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I MIRACOLI DI ABBÀ GARIMÀ

di

San Yohannes, vescovo d'Axum

(XV secolo)

    

Opera tratta da: 
La grande impresa di Amda Siòn. Romanzo storico del XIV secolo – I miracoli di Abbà Garimà. Omelia del XV secolo.

Tradotti dalla lingua originale da Bruno Ducati, Garzanti, Milano, 1939.

Ho riprodotto il testo dall'opera del Ducati, mai ristampata ed oggi introvabile, con alcuni aggiornamenti di stile e qualche integrazione, indicata in rosso, e perlopiù mantenendo le sue trascrizioni italianizzate, con taluna eccezione di poco rilievo. Ho però reso in corsivo il discorso diretto. Riproduco altresì per intero la Prefazione – contrassegnando il testo tuttavia, per maggior chiarezza, con un carattere più piccolo e il colore blu scuro dove non parla de I miracoli di Abbà Garimà –  in quanto dà un  buon contributo alla comprensione del contesto religioso abissino medioevale, se non altro da un punto di vista storico. 

Il testo è a mio avviso assai interessante per varie ragioni, non ultima quella che è tra le pochissime testimonianze cristiane relative a santi non morti, bensì assunti in cielo da vivi. Inoltre vi trapela una inusuale concezione dell'eucaristia e più in generale una visione del cristianesimo molto più sovrannaturale di quella a cui siamo purtroppo assuefatti.

Per altre informazioni si possono vedere i siti seguenti:

http://ethiopianorthodox.org/english/indexenglish.htmlThe Ethiopian Orthodox Tewahedo Church Faith and Order, e più in particolare per il periodo di Abbà Garimà la pagina http://ethiopianorthodox.org/english/ethiopian/prechristian.html (Sergew Habele Selassie, The Establishment of the Ethiopian Church);

http://www.dacb.org The Dictionary of African Christian Biography, che contiene una breve scheda biografica e bibliografica su Abbà Garimà;

http://www29.homepage.villanova.edu/christopher.haas/Ethiopian-saints.htmFrom The Book of the Saints of the Ethiopian Church, che contiene un paragrafo su Abbà Garimà;

http://cohesion.rice.edu/CentersAndInst/SAFA/Society of Africanist Archaeology, dove si può leggere l'interessante Nyame Akuma. Bulletin of the Society of Africanist Archaeologists.

http://www.4dw.net/royalark/Ethiopia/Ethiopia.htmEthiopia, un'estesissima cronologia ed un utile glossario di Christopher Buyers.

Dario Chioli
11.1.2006


In onore di Dio e pregando per mio padre e per tutti i miei avi


PREFAZIONE DI BRUNO DUCATI (1939)

La letteratura etiopica, scarsa invero e poco originale, ha un contenuto essenzialmente religioso ed ecclesiastico e, in minor misura, anche storiografico. Ma se non altro le opere storiche sono tutte originali perché tutte trattano di vicende che possiamo definire nazionali o meglio dinastiche, mentre le altre in gran parte costituiscono una letteratura di traduzioni, o quanto meno di rifacimenti, dal greco o dall’arabo.

Qui come saggio si presentano due operette [riproduciamo qui solo la seconda], tutte e due originarie, appartenenti ai due generi anzidetti; esse riflettono quei due aspetti principali della vita del popolo abissino che sono la guerra e la religione. 

La prima [qui non riprodotta] , che fu chiamata «Cronaca della guerra del re Amda Siòn», pur trattando di guerre effettivamente avvenute, non è che una narrazione esagerata delle prodezze di questo re, stesa in forma quanto mai laudativa e cortigiana.

Sennonché lo scrittore, il quale, considerata la conoscenza che dimostra delle Sacre Scritture, è certamente un colto ecclesiastico, possiede uno stile smagliante e appassionato, sì che la sua prosa, anziché vecchia di forse sei secoli e scritta in un paese rozzo se non barbaro, sembra composta ora, tanta è la freschezza e la vivacità che la caratterizzano e tanto possente il giuoco dei sentimenti magistralmente espresso e nello stesso tempo presentato in modo naturale, umano, sentito. A parte la specificazione delle stragi di intere popolazioni, come comporta l’indole feroce del popolo, il racconto potrebbe dirsi steso da un nostro scrittore moderno, dall’animo vibrante e passionale.

La lingua è purissima ed elegante.

Lo sfondo è rappresentato dalla lotta in Etiopia tra il Cristianesimo e l’Islâm, non invero pura lotta di religioni entro uno stesso paese, ma lotta di popolazioni appartenenti a religioni diverse e intesa alla conquista del predominio politico.

Lotta fra il rinnovato impero etiopico, il quale dal centro del grande altipiano abissino si espande a sud e sud-est, e l’invasione musulmana dei principati sorti nella zona dal Golfo di Aden sino ai laghi abissini, principati i quali vogliono espandersi all’interno dell’impero.

L’Islâm, nella sua fulminea conquista in Asia e in Africa, aveva dilagato irresistibile occupando in poche decine d’anni un territorio non inferiore a quello che fu dell’Impero Romano. In Africa si era esteso lungo il litorale mediterraneo, per poi valicar lo stretto e balzare in Ispagna; in Egitto aveva risalito il Nilo, ma là era stato fermato dalla resistenza abissina. Allora l’Islâm, attraverso il Mar Rosso, assalì l’Etiopia anche dall’oriente e dal sud.

Sennonché l’Etiopia resisté vittoriosa e la sua maggior forza di resistenza l’attinse dal Cristianesimo, da poco penetrato nel paese, da appena tre secoli, il quale, per quanto corrotto e degenerato, seppe dare un’unità nazionale a quel caratteristico amalgama etnico, camito-semitico, che costituì il popolo abissino.

Circondato come un’isola dall’Islâm che incalzava dal nord, dall’oriente e dal sud; nel resto circondato dal paganesimo che doveva poi essere il vero invasore coi Galla, l’impero abissino, ricostituitosi con la rinnovazione della sedicente dinastia salomonica restaurata da Jekuno AmIàk nel 1270, fece fronte da tutte le parti respingendo in ultimo vittoriosamente l’Islâm; e se poi soggiacque all’invasione galla, e ciò perché appunto esaurito dalla lotta coi musulmani, in seguito vi reagì quando questi barbari, infiltratisi per tutto il territorio, perdettero lo slancio iniziale e poterono essere prima contenuti, poi dominati, passando dalla posizione di conquistatori a quella di popolo asservito.

Ma il fenomeno dei Galla avviene più tardi, due secoli dopo l’episodio che qui si considera, quando cioè quei barbari iniziarono la loro fatale marcia verso il nord. La grande migrazione, che doveva finalmente sistemarli, dopo la loro lunga, secolare peregrinazione cominciata dalla bassura della Dancalia, dove appunto il loro popolo si era differenziato, li aveva prima condotti attraverso la Somalia sin sopra i grandi laghi equatoriali. E riuscirono di là a sfondare l’esausta barriera etiopica proprio quando l’Etiopia, portata prima all’apogeo dai re Zara Yakòb (1433-1468) e Lebna Dangal (1508-1540), aveva subìto i colpi più duri nella sua resistenza all’Islâm. La grande lotta aveva invero avuto la sua fase più tragica, culminante con le terribili incursioni di un terribile capo musulmano, il mancino Gragn, e i re d’Abissinia, scacciati sulle montagne, avevan dovuto anche ricorrere al soccorso dei Portoghesi, che laggiù scrissero qualche pagina di meraviglioso ardimento e di glorioso eroismo.

La cronaca narra il tentativo di riscossa dei vari principati musulmani di Ifàt, Adal, Dawarò, Bali, Hadya, ecc. per scuotere il giogo della dominazione etiopica cui erano tributari; azione che, a dir della cronaca, sarebbe avvenuta nel diciottesimo anno di regno del re Amda Siòn, ossia nel 1332.

Circa l’ubicazione e l’estensione di questi principati musulmani, le notizie non sono definitive, ma si trovano, come meglio è possibile, raccolte e discusse dal Cerulli nei suoi «Studi Etiopici».

Lo Ifàt, nell’epoca cui si riferisce la cronaca di Amda Siòn, era il principale Stato dell’Etiopia musulmana, sotto il dominio dei Walàsmaa, una dinastia locale che tuttavia pretendeva discendere dal quarto califfo `Alî, cugino e genero di Maometto.

L’estensione, di questo come degli altri stati etiopici musulmani, variò a seconda delle contingenze militari e politiche; pare che allora comprendesse:

Che pure lo Scioa orientale fosse in parte musulmano e sotto il dominio di Ifàt, risulta, oltre che da altre notizie, anche da un passo di questa istessa cronaca.

Il Dawarò pare si debba per quell’epoca limitare in una regione a sud dello Scioa, sulla destra dello Hawasc, che esso seguiva poi sino a sud-est della attuale città di Addis Abeba, sorta cinque secoli e mezzo dopo.

Al sud il suo confine era il corso del Webi, che lo separava dall’altro principato del Bali.

Corrisponderebbe quindi all’attuale Arùssi.

Forse nominalmente il Dawarò era incluso nello Ifàt, ma doveva essere di fatto indipendente.

Lo Adal non confinava con lo Scioa etiopico, ma ne era separato dallo Ifàt e dal Dawarò.

Poi son menzionati nella cronaca, in un lunghissimo elenco di principi e governatori musulmani, anche i tre capi di Harar. Questa è la prima menzione che si ha di tale regione che doveva poi diventare il nucleo del potente Stato omonimo.

Il Bali si stendeva dal Webi a nord sino al Ganale (ora Ganale Doria) a sud; a nord-est era separato dallo Ifàt per l’interposta regione di Galb, pur essa musulmana; verso occidente giungeva ai laghi abissini per confinare con lo Hadya, il quale molto si stendeva di là verso il nord.

Amda Siòn, che regnò dal 1314 al 1344, il protagonista della narrazione, avrebbe avuto nel suo regno prima un periodo di crudeltà e di colpe, sino ad incorrere nella scomunica di Abbà Anorews (Onorato); poi un secondo periodo di fede, di lealtà, di buon governo e di gloria, sì da potersi considerare come il vero consolidatore del rinnovato impero salomonide.

Il suo nome, Amda Siòn, significa «sostegno di Gerusalemme», ossia della Fede. Secondo l’usanza dei monarchi abissini aveva, salendo al trono, assunto un secondo nome: Gabra Maskàl, che significa «servo della Croce».

In questa che sarebbe la gran gesta del sovrano abissino, i principati musulmani furono pel momento ridotti all’impotenza; uno dei coefficienti della loro disfatta forse sta nella rivalità e nella discordia fra loro esistente, per quanto nella circostanza essi si fossero coalizzati nella lega capitanata dal santone Sàleb, del quale tuttora si venera dai Musulmani in Harar la tomba.

Il Cerulli riporta anche un episodio riferito dallo storiografo arabo contemporaneo al-`Umarî, (*) che completa il quadro della impresa.

(*) Ibn Fadl Allâh al-`Umarî, nato nel 700/1301 a Damasco, dove morì  nel 748/1348. Scrisse  «una grande opera enciclopedica in più di 20 volumi, intitolata Masâlik al absâr fî mamâlik al amsâr» (trad. da: Géographes arabes du Moyen Age. Textes choisis et commentés par R. Blachère et H. Darmaun, Klincksieck, Paris, 1957, p. 301).

Narra al-`Umarî che, mentre egli si trovava al Cairo, pervenne alla corte del sultano mamelucco d’Egitto, al-Nàsir, Muhàmmad, un legato del re di Ifàt, inviato per supplicare quel sovrano affinché ottenesse dal re d’Etiopia un trattamento mite per i Musulmani sconfitti. E al-Nàsir dispose che il Patriarca di Alessandria, capo della Chiesa copta e quindi anche di quella abissina, e perciò tramite fra il suo sovrano e i propri sudditi spirituali, scrivesse ad Amda Siòn nel senso voluto, anche in vista di un corrispondente miglior trattamento dei Copti egiziani.

Circa l’età del lavoro, il Perruchon, che per primo pubblicò il testo, la fissa all’epoca di Zara Yakòb (1433-1468), cioè verso la metà del secolo XV. Egli si basa sul fatto che nel testo si trova un accenno a due altri re d’Etiopia: Teodoro e Claudio. Teodoro sarebbe Teodoro I (1411-14) e Claudio secondo lui non sarebbe già Galaudewòs (1540-59), ma un altro sovrano anteriore dello stesso nome.

Per sostenere tale affermazione egli è tratto a considerare come interpolati, aggiunti in seguito da uno scrivano, i passi del testo nei quali si parla di Amda Siòn come di persona tuttora vivente.

Parrebbe più razionale considerare interpolato il solo passo relativo a Teodoro e a Claudio (il quale ultimo potrebbe allora benissimo essere l’autentico Galaudewòs, tanto più che di Claudi a lui precedenti non si ha traccia) anziché ritener interpolati i vari passi in cui lo scrittore considera Amda Siòn come tuttora regnante. Così si spiegherebbe l’intonazione esageratamente laudativa di uno scrittore di corte, contemporaneo dello stesso re, cosa che non sarebbe più stata necessaria, in così larga misura, per un sovrano già passato da un secolo.

E poi la chiusa del lavoro, in cui appunto si invocano sul re ancora «lunghi anni di vita», passo bellissimo per l’espressione e la nobiltà dei concetti, non può essere interpolata; essa è senza dubbio scritta dalla stessa mano che compose il lavoro.

Il testo etiopico fu, come si è detto, pubblicato da Jules Perruchon (Journal Asiatique, VIII série, tome XIV, 1889, Paris), tratto dal manoscritto orientale n. 861 del British Museum.

Testo spaventosamente pieno di errori e che risulta essere una copia, scritta certo da uno scrivano molto scadente, di altro manoscritto. Il Perruchon, aggiunge anche le varianti tratte da un altro manoscritto della Bibliothèque Nationale di Parigi.

Notizia dell’opera con una traduzione approssimativa ce la dà già prima il P. Manoel de Almeira (che giunse in Abissinia nel 1623) in una sua relazione che si trova manoscritta al British Museum.

Notizie pure di altra traduzione, ma libera e sommaria e con molte inesattezze ed errori, ci offre anche il celebre viaggiatore James Bruce (Travels to discover of the Nil in the years 1768-73, Edimburgo 1790). (*)

(*) L'opera è scaricabile per intero tradotta in francese dal sito della Bibliothèque Nationale Française (http://gallica.bnf.fr).

Il Perruchon istesso correda la pubblicazione del testo con una sua traduzione francese abbastanza esatta, tranne in qualche punto, e ben stesa. 

Non ancora tradotta è invece l’altra operetta che qui si presenta: I miracoli di Abbà Garimà, pubblicata nel solo originale etiopico dal nostro sommo etiopista Carlo Conti Rossini, col titolo:

«L’Omelia di Yohannes, Vescovo d’Axum, in onore di Garimà». (*)

(*) Atti del Congresso Internazionale degli Orientalisti (section sémitique), Parigi 1897.

L’autore ne è S. Yohannes vescovo di Axum, noto per altre opere e quasi certamente straniero o più esattamente egiziano, inviato dal Patriarca di Alessandria a reggere con l’Abuna (*) la Chiesa copta d’Abissinia, verso la fine del XV secolo.

(*) "Padre", titolo del capo supremo della chiesa etiopica. Può anche indicare altri alti dignitari ecclesiastici. 

E difatti la lingua, per quanto correttissima ed elegante, risente molto dell’arabo, tanto nella costruzione che nel vocabolario.

L’azione si svolge al primordi del Cristianesimo in Abissinia, all’epoca cioè dei nove famosi missionari siriani, i quali diffusero la religione poco prima introdotta da San Frumenzio (320 circa), l’Abbà Salàma degli Abissini, limitatamente alla cerchia della Corte. Essi lasciarono il marchio dell’opera loro nella terminologia ecclesiastica, presa tutta dall’idioma siriaco.

Siamo quindi alla fine del V secolo e al principio del VI, poiché vi si parla della assunzione di Kalèb al trono, il re axumita che appunto in quell’epoca inviò una spedizione in Arabia per la conquista dello Yemen. Kalèb nel racconto è anche chiamato col nome di Gabra Maskàl; qui forse abbiamo una contaminazione, nella identificazione del gran re axumita che muove oltre il Mar Rosso alla difesa dei Cristiani arabi, con l’altro gran re il quale è l’eroe del precedente lavoro. C’è invero fra i due una distanza di otto secoli, ma questo non ha molta importanza nella storia leggendaria d’Etiopia; basti accennare che Salomone è considerato dagli Etiopi come un sovrano cristiano e anzi contemporaneo del leggendario re serpente di cui anche questa omelia si occupa. E qui lo sbalzo è di quindici secoli.

Invero la fanciulla che i missionari salvarono dal mostro facendolo fulminare da Dio, e sulla quale l’omelia non si ferma, nella leggenda abissina è Makeda, nientemeno che la regina dell’Austro, ossia la regina di Saba degli Etiopi, la quale andrà poi sposa a Salomone e ne avrà per figlio Menelik I, il fondatore della dinastia salomonica la quale, dopo l’usurpazione degli Zaguè del Lasta (dal 1145 al 1270) verrà poi ripristinata nel 1270 da Jekuno Amlàk, avo di Amda Siòn.

Quindi i due racconti, benché d’indole tanto divergente, sono in un certo senso tra loro collegati e, per quanto stesi in stile diverso, possono trovare posto assieme nella stessa pubblicazione, come saggio della letteratura d’Etiopia.

       


I MIRACOLI DI ABBÀ GARIMÀ

   

In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, unico re.

In Lui ho avuto speme e in Lui credo sino alla consumazione dei secoli, amen!

Omelia composta dal santo Yohànnes vescovo di Axum, per celebrare la grandezza e la gloria del santo Ishàk.

Egli disse:

– O miei diletti fratelli, ascoltate per capire quel che vi dirò!

Vidi una donna (*) mentre denudata la percuotevano bestemmiando contro di lei e contro Maria nostra Signora in riguardo a Cristo Suo Figlio, il quale invero non è nato da donna mortale. Questo invece affermavano quei miscredenti che non credono in Cristo e allora io corsi e presi a baciare dove quella donna aveva posato i piedi, mentre essa diceva:

«Sì, per questa porta è uscito il re della terra e dei Cieli!»

(*) Forse personificazione della Chiesa.

E alle sue parole una pioggia di Santo Spirito discese su me.

Ora vi narrerò brevemente, e in proporzione al dono conferitomi dal mio Signore per la salute delle vostre anime, la grandezza di quel giusto e la prova che egli sostenne.

   

   

C’era un re di Roma (*) chiamato Masfianòs (**) e il nome della sua donna era Sefenghià. E siccome costei per esser sterile non poteva aver figli, tutti e due vissero per dodici anni immersi nella tristezza; eppure eran giusti e largivano elemosine ai poveri e ai meschini ed offerte alle chiese.

(*) Bisanzio [L'Anatolia era nota come Rûm in tutto il Medio Oriente]. – (**) Massimiano?

Un giorno la regina entrò, per comunicarsi, nella chiesa in cui stavano le immagini di Pietro e Paolo e quella di Maria nostra Signora; si fermò fra le tre immagini e si prostrò davanti a Maria, dicendo:

– Concedimi un figlio che sia gradito a Te e al Figlio Tuo! Ché se non dovesse riuscir gradito a Tuo figlio, ebbene, allora negami per sempre la maternità!

Si inchinò allora l’immagine quasi dicesse:

– Sì.

La regina, consumata l’Eucaristia, rientrò nella sua casa.

In seguito concepì e partorì un figlio e ne fu grata al Signore. Gli posero a nome Ishàk, e Ishàk vuol dire perla margherita.

Quando il fanciullo compì i quaranta giorni, lo portarono alla chiesa per sottoporlo al rito cristiano e nella casa di Pietro e Paolo si radunò tutto il popolo. Il metropolita capo lo abbracciò, lo sollevò e, collocatolo davanti al tabernacolo, benedicendo disse:

– Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, colui che benedisse i nostri antichi Santi Padri, Lui ti benedica!

E mentre il metropolita capo benediceva il fanciullo, su questi sorse una gran luce che brillò come il sole e la luna e le stelle sì che tutti i rimiranti si stupirono e glorificarono Iddio; poi, dopo essersi comunicati, rientrarono nelle loro case.

La regina rientrò col suo bambino e per lui una gran festa fu fatta con somma letizia.

   

   

Raggiunto il dodicesimo anno, il fanciullo fu mandato presso un maestro a imparare la legge religiosa e i detti dei profeti, gli scritti degli apostoli e le loro interpretazioni e fu nominato diacono. Fu inoltre istruito nella legge civile, nella disciplina e anche nella caccia alle belve.

Il padre e la madre in seguito si consigliarono dicendo:

– Fidanziamolo fin che siamo in vita sì che possiamo gioire del suo matrimonio.

Ma mentre a questo attendevano, apparve in sogno al re Masfianòs un angelo di Dio che gli disse:

– Molte anime salverà tuo figlio. Una gran chiesa verrà su di lui costruita.

Svegliatosi, il re si recò dalla sua donna e le riferì:

– Senti! Questa notte è giunto a me un angelo di Dio a dirmi che nostro figlio compirà portenti e miracoli.

E anche alla regina l’angelo aveva detto:

– Sono venuto a visitarti. Costruisci una chiesa affinché io possa letificarti nel regno dei Cieli.

Quando poi il padre morì, si radunarono i grandi magistrati e i principi di Roma e presero Ishàk, il quale piangeva di un pianto amaro, e lo collocarono sul soglio. regale. E per sette anni regnò e pace e letizia nei suoi giorni regnarono.

   

   

Poi a lui scrisse il santo Pantalewòn di Zomaet:

– Amatissimo Ishàk, il regno della terra è caduco mentre quello dei Cieli non ha termine; il regno della terra invecchia e perisce ma quello dei Cieli non invecchia mai. O non hai compreso quel che dice nel Vangelo il nostro Signore?

«Cadono il cielo e la terra ma non cadrà la mia voce!»

E non hai forse sentito quel che di questo mondo Paolo disse?

«Esso è caduco e quelli che mangiarono sono come se non avessero mangiato; quelli che bevettero sono come se non avessero bevuto, quelli che si sono preparati sono come coloro che non lo fecero e quelli che si sono sposati sono come coloro che non si sposarono; perché passeggero è in questo mondo il soggiorno».

 E non hai sentito, o figlio mio Ishàk, quel che disse Luca evangelista?

«Chi ama più di me il padre e la madre non potrà perseverare; perché questo mondo è caduco; ma colui che compirà il volere di Dio, vivrà in eterno». 

Ishàk, figlio mio! Non dimenticare l’amore per Dio!

Giunto il messaggio, lo lesse Ishàk e pianse amaramente; nella notte si alzò a pregare e poi disse:

– O mio Signore Gesù Cristo, ti chiedo, ti supplico di ascoltare la preghiera ed esaudire la domanda del Tuo servo Ishàk: guidami per la retta via sì che per essa io possa andare!

Si mosse poi nella notte dalla sua dimora e, pervenuto al portone regale, ne uscì e camminò per l’oscurità. Gli apparve allora l’angelo che si chiama Gabriel, il quale lo fece salire su di un carro, lo coperse con le sue ali luminose e lo trasportò dalla terra di Roma a quella di Axum in quattro giorni. Essendo partito al canto del gallo, all’ora terza vi giunse. (*)

(*) Si noti l'analogia di questo notturno abbandono della reggia sia con quello del Buddha che con quello di Ioasaf nella Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf (di cui si veda l'edizione curata da Silvia Ronchey e Paolo Cesaretti per Rusconi, Milano, 1980) riguardo alla quale si ipotizzano peraltro eco buddhiste.

   

   

Pervenuto alla porta di Abbà Pantalewòn, questi per tre volte gli disse:

– Eulógison! (*)

(*) Saluto ecclesiastico [di benedizione] in lingua greca.

Uscì quindi incontro a lui e appena lo vide gli fece sul volto il segno della croce.

Così incontrandosi, si abbracciarono e si baciarono l’un l’altro e piansero amaramente. Esaltarono quindi Iddio dicendo:

– Gloria a Te, o Signore, che ci riunisti di lontano per la Tua tanta bontà, e così pure, o Signore, facci riunire con tutti i Tuoi santi nel regno dei Cieli!

E quando dopo dieci mesi e quattro giorni ritornarono i messi che Abbà Pantalewòn aveva mandato, e riferirono all’uomo di Dio la loro missione, si stupì grandemente costui e disse a Ishàk:

– Figlio mio Ishàk, non hai sentito il detto di Davide profeta:

«Prodigiosa è l’opera Tua e la mia anima molto la ricerca; non Ti resti ignorato quel che feci in segreto, ché il mio corpo non è sotto terra e i Tuoi occhi han visto quel che io compii sì che sul tuo libro tutto sarà menzionato».

Senti ora, figlio mio, le grandi opere di Dio che ci riunì di lontano come la chioccia raccoglie sotto le ali i pulcini.

E così passarono il giorno parlando insieme delle magnificenze di Dio.

Chiese poi il santo Ishàk ad Abbà Pantalewòn:

– Padre, vestimi lo schema (*) dei monaci!

(*) La fascia dell’ordine.

E Abbà Pantalewòn gli obiettò:

– Potrai tu portare lo schema dei monaci?

Rispose il santo Ishàk:

– Sì, ne sarò capace, o padre. O non hai udito ciò che il nostro Signore ha detto nel Vangelo?

«Quel che dipende dall’uomo non ha potere, ma possibile è tutto quel che dipende da Dio!».

Siccome disse Paolo:

«Chi ci farà abbandonare l’amore di Cristo? Forse il morbo o la miseria o la fame o l’esilio o la morte o la vita o l’uccisione o la mollezza o l’aprirsi di un baratro? Non è possibile che alcuna cosa ci faccia dimenticare l’amore per Cristo!»

Ma io voglio guadagnare questo amore, per Cristo e per me!

Quando allora dalla bocca del santo Ishàk sentì queste parole, si prosternò Abbà Pantalewòn e, benedicendo Iddio, disse ad Ishàk:

– Ti ha eletto Iddio per la esecuzione dei Suoi ordini.

E dopo ciò prese lo schema dei monaci, ne lo rivestì e lo benedì mentre pregava:

– O nostro Signore Gesù Cristo, Tu che benedicesti Antonio, e lo facesti capo dei monaci, sia santificato il Tuo schema!

Quello che Elia donò a Eliseo quando salì in cielo e fece scendere su lui le sue vesti e per quelle vesti largì il doppio di Santo Spirito, tanto che fece uscire i dèmoni dagli invasati, risuscitò i morti e purificò i lebbrosi e non si fermò che in cielo.

Sia santificato il Tuo schema! Dio, che santificò il sacerdozio di Melchisedec, santifichi ora il tuo sacerdozio!

Poi per un anno rimasero insieme.

   

   

E quando i santi fratelli seppero che il santo Ishàk era emigrato e aveva abbandonato il suo regno, vennero, e furono i fratelli: (*) Abbà Licanòs di Costantinopoli, Abbà Imatà di Kosiat, Abbà Zehmà di Antiochia, Abbà Gubà di Cilicia, Abbà Afzè di Efeso, Abbà Metàa di Rumià e Abbà Oz di Cesarea.

(*) Sono i celebri missionari venuti in Etiopia dall’Asia Minore [questi sette, insieme con Abbà Pantalewòn e Abbà Garimà sono i Nove Santi che introdussero in Etiopia il cristianesimo monofisita].

Giunsero i santi padri là dove stava Abbà Pantalewòn col santo Ishàk e tutti fra loro si abbracciarono con un abbraccio spirituale e dimorarono in preghiera in una casa sola. E c’era fra loro chi attendeva alla cucina, chi ai letti, chi ai poveri e così vissero per lo spazio di un anno.

E quando si raccoglievano a mensa, scendeva su loro una lampada che risplendeva come un sole. Essi non gustavano grano che alla sera; nei quattro Sabati, nel giorno di Genàha, al Natale, all’Epifania e nel giorno di Cana non toccavano cibo eccetto la Carne e il Sangue di Cristo. E alla Pasqua e alla Pentecoste non gustavano che tre acini d’uva.

   

   

Mentre così vivevano, capitò da loro un governatore di Axum il quale, conversando, ebbe a dire:

– C’è un serpente immane (*) ed è il re del paese d’Etiopia; tutti a lui si inchinano i governatori e usano dargli in offerta una vergine, bella d’aspetto, con cibi e dolciumi; e la portano davanti a quel serpente e la lasciano sola, poi il serpente la inghiotte. Da venticinque anni dura la cosa.

(*) In Nyame Akuma. Bulletin of the Society of Africanist Archaeologists, 2001, n. 55  (http://cohesion.rice.edu/CentersAndInst/SAFA/emplibrary/55_ch04.pdf) si parla di «due montagne con un importante significato simbolico nelle tradizioni locali: la cosiddetta Montagna del Serpente a occidente e Abbà Garimà a oriente di Axum».

Quel serpente è lungo centosettanta cubiti e quattro è grosso; un cubito son lunghi i suoi denti. I suoi occhi sembrano lingue di fuoco e le sopracciglia sono nere come l’ala di un corvo; tutto il corpo sembra di piombo o di bronzo. Quando beve non bastano diciassette misure e a lui recano per cibo ogni giorno dieci vacche, dieci buoi, mille capre, cento pecore e migliaia di volatili. Porta un corno lungo tre cubiti e quando cammina si sente lo strepito ad otto giornate di marcia.

I fratelli si stupirono a sentir ciò e fecero le maggiori meraviglie, poi chiesero a quel governatore:

– È vero quanto dici?

– Sì, è vero – rispose – e se non lo credete, venga con me uno di voi e vedrà.

Allora si rivolse Abbà Pantalewòn al santo Ishàk:

– Che facciamo o figlio mio?

– Venga con me il fratello Oz e andiamo subito a vedere quel mostro se è vero che esista e non sia menzogna. E voi, o vegliardi, aspettate in preghiera il nostro ritorno!

Si alzarono quei due santi assieme a quel governatore e se ne andarono finché si incontrarono col serpente il quale, secondo il suo costume, se ne andava da una città all’altra e molti principi e governatori lo seguivano e lo precedevano.

Già sin dalla distanza di quattordici miglia avevano sentito un rumore di tuono mentre la terra rimbombava e le montagne si scuotevano, e a lui si prostravano i principi. Ma non appena lo scorse il santo padre Oz, e vide l’orrore di quel mostro, pieno di terrore venne meno sì che cadde al suolo.

Stese allora la mano il santo padre Ishàk e lo sollevò dicendogli:

– Perché tremi, o venerando Padre? O non hai mai sentito il detto di San Giovanni figlio di Zebedeo?

«Invero nel tuo timore c’è il castigo».

E ora, o fratello, andiamo a ricongiungerci coi nostri fratelli a riferir quanto abbiamo visto, e sia fatta la volontà di Dio!

E se ne tornarono i due e non appena da lontano li scorsero i fratelli, dissero loro:

– Siete salvi?

E quei sommi risposero:

– Sì, siam salvi.

E gli altri domandarono loro:

– Lo avete trovato quel serpente oppure non esiste?

Ed essi:

– Lo abbiamo scorto, è proprio come disse il governatore e abbiamo visto quanto sia terribile e spaventoso e la terra tremando non poteva sostenerlo e le montagne non potevano contenerlo e questo Padre per il terrore sul suo volto è caduto.

Rimproverarono allora i fratelli il Padre Oz dicendogli:

– Perché tremasti e venisti meno per cosa mortale? Ma allora quando verrà il nostro Signore fra lo spavento, il tremore e il terrore, allora che dirai?

E ora, fratelli, rivolgiamoci a Dio nostro Signore e supplichiamolo di poter trovare la salvezza dell’Etiopia; sì che Egli vi faccia regnare uno della stirpe di Isey (*) e delle ossa di David. Ma intanto giorno e notte dobbiamo osservare il digiuno!

(*) Cioè Yishay (Isai, Jesse), padre di Davide. Si ricordi che la dinastia imperiale etiopica viene fatta risalire a Salomone, figlio di Davide.

   

   

Così fra loro parlarono quei santi e, finita la riunione, entrarono nelle loro dimore e giorno e notte digiunarono, tutti concordi nel pensiero, nel consiglio e nel cuore.

Levarono poi al cielo tutti la mano stesa verso l’Oriente, dicendo:

– O Dio Padre del Signor nostro, nostro Redentore Gesù Cristo, Ti preghiamo e Ti supplichiamo, noi Tuoi servi sottomessi, e in Te cerchiamo pietà.

Ricordati di noi, o Signore, abbi clemenza per il Tuo popolo e sii clemente per noi con quella salvazione che da Te viene, sì che si veda il valore dei Tuoi eletti. Aiutaci con la potenza della Tua Croce!

Tu sei colui che appendesti in alto il cielo come una volta; Tu sei Colui che senza base fondasti la terra; Tu che ricingesti di sabbia il mare; Tu che creasti la tenebra della notte e la luce del giorno; Tu che creasti il sole e la luna; Tu che creasti tutte le stelle.

Tu sei Colui che separasti i fiumi e apristi le sorgenti e il giorno e la notte sono Tuoi; Tu fosti a creare Adamo; Tu a guidare il Tuo popolo di giorno con una nube e per tutta la notte con una luce di fuoco; Tu che per quarant’anni lo nutristi facendo piover su loro la manna dal cielo e carne come polvere affinché mangiassero e si saziassero. E poi essi furono spergiuri e ribelli, siccome è detto nel Libro:

«Mangino e bevano i popoli! Ma poi sorsero per danzare e li distrusse la pestilenza».

« Non tentate il Signore!» fu loro detto, eppur lo tentarono e li distrusse il serpente.

E loro fu detto:

«Non commettete adulterio!»

E non mancò fra loro chi fu adultero e in un giorno ventiduemila uomini morirono.

Tu sei Colui che compisti il gran prodigio da solo; Tu che benedicesti e creasti il cielo e la terra, i monti e le colline e ogni cosa. Tu sei che creasti la giocondità dell’aere e le cose piacevoli e i frutti della terra; Tu che benedicesti il seno della Vergine col Tuo portarti; Tu che col Tuo battesimo benedicesti il Giordano; Tu che trasformasti l’acqua in vino e ne dissetasti i Tuoi discepoli; Tu che cambiasti l’acqua dolce in amara e quella amara la facesti dolce; Tu che santificasti il giorno; Tu che santificasti la notte; Tu che santificasti la tenebra e la luce; Tu che coronasti il cielo di stelle; Tu che sei venerato dagli angeli e dagli arcangeli, dai potenti e dai signori; Ti esalta Mikael, e Gabriel e tutti gli altri della legione degli angeli a Te si inchinano.

Orsù, o Signor nostro Gesù Cristo, Ti preghiamo e Ti supplichiamo, noi Tuoi servi sottomessi, affinché ci mandi il Tuo aiuto dal cielo e la Tua eccelsa possanza dalla Tua santa sede contro il maledetto serpente che inganna le genti della Tua santa città e della Tua Chiesa; quella che Tu redimesti con la Tua Croce e per la quale sei stato clemente con la Tua morte; quella che col Tuo Sangue santificasti, e con la Tua potenza soccorresti, allorché la usasti contro Faraone ribelle quando lo sommergesti come piombo nel mare.

Allo stesso modo, o Signore, sfracella la testa di questo maledetto serpente e trattalo, o Signore, come Ario, come Ambares nel campo di Sisàra o come Iyabis sul fiume Kisòn, colpito dalla Tua ira! (*)

(*) Di questi nomi, alcuni sembrano chiari e altri no. Ario è l'eresiarca negatore della Trinità; gli altri sono forse tratti da Giudici IV, dove si parla appunto del torrente Qîshôn (Kison) e di Siserâ (Sisara), che però non è un  campo o il padrone di un campo bensì il capo, ucciso da Giaele, dell'esercito di Yâbîn. Forse Iyabis è dunque una forma per Yâbîn,  mentre mi risulta del tutto oscuro chi sia Ambares.

O Signore, puniscilo col Tuo castigo! Colpiscilo col Tuo dardo acuto! Trafiggilo! Fa scendere su di lui la punizione affinché per tutto il mondo sia nota la grandezza della Tua gloria in eterno, amen!

Così pregando stettero quaranta giorni e quaranta notti senza gustar cibo né acqua eccetto i quattro Sabati, che vennero contati col digiuno.

   

   

E mentre eran così d’accordo intenti, giunsero Mikael e Gabriel capi degli angeli, in aspetto di monaci stranieri, e dissero loro: Eulógison! per tre volte. E chiesero loro i santi:

– Chi siete?

– Noi siamo servi del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, unico Iddio.

Replicarono gli altri:

– Se veramente siete servi del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, allora, o fratelli nostri, oprate rettamente!

Ed entrarono quelli presso di loro e si abbracciarono di un abbraccio spirituale; poi tutti insieme conversarono della grandezza di Dio e dell’utilità e della fede e dei Libri. E poiché smisero di conversare, chiesero i santi agli angeli:

– Di dove giungeste, o fratelli?

Risposero:

– Di lontano.

E quelli:

– Ma da qual luogo?

E gli altri:

– Dal monte Sinai.

E soggiunsero:

– Quando vide Iddio il vostro travaglio ci mandò a visitarvi.

E i santi:

– Da quanti mesi partiste dal monte Sinai?

Risposero:

– Per volere di Dio a voi giungemmo in un’ora.

Al sentir ciò i santi si alzarono per ringraziare Dio e a Lui si prostrarono. E allorché si approssimò l’ora della cena, il santo Ishàk si alzò e prese a lavare i piedi di Mikael, mentre il santo Padre Oz lavava quelli di Gabriel; e poi che ebbero finito di lavare i piedi ai santi angeli, e ne bevettero l’acqua impolverata, si misero a cena e allora discese la lampada cui erano abituati. Ma prima che finissero di cenare, sentirono una voce la quale andava loro attorno e diceva:

– Salute a voi, miei diletti! Ho udito la vostra prece ed eccomi, ho inviato presso di voi Mikael e Gabriel e si trovano ora alla vostra mensa. Tutto quel che desiderate per voi lo compirò.

All’udir quella voce i santi lasciarono la mensa e si prostrarono a Dio ringraziandolo per il suo prodigio; poi, rivolti agli angeli:

– Ci eravate sembrati uomini come noi, o nostri Signori.

E risposero gli angeli:

– Ci ha inviati Cristo al contemplare il vostro travaglio e la bellezza della vostra costanza. Davvero vedrete realizzarsi il miracolo di Dio e ora, o fratelli, salute a voi!

Ciò detto scomparvero dai loro occhi, assunti in cielo.

I santi rimasero colpiti da stupore e ammirarono il miracolo di Dio; finché fu giorno e per tutta la notte non dormirono e non il minimo desiderio di sonno li colse. Iddio poi fece scendere dal cielo un fulmine sul serpente maledetto e in dodici pezzi lo ridusse percuotendolo con la spada di fuoco.

   

   

Quando fu giorno si alzarono i santi per la preghiera dell’alba e, allo spuntar del sole, i nove fratelli, riuniti nello stesso luogo, finirono di pregare. Ed ecco giungere a loro nostro Signore e Redentore Gesù Cristo in sembianza d’uomo e loro disse:

– Salute a voi, fratelli!

Risposero:

– A Dio salute, e sia con te, fratello!

Ed Egli aggiunse:

– Ha udito Iddio la vostra prece e la vostra penitenza e ha ucciso il serpente. Sono venuto a darvi la lieta novella.

Allora gli dissero:

– Ricompensi Iddio la tua pena. Da dove giungesti, e quale è il tuo paese?

Rispose loro:

– Il mio paese è la terra della luce, sono giunto da Betlemme di Giudea.

E replicarono:

– Quando sei giunto?

Rispose:

– La vostra preghiera mi ha fatto giungere in questa istessa ora.

Gli dissero allora:

– Quando partisti da Betlemme di Giudea?

Rispose:

– Ieri sera e fui portato a voi in meno di tre ore.

Soggiunsero:

– Venite! Andiamo a vedere quel nostro nemico!

E si misero in cammino e Gesù li precedeva. Dopo aver percorso lo spazio di una tappa, giunse una nube luminosa e li portò lontano e allora egli disse loro:

– Forse non mi riconoscete?

Gli risposero:

– Ma chi sei, o Signore?

Egli replicò:

– Sono io Cristo, il vostro Dio. Quando vidi la virtù vostra e la vostra bella costanza, giunsi per visitarvi e il serpente maledetto lo ho ucciso e farò regnare al suo posto un uomo pio, di nome Kalèb, della stirpe di un leone, retto di fede, il quale farà sorgere in questa città un gran chiesa nel nome di Maria mia Madre.

Quanto a voi: non rimarrete raccolti, ma vi separerete e vivrete in luoghi diversi e per le vostre mani grandi prodigi si compiranno.

E quando i santi sentirono ciò, gli si prostrarono davanti dicendo:

– Perdonaci, o Signore, perdona a noi uomini che abbiamo osato considerarti a noi eguale e, non conoscendoti, o Signore, abbiamo discusso con te; noi polvere abbiamo discorso col fuoco, noi peccatori abbiamo discorso col Giusto, noi pulverulenti abbiamo parlato col Celeste.

Perdonaci, o Signore, quel che facemmo per la nostra pazzia e senza volerlo! Qual è l’uomo che non commette peccato e qual è il legno che non manda fumo? E noi siamo peccatori.

Rispose il Redentore:

– O non avete sentito quel che dice il Vangelo?

«Non son venuto per giudicare il mondo, ma per farlo vivere».

Quanto a voi, vi ho perdonato e non vi sarà più memoria dei peccati da voi commessi. E ora sorgete! Ritornate alla vostra sede e io in ogni istante con voi sarò. Salute a voi, fratelli!

Li benedisse e in somma gloria ascese in Cielo.

E mentre a Lui nuovamente si inchinavano, mandò loro quella nube a posarsi là dove stava il cadavere di quell’animale immondo sì che lo videro e grandemente si stupirono e glorificarono Iddio dicendo:

– Sia gloria al Tuo regno e al Tuo Padre Celeste e allo Spirito Santo vivificatore, in eterno, amen!

E dopo essersi ancora a Lui prostrati se ne tornarono di là dove giaceva il cadavere del serpente e si ridussero nella loro dimora, fra loro conversando delle meraviglie divine.

   

   

In quei giorni, dopo la morte di quell’empio loro re, imperversarono in Etiopia disordini, (*) odio e strage. Quando poi vide Iddio ritornare in paese la dirittura e la fede, un uomo forte e possente vi mandò di nome Kalèb, e sull’Etiopia lo mise a regnare.

(*) Per la successione al trono.

Seguitarono insieme per tre anni i nove fratelli a compier miracoli e portenti e altre cose meravigliose. Dio sempre li contemplava, il Redentore li riguardava quando risuscitavano i defunti e purificavano i lebbrosi con le loro preghiere e ridonavano la vista ai ciechi e raddrizzavano gli storpi e ridavano l’udito ai sordi e compivano tanti altri prodigi. La face frattanto sempre scendeva alla loro mensa dal Cielo. E così stettero per tredici anni.

   

   

Giunse poi a loro un monaco di nome Melkianòs, il quale non conosceva altro lavoro che intrecciare i capelli alle donne e viveva col compenso che ne traeva. Egli si fermò presso loro mangiando da solo il suo pane. Sennonché i santi cominciarono a sparlare di quel monaco e subito da loro si ritrasse quella tal face e illuminò solo Melkianòs, sì che i santi si dissero:

– Dov’è la nostra face la quale prima scendeva sulla nostra mensa? Perché a noi si cela?

E loro disse il monaco:

– Ma oggi, o Signori, per me risplende quella luce.

Allora essi vi pensarono e conclusero:

– È a motivo del nostro sparlare del monaco.

Si abbracciarono allora tutti amaramente piangendo e così addolorati restarono per quaranta giorni e quaranta notti e non toccarono né cibo né acqua eccetto i due Sabati.

In seguito, un giorno si dissero fra loro:

– Separiamoci e andiamo ciascuno per conto nostro. 

Piansero amaramente e si separarono l’un dall’altro e il santo Ishàk se ne andò in un luogo chiamato Madarà e colà dimorò molti giorni compiendo miracoli e portenti. Sia con noi la sua preghiera e la sua benedizione! Amen, amen!

   

   

1° miracolo. – Il santo Ishàk incontrò un uomo da ventitré anni invasato dal demonio. Andava egli attorno per le tombe e ululava e si feriva la schiena con le pietre. Lo avevano preso e incatenato i suoi parenti e lo trassero come un cane impazzito; quando lo portarono davanti al santo Ishàk, quel demonio, vedendolo, gridò:

– O santo di Dio, sei venuto per distruggermi con la tua preghiera?

Allora il santo gli fece il segno della croce e gli disse:

– Taci!

E subito tacque e finì il maleficio ed uscì dall’invasato, il quale sbuffando fu preso da convulsioni in mezzo alla folla. Per tre volte lo riscosse sin che molti dissero:

– È morto.

E i parenti amaramente piangevano.

Ma loro disse il santo:

– Non piangete! Ché vedrete la potenza di Cristo.

E si alzò il santo, gli prese la mano e gli sollevò il capo dicendo:

– Alzati per la possanza di Dio!

Subito allora si alzò e si prostrò ai piedi del santo Ishàk, il quale soggiunse:

– Rialzati, figlio mio!

E lo rialzò il santo e lo segnò col segno della croce mentre a lui tutte le membra si calmavano. E tutti coloro che si erano radunati, quando videro il miracolo, glorificarono Dio e si prostrarono al santo Ishàk; che abbia, con la sua preghiera, misericordia di noi!

   

   

2°. Venne poi una donna alla quale da quaranta anni il sangue non cessava di uscire e giorno e notte. Si prostrò essa ai piedi del santo Ishàk il quale le chiese:

– Che dici?

Ed essa a lui:

– Guarda la tua ancella!

E il santo:

– Che posso farti, o figlia mia?

Rispose la donna:

– Da quaranta anni sono ammalata e mi vergogno davanti alla gente per il sangue che mi scorre fuori dalle membra e non cessa né giorno né notte. Ora ho sentito narrar di te e a te sono venuta.

Le disse il santo:

– Per tre giorni abbi pazienza, poi manderò a chiamarti.

Se ne andò quella donna e da quando si allontanò dal santo le si fermò il sangue. Il giorno dopo mandò egli a chiamarla ed essa a lui venne e gli si prosternò davanti. Egli le disse:

– Stai bene, figlia mia?

Rispose:

– Sì, o mio signore; da quando presi congedo da te mi protesse la tua santa preghiera e mi si fermò il flusso del sangue.

Allora egli soggiunse:

– Che il Signore ti sia clemente! Ama Iddio con tutto il cuore e con tutto l’ardore!

Rispose la donna:

– Sì, così farò o venerato mio padre.

Allora il santo prese acqua benedetta e la battezzò in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, poi la rimandò alla sua casa.

E in seguito essa partorì figli maschi.

I preti di Madarà elessero il santo Ishàk a loro capo e là seguitò a vivere compiendo miracoli e portenti, liberando dai dèmoni gli invasati, purificando i lebbrosi e risuscitando i morti. E così seguitò per diciassette anni. Che la sua preghiera sia con noi, amen!

   

   

3°. Un giorno il santo prese alcuni canestri di frumento e andò a seminare; ebbene, nello spazio dalle tre del mattino sino alle tre del giorno, e aveva fatto quarantaquattro solchi, il grano subito germogliò e alle undici formò le spighe. Prese egli allora quel grano e a mezzogiorno ne fece un’offerta.

Il giorno dopo vi mise sopra un tronco d’albero e tre buoi e lo trebbiò e ne raccolse settantasette misure. E quel grano non lo conservò, ma tutto lo donò ai poveri e agli indigenti e per suo nutrimento si riservò l’amore di Dio. E null’altro possedeva all’infuori del vestito, del cappuccio e della fascia. Per la sua preghiera abbia Iddio di noi misericordia in eterno, amen!

   

   

4°. Un giorno prese un libro e la penna e cominciò a scrivere, poi si alzò per la preghiera della sera. Ma per lui scrissero gli angeli in quattro ore il Vangelo e la sua traduzione.

Sempre lo servivano gli angeli di Cristo nostro Signore e passeggiavano con lui. E la cosa si diffuse per tutto il paese. Che la sua preghiera e la sua benedizione siano con noi.

   

   

5°. C’era una donna che aveva una figlia bella nel volto e mirabile d’aspetto. Molti l’avevano richiesta in matrimonio, ma sempre essa rispondeva:

– Mi sono decisa alle nozze con Cristo, Sposo Celeste, e a Cristo mi sono promessa; ché per me sono molto meglio le nozze in Cielo, le quali non sono caduche.

Dieci inverni aveva vissuto quella fanciulla e non usciva mai di casa, né di giorno né di notte, senza farsi sul volto il segno della croce. Ma avvenne un giorno che si dimenticasse di segnarsi e di dire: in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Ora, nell’uscir dalla soglia di casa sua, si incontrò con un diavolo che aveva la sembianza di un giovane di bell’aspetto ed essa gli disse:

– O nero nemico delle cose belle, chi ti ha condotto in questo luogo?

Nulla rispose il dèmone, nemmeno una parola, ma la sollevò e la scagliò su una gran pietra sulla quale essa giacque per quattro giorni come morta, senza mangiare né bere, poi si risvegliò pazza. Si strappò le vesti e rimase nuda in mezzo ai giovani comportandosi da persona senza intelletto.

La legarono allora con catene, ma i ceppi essa rompeva quasi fossero cannucce e si mise a vagar fra le tombe e correva veloce come un dardo scoccato dall’arciere, o come una gazzella, sicché nessuno dei giovani poteva raggiungerla. E così seguitò per tre anni, rimanendo sfiorita la bellezza del volto.

Ora la madre ebbe la notizia della fama del santo Ishàk e si mosse per recarsi da lui e giunse a Madarà. Ivi giunta si fermò a lui davanti e gli si prostrò.

Le chiese il santo:

– Che mi dici, o donna, tu che mi baci i piedi?

Rispose:

– Non ho altri figli che io possa allevare, se non una ragazza, e se la è presa il demonio; e io invero peccai nel non sorvegliarla. Molto mi rattristo sulla mia sorte, o Padre; se casco ammalata non c’è chi mi sollevi né chi mi seppellisca.

E amaramente davanti a lui piangeva.

Al vederla piangere, pianse con lei quel giusto e le disse:

– Credi tu nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo?

Rispose:

– Sì, da tempo vi credo e vivo con la fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Anzi la mia figliola si era consacrata a Cristo e a Lui si era fidanzata per il regno dei Cieli.

– È vero quel che dici? – soggiunse il santo, e la donna rispose:

– Sì, è vero, o mio signore.

Allora il santo:

– Dov’è tua figlia? È qui o è rimasta al tuo paese?

Rispose:

– Non può qui giungere, e chi potrebbe portarla? I ceppi essa infrange come fossero erba.

Allora il santo Ishàk le ordinò:

– Ritìrati, finché io ti chiami!

Uscì la donna ed egli si alzò stendendo la mano al cielo e volgendo il volto verso Oriente; e così dicendo pregò:

– O mio Signore Gesù Cristo, Ti prego e Ti supplico, io Tuo servo sottomesso; ascolta, o Signore, la mia prece e la mia richiesta! Tu che esaudisti la preghiera di Pietro nella città di Lidda quando trovò Enea giacente paralizzato sul letto, e gli disse:

– Sorgi, o Enea, ti ha esaudito il Signore, sorgi e solleva e porta anche il tuo letto!

E quegli allora si alzò e sollevò il letto e si mise ad andare.

E siccome esaudisti la preghiera dei Tuoi apostoli mentre predicavano nei loro paesi, così anche a me, Tuo servo, esaudisci la preghiera che a Te rivolgo: scaccia, o Signore, da lei lo spirito demoniaco e riempila di Spirito Santo, poiché si cibò della Tua Carne e bevve del Tuo Sangue; perché a Te è gloria e laude e venerazione e ossequienza, come al Padre Tuo Celeste e allo Spirito Santo vivificatore, in eterno, amen!

E mentre il santo così pregava, venne a lui nostro Signore Gesù Cristo nell’aspetto di un bel giovane e gli disse:

– Salute a te, o mio diletto Ishàk, ho udito la tua preghiera e la tua domanda, sì che per te farò quel che desideri.

Rispose il santo:

– Fa vedere, o mio Dio, la tua possanza sul diavolo il quale ha reso inferma la Tua ancella e manda Mikael affinché qui la rechi, quella ragazza, dal suo paese.

E mentre così egli conversava col Redentore, Mikael condusse la ragazza. La chiamò il santo e essa si mosse e andò da lui, mentre Dio con Mikael scomparivano alla loro vista e la madre contemplava la sua figliola ritta davanti al santo Ishàk.

Come la vide, si stupì oltre misura e si prostrò ai piedi del santo dicendo:

– Sei tu Iddio? O sei il Figlio di Dio oppure il Paracleto? Quale sei tu dei tre?

Rispose il santo:

– Non sono di loro, ma soltanto un servo dei tre gran Nomi.

E rivoltosi alla ragazza la segnò col segno della croce sì che subito ne usci il dèmone nell’aspetto di un brutto giovane, alto quattro braccia. E appena uscito, quel diavolo malvagio cadde sotto i piedi del santo Ishàk e pareva un cadavere.

La madre a rimirar la ragazza piangeva amaramente, e allora le disse il santo:

– Non piangere, o donna!

Poi si alzò e toccò la testa alla figlia dicendole:

– Ora alzati!

Si alzò la ragazza e, quando aprì gli occhi, vide il santo e vide sua madre e allora si gettò ai piedi di lui. Si rivolse frattanto il santo al demonio:

– Di dove sei tu?

Rispose:

– Della coorte di Leghewòn (*) sono io. 

(*) Demone che in un talismano riportato alla pagina http://www.uihealthcare.com/depts/medmuseum/galleryexhibits/artthatheals/10knowledge.html viene collegato alle convulsioni. Riproduco qui sotto l'immagine, traducendone anche la spiegazione.

«Croci talismaniche, alcune delle quali accompagnate dai nomi segreti dei membri della Trinità. A destra, l'agnello di Dio, invocato contro "la malattia di  Barya e Legewon", ovvero le convulsioni, a favore di un uomo chiamato Walda Maryam. La preghiera scritta sotto, al centro, ha la stessa funzione. Alcuni motivi provengono dalla Rete di Salomone [un'orazione contro i demoni]. Fogli di pergamena come questa  erano ripiegati in un borsellino e portati con sé dagli abitanti della provincia di Gojjam, che per lo stesso scopo usavano altresì dei rotoli di carta, per quanto più rozzi che nel Tigray. Ventesimo secolo, pergamena, 28,5 x 51 cm. Collezione privata. Foto gentilmente fornita da Guy Vivien.
Testo gentilmente fornito da: Jacques Mercier, Art That Heals: the Image as Medicine in Ethiopia, Prestel Books and The Museum For African Art, New York, 1997».

Replicò il santo:

– Perché hai invasato questa ragazza? 

E a lui di rimando l’odiatore di ogni bellezza:

– Mi ha offeso e per ciò la ho invasata. 

Riprese il santo:

– In che modo ti ha offeso?

Rispose:

– O Padre, passavo tutto tranquillo quando mi scontrai con lei che usciva di casa sua e mi insultò col dirmi: «Di dove sei uscito, o nero odiatore delle bellezze?» È per questo che me ne impadronii.

E il santo:

– O maledetto, ti perda Iddio! E ora va all’inferno, presso il padre tuo, il maligno odiatore di ogni bellezza, là in mezzo al pianto e allo stridor di denti, in seno alla tenebra!

Poi battezzò la ragazza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e le disse:

– Alzati, o figlia mia, e ritorna al tuo paese.

Gli rispose la madre:

– Non posso ritornare al mio paese; io e mia figlia moriremo qui da te, con te che le hai con la tua preghiera ridata la vita. Noi da te non ci separeremo.

Egli replicò:

– Va, ritorna in pace e il nostro Signor Gesù sia con te.

E, benedette da lui, se ne andarono al paese loro dove tutta la gente si stupì al veder quella fanciulla.

Il santo Ishàk seguitò a compiere miracoli e portenti, e tutti i miracoli e i portenti che compì, se fossero scritti uno per uno, molta carta non basterebbe. Che con la sua preghiera tutti ci preservi, amen!

   

   

6°. Un giorno vennero a Ishàk due altri santi i quali santamente lo abbracciarono e rimasero con lui per ricevere conforto ed egli ebbe per loro parole di consolazione. Essendosi levata ogni preoccupazione, da lui si congedarono per andarsene e tornare al loro paese, ma disse loro il santo:

– Aspettatemi un poco.

E li fece entrare nella sua dimora e, preso cibo e bevanda, loro li offerse mentre essi dicevano:

– Per la tua carità, gusteremo questo cibo.

Ed egli rispose:

– Sia come voi dite, o miei fratelli.

E si rifocillarono mangiando e bevendo alquanto, poi se ne uscirono ringraziando il Signore.

E se ne andarono al loro paese; ma il santo Ishàk non aveva per nulla toccato cibo.

Quando fu sera, il custode della chiesa riferì ai suoi compagni:

– Badate che Ishàk ha cenato con quei monaci.

E soggiunse un altro dei famigli della chiesa:

– Chiamiamo Ishàk a celebrare la Comunione!

Chiamato il santo Ishàk gli dissero:

– Vieni in chiesa poiché non c’è nessun altro che possa celebrare l’Eucaristia.

Egli si accinse e gli fecero scendere gli angeli dal cielo già pronte le vesti e i paramenti sacri e, compiuto il rito, ritornò nella sua abitazione.

Due di quei famigli si recarono allora presso Abbà Pantalewòn per dirgli:

– Ishàk ha celebrato la Comunione dopo aver cenato!

Chiese loro il santo Pantalewòn:

– Dite il vero?

Risposero:

– Sì, è vero!

Soggiunse egli:

– Siete pronti a giurarlo per il Padre, per il Figlio e per lo Spirito Santo?

Ed essi:

Sì, lo giuriamo per il Padre, per il Figlio e per lo Spirito Santo, e anche per il santo tuo schema lo giuriamo!

– Allora giurate!

E giurarono. Si addolorò, a sentir questo, Abbà Pantalewòn sino a piangere e mandò a chiamare il santo Ishàk e a dirgli:

– Vieni, figlio mio, incontriamoci, perché debbo parlarti a lungo e parleremo per istrada.

Giunsero i messaggeri a recar l’ambasciata al santo Ishàk, il quale loro rispose:

– Va bene!

E all’indomani si mosse e gran popolo coi monaci lo seguiva.

Si incontrarono i due santi sulla via e si abbracciarono di un abbraccio spirituale e restarono entrambi sulla strada conversando di cose salutari, finché il santo Pantalewòn entrò in argomento dicendogli:

– O figlio mio Ishàk, ho a parlarti di cosa grave e inaudita.

Rispose il santo Ishàk:

– Di’ pure, o padre venerato.

E allora Abbà Pantalewòn:

– Che quella gente si allontani da noi!

E il santo Ishàk:

– E loro non solo, ma anche gli alberi dei campi e le pietre.

E appena ebbe così detto, gli alberi e le pietre si allontanarono da dove stavano i due benedetti, per uno spazio di cinque miglia.

A quella vista il santo Abbà Pantalewòn si alzò e si prosternò davanti a lui, poi lo baciò in viso e gli disse:

– O padre venerato, mi hai fatto stupire al tuo miracolo!

E perciò a lui restò il nome di Abbà Garimà. (*)

(*) Ossia: Padre Miracoloso.

E il santo Abbà Garimà chiese al compagno:

– O padre venerato, per qual motivo mi hai chiamato? Di che si tratta?

Rispose il santo padre Abbà Pantalewòn ad Abbà Garimà:

– Invero la grazia di Dio è con te. Ascolta! Due uomini ti accusano.

– Informami allora per qual motivo – replicò l’altro.

E Abbà Pantalewòn:

– Hai celebrato la Comunione dopo aver mangiato con alcuni fratelli.

Allora Abbà Garimà gli riferì tutto quel che era avvenuto, dal principio alla fine, e quando il santo Pantalewòn ebbe udito, così maledì quei due uomini:

– Maledetti siate per la bocca del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e ancor per la bocca di nostra Signora Maria e per la bocca dei giusti e dei martiri.

E tutti dal cielo e dalla terra fecero coro:

– Amen, amen! Così sia!

Poi Abbà Pantalewòn, rivolto ad Abbà Garimà:

– Con me siano la tua preghiera e la tua benedizione!

E l’altro gli rispose:

– Alla tua preghiera mi sono affidato, o padre venerando!

Poi, riavuta la pace, rientrarono ciascuno alla propria dimora. Che possiamo scampare dall’abisso dell’inferno per la benedizione del santo Abbà Garimà, in eterno, amen!

   

   

7°. E mentre stava un giorno mettendo per iscritto la voce della Divinità, giunse la pace dell’ora dodicesima. Egli allora, per finire, fe’ cenno al sole perché si fermasse, e si fermò per oltre tre ore, sì che il santo poté compiere la sua preghiera, poi subito tramontò. Ringraziò egli allora Iddio per i portenti che compie sui suoi santi.

   

   

8°. C’era un asino maschio il quale serviva ad Abbà Garimà e gli portava il Vangelo e dieci misure del suo grano; lo guidavano Mikael e Gabriel e lo facevano pervenire alla sede del santo Kirkòs. (*) E sempre ogni due mesi, di anno in anno lo facevano giungere.

(*) Non mi sembra affatto chiaro cosa sia questa "sede del santo Kirkòs". Kirkòs è Kyriakos (Ciriaco), e se ben capisco c'è in Etiopia una chiesa di San Kirkòs nell'isoletta Tana Kirkòs sul lago Tana, dove tradizioni etiopiche dicono che sostassero sia la Madonna durante la fuga in Egitto sia il primo vescovo d'Etiopia Frumezio, e dove secondo qualche altra leggenda (ampiamente sfruttata di recente da autori come Graham Hancock) sarebbe stata nascosta per secoli l'Arca dell'Alleanza prima di essere trasportata ad Axum, destinazione quest'ultima asserita dal Kebra Nagast (trad. inglese di E. A. Wallis Budge: The Queen of Sheba and Her Only Son Menyelek (I) or The Kebra Nagast, Londra, 1932, leggibile on line all'indirizzo http://www.sacred-texts.com/chr/kn/index.htm).

Dopo avere in tal modo per dodici anni servito, e sempre lo cibavano con pane e lo avevano nominato: servo di Kirkòs, si ammalò gravemente quell’asino e morì senza che si sapesse. Poi apparve Kirkòs a un sacerdote e gli disse:

– Alzati, o padre, e seppellisci quell’asino là dove è caduto.

Quindi lo rintracciarono e lo seppellirono al ventisette di Tir. (*)

(*) Gennaio-Febbraio. Una veloce descrizione del calendario etiopico, fatta dal cap. Isidoro Baroni nel 1908, si trova all'indirizzo http://guide.supereva.com/calendari/interventi/2004/04/156597.shtml (in uso tre ere: a partire dall'incoronazione di Diocleziano nel 284 d.C., oppure dalla creazione del mondo fissata nel 5493 a. C., oppure dalla nascita di Cristo ma con un ritardo dal gregoriano di circa 7 anni e 8 mesi).

Quando lo seppe Abbà, Garimà, pianse amaramente e poi compì un gran miracolo.

Mentre stava un giorno scrivendo all’ombra di un albero, sputò la sua saliva su una gran pietra e ne sgorgò una sorgente salutare sì che molti malati, aspergendosene, guarirono. E così possa anche voi guarire dal male del peccato, in eterno, amen!

   

   

9°. Ascoltate ancora un grande miracolo. Mentre un giorno passava il santo Abbà Garimà, vide alcuni i quali coltivavano di Domenica e loro disse

– O maledetti! Come vi permettete di lavorare così di Domenica?

Allora essi l’insultarono atrocemente e in modo sconveniente e forte lo percossero tutti insieme. Egli allora li maledisse dicendo:

– Maledetti siate! Che non possiate gustare il grano che spunta dal vostro campo e vostro cibo sia l’erba gunt! (*) e vostra veste sia la corteccia degli alberi e non possa mai completarsi la costruzione della vostra chiesa! Che mai siano fidanzate le vostre figlie, e non si sposino vergini! Che non abbiate mai guadagno e i vostri armenti passino ad altri! Come avete violato la Domenica, così vi incolga la maledizione in eterno e di generazione in generazione e giammai vi giunga a termine un affare prima del tramonto del sole, né possiate gustar cibo il Sabato né possa accordarsi il vostro sacrificio con quello dei liberi, ma sia come il sacrificio di Roma!

(*) Una specie di loglio.

E così avendo detto, prese dell’acqua e si lavò le mani, poi la gettò sulla loro terra, come dice il nostro Signore nel Vangelo:

– Vi lascio la vostra polvere, che dal vostro paese a me si è attaccata.

   

   

Il re Gabra Maskàl, avendo sentito di tutti questi miracoli, si recò dal santo Ishàk il quale stava nel convento di Madarà, detto la Casa della Croce, e si prostrò ai suoi piedi supplicandolo di benedire il suo regno. E gli disse il santo:

– Ti benedica e benedica il tuo regno Colui che lo consolidò a Costantino, quand’egli ricercò il legno della Croce di Cristo! Colui che benedisse i fanciulli e li accolse nel suo seno dicendo: «chi accoglie un fanciullo in nome mio sarà come avesse accolto me stesso». Moltiplichi il tuo seme dopo di te e getti il tuo nemico sotto i tuoi piedi!

Allora il re gli fece molti doni e gli domandò:

– Dove ti costruirò la chiesa?

Si alzò il santo a pregare, vide scendere una gran luce su quella terra e disse:

– Qui conviene che tu costruisca per me.

Comandò allora il re che i validi dell’esercito trasportassero tronchi e pietre e là si radunarono i dotti artisti i quali sapevano come costruire, e la fecero sorgere in forma di croce con le sue fondamenta e i cortinaggi alla navata; tutto per la grandezza e la gloria di Abbà Garimà e, completata la costruzione con legnami e pietre e ferro, il re pronunciò queste parole:

– Per la grandezza di Abbà Garimà che compie i miracoli ho ultimato questo duomo.

Poi diede in dotazione la terra di Tafà con le sue basse vallate e le alte regioni, i boschi e i prati e le acque e tutti i viventi, affinché l’amministratore ne traesse il cibo pei monaci e, col priore del convento, potesse fare la commemorazione di Abbà Garimà. Diede anche Adua presso la distesa degli alberi dell’eremo di Mesàh e Sebeetò sino all’acqua di Lehkut.

Vietò poi il re Gabra Maskàl, sotto pena di scomunica, che vi intervenisse governatore o ministro, e aggiunse:

– E così facciano dopo di me i miei successori!

Poi riprese:

– Abbiamo fatto questa chiesa più grande ed onorata delle precedenti e di quelle che seguiranno, perché su di lei è scesa la voce del Padre, la voce di Dio nostro Signore Gesù Cristo con il quale conversano Mikael e Gabriel. Quel tempio assomiglia al tempio del Sinai o al tempio dell’arca e al fiume Giordano a motivo della voce di Dio che su di lui è discesa.

Per la preghiera, di Abbà Garimà, abbia Iddio misericordia di noi e ci perdoni i peccati nostri in eterno, amen!

   

   

10°. Un giorno prese il santo un tralcio d’uva e lo piantò sotto una roccia ad oriente di quella chiesa e subito in quello stesso giorno germogliò e fruttificò e col frutto egli fece un’offerta. Scese nel frattempo una luce e la benedì l’uomo di Dio.

Radunò poi molti uomini i quali avevano sentito della sua virtù e da lui appresero convenienti discorsi. Egli li rivestì con lo schema di purità e Abbà Garimà divenne come Antonio e Macario, stelle di luce, e ne sorsero quaranta comunità, ognuna con centocinquanta membri. E per essi istituì una regola di disciplina conveniente al monacato, sì che non sospendessero mai la preghiera, né di giorno né di notte.

   

   

11°. Un giorno discese il santo a metà del monte e benedisse il segno della santa croce e allora fece uscire acqua dalla roccia e colà sulla roccia depose le sue calzature, poi disse:

– Sia salute a chiunque se ne asperga con diritta fede.

Un’altra volta, mentre scriveva, gli cadde la penna e subito germogliò e fece stupire la gente sì che glorificarono Iddio il quale aveva su di lui manifestato i portenti che manifesta sui suoi santi i quali agiscono secondo il suo volere.

Riferirono poi al re Gabra Maskàl il miracolo del beato Abbà Garimà e allora il re lo proclamò beato e a lui si prostrò e nominò quel luogo Atrèt e a lui lo diede perché là aveva compiuto il miracolo; in più gli diede Ghibàt e i suoi sette paesi affinché celebrassero la commemorazione di Abbà Garimà e di Gabra Maskàl nel centro di Madarà.

   

   

12°. E un giorno, mentre Abbà Garimà e Abbà Yematò passavano fra due monti, l’odiatore delle bellezze fece rotolare su di loro un gran sasso. Ma subito Abbà Garimà lo benedì e quella pietra si fermò e là sino ad oggi si trova.

   

   

Poi il santo Pantalewòn gli mandò a dire:

– O figlio mio, vieni, incontriamoci prima che la mia anima esca dal corpo.

E quando quei due giusti s’incontrarono, fra di loro si abbracciarono e parlarono della grandezza di Dio. Gli narrò Abbà Garimà come fosse stato percosso e l’altro gli disse:

– Abbi pazienza, o figlio mio! O non hai sentito come percossero Cristo e lo spogliarono della veste! Abbi pazienza, o figlio mio! e gran ricompensa ne avrai nel regno dei Cieli.

E stettero riuniti quei due santi sino al 20 di Yakatìt (*) che è alla vigilia del digiuno, e finché fu compiuta la festa di Pasqua rimasero ancora insieme, poi si abbracciarono e amaramente piansero mentre dicevano:

– Non ci incontreremo più in questo mondo, sibbene nel regno dei Cieli.

(*) Febbraio-Marzo. 

E così avendo detto, ritornarono ciascuno alla sua dimora innalzando lodi al Signore.

E quanto al sacerdote Abbà Garimà, Dio gradì l’incenso di lui come aveva gradito l’incenso di Aronne e Zaccaria, e gradì la sua offerta come quella di Abele il giusto.

Invero se Abbà Garimà non fosse andato in Etiopia, sarebbe stato a Dio ribelle.

   

   

Dopo ciò, il dodici di Sanè (*) apparve ad Abbà Garimà il Redentore, il quale gli disse:

(*) Giugno-Luglio. 

– Salute a te, o mio diletto Abbà Garimà. Ecco, è stata intesa la tua preghiera e la tua domanda e sono giunto a te per allietarti. Eccomi qui a farti trasmigrare dal travaglio alla quiete e, poiché tu disprezzasti il regno della terra, ti darò quello dei Cieli, che non si corrompe né si distrugge.

Invece delle vesti di seta che hai disprezzato, rivestirò te di vesti che non si consumano e per le città di cui non ti curasti, a te concederò la Gerusalemme celeste.

Chi avrà poi celebrato la tua commemorazione e avrà avuto fede nella tua preghiera, io a lui concederò grazia al cospetto dei Celesti e degli uomini terreni, e lo farò ereditare il regno dei Cieli. E quanto a colui che avrà scritto il libro della tua prova, o chi lo avrà copiato o tradotto, io scriverò il suo nome nel libro della vita.

A chi avrà dato cibo agli affamati e acqua agli assetati, nel giorno della tua commemorazione, io lo nutrirò col pane della vita e nel calice della vita lo disseterò, quello che non si altera mai. Chi avrà pregato nel giorno della tua commemorazione io lo farò ascoltare l’inno degli arcangeli etèrei; e chi avrà invitato a cena i poveri e i meschini, io lo inviterò alla prima cena dei mille anni allorquando verrò a regnare coi giusti e coi martiri. Chi poi avrà nel giorno della tua commemorazione ricoperto colui che è senza vesti, io lo rivestirò con un abito talare che non è stato tessuto da mano umana.

Chi si sarà affaticato pel desiderio di ricopiare il racconto della tua prova, io lo farò lieto nel mio regno e allorché la sua anima uscirà dalla carne non lo farò accostare dagli angeli delle tenebre, ma lo collocherò fra gli angeli della luce; e diciassette luoghi di luce concederò a colui che ti avrà costruito una chiesa, né entrerà morbo o pestilenza o dolore nella casa in cui il tuo libro sarà conservato, né vi incoglierà morte di uomo o di bestiame o perdita di raccolto.

Colui che leggerà questo libro col cuore costante o lo avrà ascoltato senza stanchezza, io lo salverò da ogni tribolazione o morbo o infermità grave; e chi arrecherà offerte o incenso o profumo, nel mio regno lo farò entrare. Il re che donerà vesti di seta per rivestire la tua chiesa e onorerà la tua sede, lui pure accoglierò nel mio regno dopo averlo onorato con la sottomissione del nemico e l’incolumità e la quiete dei suoi governatori.

E come Iddio in tal modo ebbe parlato con Abbà Garimà, quest’uomo giusto rispose al Redentore:

– Per tutto quel che mi hai donato, io Ti ringrazio ed esalto il Tuo Nome. Ma per chi celebrerà la mia commemorazione, o copierà il libro della mia prova o avrà creduto nella mia preghiera, sino a quante generazioni avrai pietà di lui?

Rispose il Redentore:

– Sino a dodici generazioni, te lo giuro!

E al Redentore quel giusto:

– Ma se non avrà figli?

E il Redentore:

– Se non avrà figli, dodici volte a lui darò. Una buona nuova inoltre ti arreco: l’ombra della morte a te non si accosterà.

E così avendo detto lo salutò e ascese al cielo con grande gloria.

   

   

Il santo Abbà Garimà restò beato di somma letizia e, non appena albeggiò, disse ai fratelli:

– Salute a voi, o fratelli miei santi: fra poco non mi vedrete più nel mio corpo.

Amaramente piansero i fratelli alle sue parole e gli chiesero:

– A chi ci lasci?

Rispose:

– Io mi reco presso Cristo, il mio Dio, e presso Dio vi lascio. Custodite i miei precetti e praticateli!

E con quelle parole scomparve e non lo rividero mai più.

   

   

Finì egli in tal modo la sua prova il diciassette di Sanè. Che la sua preghiera e la sua benedizione siano con noi e ci custodiscano in eterno, amen!

E quando fu completamente scomparso per loro, si rammentarono della regola che egli aveva loro costituita, come quella già di Abbà Sinòda, e precisamente: di non accostarsi ad eucaristia terrena, di non santificare che gli eletti tra i monaci. E restarono in tristezza e in pianto perché si era separato da loro.

Quei monaci raggiungevano il numero di seimila. Uno fra loro così disse:

– Io ho visto, o fratelli, e Dio mi fece vedere, che dopo due anni di santità verrà distrutta la nostra santa sede, quella che il nostro Signore e gli angeli hanno santificato per l’amore di Abbà Garimà; qui poi prenderà dimora un popolo di forviati e malvagi, i quali deprederanno i poveri e i meschini; ma non mancherà anche il loro giudizio.

Ora preghiamo Iddio affinché ci salvi dalla Sua ira e ci distribuisca parte del Suo regno per intercessione di Maria nostra Signora, Genitrice di Dio, e per intercessione di Mikael, di Gabriel arcangeli e del beato Abbà Garimà il quale scacciò i cattivi spiriti e fece scendere la sua benedizione su questo luogo, e affinché con la preghiera di tutti i santi e i martiri a noi tutti distribuisca il regno e l’eredità dei Cieli.

   

   

Gloria al Padre che scelse Abbà Garimà e lo santificò sin dal seno della madre sua, come Giovanni e Geremia! Venerazione al Figlio che diede a lui il potere come ai Suoi santi discepoli e scacciò i mali spiriti! Grazie allo Spirito Santo che lo fece erede del regno dei Cieli, Essi tre che sono un sol Dio; ora e in futuro e per sempre, amen!

   

   

 

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