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SAADI E IL VII CENTENARIO

DEL SUO

«GIARDINO DELLE ROSE»

    

Mehdi Vakil

    

Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente - Roma 1941

Mehdi Vakil, Saadi e il VII centenario del suo «Giardino delle rose»

Nota. Ho trascritto questo testo lasciandolo sostanzialmente uguale all'originale. Le uniche modifiche consistono in qualche correzione ortografica e di trascrizione nonché nell'introduzione [tra parentesi quadre o con la dicitura N.d.C.] della traduzione dei testi in francese e di qualche altra brevissima spiegazione. Ho segnato nei nomi persiani - non in quelli geografici - le vocali lunghe ma non mi sono preoccupato degli altri segni diacritici, che in Internet non si possono rendere decentemente, tanto più che si tratta di nomi e termini notissimi agli iranisti.

Dario Chioli

   

Il patrimonio letterario dell'Iran conta fra i suoi preziosi, multicolori gioielli, gemme di tale luminosa bellezza che, sia pur contemplate da inesperti, suscitano un'ammirazione fervente.

Tale la magia del Libro dei Re di Firdusi [Ferdousî], del Masnavî di Movlavî Jalâloddîn Rûmî, dei Ghazâl [Odi] di Hâfez, e delle Kollîyât [Opere complete] di Saadi [Sa`dî]. Per la bellezza della forma e la ricchezza del contenuto, emana da questi capolavori della letteratura persiana un irresistibile fascino, se pur di varia natura. Diverse infatti sono le emozioni e i sentimenti che in noi suscitano questi quattro grandi poeti: si resta soggiogati dall'epica di Firdusi, inebriati dal misticismo di Movlavî, rapiti dalla lirica di Hâfez, incantati dalle immagini belle e delicate di Saadi, poeta dai cui dolci versi ricchi di fantasiose espressioni stillano preziose essenze inebrianti, e che pure, in occidente, è noto soltanto sotto l'aspetto di poeta moralista.

Da qualche anno il nome di Firdusi è divenuto più familiare all'orecchio degli europei; forse perché in occasione del suo centenario, celebrato sei anni or sono non dall'Iran soltanto, ma dal mondo intero, i più eminenti orientalisti hanno parlato del poeta e della opera sua. L'Italia si era già interessata da tempo all'epica firdusiana. Nella seconda metà del XIX secolo, il Pizzi ci diede una traduzione del Libro dei Re, che fu stampata a Torino tra il 1886 e il 1888. Il grande poeta che nei centomila versi dello Shâhnâmeh ha cantato e immortalato le tradizioni dell'antico Iran, occupa nella nostra letteratura lo stesso posto che Virgilio ha nella letteratura latina.

Quanto a Movlavî, nulla potrà meglio farcelo conoscere, del giudizio di uno dei più profondi filosofi contemporanei, Enrico Bergson. In uno dei corsi tenuti alla Sorbona, egli così parlava del grande mistico persiano:

«Movlavî-Rûmî è il più grande dei filosofi iranici, e il suo Masnavî è una delle opere più importanti che l'umanità ci abbia dato».

E Hâfez, cui era noto il divino segreto d'armonizzare il bello al sublime, strappò a Goethe questo grido d'ammirazione:

«Oh Hâfez! quale follia è il volersi paragonare a te!». Basta leggere il Westöstlicher Diwan per vedere qual culto il grande poeta tedesco nutrisse pei poeti persiani, e in particolare pei ghazâl di Hâfez, in cui pareagli trovar quasi l'eco della propria musa.

Ma di tutti i poeti persiani, Saadi è il solo che goda in occidente di una grande popolarità.

E ciò perché egli offre - come dice Barbier de Meynard nell’introduzione alla sua traduzione del Bûstân - tutto l’insieme di qualità che esige l'estetica moderna.

«Il suo inalterabile buon senso, il fascino e lo spirito che anima le sue narrazioni, il tono dell’indulgente ironia con cui censura i vizi e le traversìe dell’umanità» (1) tutte queste caratteristiche ricordano al lettore occidentale sia la finezza e l'elegante facilità dei moralisti latini, sia il brio dei loro parodisti del XVI secolo. Ma soprattutto l'opera di Saadi, meglio d'ogni altra si presta, almeno in parte, alla traduzione e, resa in altro idioma, meno delle altre perde della sua grazia originale.

(1) ERNEST RENAN, Journal  Asiatique, 1880, XVI, p. 30.

Goethe ha detto: «Chiunque voglia conoscere un poeta, deve cominciare col conoscere il paese di quel poeta». Mi sia consentito quindi ricordare qui brevemente, a guisa d'introduzione, ciò che nella storia del mondo rappresenta la civiltà iranica, le cui inesauribili risorse tanti grandi poeti hanno ispirato attraverso i secoli.

L’Iran, che nel corso della sua lunga storia gloriosa molto ha ricevuto dall'esterno, è stato esso stesso «un grande dispensatore di idee, di credenze, di tecniche e di bellezza». (2)

(2) PAUL PELLIOT, Allocuzione pronunciata alla Sorbona in occasione della celebrazione del millenario di Firdusi. Pubblicazione della «Societé des Études iraniennes», n. 11.

Questo paese, che assicurava il transito delle carovane tra i porti del Mediterraneo e L’Estremo Oriente, era il ponte di passaggio sia per i commerci sia per le idee fra l'Oriente e l'Occidente.

Dalle relazioni dei viaggi di Marco Polo apprendiamo che, già nel XIII secolo, colonie europee di diverse nazionalità si erano stabilite nel paese. L'attenzione del grande viaggiatore fu soprattutto attratta da una delle città della Persia settentrionale, Tabriz (Tauris), che accoglieva, a quell'epoca, una numerosa colonia veneziana - egli scrive:

«La città è ottimamente situata, sì che dall’India, da Baldac, da Mosul, da Cormosa, da molti altri luoghi, vi affluiscono le mercanzie; ed in gran numero, per comperar quelle merci portatevi da remote contrade, vi vengono mercanti latini, specialmente genovesi. Vi si comperano pure pietre preziose, di cui hanno grande abbondanza. È città di lauti guadagni per i mercanti viaggiatori». (3)

(3) Il Libro dì Messer Marco Polo. Riconosciuto criticamente e per la prima volta integralmente tradotto in lingua italiana da Luigi Foscolo Benedetto, Milano, 1932, pp. 32-33.

Marco Polo, nel suo viaggio verso la Corte dell’Imperatore di Cina, sbarcò nel 1271 a Lajazzo, sul golfo di Alessandretta, penetrò nell’Iran dal nord, attraversò il famoso deserto di Lut, e passò la frontiera persiana dalla parte del Turkestan. Le descrizioni che egli ha lasciato di molte delle nostre città che egli visitò nel corso del suo viaggio, ci danno un'idea della prosperità industriale e della floridezza artistica della Persia di quel tempo. I bei velluti e le finissime sete di Kachu, le turchesi intagliate e i ricami di Kerman, dall’infinita varietà di disegni e di colori, avevano sopratutto destato la sua ammirazione. Ma il particolare più notevole e degno di essere ricordato è che la sola lingua che Marco Polo abbia veramente conosciuto e parlato durante i diciassette anni del suo soggiorno in Cina, alla corte dell’Imperatore mongolo, sia stata proprio quella persiana.

Indizi certi dimostrano che la lingua iranica, destinata a divenire la lingua dotta di tutto l'Oriente, si era già imposta a quell'epoca a tutti i letterati del mondo musulmano, dalla Turchia al cuore dell’India, e sino ai confini della Cina. È stata rinvenuta, or è qualche anno, una lettera diretta, nel 1246, dal nipote di Genghis Khan al papa Innocenzo IV: essa non è redatta né in mongolo né in turco, come sarebbe stato logico aspettarsi, ma in persiano. L'illustre sinologo Paul Pelliot ricorda a questo proposito un altro esempio ancor più sorprendente: «Agli inizi del XV secolo - egli scrive - una flotta cinese solca l'Oceano Indiano per portare gli ordini dell’Imperatore dei Ming sino alla costa orientale dell’Africa. Passando per CeyIon, essa redige un’iscrizione in tre lingue: in cinese, il che è più che naturale, in tamil, lingua indiana, ciò che ancora si comprende, ma pure in una terza lingua, il persiano».

Mi sono soffermato su qualche particolare del viaggio di Marco Polo, perché egli è un contemporaneo di Saadi e ci dà, colle sue relazioni, un’immagine per quant’è possibile precisa dell'ambiente in cui si svolse la vita del nostro poeta. Al tempo in cui Marco Polo attraversava per la prima volta le regioni settentrionali della Persia, Saadi viveva infatti ritirato in un pittoresco romitaggio, situato nel mezzogiorno della Persia stessa alle porte di Shiraz. Insensibile agli onori e alla venerazione di cui era circondato, egli si abbandonava alle sue meditazioni e trascorreva in pace i suoi giorni, com'egli stesso ci racconta in una delle sue Qasîdeh, sotto le pergole di gelsomino e i rosai del suo lussureggiante giardino, scrivendo e rievocando i suoi viaggi e cantando le bellezze della natura.

Nel 1471, proprio due secoli dopo lo sbarco di Marco Polo a Lajazzo, sua patria, la Repubblica veneta inviava alla corte di Uzun Hassan, sovrano di Persia, un'ambasceria guidata da Caterino Zeno. In seguito a tale missione, un buon numero di artigiani persiani furono invitati a recarsi a Venezia, ove infatti si stabilirono, ottenendo grande plauso coll’arte raffinata dei loro lavori. «I loro disegni si diffusero sino a Norimberga e ad Augsburg, ove diedero luogo alla pubblicazione di opere speciali, di modelli e di disegni, in cui la fusione dei motivi era adattata ai lavori di oreficeria. Queste opere, e in particolare quella di Virgil Solis di Norimberga, si diffusero assai lontano, raggiungendo persino l’Inghilterra, dove l'oreficeria dell'epoca della Regina Elisabetta reca in modo evidente le impronte dell’influenza dell'arte persiana». (4)

(4) SIR PERCY SYKES, A History of Persia, Londra, Macmillan 1921, E. II, p. 142.

Scendiamo ancora di centocinquant’anni circa e vedremo l'arte persiana suscitare l’interesse e la curiosità delle corti europee. Ecco Carlo I d'Inghilterra chiedere agli agenti della Compagnia delle Indie Orientali di portargli - per citare le sue stesse parole - qualcuno di quei «deliziosi manoscritti persiani»; e Carlo II ripudiare la moda d'origine francese per adottare il costume persiano, seguito in ciò da tutta la sua corte.

Se dal campo particolare dell'arte passiamo a quello dell'attività spirituale, considerata nel suo insieme, vediamo come il grande movimento di pensiero, che si verificò nel XIII secolo, molto debba alla Persia. Fu questa infatti a salvare dal gorgo del tempo, ove per sempre si sarebbe perduto, il tesoro della scienza e dell'esperienza ellenica. Dalla Persia, questo tesoro è passato dapprima alle scuole di Bagdad e del Cairo e più tardi ai luminosi centri culturali degli Arabi dell'Andalusia; e furono gli scienziati e i grandi traduttori persiani quelli che trasmisero ai Maestri di Cordova la chiave di questo medesimo inestimabile tesoro. Devo qui ricordare l'opera del più grande di questi scienziati, il nostro insigne Avicenna, la cui fatica apportò al Medioevo sì larga messe di conoscenze. Ibn Sînâ, noto comunemente sotto il nome di Avicenna, era nello stesso tempo un gran filosofo e un gran medico. Il suo Canone costituisce il più importante trattato sulla medicina. Tradotto per la prima volta in latino nel XII secolo da Gerardo da Cremona, e riveduto da Andreas Alpagus de Bellum, il Canone di Avicenna fu assai conosciuto in Occidente durante il Medioevo. Max Meyerhof (5) cita trenta commentari medievali del libro di Avicenna, quindici edizioni in latino nel XV secolo, oltre venti edizioni parziali. Durante parecchi secoli le opere di Ibn Sînâ furono in certo modo considerate come fondamento degli studi medici e, alla fine del XVIII secolo, nelle Università europee, si studiava ancora il suo Canone.

(5) MAX MEYERHOF, in The Legacy of Islam, [Oxford University Press, 1931,] pp. 329-30 [cfr. la trad. italiana in: L'eredità dell'Islam, Vallardi, Milano, 1962. Il contributo di M. Meyerhof, Scienza e medicina, è alle pp. 327-373; su Avicenna cfr. pp. 345-346].

La sua enciclopedia filosofica, Ash-Shifâ (La guarigione) sembra essere alla stessa altezza del Canone. Secondo quanto afferma Louis Massignon «gli scolastici latini d'Occidente non hanno conosciuto altro della metafisica aristotelica che l'esegesi avicenniana, quale Gaudislavi l'aveva tradotta a Toledo».

Alle fonti persiane ha dunque attinto il XIII secolo la linfa di cui ha nutrito il suo straordinario slancio e la sua forza vigorosa e feconda. Louis Gillet, in uno studio pubblicato di recente, ha gettato una nuova luce sul contributo persiano al materiale che il Medioevo attinse alle tre civiltà, latina, greca e musulmana. «Il medioevo, egli scrive, deve quasi tutto all'Oriente. I nostri padri, i romantici, non si erano in questo sbagliati; essi avevano presentito ciò che gli archeologi hanno poi dimostrato. All'Asia Minore le nostre chiese debbono i loro campanili, alla Persia i loro archi, le loro volte, le loro cupole, allo smalto persiano le loro vetrate, ai tappeti, alle stoffe i loro capitelli e la loro decorazione.

«Fu la Persia a inventare l’inesauribile fantasmagoria romanzesca, il meraviglioso mondo araldico del blasone, la fauna ibrida, stilizzata, la biscia, il grifone, la chimera, la creatura volante, metà bestia, metà uccello; fu essa a dare le ali a tutti gli esseri della creazione e lanciò per l'aere quello sciame sovrannaturale, amalgama di disparate forme, che è ora di angelo ora di mostro. Dalla Persia si slancia il magico volo della fantasia, l'uccello azzurro del capriccio, dell'arabesco, dell’irreale: questo popolo di maghi - egli conclude - ha dato al mondo il dono dell'arte pura, della festa degli occhi, dell’inutile gratuito».

Questo paese, il cui genio si è espresso in modo superiore in ogni campo dell'arte, ha stimato la poesia al di sopra d'ogni altra cosa e ha creato una letteratura e una cultura che si sono imposte per secoli, come autentico classicismo, al prossimo e al medio Oriente.

Uno dei suoi più grandi poeti è Saadi.

Egli è fra i creatori che meglio hanno espresso, coi loro scritti, l'ambiente e l'altezza della civiltà che li ha ispirati. Non è possibile studiare uno scrittore senza comprenderlo, per quanto è possibile, negli avvenimenti del suo tempo. L'epoca in cui visse Saadi è una delle più tristi che la storia del mondo ricordi, una delle più tragiche della storia persiana e delle più sanguinose per Shiraz, la città natale del poeta. Il secolo di Saadi è il secolo delle lotte perpetue: lotta fra l'Occidente e l'Oriente, lotta fra la Chiesa e l’Impero, lotta fra la Persia e Turan, lotte intestine a Shiraz. In mezzo a tali rivolgimenti politici si svolse l'esistenza di Saadi. La rinunzia e la rassegnazione di cui son pervase le sue opere, l'odio profondo del poeta per la violenza e l’ingiustizia non sono che l'eco delle sofferenze di cui egli fu testimonio.

Nel IX secolo, la Persia cadde in una specie di feudalesimo e fu governata, sino al XIII secolo, da dinastie diverse, di cui nessuna riuscì mai a stendere il suo dominio sull’intero pese. A partire dalla caduta dei Selgiucidi, il mezzogiorno della Persia, la provincia di Fars, di cui era ed è tuttora capitale Shiraz, si trovava ad esser come una preda offerta agli avventurieri provenienti dal Turkestan. Verso la metà del VI secolo dell'Egira (XII dell’Era cristiana), una dinastia principesca, d'origine turcomanna, era riuscita a stabilire il suo dominio su questa Provincia e la difendeva energicamente, sia contro i governatori della Mesopotamia, sia contro i sultani di Kharezm. Questi principi, indicati dai cronisti col nome di Salgaridi, da quello di Salgar portato da uno dei loro antenati, o col nome di Atabechi, regnarono a Shiraz per circa centoventi anni.

Al tempo della nascita di Saadi, principe di Shiraz era l'Atâbek Sa`d ibn Zangî, quinto discendente dei Salgaridi, e non già lo zio di lui, l'Atâbek Takleh (o Tukla), terzo discendente, come molti orientalisti hanno opinato. Il regno di Sa`d non fu affatto pacifico. Non solo egli ebbe a difendersi contro due temibili invasori, ma, sbarazzatosi appena dei nemici esterni, egli dovette reprimere la ribellione del figlio, che, nella sua qualità di presunto erede, difendeva la causa del patriottismo e della guerra ad oltranza. Se si deve prestar fede ad alcuni storici, una vera e propria lotta a mano armata ebbe luogo tra padre e figlio; né quest'ultimo si arrese finché, abbandonato dai suoi stessi partigiani, non cadde atterrato da un colpo di mazza ai piedi del padre.

La fama di Saadi cominciò a diffondersi sotto il regno di Abû Bekr, figlio di Sa`d; e di ciò fa fede il seguente verso del Bûstân, preso dal panegirico che il poeta gli ha consacrato: «È ancora effetto della tua fortunata stella che Saadi viva sotto il tuo regno, poiché, sin che la luna e il sole brilleranno nei cieli, la tua memoria vivrà nei suoi versi». Lo stesso nome sotto cui è noto il poeta non è del resto che un soprannome poetico, preso dal nome del figlio di questo Atâbek, Sa`d ibn Abû Bekr, a cui sembra che Saadi abbia dedicato il suo Giardino delle rose. Nella prefazione al Golestân, Saadi, parlando delle speranze da lui nutrite sul suo lavoro, dice: «Se il favore reale lo abbellisce sarà di esso come della casa delle pitture in Cina e dei disegni del libro d’Erzeng. (*)

(*) N.d.C. Erzeng o Artang. Spiega Pio Filippani-Ronconi in una nota a p. 47 della sua traduzione Il roseto (Golestân), Boringhieri, Torino, 1965 che è una "opera dipinta da Mânî, fondatore del Manicheismo, che la tradizione popolare ricorda come illustre pittore".

«Io spero che il principe non atteggerà a noia il suo viso giacché il mio Golestân non è un luogo di tristezza, e soprattutto perché la sua fortunata prefazione è decorata del nome di Sa`d ibn Abû Bekr ibn Sa`d ibn Zangî».

Le notizie che ci sono state tramandate dal biografo di Saadi non sono sempre scrupolosamente esatte e ciò che si sa della sua vita è frammischiato di leggenda. Alcuni orientalisti hanno tentato di ricostruire la biografia del poeta basandosi sulle sue opere; ma vi sono solo parzialmente riusciti e il risultato delle loro investigazioni rimane ancora confuso. La recente celebrazione del settimo centenario del Giardino delle rose, ha offerto occasione, ai letterati iranici, di completare su qualche particolare questa biografia. Questi studi, riuniti in volume, sono stati pubblicati a cura del Ministero dell’istruzione Pubblica, sotto il titolo di Sa`dî-Nâmeh.

Per quanto me lo consenta l’insufficienza dei documenti, cercherò di tracciare qui brevemente la lunga ed operosa vita del poeta. Non ci è noto il suo vero nome; la posterità ci ha tramandato soltanto i suoi soprannomi di Mosleh-Eddîn, o Moshirraf-Eddîn. Nacque a Shiraz, probabilmente fra il 610 e il 615 (1213-1218 d.C.). Suo padre, di nome Abdollâh, ricopriva la carica dì funzionario subalterno al servizio del principe Sa`d ibn Zangî e godeva di una condizione agiata. Egli diede a suo figlio un'educazione strettamente conforme ai precetti dell’Islamismo, ma di buon'ora lo pose in guardia contro il fanatismo religioso. L’insegnamento paterno fu. bruscamente interrotto dalla prematura morte del padre, che lasciò Saadi ancora fanciullo. Questo triste ricordo della sua fanciullezza ha ispirato al poeta i più commoventi versi sulla sorte degli orfani. «Stendi - egli scrive - un'ombra tutelare sul capo di colui il cui padre è morto...» «...abbi ben cura ch'egli non pianga, poiché il trono sublime di Dio trema sulla sua base quando l'orfano spande le sue lacrime...» «...io intendo il dolore di questi poveri derelitti, io che non ero che un fanciullo quando perdei mio padre».

Un aneddoto del Golestân ci apprende che sua madre visse più a lungo:

«Presuntuoso come un giovane - scrive egli in quel passo - io osai alzare la voce contro mia madre. Ella si assise in un angolo e, il cuore spezzato, mi disse piangendo: oh tu che ti mostri crudele contro tua madre, hai dunque dimenticato í giorni della tua infanzia?».

Saadi iniziò i suoi studi a Shiraz, per poi finirli a Baghdad, sede, a quell'epoca, del Califfato e residenza dei maggiori sapienti dell’Islam - nel collegio fondato (1067 d. C.) dal ministro Nezâm-ol-molk, condiscepolo di `Omar Khayyâm. I rapidi progressi che egli fece negli studi gli valsero una borsa di studio e il titolo di ripetitore. Ma le lezioni e le recitazioni gli assorbivano tanta parte del suo tempo che pare egli soffrisse delle continue interruzioni che i doveri professionali cagionavano al suo lavoro personale.

Poco tempo dopo aver terminato i suoi studi, il poeta cominciò tutta una serie di viaggi, ricordati sommariamente nelle sue opere, che lasciavano libero campo a ogni sorta di congetture. Il suo biografo, contentandosi di cifre rotonde, ci dice: «Saadi visse centovent'anni. Ne consacrò trenta solo allo studio; durante altri trent'anni girò il mondo e per altri trenta si prosternò sul tappeto dell'adorazione e seguì le orme dei discepoli dell’ideale». Questa artificiosa asserzione è in un certo modo allegorica e ha il merito di riassumere le tre fasi principali della vita di Saadi: lo studio, i viaggi e la contemplazione mistica.

Non ci azzardiamo nemmeno a ricostruire l’itinerario e l'ordine cronologico dei viaggi del poeta: sarebbe un tentativo destinato a priori a fallire. Ci limiteremo a ricordare che l’intrepido viaggiatore percorse la massima parte del mondo allora conosciuto, visitando l'Arabia, la Siria, l'Asia Minore, l’Egitto, l'Abissinia, il Maghreb e spingendosi fino alle Indie. Faremo raccontare allo stesso poeta alcuni episodi che si riallacciano a questo periodo della sua vita. Alcuni orientalisti, confrontando fra loro le narrazioni di fatti storici fatte dal poeta, sono rimasti colpiti da certe inverosimiglianze. Altri, cercando di eliminare l'una appresso all'altra le obbiezioni dei loro colleghi, hanno tentato di provare, mediante sottili argomentazioni, la veridicità di tali narrazioni. Oggi è dimostrato che alcune di queste inverosimiglianze, di cui alcuni orientalisti europei hanno accusato il poeta, derivano dall’imperfezione dei testi che essi hanno avuto sotto mano o dalla troppa fantasiosa lettura di uno o d’un altro de’ suoi racconti. I racconti che qui ricorderemo, se non ci offrono materiale abbastanza solido per ricostruire la biografia del poeta, hanno tuttavia il merito di far apprezzare, per quanto lo consenta la traduzione, la naturalezza, il fascino, la grazia e la fantasia che Saadi riunisce sì felicemente nei suoi racconti. Il primo dei quali si riferisce alla cattività del poeta presso i Franchi e alla sua infelice unione colla figlia di un notabile di Aleppo.

E ascoltiamo il poeta: «Ero disgustato della compagnia dei miei amici di Damasco; mi addentrai nel deserto di Gerusalemme, familiarizzandomi cogli animali, finché divenni prigioniero dei Franchi. Fui obbligato a lavorare la terra, in compagnia di ebrei, nei fossati di Tripoli; finché uno dei notabili di Aleppo, col quale avevo avuto antichi rapporti, capitò a passare di lì e, riconosciutomi mi disse: «Che condizione è questa tua e in che modo trascorri tu la tua vita?...».

«Io risposi: “Fuggivo lungi dagli uomini, sulla montagna e nella pianura perché di nessun altro più mi occupavo, se non di Dio. Immagina qual sia la mia situazione in questo momento in cui mi trovo a far parte di una banda di persone che non sono nemmeno degli uomini”.

“Val meglio avere il piede incatenato davanti ai propri amici, che trovarsi in un verziere in compagnia di stranieri”».

Egli ebbe compassione del mio stato, mediante dieci monete d’oro mi liberò dalle catene dei Franchi e mi condusse seco ad Aleppo. Egli aveva una figlia che mi fece sposare, assegnandole una dote di cento denari. Trascorso qualche mese la figlia si rivelò di pessimo carattere, litigiosa e disobbediente. Cominciò ad affilare la lingua e ad attristare la mia vita, proprio come è stato detto:

«Una donna cattiva nella casa di un uomo per bene è l’inferno che questi subisce in questo mondo. Guardati da una compagna cattiva; guardatene, preservaci, mio Dio, dal supplizio del fuoco!».

«Una volta, avendo allungato la lingua dell'ingiuria, essa disse: « Non sei tu quello che mio padre ha riscattato dai ferri dei Franchi per dieci ducati?».

Io risposi: «Sì, egli mi ha riscattato per dieci monete d'oro, e mi ha fatto suo prigioniero mediante cento altri denari».

«Io ho saputo di un gran personaggio che liberò una pecora dalla gola e dalle unghie di un lupo. La notte egli le conficcò un coltello nella gola. Nello stesso istante la pecora si lamentò con lui dicendo: “Tu mi hai salvato dalle unghie di un lupo, mentre vedo infine che tu sei un lupo per me”».

Il secondo racconto concerne un viaggio Saadi a Somnath nelle Indie, e la sua iniziazione al Brahmanesimo:

«Ho visto a Somnath, comincia il poeta, un idolo d'avorio così riccamente vestito come quello di Manât nell’epoca preislamica; l’artista l’aveva aggiustato con tanta abilità che l’immaginazione non potrebbe creare nulla di più meraviglioso».

Non ci è possibile, per la sua lunghezza, riferire qui per intero il racconto del poeta. Lo riassumeremo, prendendo, per quanto è possibile, le espressioni di Saadi stesso.

Quest’idolo era una statua criselefantina, dagli occhi d'ambra. «Le carovane affluivano d'ogni parte per contemplare questa figura inanimata... I poeti dal canto melodioso venivano a gara a prosternarsi dinanzi ad esso...!».

Fra tanto generale fervore, Saadi ha l'audacia di esprimere a un religioso, «di cui divideva la cella», il suo stupore per «questo culto reso dai vivi a un oggetto insensibile». Il religioso, adiratissimo, riesce a sollevare contro di lui i superiori del tempio che vogliono preparargli un cattivo tiro.

A Saadi non resta che giocare d'astuzia, poiché «rassegnazione e dolcezza, ecco le sole armi contro l’ignorante dominato dalla collera». Egli presenta le sue scuse al gran sacerdote e lo prega di iniziarlo ai segreti che l’idolo racchiude in sé. Il sacerdote si lascia persuadere dal fiorito linguaggio e concede a Saadi di assistere al mistero del giorno seguente. Saadi passa la notte nel tempio. Al levar del sole risuona il tamburo, la folla si accalca nel tempio, l'idolo si agita e lentamente leva al cielo le braccia. Saadi, fingendosi convinto, piange ipocritamente e fa la commedia del pentimento. Si arriva così alla sua iniziazione al mistero. Saadi fa un lungo noviziato e colle sue dimostrazioni di pietà riesce a cattivarsi la fiducia dei suoi nuovi correligionari. Nel frattempo, intuendo l'inganno perpetrato dai preti hindu, una notte egli chiude ermeticamente la porta del tempio ed erra qua e là «come uno scorpione», per scoprire la chiave del mistero. «Esaminando attentamente la predella - egli narra - notai una tenda a ricami d'oro; dietro questa tenda vegliava un capo dei magi, tenendo fra le mani l'estremità di una corda. Fu per me una rivelazione, quale l'ebbe David quando il ferro si fuse come cera molle tra le sue dita. Il dubbio non era più possibile: ogni volta che la corda era messa in moto, l’idolo alzava al cielo le braccia, in atteggiamento di preghiera. Alla mia vista, il brahmano rimase profondamente turbato: quale vergogna per lui veder scoperto il suo trucco grossolano!»

Alcuni critici non attribuiscono nessun fondamento di realtà a questo racconto, che non esitano a considerare come un parto della troppo fervida immaginazione di Saadi. (6) Altri si sono chiesti se, fra le esagerazioni, il racconto non racchiuda un fondo di verità. (7)

(6) CASIMIR BARBIER DE MEYNARD, Introduction au Boustan [intr. alla trad. francese del Bûstân, Parigi, 1880].

(7) HENRI MASSÉ, Essai su le poète Saadi [Parigi, 1919].

Nessun documento, sia nel testo di Saadi, sia negli scritti dei suoi biografi, permette di ricostruire l’itinerario del poeta attraverso le Indie. E se il racconto non è altro «che un apologo inventato di sana pianta col fine di dedurne la morale», (8) nulla ci permette di rievocare in modo completo il viaggio nelle Indie, tanto più che, alla fine del racconto, lo stesso Saadi precisa che dopo questa terribile avventura egli lasciò Somnath e si diresse verso Hejaj, per la via dello Yemen. A San`a, nello Yemen, il destino gli prepara un colpo crudele: la morte improvvisa di un figlio. Nel Bûstân, il poeta ricorda questo doloroso evento con una malinconia e uno spirito di rinuncia che profondamente commuovono: «A Sanaa io ho perduto un figlio ancor giovinetto. Come descrivere il mio dolore? Il cipresso non drizza il suo tronco snello nei giardini del mondo che per esser sradicato dal vento della morte. Non è meraviglia che la terra produca delle rose, poiché cela nel suo seno tanti corpi delicati come la rosa...».

(8) BARBIER DE MEYNARD, Introduction au Boustan.

Dopo aver largamente soddisfatto il suo desiderio di viaggi, Saadi ritorna nella sua città natale, che attraversa allora, sotto il regno non senza gloria di Abû Bekr, un periodo di calma e di tranquillità. Saadi, raccolto nel suo volontario ritiro, dà un ultimo tocco ai due bei libri che costituiscono forse il frutto del lavoro della sua vita intera. Terminò il Bûstân alla fine del 1257 e il Golestân l'anno seguente.

Ma la prosperità della sua patria diletta fu effimera e la vecchiaia del poeta conobbe la tristezza di rivoluzioni ancor più terribili di quelle che, giovane ancora, l'avevano costretto a emigrare. Seguace della dottrina sufi per ciò che s'attiene all'assoluto distacco ch'essa insegna, Saadi accetta con rassegnazione il destino che si accanisce contro la provincia di Fars. Ritiratosi nei dintorni di Shiraz, egli divide le sorti della sua patria.

Quando i discendenti degli Atabechi riescono a risalire sul trono dei loro antenati, Saadi prodiga loro i suoi saggi consigli e loro ricorda il glorioso esempio di Abû Bekr; e quando i mongoli si rendono padroni della provincia di Fars, egli intercede presso di loro per ottenere atti di clemenza e loro dirige appelli di moderazione e di giustizia. Tranquillamente egli si incamminò poi verso la morte, che lo colse intorno all'anno 691 (1292). Fu sepolto, non lungi dal suo romitaggio, nei dintorni della città.

Ancora vivente, Saadi era entrato nel dominio della leggenda. Si amava vedere in lui un essere privilegiato, un eletto dotato di facoltà soprannaturali. Il domani della sua morte, la cella ch'egli aveva abitato divenne meta di pellegrinaggio. Molti pii personaggi chiesero l'onore di essere sepolti presso di lui; un secolo dopo, il grande lirico Hâfez, morto nel 1389, dormiva il suo ultimo sonno nei pressi della tomba di Saadi.

L’Iran ha circondato la figura di Saadi di una duplice aureola, onorando in lui il poeta e l'uomo di Dio; egli merita infatti sia per la superiorità del suo ingegno, sia per le sue virtù di uomo, il culto di cui l’onorano i suoi compatrioti. Saadi disparve senza che un'ombra offuscasse la sua gloria. Egli era passato pel fasto delle corti senza arricchirsi, nulla aveva chiesto alla fortuna, di cui aveva in tal modo evitato le alterne vicende. Ebbe quella longevità che è data al genio «affinché gli sia possibile coronarsi di saggezza».

Pochi poeti hanno goduto viventi la stima e la venerazione di cui egli fu circondato. Dal suo romitaggio sulle rive del Roknabad, egli dominava il mondo; sovrani e filosofi venivano da lontano a tributargli la loro ammirazione e i loro doni preziosi. Il suo genio gli aveva procurato grande popolarità ed egli era conscio dell'autorità che esercitava intorno a lui.

«Per fare intendere il linguaggio della verità - egli dice in una delle sue elegie - occorre un coraggio che non a tutti è dato, ma lo scettro della poesia appartiene a Saadi». E altrove: «Colui che non ha più nulla da sperare o da temere, non trema dinanzi agli eserciti della Cina e della Tartaria».

   

L'arte di Saadi.

Saadi è soprattutto noto in Occidente come un gran moralista; ma per noi, iraniani, egli è anzitutto un poeta; e del poeta ha tutte le qualità essenziali. Egli ci rivela un nuovo e potente modo di sentire, completa colla forza del pensiero la sua profonda sensibilità, né difetta d'immaginazione. Sempre noi abbiamo visto in lui uno dei più alti spiriti del suo secolo. Il paragone fra il genio poetico di Saadi e quello di Hâfez ha sempre suscitato, e suscita ancora tra i suoi compatrioti, ingenue passioni. In realtà è difficile dar in proposito un giudizio definitivo. Qualsiasi opinione in un tal campo non avrà che un valore subiettivo, essendo in generale le nostre preferenze unicamente determinate dai nostri bisogni sentimentali e spirituali. Vi è forse una maggior finezza, una maggiore spiritualità nei Ghazâl di Hâfez che in quelli di Saadi. D'altra parte troviamo in quest'ultimo il dono e il gusto della grazia - una grazia dolce e leggera unita a un carezzevole accento - e un’incantevole freschezza d’immaginazione. I Ghazâl di Saadi ci appaiono come nati da una mirabile fusione di grazia naturale e di tenera ammirazione della bellezza. Il loro fascino ci prende, ma nello stesso tempo ci danno l'impressione di qualcosa di evanescente che s'involi come un uccello. Si sente chiaramente che nei Ghazâl il poeta non vuole affatto esprimere un pensiero, né dare una concezione delle cose, ma solo abbandonarsi a dolci fantasticherie, lasciare che il proprio cuore si effonda. Egli le ha sentite vivamente, le passioni del cuore, e ne ha posto tutto l'ardore a servizio del suo genio. Tutta la vita egli ha amato, e i versi d'amore ch'egli ha scritto nell'età matura sono ancora pervasi dell'ardore e della vivacità della sua giovinezza.

Nella concezione dell'amore di Hâfez si ha un'elevazione e uno slancio che non sapremmo forse trovare in Saadi egualmente intensi. Per Hâfez «l'essenza dell'uomo è l’amore», «l'essenza dell'angelo è l'amore», «l'amore è assai al di sopra della ragione» e nulla esiste per cui valga la pena stornarcene. Egli va ancora oltre. Nell'amore bisogna cercare il segreto della vita eterna: «non morrà mai - egli dice - colui il cui cuore fu ravvivato dall'ardore dell'amore...». Ma, per entrambi i poeti, non si conoscerà l'amore se non attraverso l'oblio completo e il superamento di se stessi e il sacrificio di tutto all’amore. «Se tu cerchi la via dell'amore - dice Saadi - elevati al di sopra di te stesso, poiché non vi giungerà se non colui che sa uscir fuori del suo io».

Alcuni europei hanno trovato che la lirica di Saadi è mediocre e la sua ispirazione limitata. Ora, se pur bisogna ammettere in Saadi una certa mancanza di forza nell’immaginazione, bisogna riconoscere, in compenso, ch'egli vi supplisce colla bellezza della forma e la ricchezza inesauribile della parola. Le norme della prosodia persiana sono assai diverse da quelle della prosodia della maggior parte delle lingue europee, onde non è meraviglia che la sonorità delle parole persiane e l'armonia delle loro combinazioni siano afferrabili soltanto dagli iraniani. Forse per questa ragione una traduzione soddisfacente dei Ghazâl persiani sembra assolutamente impossibile. Una versione poetica ispirata da un alto lirismo potrà forse darne un’idea. E citerò un esempio: leggendo Les roses de Saadi, poema composto dalla Signora Desbordes Valmore, sentiamo quasi nell'aria il profumo delle rose, ma il brano del Golestân che ha ispirato questo poema, tradotto letteralmente in francese rimane piuttosto freddo, né desta in noi alcun senso di commozione. Ecco il brano famoso:

«J'avais dans l'esprit que, quand j'arriverais au rosier, je remplirais le pan de ma robe, pour en faire présent à mes camarades. Lorsque je fus arrivé, l'odeur des roses m'enivra tellement que le pan de ma robe m'échappa de la main» [«Pensavo che, quando sarei  giunto al roseto, avrei  riempito il lembo della mia veste, per farne dono ai miei compagni. Quando vi giunsi, il profumo delle rose talmente m'inebriò che il lembo della mia veste mi sfuggì di mano»].

Ed ecco il poema della Desbordes Valmore:

«J’ai voulu ce matin te rapporter des roses,

Mais j'en avais tant pris dans mes ceintures closes

Que les noeuds trop serrés n'ont pu les contenir.

   

«Les noeuds ont éclatés ! Les roses envolées

Dans le vent, à la mer s'en sont toutes allées

Elles ont suivi l'eau pour ne plus revenir.

   

«La vague en a parue rouge et comme enflammée

Ce soir, ma robe encore en est embaumée...

Respires-en sur moi l'odorant souvenir».

   

   

   

[«Volli stamane portarti delle rose,

Ma tante ne avevo raccolte nella mia chiusa cinta

Che i nodi troppo stretti non le han potuto tenere.

   

«Esplosero i nodi! Le rose fuggite a volo

Tutte se n'andarono, nel vento, verso il mare,

Seguendo l'acqua per non più tornare.

   

«L'onda ne è apparsa rossa e come di fiamma

Stasera, ancora la mia veste ne profuma...

Su di me ne respiri l'odoroso ricordo».]

   

La traduzione letterale potrà forse suscitare in noi la visione di un giardino che, sotto il gelo invernale, ha perso tutte le sue rose; eppure, non saprei qui ridire, come rapito io rimanga ogni volta che leggo questo passo nel suo testo originale. Il quale non è nemmeno tratto dai Ghazâl di Saadi, ma, come vedremo in seguito, scritto in una prosa ritmica.

La raccolta dei Ghazâl di Saadi è, per noi irani, una delle opere più squisite della nostra letteratura.

Tra le forme poetiche persiane, la Qasîdeh sembra aver rivestito un carattere ufficiale. Ad ogni modo è certo che in questa forma poetica i cortigiani hanno cantato le lodi dei loro padroni; mentre il Ghazâl pare sia stato piuttosto riservato all'espressione delle passioni del cuore. Già molto prima di Saadi altri poeti avevano tentato questo genere poetico, e taluno vi era anche riuscito in modo egregio. Ma pochi dei loro Ghazâl sono pervenuti sino a noi. Più che altro, questi ci sono noti attraverso le citazioni dei biografi, degli storici e dei cronisti. Saadi ha dato al Ghazâl una nuova vita e un particolare splendore. Ancora vivente, Saadi era ritenuto maestro indiscusso in questo speciale genere d'arte. Il suo contemporaneo, il poeta Dehlavî, riconosce di essere stato, in questo campo, un discepolo di Saadi. E lo stesso Hâfez, se trova che nei propri Ghazâl la sostanza sia più ricca che negli altri, non disconosce per questo a Saadi il titolo di maestro.

Il sentimento dell'instabilità del mondo, della vanità d'ogni sforzo umano, della corsa affannosa dell'essere verso un ignoto fine, domina la fantasia di Saadi e impronta di sé ogni sua poesia. Una gioventù e una vecchiaia egualmente tormentate, tutta un'esistenza di inquietudine e d'incertezza, non potevano non dare inflessioni malinconiche agli accenti del poeta.

«Guardati dall'attaccarti al mondo, egli dice; è un musicista che si reca ogni giorno presso nuovi convitati. È forse permesso avere una fidanzata che ogni mattina prende un nuovo amante?».

La stessa rosa e l'usignolo, che nella poesia persiana simboleggiano la primavera della vita e la gioia di vivere, sono talvolta ricordati da Saadi con senso di accorata malinconia:

«Non sperare nella fedeltà degli usignoli, ché ogni momento essi cantano su una rosa diversa». (Golestân  p. 262, VI, 2); e ancora: «Un cespo di rose si è sfogliato al vento: ricordo, dolore, rimpianto sono rimasti».

Il senso dell’implacabile fuga del tempo lo fa spesso tornare con doloroso rimpianto alla sua giovinezza fuggita: «Potrà il mio cuore rinverdire, - scrive il poeta nel Bûstân - domani quando l'erba rinverdirà sulla mia tomba? Noi siamo passati gai e noncuranti sull'ultima dimora delle generazioni passate, e quelle che sono ancora nel nulla passeranno a loro volta sulla nostra. Ahimè! La primavera della mia vita è svanita, i miei giorni sono scorsi nella frivolezza e nei piaceri: queste ore incantevoli sono come un lampo nel cielo...». E ancora: «Io piango nascondendomi a tutti gli esseri di questo mondo; per la pena del mio cuore alzo gli occhi al cielo. Simile al fanciullo che si lamenta per la fuga di un uccello, io piango sulla mia esistenza trascorsa».

In questa effimera vita ingannevole l'uomo può peraltro trovare una consolazione. L'amore è agli occhi del poeta la stessa ragion d'essere e la più grande dolcezza del mondo: «Non v’ha gioia migliore del tempo dell'amore... L'amore ha un principio e non ha fine...». E altrove: «Rincontrarci un giorno, tu ed io, soli, fuori della città. Tu lo sai bene, come staremmo bene insieme, tu ed io, quando là non vi fossimo che tu ed io». (Quartina 131). E infine questo passo del Golestân:

«A quest'amante che tu possiedi attacca il tuo cuore, e chiudi d’or innanzi l'occhio su tutto l'universo».

Ma altre risorse ancora esistono per il poeta. Egli può perdersi nella sua arte. Gli splendori della natura, il cielo azzurro, la pianura verdeggiante, il profumo della, rosa, il canto dell'usignolo gli offrono un rifugio dalle delusioni della vita.

La natura è per Saadi una sorgente d'immagini, donde egli trae la sua ricchezza descrittiva, senza tuttavia abbandonarsi ad effusioni, né perdersi in essa. Egli non parla della brezza mattutina se non per dar l’idea della brusca partenza, della fuga dell'essere amato; e «il torrente impetuoso che scorre senza arrestarsi sulle cime ch'esso bagna» non è da lui evocato se non per raffigurare i cuori che, viventi troppo in alto, di rado giungono ad attuare le loro aspirazioni.

Dallo stesso sentimento della vanità d'ogni sforzo umano lo spirito di Saadi è piegato alquanto verso il misticismo. Secondo una definizione di Ghazâlî, i mistici sono « gli eletti di Dio e i possessori dell’intuizione e della conoscenza del vero (attraverso l'estasi); e ciò in opposizione ai teologi i quali si definiscono «i discepoli del ragionamento e della speculazione».

Il fine che i sufi si propongono è il seguente: «strappare l'anima dal giogo tirannico delle passioni, liberarla dalle inclinazioni colpevoli e dai cattivi istinti, affinché nel cuore purificato non vi sia posto che per Dio e per l’invocazione del suo santo nome». Il sufi deve far tacere in sé la ragione e solo deve ascoltare la sua immaginazione mistica, attenendosi non già alla lettera, ma allo spirito della parola di Dio, ispirandosi al proprio cuore. Questo Dio dunque, questo Amico invisibile, reclama innanzitutto dal sufi l'abbandono della ragione. Saadi, sì materiato di senso pratico, potrà forse avanzare lontano per questa via? No; poiché ai suoi occhi, se «i sentieri della ragione sono tortuosi e senza sbocco» e se «per gli iniziati nulla esiste all’infuori di Dio...» la fredda ragione non può seguire il contemplante in questo regno ove il sole non è che un atomo, ove i sette mari non sono che una goccia d'acqua». Perché mai dunque un leggero velo di misticismo adombra la massima parte dell'opera del poeta? In primo luogo perché all'epoca di Saadi il misticismo dominava - per così dire - sugli spiriti colti, e Saadi non poteva sottrarsi alla corrente. Poi perché i principali doveri che il misticismo impone ai suoi adepti sembrano, ai suoi occhi, diriger l'uomo verso il perfezionamento morale; poiché «morale non è che avviamento alla mistica». Quali sono questi principali doveri? Saadi li enumera nel Golestân (Libro II): «Doveri dei dervisci sono le preghiere, le azioni di grazia, il servizio divino, l'obbedienza, la beneficenza, la moderazione, la fede in un solo Dio, la fiducia in Lui, la rassegnazione e la pazienza». Tali doveri non sono, tutto sommato, che i doveri di giustizia e di carità imposti dalla morale religiosa, di cui Saadi cerca di sviluppare il concetto nelle sue opere. Vediamo dunque come Saadi s'inoltri sulla via del misticismo solo per quel tanto che questo possa contribuire alla perfezione morale. Ad ogni modo è certo che uno spirito equilibrato quale quello di Saadi è incapace di seguire i mistici nei loro slanci verso quelle nubi inaccessibili alla ragione, ove essi cercano l'annientamento di se stessi nella fiamma divina. Anche da certi passi del Golestân sembra che il poeta prediliga i discepoli della ragione agli eletti di Dio: «Un saggio - egli scrive - venne dal Monastero al Collegio e ruppe il suo patto di società coi membri dell'ordine (i sufi). Io dissi: quale differenza v’è tra il savio e il religioso, perché tu scelga questa società a preferenza di quella? - Egli rispose: questi (il religioso) salva dai flutti il proprio mantello, e quest'altro (il savio) si sforza di afferrare l'annegato».

Il cantore di Shiraz non aveva alcun gusto pel genere epico. Lo riconosce lui stesso. Una sola volta, provocato da un individuo malevolo che pretendeva il poeta ignorasse gli accenti guerrieri, egli si provò a «trarre la spada del combattimento per eclissare la gloria dei suoi rivali». Ma questo suo saggio non fu dei più felici, e non vi si cimentò mai più.

Le due principali opere di Saadi, il Bûstân e il Golestân, si presentano sotto la forma di una «causerie»; il primo in versi, il secondo in prosa. Tanto nell'uno che nell'altro, Saadi ha una maniera semiconfidenziale, che riesce quanto mai piacevole. Alla franchezza e alla limpidezza egli unisce una semplicità incantevole. Si ha l'impressione, leggendolo, che colui che narra non sia troppo lontano da noi. Il suo stile è semplice e vivo, naturale la sua espressione, intima e penetrante. Quando riferisce un’impressione di viaggio, quando narra una qualche dolce e leggera avventura, le frasi sembrano spontaneamente armonizzarsi sulle sue labbra e fluire via senza sforzo.

Il Golestân è considerato in Europa come l'opera più celebre della letteratura iranica; eppure un'opera tradotta è simile a un tesoro rivelato a metà. Che mai avrebbe detto la critica europea se avesse potuto apprezzare nell'originale l'opera di questo poeta che seppe portare la sua arte, sopratutto mediante la bellezza delle forme, alla più alta perfezione? Il Golestân è il capolavoro della prosa persiana, e Saadi, come artefice dello stile, è annoverato tra i più grandi maestri. Il Golestân ha fatto testo e le pagine più belle della prosa persiana dopo la comparsa del Golestân, si sono ispirate alla sua forma. (9)

(9) Cfr. il Behâristân, di JÂMÎ [tradotto in francese da Henri Massé, Geuthner, Parigi, 1935], ecc.

Saadi ama la semplicità e la purezza e, per quanto è possibile, evita le idee astratte, collega strettamente il pensiero all'immagine, di modo che i suoi scritti anche tradotti non perdon mai il loro sapore. L’immagine forma la base dei mezzi d'espressione di Saadi. Gli europei, abituati a molto maggiore semplicità, troveranno forse una certa ricercatezza in questa profusione di immagini; ma non bisogna dimenticare che ogni lingua ha una sua estetica particolare. Saadi ha saputo tenersi nel giusto limite, tra il convenzionalismo retorico e il linguaggio naturale. Il Golestân presenta un carattere intermedio fra la prosa e la poesia. Il suo linguaggio armonioso e musicale, delicatamente ritmato, è per l'orecchio una vera delizia. Ciò che rapisce, nella prosa di Saadi, è proprio quella naturale eleganza che dona alla sua espressione un movimento spigliato, una dolce armonia e una grazia leggera. Come egli stesso dice alla fine del Golestân, «egli ha infilato la perla dei consigli salutari nel filo dell'eloquenza e ha mescolato il rimedio amaro della morale col miele dello scherzo».

La morale di Saadi non è affatto dommatica. Egli non ama l'etica sentenziosa e tratta la morale in modo poetico, dandole il colore di un insegnamento amabile e scherzoso. Per persuadere egli non ricorre alla fredda logica, ma ad aneddoti e a motti di spirito. Suo ideale è la felicità di questo mondo. La sua saggezza consiste nell'occuparsi solo del momento presente, nell'accettare gli avvenimenti senza lagnarsi, senza né desiderio né paura. Egli consiglia la moderazione in ogni cosa e l'indifferenza per le ricchezze di questo mondo che bisogna perdere con la vita stessa. Questa morale del tutto pratica, questa filosofia del buon senso, è esposta con sobrietà elegante, mediante un'unione mirabilmente misurata della ragione e dell’immaginazione. Molti versi di Saadi sono divenuti proverbi.

Ne ricordiamo qualcuno:

   

dal Golestân:

«È preferibile che il marito di una donna brutta sia cieco».

«Il denaro non resta nelle mani degli uomini generosi, né la pazienza nel cuore di un amante, né l'acqua in un crivello».

«La luce del sole appare spregevole alla talpa cieca».

   

dal Bûstân:

«Bisogna essere ben rozzi per non notare nel pavone che la bruttezza delle zampe».

«Si cattiva la bestia feroce con delle catene di ferro e l'uomo con dei benefizi».

«Il vuoto dello stomaco val meglio di quello dell'anima».

   

Alcune riflessioni hanno assunto il valore di vere e proprie massime:

«Non si raccoglie che ciò che si è seminato».

«Ciascuno è artefice del proprio onore».

«La parola è la veste dell'anima».

«Il cuore è la prigione del segreto».

* * *

Tale l'opera del poeta, la cui celebrità senza precedenti aveva fatto di lui, vivo, un personaggio leggendario.

I suoi biografi, Jâmî e Khondemîr, raccontano che Khezr, il profeta cui solo è noto il segreto della sorgente di vita, versò nella bocca del poeta alcune gocce d'acqua della fonte miracolosa. Un altro dei suoi biografi narra che uno dei rivali di Saadi udì in sogno gli spiriti del paradiso cantare dei versi del Golestân. Lo stesso autore racconta un aneddoto in cui Saadi è rappresentato come avente il dono del miracolo: Saadi soleva appendere alla porta del suo romitaggio un paniere con gli avanzi del pasto, destinati ai boscaioli che passavano. Un ladro, travestito da boscaiolo, tentò un giorno di approfittare di quelle vivande; ma mentre stendeva la mano verso il paniere, questa si disseccò improvvisamente. Egli gettò un grido e, chiamò lo «Sceicco» in suo aiuto. Il romito rispose: «Se tu sei un boscaiolo, che ne è delle tue fatiche notturne, delle punture causate dalle spine e delle vesciche delle tue mani? Ma se tu sei un predone e un ladro, dove sono mai la tua corda per scalare i muri, le tue armi e il tuo cuore indurito? Infatti tu ti sei messo a gemere senza aver ricevuto ferita alcuna». Saadi fece tosto una preghiera e l’infelice ottenne la sua guarigione.

La celebrità di Saadi si è grandemente accresciuta dopo la morte del poeta. L'Olearius, che ci ha dato del Golestân la prima traduzione completa in tedesco, dichiara che, al tempo del suo soggiorno in Persia (prima metà del XVII secolo), non v'era quasi nessuno che sapendo leggere e scrivere, non avesse il Golestân fra le mani, e quelli che passavano per letterati ne sapevano a memoria la maggior parte.

Ma non soltanto in patria Saadi conobbe la celebrità: in Turchia egli era popolare quanto in Persia. Scrive il Toderini: «degli autori persiani nessuno è così celebre fra i turchi come il poeta Saadi». (10)

(10) Littérature des Turcs, I, p. 86 [trad. francese della Letteratura turchesca dell'abate Giambattista Toderini, stampata in tre tomi a Venezia nel 1787].

   

Per molti secoli tuttavia, questo poeta sì celebre in Oriente restò ignorato dagli europei. Solo agli inizi del XVII secolo cominciò ad esser rivelato al mondo occidentale. Nel 1634 Ancré du Rye diede in francese una traduzione parziale del Golestân. Ma, secondo quanto affermano gli stessi francesi, non si tratta che di alcune parafrasi a cui non si può nemmeno dare il nome di traduzioni. Seguì la Germania con la traduzione di Friedrich Ochsenbach (1635). Nel 1651 il Gentius pubblicò un testo persiano accompagnato da una traduzione latina, che egli dedicò al principe di Sassonia: «Dopo che, durante trent'anni - egli scrive - i calabroni nemici hanno rubato tutto il loro miele alle api, non lasciando che l'arnia vuota, il momento è propizio per piantare in Germania questo giardino di rose».

Ma queste prime traduzioni suscitarono scarso interesse. Solo nel 1654, con la traduzione di Adam Olearius, il Golestân ebbe in Germania il suo grande successo. Dell'opera si fecero quattro edizioni. Secondo il Graf, «l'opera dell’Olearius, ha, per quella sua intonazione di toccante ingenuità un fascino particolare... ma si può appena chiamare traduzione... È una libera redazione secondo Saadi». Nei secoli XVIII e XIX le traduzioni e gli adattamenti in olandese, in inglese, in francese, in italiano, in russo, in turco, in arabo, in polacco e in rumeno si susseguirono.

La prima. versione italiana del Giardino delle Rose, accompagnata da un commentario, fu quella di Gherardo de Vincentis, pubblicata nel 1873, (Napoli, pp. 75, in 8°). Col successivo perfezionarsi delle traduzioni, la fama di Saadi si diffuse nel mondo, e il Giardino delle Rose cessò dall'essere un'opera riservata ai soli orientalisti. Poeti ed eruditi cominciarono a valorizzarlo. Goethe lo utilizza per il suo Divano Orientale (1819): il Rückert lo adatta in versi tedeschi. Saint Lambert, ispirandosi ad una traduzione, imita lo stile del Giardino delle Rose nelle sue Contes a cui dà il sottotitolo di Pièces fugitives, traduites des fables orientales de Saadi. Diderot consacra un articolo al Golestân. Voltaire legge il poeta, Madame Rolland lo cita nelle sue lettere.

In Italia il Pignotti ha dato un'imitazione in versi dell'apologo della perla (Poesis - Firenze 1812).

Questa celebrità e questa popolarità di Saadi si spiega per un insieme di qualità che in lui si ritrovano - finezza, eleganza, facilità, brio faceto e bonomia; - tutte cose già rare se prese separatamente, sì preziose se riunite insieme, e il cui armonico complesso, misurato e costante, ha conferito al poeta un aspetto universale, assegnando la sua opera al patrimonio letterario della umanità intera.

* * *

Terminando questo mio breve discorso su Saadi, penso a quel passo della prefazione del Golestân, in cui il poeta, rimproverando a un amico la sua inclinazione per lo splendore fuggevole delle rose, gli dice: «Ogni cosa che non dura non conviene all'amore»; e invitandolo all'amore di ciò che non perisce, egli soggiunge: «A che ti servirà un vassoio di rose? Porta piuttosto via una foglia della mia aiuola di rose. Il fiore dura soltanto cinque o sei giorni, ma quell'aiuola resterà sempre bella».

Saadi non si era ingannato. Il suo Giardino non ha mai perduto né mai perderà la sua bellezza. Settecent'anni dopo, quando l’Iran, sotto l’impulso del suo Sovrano innovatore, Rezâ Shâh Pahlavî, (**) ripresa coscienza del suo passato, si deciderà a rendere al poeta illustre i meritati onori, è ancora il Giardino delle Rose che servirà di sfondo alla commemorazione del poeta. Questo Giardino, dove a profusione abbondano i colori e i profumi e che solo poteva degnamente accogliere la testimonianza del culto dall’Iran intero tributato al cantore di Shiraz.

(**) N.d.C. Il riferimento qui è senz'altro diretto a Rezâ Shâh Pahlavî padre, che peraltro abdicò il 16 settembre del 1941 in favore del figlio Mohammed Rezâ Pahlavî, quindi prima che questo articolo fosse pubblicato.

Ed anche qui, nella Città Eterna, pur in un'ora gravida di ansie, la suprema bellezza di quel Giardino ha saputo attrarre gli spiriti a una breve sosta, nella riposante calma dei suoi sentieri fioriti, ove ignorato rimane il turbine che agita l'universo.

   

[TERMINATO DI STAMPARE IL 13 GIUGNO 1942 - XX]

   

   

 

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