero inganno senza fine.
18.VI.1978
Secondo canto alla dea oscura
Che cerchi, dolce apparendo, donna che sollevi il volto della bellezza a risplendere nell’ampio circolo della saggezza senza fine? Che cerchi, tenero specchio, nel tuo lago di ori intatti, di argenti incorrotti dalle viscere del male, di esseri umani vivi come mai furono vivi altrove? Che cerchi, o dispetto del vivere, disciogliendo nel buio la tua lunga chioma, colorando nei fumi d’incenso di ampi spazi il tuo errare? Vieni, coglieremo insieme il bel fiore biancodorato della levità, la carezza dei bambini che fummo e il ricordo, il sottile rimembrare cose lasciate. Vieni, castelli neri costruiremo nel mare per noi due e le onde con freschezza scioglieranno il nostro nodo d’angoscia.
18.VI.1978
Terzo canto alla dea oscura
Nostro non è il morire: così la riflessione ci spinge al largo. Indietro non torniamo: tu segui i miei passi, i tuoi io seguirò. Per diverse strade camminando, quando tutto sarà spento, uniremo le mani sopra il nulla.
18.VI.1978
Quarto canto alla dea oscura
Dammi solo l’anello, il piccolo anello di giada che chiude i mille draghi, che chiude i mille mondi, che chiude i mille segreti. Dammi solo l’anello, il piccolo anello cesellato che contiene i mille occhi, che contiene i mille dèi, che contiene i centomila errori. Dammi solo l’anello, il piccolo anello fiorito che rivela i mille canti, che rivela i mille colori, che rivela le centomila verità. Dammi solo l’anello, il piccolo anello di giada.
18.VI.1978
Enigma
Il bene ritorna, il male ritorna. O tu che andasti oltre la notte e il giorno, non lasciare che imperi il signore della morte.
Il bene che feci è tornato, il male che feci è tornato. Ogni cosa è legata alle sue proprie cause, né mai si scuote il giogo che le tiene. O tu che andasti oltre le sfere del tempo, portaci al di là del regno della morte. O tu che chiami, perché mai mi chiami? Ecco le tue catene, toccale con mano. Il bene ritorna, il male ritorna, e dal gioco che include le loro conseguenze uscirà, se apri gli occhi, il tuo viso ridente.
Il bene ritorna, il male ritorna. Se tu mi chiami, io ti raggiungerò. Ma non vuoi tu alla fine lasciarmi con un abbraccio? Chiamerà nel silenzio, nessuno conoscerà. Tutto il grigiore del mondo lo spezzerà. Così morte e vita raggiunte lascerà, e non sarà che vento. Tu lo conoscerai.
Giugno 1978
I fiordalisi
Spesso vidi il cielo, poi ebbi paura e fuggii. Ora mi fermerò in un campo di fiordalisi conoscendoti e cercando senza fine con te l’orma un tempo smarrita.
19.VIII.1978
Quattro colori
Quattro colori ho conosciuto: uno era il colore della morte, l’altro il colore della vita, il terzo il colore del destino, il quarto il colore del ricordo. In questo mattino ho rivolto lo sguardo al di là, nell’infinito tra le costellazioni, e corrisposero a me come in un canto cento figure di danza, cento mari dove profonde immagini raccolsi. La troppo nota infamia del domani, larva perenne vuota di ogni Idea, sgorgò nel fondo e cupa vi rimase senza rivivere. 11.IX.1978
La Guardiana
Dolce Guardiana posta alla mia soglia per ricacciarmi indietro, per negarmi di vedere la Piena, per proteggere il mio fragile incombere in regioni scevre d’ogni pietà, prive d’amore, lascia perdere, donami il tuo scettro, la mia vile ripulsa non guidare; dammi invece il tuo chiaro inattaccabile profondissimo sguardo.
11.IX.1978
Dalla terra dei Mori
Dalla terra dei Mori son tornato, o forse non ancora. Parrebbe che si staglino all’orizzonte barlumi, però da gran tempo così pare, un’illusione è forse, un pervadere della morte il mondo, un disperdere le chiome della Virtù nel Vizio, un ricorrere di temi da lungo tempo cadaveri. Il mio cuore s’inceppa, la mia fronte di sudore s’imperla. Non so dire che cosa sia, se Lei o Lui, la causa.
11.IX.1978
Un canto per l’esule
Per te quest'oggi modulo il mio canto, io cantore accecato dal cosmo perduto in spazi che non vedo, proteso a luoghi che non conosco.
Dammi la purezza di neve di una parola imperiale, l’albero di melograno coi suoi frutti raggianti.
Donami il sentire che viaggia oltre gli uomini di là dall’intrico dei sogni e delle finzioni.
Di sterili lamenti mi sono stancato: il dolore e la guerra dilettano il cuore dell’uomo.
Il suo cuore ha crepe onde tralucono inferni, meteore scagliate contro cielo e paradiso.
Io non so donde partire o già sarei partito verso l’Isola Bianca madre degli esiliati.
Mentre i cavalli scuri corrono nel silenzio che mai dirò, o mia dea? Tacerò all’infinito.
Eternità trascorrono, con noi giocano a scacchi, perduti asili, terre a cui nessuno arrivò.
Odo il loro accordo e l’armonia del vuoto: sull’arpa decacorde muoion l’occhio e la voce.
Guidami sulla rotta avvolta dalle nuvole, mentre alla Verde Terra conduco il mio scafo.
Vermi e parole pullulano nel ciclo temporale; aldilà me ne andrò ove non sono che stelle.
15.IX.1978
Mi tuffo in giù
- Mi distolgo da te, amico della terra. Mi tuffo in giù, nel Caso. - Risali? O non ti perdi giù nella vasta Eternità? - Mi getto come in un fosso omo ebbro. Poi sale da me una strofe che loda il canto e il vivere. - Di chi figlio è il vivere? - Non risalgo dal mare, come puoi chiedermi tanto? - Tanto o poco è lo stesso. - E però è il segno della tua morte.
15.IX.1978
Legherai i Leoni Di là dalle sponde del mare della vita, o Madre, tu m’abbracci e ridi, e il tuo riso mi prende come in un cielo di stelle inarrivabile oltre il regno del sole.
O dolce Donna, dietro il paravento quante volte intravidi cosa che ignoravo e distoglievo gli occhi temendo di trovare un troppo profondo azzurro che non potessi guardare.
Madre, tu delle epoche del mondo illuminata Signora, legherai i Leoni: sotto il riflusso chiaro delle stelle per quanti secoli abbraccerò il tuo cuore!
E danzeremo in serena rivalsa sino alla fine del mare.
25.X.1978
Gli estuari
Quando poi avremo conosciuto la nostra splendida eterna vicinanza, nella veste di mille colori degli estuari verseremo noi stessi nell’oceano.
Sarà spento il ricordo delle nostre brame, né io mai sarò stato, né tu mai sarai stata. O Madre, correremo intatti e senza forma nel regno invisibile versando pace sul mondo.
25.X.1978
Incatenami a te
Incatenami a te... oh, tu non hai catene... Affascina il mio cuore... oh, tu non hai magia... La dolce parola che disvela sola tu hai per noi che discorriamo, e il levare d’un volo la mente appresso agli occhi allorché io ti guardo, insensato, oltre le stelle.
25.X.1978
Uniti torneremo vivi
O tu, che hai nome solitudine infinita, o tu, più vera d’ogni parola detta, lascia che noi restiamo e non compiamo, lasciaci essere senza rimanere, lasciaci vivere senza ricordare. O tu che hai nome immemore ritorno, lasciaci ancora tornare alla fonte per rivedere senza rammentare. Io e te che a lungo vaghiamo senza pace uniti, forse, torneremo vivi.
25.X.1978
Un ruscello che sgorga dietro i monti
Sempre nella vita ho cercato la bellezza, sempre ho cercato l’essere amoroso che conduce i viventi alla luce, sempre ho guardato la Stella del mattino e fino a Vespero ho seguito il suo corso invisibile. Sempre ho indagato ove nascesse il mio mare, questo fiume che corre infinito, e ho diretto lo sguardo dentro il tuo silenzio e il tuo volto, o Madre, o dea fanciulla, quante volte ho ammirato. Lacero, solo, abbandonato, stolto, i cani del mondo han condotto la mia vita, e ho baciato talvolta i piedi della morte, eppure sempre in verità ho gettato il mio stendardo al sole, eppure sempre ho alzato il cuore al canto, destreggiandomi con forza. Ora del correre sazietà m’ha raggiunto e della stupida cerca cieco son diventato; non esiste per me che la tenue illusione onde mi pare iddio chi è trascorso in silenzio. Sempre ho cercato la gloriosa forma che dissipa le ombre e rinnova le canzoni; ora non so che fare, non so dove andare, ma conosco un ruscello che sgorga dietro i monti: limpide sono le sue acque, verdi muschi le accarezzano.
25.X.1978
Odisseo navigai alla tua isola
Ancora una volta m’hai donato un canto; non cesserò dunque d’essere un poeta? Spesso nei giorni dico: Ecco è seccato il gran fiume e non torna più angelo nessuno, e però tu te ne vieni e le fiumane sonore, dentro il mio cuore penetri e ti fai dilagante parola. Eppure mentre scrivo tu sei silenzio e nulla perverrà di ciò che odo a chi non sa ascoltare. T’ho conosciuta in un giorno come questo, quand’ero entrato in un regno ove nessuno era vivo, e tu eri un sorriso, solamente un sorriso vagante e sperduto, finché t’afferrai e illuminasti la vasta caverna, più luminosa d’ogni luce mortale. Odisseo navigai alla tua isola e tu, Circe o Calipso, avesti vita.
25.X.1978
Mille nomi
Hai mille nomi e alcuni hanno pericolo: oh, è forse vero che Amore è la morte? E tuttavia, potessi consumarmi bruciato a morte senza alcuna grazia. Lasciami essere; consunto nelle ossa, svanirò infine nel regno del non essere. Così ti dico, ma tu non devi credere, sta’ attenta, invero in me non v’è che inganno: forse alla fine brucerai tu nel vento. E del resto che muta, qual è la differenza? Quale che sia di noi quello che muore, forse che uno non siamo e non vivrà l'uno nell’altro? Nel mezzo dei tuoi sogni stacchi le cose per vederle chiare; quando però la luce ti dissolve regalandoti cento parole infuocate tu, divenuto centomila esseri, non avrai forse pietà per il tuo amante? O dolce Madre, o tu forma dell’essere circoscritta eppur viva, un luogo ci daremo certamente a vicenda, e sarà ricco dei nostri fiori.
25.X.1978
Lo stupore e la morte
Datemi stupore e morte, ch’io consideri il caso e il suo incidere in forme uomini, donne ed esseri senza nome. Come oscuri sono il procedere e il lago ove si perde l’idea e il modo come si costruì l’universo: la prima Era del mondo, sotto la prima madre il primo essere vivo tuffato nel vento, nel mare dei desideri dissolti. Pure non è il segreto se non, limpidi specchi luminosi, lo stupore e la morte. 7.I.1979
La morte e il sogno
- O Cavaliere che lento te ne vai sullo scheletro d’un cavallo esausto, puro fantasma infernale, qual è la tua meta, dove guidi te stesso? - O viaggiatore, credi forse, cieco, che ti risparmierà la morte, e il vento non gelerà le tue marcite ossa? Vago intorno senza guida né scopo, soltanto conoscendo la morte e il sogno. - E che è, Cavaliere, sogno? che è morte? - Questo tuo vivere, il magico flautista che conduce la folla dei ciechi all’oceano, le onde alto levate e il canto dei gabbiani, lo stridere dei corvi nei campi, tutto, tutto è sogno, tutto è morte. - Perché vuoi tu produrre spavento e timore, o Cavaliere? Che ne ottieni, che stemma, che limpido sonno? - Solo, o vivente, la morte e il sogno onde tu chiedi che sia il turbato mio vivere, il mio andare continuo. - Sai dunque dirmi che siano realtà, giustizia, il regno di là dai venti? - Ombra per ombra, ombra ti dono e cerchi. Ombra tu resti e all’ombra vai chiedendo della morte e del sogno. O Cavaliere, tu lotterai con me nella notte. Le nostre guerre intarsieranno di gemmati rilievi i regni della morte e del sogno.
7.I.1979
Il sogno delle colline
Conoscevo sulle colline un sogno che mi guidava nell’oscura valle dell’esistere, ero un uomo ricco d’un mistero, d’un segreto possessore, artista del disporre i pensieri, e l’ordine era nel mio cuore, grande orma di Dio, architetto e signore.
Che potrei dire dei giorni in cui conoscevo sulle colline un sogno che mi guidava nell’oscura valle dell’esistere?
Ho sentore dagli antichi racconti che esista un segreto giù nella valle, tra i fiori e i sepolcri, un mistero che sboccia tra le tue mani. L’ho veduto, l’ho scelto, l’ho conosciuto e preso. Ora ho un segreto, un mistero da nascondere con cura.
Che posso dire se ho un sogno che mi guida giù nella valle oscura del vivere?
7.I.1979
Moira
Moira tesse la trama, la chioma Ebe discioglie. Io risollevo il capo e guardo il bacio ardente della luminosa primavera.
7.I.1979
Com’era bella la morte azzurra
Di là da notte e giorno sono andato e ho conosciuto la morte azzurra. Com’era bella la morte azzurra, lo sguardo dolce e libero sopra l’esistenza. Com’era bella la morte azzurra, quando la vidi partire.
Fu doloroso il distacco, l’addio, la libertà. E seppi che dovevo girarmi e non potei girare, né di qui né di là. Neanche qual ero me ne potei stare e alla fine dei giorni non saprei, se me ne stessi così, che sarei.
10.I.1979
L’eremita alla donna
S’esser sedotta vuoi, e tu seduci. S’essere amata vuoi, ama tu stessa. S’esser lodata vuoi, apri la bocca. S’esser guardata vuoi, socchiudi gli occhi. Se non vuoi nulla, e tu non chieder nulla. Qui vive un eremita senza intenti, che dà soltanto ciò che gli si chiede.
10.I.1979
Ai Poteri del mondo
O Poteri del mondo, alzo le mani e vi chiamo. Padre del vento che li conducesti, me conduci sulle parole dell’abisso alate verso il lago ricolmo di sangue dove si abbeverano le ombre, puro fiume sotterraneo del tempo trascorso, immagine fatata del paese scomparso e dell’enigma d’esistere ogni giorno.
O Poteri del mondo, alzo le mani e vi chiamo. Il cuore e il pensiero del cuore dirigo più in là della mente e dei sensi.
O Fanciulla d’abisso, l’acqua sorgiva e il fiore della conoscenza porgici tu nel cavo eburneo delle tue mani.
21.I.1979
Le parole di Mencio
Dio, ho letto le parole di Mencio. Egli diceva: L’uomo che è vecchio ha diritto di esser lasciato solo a familiarizzarsi con l’idea della morte. O Dio, quanto vicina è quella sua vecchiezza! Ho passato i miei anni a cercare un fiore che sboccia solo in solitudine. Ho udito spesso le parole volgari che conducono, massa, potere, dominio della morte, ma io seguo le orme di Mencio; solo chiedo che mi lascino in pace a riposare nella cerca impossibile e fatata dove cerco le silfidi e gli dèi e rifuggo dal dire vano, sazio di parole e di vento.
21.I.1979 |