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FEDE CRISTIANA IN UN MISTICO INDIANO
IL SÂDHU SUNDAR SINGH
(Studio e antologia)
di
AUGUSTO HERMET
Rivista “Bilychnis”, Roma, 1924
CREDO ERGO SUM
A te, Piero Marrucchi, offro questo libro
d’una conversione: povero ringraziamento
del bene vero che da anni mi dai.
A. H.
Firenze, 1923.
Trascrizione elettronica
e revisione di Dario Chioli
2006
[vedi la riproduzione della copertina originale]
Il Sâdhu Sundar Singh (1889-1929?)
ad Upsala, ospite dell'Arciv. Söderblom
(foto tratta dall'opera di Heiler)
Nota del curatore (26/3/2006)
Sundar Singh nacque il 3 settembre 1889 a Rampur, Patiala, Punjab, India del nord. La sua era una famiglia benestante sikh, come rivela il caratteristico cognome Singh («leone»). Assai amato dalla madre, fu fatto da lei educare nelle cose della sua religione da maestri sikh. Successivamente andò a scuola in una missione presbiteriana americana. Dopo essersi dapprima opposto violentemente,a più riprese, al cristianesimo, nel 1903, dopo una crisi spirituale ed a seguito di una visione del Cristo, si riconobbe cristiano, sicché nel 1905 fu battezzato a Simla, mentre contemporaneamente assumeva la vita del sâdhu errante. A seguito di questa sua scelta dovette affrontare innumerevoli difficoltà, il ripudio da parte della sua famiglia (la madre era morta quando lui aveva quattordici anni), l'esplicita avversione di gran parte dei suoi connazionali e finanche un avvelenamento. Negli anni viaggiò e predicò moltissimo, in India e all'estero: in Afghanistan, in Tibet, dove fu ripetutamente imprigionato e rischiò la morte, in Nepal, a Ceylon, in Birmania, Malesia, Cina e Giappone, ma anche in Inghilterra e in parecchi altri stati europei, negli Stati Uniti, in Australia e in Palestina, dove nel 1922 finalmente appagò il suo desiderio di vedere di persona i luoghi in cui era vissuto Cristo. Il suo fu un cristianesimo svincolato dalle chiese, mosso dalla sua personale visione di Cristo, visione che mediava tra il cristianesimo tradizionale d'importazione occidentale e le specificità culturali e spirituali dell'India. La sua vicenda nota terminò nel 1929, quando partì per il Tibet e sparì. Nessuno ne ebbe più notizia, né si riuscì ad averne nel corso delle indagini che furono svolte per ritrovarlo.
Il testo di Augusto Hermet che qui ripropongo è uno dei pochissimi lavori che a mia conoscenza ne tratti diffusamente in italiano. I soli altri testi italiani di cui trovo traccia sono l'articolo di p. Mario Barbera (La Civiltà Cattolica, 1928), la traduzione dal tedesco dell'opera Sundar Singh il pellegrino indiano (Spinelli, Firenze, 1924), la traduzione di Ai piedi del Maestro (Bilychnis, 1925) e la traduzione di Un apostolo indù: il Sâdhu Sundar Singh di Rebecca Jane Parker (Ed. Claudiana, Torre Pellice, 1954). Ho apportato parecchi aggiornamenti stilistici, togliendo arcaismi superflui, e ho corretto alcuni termini dove era il caso. Ho poi sostanziosamente integrato la bibliografia e aggiunto qualche nota (indicata tra parentesi quadre e con la sigla N.d.C. ). Il testo di Augusto Hermet è per il resto riportato integralmente. Per comodità di riferimento, nella parte biografica ho segnalato le parole del Sâdhu Sundar Singh in grassetto.
D. Ch.
Addenda – In data 19/6/2010, 17/9/2017 e 28/9/2017 ho aggiornato ed arricchito la bibliografia.
I. La conversione – II. Dramma mistico – III. Il trionfo del Crocifisso – Appendice. Passi tradotti da alcuni discorsi del Sâdhu Sundar Singh – Bibliografia
I.
Una silenziosa data, al cominciamento di questo secolo, sta a segnare uno di quegli eventi così inapparentemente ricchi in sé e di radici così lontano sprofondate nell'intimo della storia, che, a mano a mano che gli uomini se ne accorgeranno e ne prenderanno coscienza, essa si innalzerà al livello di quelle rare date, distinte l'una dall'altra da tanto lungo cammino di tempo, le quali valgono come segni cardinali e luminosi per l'orientamento nostro nel buio deserto senza vie, dove la breve esistenza di noi singoli, ma legata e compromessa in tutto quanto l'immenso organismo storico, si muove, dall'eterno verso l'eterno. 18 dicembre 1904.
Un giovane indiano, né brahmano né buddhista, ma della sètta dei Sikh per nascita, sebbene delle dottrine di questa, così stranamente opposta all'originario essenziale spirito religioso dell'India, i genitori suoi fossero già essi tepidi e spinti verso un tale spirito come da un nostalgico segreto bisogno di ritorno, così descrive l'avvenimento centrale della vita sua:
«Predicatori e altri cristiani eran sovente già da me venuti, ed io non badavo che a contraddirli ed a perseguitarli. Se mi trovavo a passare per una città, spingevo la folla a lapidare i predicatori cristiani. Ove mi s'offrisse occasione, strappavo la Bibbia e la gettavo nel fuoco. In presenza di mio padre feci a pezzi una Bibbia ed altri libri cristiani li cosparsi di petrolio e li bruciai. Io credeva che il cristianesimo fosse una religione ingannevole, e feci quanto potei per sterminarla. Ero un fedele credente della mia religione; ma né soddisfazione potei trovare né pace, se pur tutte le cerimonie ed i riti ne seguissi. Allora ebbi il pensiero di abbandonare tutto e di uccidermi. Tre giorni dopo ch'io avevo dato alle fiamme la Bibbia, mi destai verso le tre del mattino, presi il mio bagno quotidiano, e così pregai: O Dio – se v'è un Dio – mostrami tu la diritta via – altrimenti m'uccido... Io pregai, pregai, ma non ottenni risposta. Seguitai a pregare, ancor circa una mezz'ora, nella speranza di trovare pace. Alle quattro e mezzo del mattino vidi qualche cosa, che mai avevo prima veduto. Nella camera, dove pregavo, avvertii una grande luce. Pensai che la casa fosse in fiamme. Guardai attorno, ma non potei trovar nulla. Allora mi venne pensiero che questa potesse esser la risposta che Dio mi mandava. E così, mentre pregando miravo quella luce, avvertii l'apparizione di Gesù Cristo Signore. Era trasfigurata in magnificenza ed amore. Fosse stata l'immagine di qualche indiana divinità, mi ci sarei prostrato. Ma era il Signore Gesù Cristo, cui pochi giorni prima avevo fatto oltraggio. Sentii che una visione come questa non poteva sorgere dalla mia immaginazione. Udii una voce, nel mio linguaggio, dire: Quanto ancora vuoi tu perseguitarmi? Sono venuto a salvarti; supplicavi in cerca della diritta via ed essa ora t'è aperta: perché non vi t'incammini? Pensai, allora: Gesù Cristo non è morto. Egli vive, e questi è Lui stesso. E gli caddi ai piedi e trovai la mirabile pace, che mai altrimenti mi era stato dato trovare. Era questa la felicità, che così a lungo avevo cercato; era il cielo! Quando mi sollevai, l'apparizione era scomparsa; ma sebbene scomparisse, la pace e la gioia sono state con me da allora sempre. Andai da mio padre e gli dissi d'essere divenuto cristiano. Rispose: Va, coricati e dormi! Che significa ciò? Ancor ieri bruciavi la Bibbia, ed ora dici a un tratto d'esser cristiano? Io replicai: Sì; poiché ora m'è stato rivelato che Gesù Cristo vive, e ho deciso di seguirlo. Sono, da oggi, Suo discepolo, e voglio servirlo». [*]
[*] N. d. C. – Può essere interessante confrontare quanto, dopo aver detto che «la Rivelazione contiene, in ciò che ha di essenziale, una intelligibilità sufficiente per poter trasmettere l'azione della grazia», aggiungeva in una nota Frithjof Schuon: «Un esempio della conversione per influsso spirituale o per grazia, e dove non compare alcun argomento d’ordine dottrinale, ci è offerto dalla ben nota vicenda di Sundar Singh; questo Sikh di natura nobile, dal temperamento mistico, ma privo di autentiche qualità intellettuali, aveva giurato un odio implacabile non soltanto ai Cristiani, ma pure al Cristianesimo e persino al Vangelo; tale odio, a cagione della sua paradossale coincidenza con il carattere nobile e mistico di Sundar Singh, si scontrò con l’influsso spirituale di Cristo e si mutò in disperazione; sopraggiunse allora una conversione folgorante suscitata da una visione; certo non vi fu alcuna partecipazione della dottrina cristiana, ed il convertito non pensò neppure mai di ricercare l’ortodossia tradizionale. Del resto, l’esempio di San Paolo offre, sebbene a un livello notabilmente superiore rispetto al personaggio ed alle circostanze, alcune analogie meramente "tecniche" con quanto abbiamo riportato. In breve, è possibile affermare che, allorché un uomo religioso per natura detesta e perseguita una religione, è assai vicino alla conversione se le circostanze lo soccorrono» (Frithjof Schuon, De l'Unité transcendante des Religions, nuova ed. 1979, trad. it. di Giorgio Jannaccone e Maurizio Magnini: Unità trascendente delle religioni, Mediterranee, Roma, 1980, cap. 2, p. 30).
Così Sundar Singh narra il fatto della propria conversione, avvenutagli all'età di quindici anni, contro la quale non valsero, a distogliernelo, né suppliche da parte dei suoi, né castighi; e per la quale fu da ultimo costretto ad abbandonare la casa paterna. Il 3 di settembre dell'anno dopo, nella chiesa anglicana di Simla, egli veniva battezzato; e poi, attraverso persecuzioni e patimenti, cominciava nel mondo la sua nuova vita. Il suo primo viaggio è nel Tibet, il paese del lamaismo, forma complessa della religione del Buddha, «diabolica caricatura della chiesa cattolica», come un gesuita italiano ebbe a definirla. [*] Poco dopo, per due anni, in un breve periodo di pausa della sua ansia di apostolato e di martirio, si sofferma a Lahore, nel Collegio di S. Giovanni: periodo di raccoglimento, di contemplazione e meditazione, che, assieme a quello precedente, completa e delinea per sempre la sua figura di santo-mistico, sviluppando e determinando così tutto ciò che nell'intimo del suo atto di conversione si cela e ne costituisce la essenza profonda. È allora che un grande libro medievale, L'Imitazione di Cristo, decide sulla impostazione del suo pensiero e della sua fede: libro d'ascesi, al quale aggiungerà poi quelli mistici di S. Teresa e di S. Giovanni della Croce, mentre Al-Ghazâlî ed altri sufi, Swedenborg e Madame Guyon non avranno sull'anima sua che un fascino casuale, superficiale e fugace.
[*] N.d.C. – Questa e altre successive valutazioni dello Hermet sottovalutano grandemente, derivando da una scarsa conoscenza delle altrui tradizioni.
Ma non tardò a manifestarsi occasione in cui la posizione di questo Convertito a una religione così remota dall'indole della sua razza, si definisse e spiegasse di fronte alle attuali risultanze dello sviluppo storico di quella e precisamente dunque alla divisione delle Chiese:
«Se i cristiani durante questa breve vita quaggiù non possono vivere tra loro in pace, come potran vivere assieme nell'eternità?» «... appunto come in India vi sono caste, così nella cristiana Inghilterra la chiesa anglicana e quella puritana: Cristo non avrebbe fatto di tali differenze».
Espressioni la cui fatale ingenuità ben si giustifica se si pone mente all'enorme distanza storica che separa le due sfere di civiltà che nel nostro Convertito vengono a contingere, e per cui l'una, la cristiana, si semplifica sino all'irriducibile, in astrazione dal suo divenire e dentro il limite del suo valore germinale di individuale esperienza. E, di questo primo tempo della sua vita di cristiano, l'episodio forse, a tal proposito, più significativo, è quello del suo canto dell'amore di Cristo che un giorno cominciò a intonare in mezzo a una folla tra cui v'era un acceso fedele dell'Ârya Samâj, cioè di quella specie di movimento di riforma dell'antica religione indiana, secondo la quale il ritorno ai Veda dovrebbe costituire appunto un valido contrappeso alla crescente minacciosa penetrazione del cristianesimo: al nome di Cristo, molti, e quest'ultimo tra essi, si avventarono in ira contro il mistico cantore, profanatore dei loro credo; ed egli, ferito, a implorare su quelli la benedizione di Dio: l'uomo che più gli si era accanito contro cercava poi d'essere battezzato da «quella mano ferita», e il fedele dell'Ârya sentiva scossa dalle radici la posizione sua di fronte alla religione nemica.
Le due opposte fedi, le due opposte civiltà, urtano qui l'una contro l'altra in ciò che di più letteralmente essenziale e primordiale è in ciascuna come suo carattere: e a vincere è quella di chi fin dall'infanzia aveva saputo a memoria i sacri testi dell'India, e aveva più tardi meditato il Granth dei Sikh ed il Corano, ed aveva praticato lo Yoga, senza aver potuto trovarvi pace mai.
Pace che, più tardi, ancor più profonda e totale otteneva dal suo «digiuno nel deserto», a imitazione di Cristo; ogni dubbio ormai scompariva: era stato qualche poco incerto sulla vera natura del suo intimo senso di quiete e di gioia, non fosse questo forse altro che «una occulta forza vitale del suo proprio essere»: ma la fatica spirituale e corporale del digiuno l'aveva ben potuto persuadere dell'origine trascendentale di quel senso, e in ciò gli aveva anche rivelato la verità della indipendenza dello spirito dalla carne. E indugiamoci qui a udire ancora le sue parole:
«Prima del mio digiuno di quaranta giorni, spesso ero colto da tentazioni. Specie quando ero stanco, m'inquietavo se veniva da me della gente per intrattenersi con me e interrogarmi. Contro tali ostacoli ho ancora da lottare, ma non mai tanto come avanti il digiuno… ma forse ciò mi è stato mandato per mantenermi in umiltà. Avanti il digiuno pativo ancor altre tentazioni: se avevo fame o sete, mormoravo e chiedevo perché il Signore non pensasse a me. Egli mi aveva comandato di non prendere con me danaro alcuno; avessi avuto con me danaro, avrei così potuto comprare ciò di cui abbisognavo. Ma dopo il digiuno, se io son visitato nella carne dal dolore, dico: È volontà del Padre mio; forse ho commesso qualche cosa d'ingiusto, per cui ora devo soffrire. Avanti il digiuno ero anche talora tentato d'abbandonare la vita di Sâdhu con i suoi disagi, di ritornare alle agiatezze della casa paterna, di coniugarmi e vivere in piacere. Non potevo io pur in tal guisa essere un buon cristiano e condurre una vita secondo la legge divina? Ma riconobbi poi che se anche ad altri poteva non essere peccato vivere in piacere, aver danaro e casa, Dio aveva me chiamato ad altra cosa: il dono dell'estasi ch'Egli mi ha dato è più prezioso di quanto può esserlo una dimora: vi trovo gioie meravigliose che tutte l'altre superano. Il mio vero connubio l'ho conchiuso con Cristo. Non dico che il matrimonio non sia per altri buono; ma io che già con Cristo sono unito, come posso contrarne un altro?».
Il digiuno, compiuto quale sacramento, gli segna dunque il termine di maturazione del processo conversionale: d'ora in poi lo vedremo ben distanziato, in un singolare e profondo isolamento, da ogni altra manifestazione indiana di cristianesimo («la segreta missione Sannyâsî »), ché l'esperienza sua di questa fede trascende ogni dialessi storica, e però ogni espressione collettiva di movimento spirituale; ormai egli è estraneo all'ambiente della sua razza, delle sue origini, tanto che può sentire anche un fascino intimo e durevole, umanamente nostalgico forse, davanti al Maharishi di Kailash, [*] che vive da tempo enorme, disumano, nella caverna di una montagna dello Himalaya, e gli narra delle sue forze meravigliose e le sue apocalittiche visioni; ma fascino che non vince quello che è più che fascino, che non vince l'impero della Croce:
«Nulla, in cielo e in terra, di più sublime della Croce. Per mezzo della Croce Dio manifesta all'uomo l'amor Suo. Senza la Croce, nulla sapremmo dell'amore del nostro Padre celeste. Per questo esige Dio che tutti i figli suoi debbano portare questo grave ma dolce peso della Croce, poiché così soltanto può palesarsi il nostro amor di Dio ed il Suo amor di noi».
«Dopo la nostra vita terrena non avremo mai più una seconda occasione di portare la Croce, ché mai ritorneremo in questa vita. Dunque è ora il tempo di portare con gioia la Croce: mai ci sarà offerta di nuovo l'occasione di portare questo dolce carico».
[*] N.d.C. – Su questa stranissima figura di eremita cfr. Rebecca Jane Parker, Sâdhu Sundar Singh, Called of God, cap. VI (cito dalla trad. francese Un Apôtre Hindou. Le Sâdhou Sundar Singh, on line su http://www.livres-mystiques.com/partieTEXTES/Textes/index.html):«Durante le sue peregrinazioni nel Tibet occidentale, Sundar Singh ricercava costantemente questi solitari devoti che si ritirano nelle caverne di questi monti nevosi e lontani per passarvi i loro ultimi giorni nella contemplazione. È lassù, nel silenzio augusto delle nevi eterne che si stende la catena dello Himalaya che viene chiamata il Kailash. È in questa catena lontana che il possente Indo ha la sua principale sorgente, così come il suo grande affluente, il Sutlej, che bagna il paese natale di Sundar Singh. È là che a più di 2800 metri di altitudine la gola dove gorgoglia questo fiume forma un quadro il cui sublime orrore lo rende una delle meraviglie del mondo.
Su una delle sommità della catena del Kailash si trova un tempio buddhista abbandonato, visitato molto raramente degli uomini. È ad alcuni chilometri da questo tempio che abita il grande santo conosciuto sotto il nome di Maharishi di Kailash, in una grotta situata a circa 4300 metri di altitudine.
Tutta questa regione è come l'Olimpo dell'India, la sede dei suoi miti sacri, associata nei suoi libri santi ai nomi delle grandi anime devote di tutti i tempi. Il nostro sâdhu ha trovato in una grotta gli scheletri di parecchi santi sconosciuti che sono morti nella meditazione.
Il paesaggio è di una grandezza impressionante, in mezzo alle nevi eterne. A tre giorni da lì si trova il celebre lago sacro Mansarowar, di bellezza squisita, popolato di cigni magnifici, mentre antichi templi e monasteri buddhisti sono appollaiati pittorescamente sulle rocce che lo sovrastano. Sundar Singh ne parla come uno dei luoghi più ammirevoli che abbia visto mai, ma aggiunge che le tribù nomadi dei dintorni sono tra le più crudeli, assassini per piacere, che trasformano per i viaggiatori questo paradiso in un luogo di terrore.
Nell'estate del 1912, il nostro sâdhu passava di lì solo, ristorato spesso dalla sola bellezza del paesaggio, ma più spesso ancora esausto per i suoi vani e faticosi sforzi alla ricerca dei santi solitari del paese. Non dimenticherà mai il giorno in cui, quasi accecato dal riverbero della neve, mezzo morto di stanchezza, si trascinava inciampando sulla neve e su i sassi, senza manco sapere dove stava andando, quando improvvisamente perse l'equilibrio e cadde... Quale non fu la sua sorpresa quando, ritornando in sé, ed aprendo gli occhi, si vide giacere all'entrata di una grande caverna, dove il Maharishi di Kailash era immerso in una profonda meditazione.
Lo spettacolo che Sundar Singh contemplava gli sembrò così sorprendente che richiuse subito gli occhi e per poco non svenne. Poco a poco tuttavia, si azzardò ad esaminare ciò che era davanti a lui. Era proprio un essere umano, ma così vecchio e con la testa coperta d' una capigliatura tale che lo si sarebbe preso a tutta prima per un animale. Così Sundar comprese che le sue lunghe ricerche erano infine giunte al termine, ed appena si sentì padrone della propria voce, rivolse la parola al vecchio. Questi, turbato nella sua meditazione, aprì gli occhi, gettò sul sâdhu uno sguardo acuto, e quasi lo stupefece dicendogli: "In ginocchio, e preghiamo! " Pronunciò una viva preghiera che si concluse con il nome di Gesù, dopo di che il Maharishi aperse un voluminoso esemplare dei Vangeli in greco, lesse alcuni versetti del quinto capitolo di Matteo e si mise a raccontare a Sundar Singh la sua vita meravigliosa.
Disse di essere molto vecchio, ciò che ben confermava il suo aspetto, ed assicurò che il rotolo dal quale aveva appena letto proveniva da Francesco Saverio. Era difatti scritto in lettere onciali greche e avrebbe potuto essere di grande valore per gli scienziati se fosse caduto nelle loro mani.
Nato ad Alessandria da famiglia musulmana, il Maharishi era stato uno zelante seguace del Profeta. A trent' anni, aveva rinunciato al mondo ed era entrato in convento. Ma più leggeva il Corano e pregava, più era infelice... Era allora che aveva sentito parlare di un cristiano, un santo, venuto dalle Indie ad Alessandria per predicare, ed è dalla sua bocca che aveva sentito parole di vita che avevano riempito di gioia la sua anima disperata. Lasciando il convento, aveva dapprima accompagnato il suo maestro nei suoi viaggi missionari; poi aveva ottenuto il permesso di predicare lui stesso il vangelo dovunque Dio lo avrebbe mandato. Aveva intrapreso così una lunga campagna di evangelizzazione.
Stanco infine di queste sue fatiche, aveva risolto di passare il resto della sua vita nel luogo ritirato dove il nostro sâdhu l'aveva scoperto. Aveva appreso, durante gli anni, molte cose circa i prodotti dei monti e delle giungle che lo circondavano, ciò che gli aveva permesso di sopravvivere fino a quel giorno.
Siccome Sundar Singh era intirizzito fino alle midolla, il santo gli fece mangiare le foglie di una certa pianta medicinale il cui effetto fu straordinario: si sentì subito deliziosamente riscaldato in tutto il corpo. Parlò a lungo col santo di argomenti religiosi, ed apprese da lui molte cose strane. Parecchie delle illustrazioni sorprendenti di cui sono cosparse le sue predicazioni gli vengono da questo vecchio, che si ricollega alla missione dei sannyâsî. Le sue visioni stupefacenti, come le ha raccontate a Sundar Singh, formerebbero una nuova Apocalisse per il loro carattere strano e misterioso, ed il sâdhu stesso mette in guardia gli ascoltatori contro interpretazioni o conclusioni frettolose, dicendo che il santo riveste i suoi pensieri di espressioni che non bisogna prendere nel senso letterale.
Ha avuto per tre volte l'opportunità di andare a vederlo».
Così egli è ormai un cristiano perfetto, e data l'origine sua lontana dai paesi storici del cristianesimo, con tutti i caratteri di primigeneità e freschezza con cui una nuova fede può essere vissuta; e la forza luminosa della sua fede non può mancar di espandersi, di suscitare un vasto risveglio di ansia religiosa intorno a sé, né può dunque mancar di convertire; e verso quegli stessi lontani paesi, dei quali ha notizia circa il decadimento della loro civiltà cristiana, se ne sente chiamato a rinnovellatore quale viva testimonianza del potere di Cristo.
Non troppo ci è dato sapere della complessità d'impressioni che il mondo occidentale, quel mondo ove il cristianesimo, la nuova ragion di vita del Convertito, aveva avuto ed ha la sua storia, ebbe a esercitare su di lui, nato in un mondo così diverso, educato in un ordine di interiorità e di silenzio, dal quale aveva anelato verso qualche cosa di più drammatico e concreto ma di più forse anche, in sé, silenzioso e interiore: ma ci bastino le parole che, interrogato in proposito, egli ebbe a pronunciare:
«Senza quiete e raccoglimento cose spirituali non s'avvertono».
Ed è però che anche ha detto:
«Nelle grandi città io vado sempre contro mia voglia e mi ci debbo sforzare; ma nell'estasi mi fu detto una volta che l'unica occasione di poter aiutare altri in questo mondo, solo in questa presente vita mi sarebbe stata data. Ecco un privilegio che nemmeno agli angeli è concesso. Il cielo noi l'avremo in eterno, ma qui abbiamo solo un breve tratto di tempo per servire, e però a tale occasione non possiamo mancare. Io so bene perché gli eremiti preferiscano vivere nelle caverne e sui monti. Io stesso lo preferisco infinitamente».
Parole in cui ci sembra meglio forse che in altre, o almeno con più urgenza di sintesi, profilarsi l'intima figura, del Sâdhu in, tutta la luce del suo significato storico. Ma ecco quelle che con più decisa evidenza rivelano l'intuizione sua profonda del mondo nostro nell'attuale fase di civiltà:
«Qui Gesù Cristo direbbe: Venite qua tutti da me, voi che siete gravati d'oro, ed io vi ristorerò».
La contingenza reciproca delle opposte due sfere di storia, l'occidentale cristiana e l'orientale indiana, assume in questo punto, attraverso la figura del Sâdhu, un silenzioso e fisso aspetto di tragedia, i cui remoti difficili motivi ricercheremo ora fin nelle loro più nascoste radici.
II
Prima di avventurarci in tale ricerca, ci sarà ben opportuno, tracciata nelle sue linee maestre, secondo l'ordine degli avvenimenti del tempo, la vita del Convertito, penetrarne il vivo interno, che quell'ordine sorpassa ed include.
E sorge qui il problema del rapporto fra questo singolare spirito e l'attività mistica in genere: rapporto tanto più complesso, in quanto il fondamento, centro e vertice di tutta l'esistenza del Nostro, è costituito da un fatto che segna il misterioso Passaggio, la misteriosa Pasqua, non, come in quasi tutti gli altri casi consimili, da un'esperienza vitale dispersiva nella materia o nel pensiero, ma da una acutamente, nello spirito, concentrativa: il dramma di questa esistenza vige tra uno ed un altro termine di misticità, tra quello per essa naturale, dato, inevitabile e quello primamente insospettabile invece, raggiunto al di là di logiche possibili previsioni. Tra OM ed AMEN. Ed è un dramma dunque che offre uno spiraglio su tutta quanta la complicata storia della religiosità indiana, e che in ciò, solleva il Convertito a una altezza e ricchezza di significazione, dove egli ben può essere contemplato come il punto forse decisivamente critico di quella storia, come la sacra vittima in cui essa, sintetizzandosi e impersonandosi una volta per sempre, precipita alla sua catastrofe suprema. Il solo pensare ch'egli, per nascita, è uno della sètta dei Sikh, ma inquieto, per indole dell'anima sua, verso le antiche sorgenti della spiritualità di sua stirpe, basta ad avviarci verso una iniziale comprensione di ciò che in essenza lo necessita e lo giustifica.
È originaria quella sètta da un asceta che, verso la fine del XV secolo dell'èra nostra, predicava a indiani e a maomettani la dottrina dell'unità e onnipresenza di Dio, non con l'intento di fondare nuovo credo contro i già esistenti, ma di migliorare e approfondire questi: la sua dottrina rivela tendenze sincretistiche, come appare dal libro sacro dove troviamo accanto a palesi reminiscenze coraniche l'idea buddhista della uguaglianza sociale. L'ardore di apostolato che anima il fondatore, ardore di natura assai diversa da quella che costituisce l'essenziale carattere dell'anima indiana, si accentua e si sviluppa attraverso i discepoli, detti appunto Sikh, cioè «apostoli», e, attraverso circostanze svariate, non tarda a manifestare intera la sua indole di attività esteriore, combattiva, che fa di questa sètta una comunità religiosa, dai precetti semplici e naturali, e una potenza militare: il «battesimo della spada» è così il rito per cui i Sikh ottengono come titolo di privilegio quello di Singh, cioè a dire leone, e che pure Sundar mantiene accanto al nome suo.
La prima lettura di Sundar è il poema mistico-religioso della Bhagavadgîtâ: lettura che, dato appunto il carattere di complessa e profonda sintesi di quest'opera, non può mancar di valere come potente premessa al suo dramma. E questo noi lo possiamo ora scorgere preparato dai due primordiali elementi di cui ora s'è fatto cenno: la fede combattiva del Sikhismo (vaga sintesi di indianesimo e d'islamismo) e la contemplatività del poema mahabharatiano.
* * *
La religiosità indiana si sviluppa da un primitivo stadio naturistico e magico attraverso un misticismo panteistico ad una pura mistica di indole essenzialmente speculativa: a seguire un po' attentamente questi sviluppi non ci potrà sfuggire come il segreto impulso che li domina e li muove consista in una costante oscura aspirazione verso l'idea della trascendenza, aspirazione di continuo delusa da una risoluzione immanentistica sempre in agguato, fatale: e più là dove l'idea del trascendente pare fissata ormai in ferma suprema chiarezza, più si rivela essa invece illusoria, quasi un inganno di quella reale dell'immanente che le sta dietro e che con l'altra si maschera. Di tale terribile giuoco pare quasi vittima questo spirito religioso quando esso, nelle varie forme di misticismo magico dello Yoga, è come se, spossato, su se stesso si ripieghi, o, nel misticismo buddhista, si decida alla rinunzia definitiva di quell'idea cui si sente negato. Ma, contemporaneo al periodo immediatamente preparatorio e all'avvento stesso del cristianesimo, si afferma il moto religioso vishnuita che oppone nel modo più irriducibile al misticismo immanentistico (ateo) del Buddha uno spunto profondo di trascendentalistico monoteismo: la Bhagavadgîtâ, eccelso fiore di tutta quanta questa storia, spunta su tale contrasto, e lo supera in sé, lo cancella; in questo finale poema tutte le più profonde voci dell'anelito religioso indiano dal Veda al Vedanta, sotto l'impero del motivo monoteistico risuonano in una suprema polifonia.
* * *
Dei due elementi primordiali del dramma spirituale che consideriamo, qualche cosa di intimamente comune ci prepara a intuire la direzione ch'esso seguirà nel suo svolgersi: ed è il principio di concretezza, avvertibile tanto nella idea di trascendenza quanto in quella di esterna attività; ma se ovviamente, immediatamente, nella seconda, esso, nella prima, si impone come fine a raggiungersi: per l'una, poteva il Nostro sentir vivere dentro di sé il bisogno di raggiungere, nell'altra, questo fine, passando attraverso la pratica contemplativa-meditativa che appunto, nella relativa astrattezza sua, vale a mediare quel principio.
Il Sikhismo, donde il Nostro muove, vige in una elementare religiosità remota da tendenze ascetiche o mistiche: la sua caratteristica è tutta in un oscuro bisogno di storicità, che lo distanzia così nettamente dal profondo antistoricismo indiano; ed è esso però, nella sua ingenuità, un ben solido punto di partenza per eventuali avviamenti, quali nel caso che osserviamo, ad afferrar nel vivo quell'idea del trascendente così riluttante alla coscienza di questa razza: fosse, il Nostro, nato invece in un ambiente spirituale come quello della Bhakti, di derivazione vishnuita, l'anima sua vi si sarebbe forse quietata, non avrebbe patito la spinta verso l'approfondimento di quel principio di concretezza che già, in forma bruta e immediata, era per lui un dato dell'esistenza sua: spinta che doveva lanciarlo ben più lontano del prossimo aspetto di tale approfondimento, cioè dell' idea di trascendenza quale nel monoteismo vishnuita essa luce.
Ma più complesso è il caso: assieme a tal principio un altro è da prendersi a considerare, quello di religiosità.
La tendenza mistico-panteistica, che svia di continuo l'anima indiana anelante a una suprema affermazione del trascendente, se appunto in tale affermazione una reale religiosità può sussistere, di continuo tranghiotte in sé questa, sollevando a valore supremo l'astrattezza arbitraria dell'esperienza mistica individuale. E di tale arbitrarietà il Convertito ebbe a straziantemente soffrire: tutto abbandonato solo a se stesso, lo vediamo disperare, e disperatamente oltre la sua disperazione pregare la ignota remota divinità. «O Dio – se v'è un Dio – mostrami tu la diritta via, altrimenti m'uccido». Mai forse preghiera umana ebbe più vasta tragicità, mai forse fu, attraverso una persona sola, in una fuggevole ora d'un qualunque giorno, più impersonale, e sorgente dal fondo dei millenni dove tutta l'immensa anima d'una razza si sollevava contro il destino del proprio egocentrismo spirituale e sotto il suo peso ricadeva muta. In quella notte, all'antelucano del 18 dicembre 1904, non un giovinetto quindicenne dei Sikh, meditatore della Gîtâ e delle Upanishad, soffriva una sua crisi d'anima, ma tutta una gente antichissima, ancora un'ultima volta, dopo la Gîtâ, e in più crudo modo, denudava il suo tormento ed insorgeva nel grido della sua supplicazione. Quel giovinetto, aveva, nell'ansia del suo meditare, accettato fino all'estremo l'arbitrarietà dell'esperienza mistica astratta da un valore religioso di trascendenza, di rivelazione, accettata fino a sentire come mai forse alcuno l'arbitraria astrattezza della propria isolata persona: e nella sua preghiera di quella notte, ai limiti di tale accettazione, egli non era più lui, più lui solo, ma tutta la gente sua dolorante nel travaglio di quell'arbitrio verso Ciò che, ogni individuo trascendendo, come creatura sua lo necessita.
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La conversione del Nostro sfugge dunque alle canoniche forme in cui un tale fatto suole avverarsi: a guardar bene essa non è che l'aspetto finale che assume una ansiosa ricerca di totale realizzazione mistica che un mistico, secondo i modi d'esperienza fornitigli dal suo ambiente, non riesce ad attuare. Modi per cui l'atto mistico è di natura speculativa, così che chi li abbandoni, una volta attuata quella realizzazione, affermerà per istinto la supremazia, sul valor intellettivo, di quello affettivo; ma non affrettiamoci qui a indurre che l'esperienza del trascendente s'inveri in questo e nell'altro quella dell'immanente, come alcuni sarebbero tentati: le due esperienze sono indifferenti ai due valori; e Sundar stesso pare ciò riconosca, ad asserire che la sua più propria vocazione è pur sempre verso la contemplazione solitaria. Soltanto per amore all'obbedienza l'abbandona: «Pascola le mie pecore». Vi rimarrebbe, se Gesù glielo imponesse.
Ma certo è che, in un mutamento come questo da una tradizione religiosa ad un'opposta, la questione dell'indifferenza delle due esperienze rispetto ai due valori non può non andar turbata: la accettata vocazione verso l'esperienza intellettiva, in solitaria contemplazione, riuscirebbe, per tal mutamento, un pericolo, una minaccia di ritorno, come la vocazione per se stessa appunto si colora di un preoccupante senso di nostalgia.
«Cristo è il mio Salvatore. Egli è la mia vita, tutto Egli è per me, in cielo e sulla terra. Una volta passavo per una regione sabbiosa; ero stanco e avevo sete. Stando su d'un colle, cercai intorno con lo sguardo acqua. La vista di un lago in lontananza mi riempì di gioia, ché ora speravo di potere calmar la mia sete. A lungo camminai verso quel lago, ma non lo raggiunsi mai. Più tardi m'accorsi che non era che un miraggio. Così io passavo sulla terra e cercavo l'acqua della Vita. Tutto di questo mondo somigliava un lago con la cui acqua io speravo di estinguer la sete dell'anima mia. E mai trovai neppure goccia d'acqua, per calmar la sete del mio cuore. Credetti aver da morire di sete. Ma quando i miei intimi occhi si apersero vidi i torrenti di vivente acqua scaturire dal Suo fianco trafitto. Bevvi e n'ebbi sazietà. La sete era scomparsa. Da allora sempre ho bevuto di quest'acqua della Vita, né mai ebbi più sete nel deserto di questo mondo. Pieno di lode e di grazie è il cuor mio».
Ma più ancora il seguente passo attesta quanto una possibile nostalgia verso la tradizione abbandonata sia vinta:
«Seguire lui e portare la Sua croce è così dolce e prezioso che se io in cielo non trovo croce da portare, supplicherò ch'Egli mi mandi annunziatore della Sua fede nell'inferno affinché almeno lì mi sia dato di portare la sua Croce. La Sua presenza può sin l'inferno trasmutare in cielo. Come un muto le dolcezze non può esprimere in parole, così poco può il redento esprimer la dolcezza della presenza Sua nel proprio cuore... Non bramo più né ricchezza né onori. Nemmeno il cielo bramo. Ma di Lui ho bisogno, che del mio cuore ha fatto il cielo. Il suo infinito amore ha respinto l'amor di tutto il resto. Molti cristiani non possono sentire come realtà la Sua presenza vitale e preziosa, poiché Cristo per essi vive nelle loro teste, nelle loro Bibbie, ma non nei loro cuori, Solo chi gli dona il cuor suo lo troverà. Il cuore è il trono per il Re dei re. La capitale del Cielo è il cuore, dove comanda questo Re».
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La mistica; che tutta è basata e giustificata da una salda posizione metafisica trascendentale, pur se inespressa, ed in ciò si differenzia dal misticismo, in un senso come sua specie, in un altro come anzi suo diretto contrario ove esso presuppone un diffuso sentimento immanentistico, fuori da ogni necessità metafisica; la mistica che Sundar appunto giunge al fine a realizzare nell'intimo di se medesimo attraverso la fede cristiana, lo pone inevitabilmente di fronte all'esigenze metafisiche, di natura intellettiva, alle quali l'urgenza della conversione sua stessa, secondo le suesposte ragioni, senza rimedio contrasta.
E il contrasto non è soltanto tacito, implicito, ma in tutta la sua violenza si mostra, quando le esigenze metafisiche appaiono espresse in un sistema, in un dogma teologico: e il dogma è genuino e primo sintomo di trascendenza. Ecco allora che il rapporto di uno spirito come quello del Convertito, rispetto all'idea del trascendente, si dispiega nella sua intera complicatezza: da un lato, questo mistico indiano, giunge a collocarsi nella luce di tale idea, ma vivendola secondo un ordine opposto a quello della sua tradizione ambientale che appunto a quest'idea sfugge, da un altro lato essa gli si presenta basata, umanamente giustificata, appunto su quell'ordine, l'intellettivo, dal quale ormai è lontano.
Uno sguardo fugace sarà qui forse opportuno a prender notizia dell'essenziale rapporto tra mistica e metafisica, tra l'atto mistico (conoscitivo o volitivo) e l'atto conoscitivo, rapporto quale possiamo scorgere, nel suo definitorio delineamento, nel costituirsi della religione cristiana in completa istituzione chiesastica.
Prima del cristianesimo, l'idea del trascendente vive in due civiltà per indole fra loro incompatibili: la ellenica e l'ebraica: nudamente religiosa questa, antimistica, dunque opposta a quella indiana, mistica di carattere intellettivo l'altra, ma non, come la indiana, gravitante al panteismo, all'idea dell'immanente. L'assoluto come creatore, come primo, è la grande affermazione d'Israele; in Grecia, il trascendente, l'assoluto, è concepito ed esperito come ultimo, culmine e limite, dunque misticamente, cioè non rivelato ed accettato secondo fede, tanto che la mistica ellenica ha una storia indifferente alla religione di quel popolo (e intendo, è ovvio, la religione ufficiale, l'olimpica), e mentre questa è in costante armonia con l'arte (e qui escluderei soltanto la complessa forma della tragedia dionisiaca), quella segue e accompagna il pensiero, la speculazione metafisica. Ma non s'arresta la concezione ed esperienza ellenica all'idea dell'assoluto come ultimo – culmine e limite – così che esso possa decadere, come in India, nell'identificazione con l'umano relativo soggetto che lo esperisce e concepisce: va sino in fondo a tale idea tanto da poterla associare e concretare con l'altra, dell'assoluto come primo, come origine e creatore, pur rimanendo l'una idea la dominante. È così che in Grecia l'atto speculativo non si confonde con l'atto mistico, non s'invera cioè, come nella patria del Nostro, un unico atto in cui, a farne l'analisi, la speculazione è già la mistica (o meglio, in tal caso, stando alle suaccennate definizioni, misticismo, ma esattamente se ne distingue come base onde alla mistica ascendere, onde serbarla in quella sua purezza dove appunto l'idea del trascendente può viva splendere e nella nuda luce sua esser vissuta.
Il cristianesimo, diventando storica Chiesa, corpo di riti e dottrine, riesce a cogliere l'umanamente inafferrabile sintesi, la nascosta unità, delle due concezioni religiose-civili, d'Israele e dell'Ellade: i due aspetti del trascendente assoluto, quello meramente e crudamente religioso, e quello mistico ma antiimmanentistico e però con dentro tacita una profonda potenza religiosa (di contro alla religione olimpica vige quella dei Misteri) si riducono a un unico, così che ora la sacra idea può rivelarsi nella plenitudine del suo lume e della sua forza: non più domina, dei due aspetti, l'uno sull'altro, ma chiusi e fissi stanno in un equilibrio sovrano. L'atto speculativo, nell'ordine di tale equilibrio, ben dunque rimarrà e potrà anzi avvalorare, spiegare, tutto quanto il suo potere: il dogma, la teologia, che i Padri ed i Dottori scolpiscono, è il suo frutto glorioso.
A questo intenso e sottile processo di storia, il Convertito non può non essere estraneo: per lui, la Parola cristiana non può vivere che nella ultrastorica sua germinalità originaria: quella che pare anzi abolire ogni ragion di storia, svalutare ogni umana ambizione di pensiero e trascensione del pensiero – di volontà pure e trascensione, sua –, quale nei suoi primi santi furori s'annunzia. Ma non abbastanza è semplice, primitiva, l'anima di lui perché essa senz'altro con tale primordialità coincida: alla sua conversione egli è giunto attraverso meditazioni lunghe e dure, né dopo ha del tutto cessato se libri di mistici e santi hanno potuto per lui aver fascino. Dice:
«Per un certo tempo la dottrina della Trinità presentava per me difficoltà non poche. Pensavo a tre distinte persone, ugualmente sedute su tre troni; ma tutto in una visione mi fu scoperto. In un'estasi, entrai nel terzo cielo. Mi fu detto ch'era quello dove Paolo è salito. E vidi Cristo in trasfigurato corpo spirituale sedere su di un trono. Ogni volta ch'io vi salga, è sempre l'uguale. Cristo è sempre nel centro; apparizione da non descriversi in parole. Splende il Suo aspetto come il sole, ma non abbaglia ed è tanto soave che facilmente posso contemplarlo, e sempre sorride; un trasfigurato sorriso d'amore. Quando la prima volta lo scorsi, ebbi il senso come se un'antica, dimenticata relazione dovesse tra noi due sussistere, come se dicesse, ma in silenzio: Io sono per cui tu fosti creato. Era quasi, ma ben più forte, il senso medesimo di quando, dopo una separazione di molti anni, rivedevo mio padre. Nuovo il mio antico amore si ridestava: sapevo che una volta ero stato suo.
Quando la prima volta entrai nel cielo, mi guardai attorno e chiesi: Ma dove è Dio? Mi parlarono: Dio così poco è qui veduto come in terra, perché è infinito. Ma ecco, è Cristo: è Dio. Egli è l'immagine dell'invisibile Dio e solo in Lui possiamo scorger Dio, così in cielo come in terra. E vidi da Cristo scaturire onde di luce, a diffondere pace, che tra i santi e gli angeli scorrevano e li penetravano e recavano in tutto consolazione come gli alberi la pioggia consola nell'arsura: e lo Spirito Santo riconobbi».
Il contrasto tra il carattere di questa conversione e i suoi sottintesi oggettivi, che da prima si presenta come irrimediabile, e minaccioso, è qui imprevedibilmente eliminato: il dogma è esperito al di là del pensiero, della conoscenza speculativa, in quella forma di trascendimento del pensiero che è la contemplazione, e nel suo stadio estremo, la visione estatica. Visione di natura fondamentalmente conoscitiva se egli stesso tiene a distinguere la prima apparizione di Cristo, percepita con gli occhi di carne, dalle altre che come questa, s'effettuano secondo il sovrasensibile; ed è una distinzione che ci chiarisce tutta la profondità della conversione stessa, avvenuta dunque attraverso l'ordine del sensibile.
A tal proposito, ecco in qual modo si palesa allo spirito del Nostro il dogma dell'incarnazione.
«Il Verbo della Vita si manifestò nella carne; il Verbo divenne carne. Prima io pensavo: perché è necessario che Dio diventi carne ed assuma figura umana? Quando non ancora ero cristiano, solevo condannare tale dottrina. Ve ne son mille e mille che non trovano alcuna difficoltà intellettuale a credere nell'incarnazione, ma che pure intendere non possono la sua necessità. Eppure sente spesso il loro cuore una grande oscura brama di poter guardare Dio. L'uomo ha un naturale desiderio di veder Dio. Anela di vedere colui che adora; ma è infinito. Chiesi agli idolatri: perché adorate gli idoli? Risposero: Dio è infinito, e questi idoli hanno soltanto da aiutarci a raccogliere il nostro spirito. Con il soccorso di questi simboli noi possiamo adorare, e possiamo comprendere un poco. Potessimo parlare con Chi amiamo, potessimo vederlo! La difficoltà consiste in ciò che non possiamo veder Dio, perché è infinito. Dovessimo mai farci infiniti, potremmo mirare l'infinito Dio. Ora e qui siamo incapaci di vederlo, il creator nostro, il nostro padre, il datore della vita. Ecco perché s'è fatto carne. Prese figura umana, limitata figura, perché così potessero gli uomini vederlo».
«Il Verbo della Vita fu fatto carne. Egli solleverà coloro al cielo, che vogliono oltrepassare la fiumana del mondo. Chi vede me vede il Padre. Vediamo nell'incarnazione di Gesù Cristo il Padre vivente».
«La vita mia era per spegnersi, ero vicino a morte. Il Salvatore dette per me il suo proprio sangue, versò la sua vita e fui salvo».
La conversione dunque avviene in forza del ripetersi del mistero stesso dell'incarnazione: e per tal fatto, meglio possiamo ora cogliere il significato suo ultrapersonale, pensando anche come delle più caratteristiche e complete civiltà precristiane, l'ebraica, l'ellenica, l'egizia, e l'indiana, quest'ultima sola rimanga estranea alla gran sintesi che mediante il Vangelo si compie. È bensì vero che anche la nordica (scandinavo-germanica), non però considerabile al livello storico di quelle, rimane estranea all'elaborazione del corpo rituale dottrinario della nuova Chiesa, ma essa nell'ambito di questa Chiesa pur sussiste, eretica, all'inizio, ma accettante poi l'ortodossia ed anelante a riviverla intensa secondo l'anima propria, quasi angosciata di quella sua estraneità. La indiana a tale storia resta invece in estraneità perfetta: ad uscirne, non può accadere per lei qualche cosa di simile a quello della civiltà nordica, cioè un semplice pur se profondissimo atto mistico (la mistica tedesca, delle sante benedettine e dei tre grandi domenicani), necessario è che sia infranto il limite dell'ordine umano, che il miracolo avvenga, e ciò anche trattandosi di civiltà dentro quel limite tutta sprofondata.
Quanto diverso dunque il dramma spirituale che stiamo osservando, anche da quello di Paolo, con il quale esso offre dei notevoli punti di comunanza: ma Paolo perseguita Cristo in nome di una fede e di una legge da cui Cristo è sorto – non a distruggerla ma a sollevarla a compiutezza eterna – ed è come se Paolo di tale eternità di compiutezza abbia, in principio, terrore – tanto, oscuramente ancora, in fondo a sé egli la sente – e nella sua persecuzione quel terrore s'esprime; Sundar lo perseguita in nome di una fede e di una legge, di cui nel suo significato contingente ed eterno, Cristo appare negatore; ma in realtà la sua, persecuzione è mossa non come in Paolo da una chiara e violenta sicurezza nel suo credo, ma ben da una incertezza così vasta ed acuta che tutto, anche la più remota fede, la cristiana, occupa e in questa, contro questa, si sfoga. Dalla via di Damasco Paolo comincia il suo apostolato delle genti, dà principio, attraverso l'universalità imperiale romana, alla grande opera di sintesi dello spirito ellenico e dell'ebraico; Sundar, attraverso l'avvento della fede in Cristo nella sua mistica anima d'indiano, spinge la civiltà della sua razza dentro la sfera storica del cristianesimo in forza del quale quella sintesi sussiste. Gl'intimi nativi dissidii fra quest'anima e il complesso di quella fede, sono vinti in grazia di quella stessa potenza mistica che fa quest'anima inquieta prima nella tradizione propria e quindi esorbitare da essa, e tanto da inserirla nella nuova in ragione appunto del modo di tale vittoria: poiché se il pensiero metafisico serve ai Padri e ai Dottori della Chiesa a umanamente formulare la divina trascendentalità del dogma, l'atto mistico, verso il quale ogni vera metafisica converge così come ogni vera mistica dalla vera metafisica è giustificata, vale a dar moto e vita al rapporto tra quell'umana (speculativa) formulazione e quella trascendentalità divina; e qui è tutta la storia della mistica medievale cristiana, la quale decade in eresia – logicamente in panteismo – quando s'attenti assorbire ed annientare in sé il principio metafisico, speculativo, delimitante, umano, in sé e per se stessa giustificare il dogma, destituendolo dal suo mistero.
Quanto da tali pericoli sia il nostro Convertito a riparo, credo sia ormai a sufficienza evidente. Ma aggiungiamo ancora:
«Cristo non è il più grande mistico; così credono quelli che non inclinano a riconoscere la Sua divinità. Egli di tutti i mistici è il signore, il salvatore. Cristo non è soltanto una storica personalità, ma anche oggi vive ed opera. Egli vive non solo nella Bibbia, ma nei nostri cuori».
«Disse una volta un cristiano dell'India che aveva molto viaggiato: Io vidi la tomba di Maometto. Era magnifica, adorna di diamanti ed altre cose preziose. Mi dissero: Qui riposano le ossa di Maometto. Vidi la tomba di Napoleone, e mi dissero: Qui riposano le ossa di Napoleone. Ma quando vidi la tomba di Cristo, essa era aperta. Dentro non v'erano ossa. Cristo è il Cristo vivente. Quella tomba è così aperta, da quasi duemila anni. Anche il mio cuore sta aperto al Signore. Egli in me vive. Egli è il Cristo vivente, poiché nella vita dei cristiani seguita a vivere... Tutti i cristiani sono le membra di Cristo. Essi non solo sono amici di Cristo, ma son Cristo medesimo. Per essi Egli respira».
E che poteva Sundar sentire di comune tra questa fede, questo dogma, e la dottrina avatarica che il vishnuismo professa? possono forse, certe letterali somiglianze, prendersi nel senso di naturali premesse psicologiche a quella fede? Non neghiamo, ma l'abisso che separa le due dottrine, dopo accertati tutti i possibili punti d'uguaglianza, resta.
* * *
Atto speculativo e atto mistico permangono nella inalterata giustezza del loro rapporto, che l'individua ciascuno e mutuamente li condiziona, in ogni esperienza interiore che trovi sua ragione nell'idea del trascendente: e ove essa, come nel caso nostro, sia di carattere essenzialmente mistico, per cui la forza speculativa non esca di per sé da uno stato potenziale, pur, l'atto mistico, sveglia da tale stato quella forza, timida, sotto il dominio di quest'atto, a manifestarsi. Remoti i pericoli d'un possibile ripiegamento verso la tradizione abbandonata, verso quei motivi spirituali avari a lui di pace, pericoli d'una involontaria, fatale, confusione di quella con la tradizione nuova, con i motivi nuovi così ricchi e irradiatori di pace, chiariti tutti i rapporti e le posizioni, il Convertito può ormai ben dirsi libero da quella istintività che regge l'immediatezza del mutamento della sua fede e che la linea di quei rapporti confonde.
La grande parola della misticità indiana è: Conoscenza, Veda; il santo indiano, brahmano o buddhista, non prega ma medita, o meglio la preghiera stessa non è in lui che una forma di meditazione: il peccato, e il castigo, è l'ignoranza. La grande parola cristiana è: Pace; la preghiera è preghiera, abbandono e non ricerca di sé; il peccato, e il castigo, è la negazione della pace, la dannata irrequietudine. Dice Paolo di questa pace: «essa è più sublime d'ogni ragione», e Sundar: «Non solo è più sublime d'ogni ragione ma ogni ragione illumina». E anche qui, non si rimanga sedotti ancora a tentar di subordinare il valore intellettivo a quello affettivo, come se la parola cristiana si opponesse a quella indiana in nome del valore affettivo contro l'altro: ciò, in verità, ben può sembrare, per tutto un coordinamento di circostanze e un'urgenza di necessità, sotto le quali la parola cristiana primamente si enuncia; ma rammentiamoci che, superandole, nel Vangelo giovanneo essa si definisce e si fissa: «nel principio era il Logos»: e dunque il valore intellettivo è arbitrio e leggerezza collocarlo in subordinazione. Pace, non: Amore, ché questa, a tale arbitrio, con più diritto autorizzerebbe. Pace, va intesa, allora, tanto in senso affettivo quanto in senso intellettivo: i due valori, umanamente almeno stanno coordinati, se, angelicamente, la detta subordinazione sussiste (il Serafo superiore al Cherubo), [*] e se, divinamente, sussiste, come appar da Giovanni, la contraria. È pace di conoscenza come è pace di coscienza; e il peccato è peccato d'azione come è peccato di pensiero. Pace, va intesa come umile accettazione nostra dell'eternità, specchio in noi dell'eternità; nome primo dell'eternità, ai valori d'intelletto e d'affetto, anteriore (*). Però essa agisce su questi come moderatrice suprema, e quasi creatrice ne appare. Il Convertito, appunto come condizione di lume intellettuale la esperisce; il tardo figlio dei «Veda». «L'anima mia somiglia il mare. Onde e tempeste alla superficie, ma sotto nel profondo regna immota quiete».
[*] N.d.C. – Cito un passo del mio libro su san Juan de la Cruz (Juan de la Cruz, L'ascesa al Monte dei Melograni, a c. di Dario Chioli, Psiche, Torino, 2005, pp. 144-14): "bisogna rammentarsi che tradizionalmente – da Dionigi Areopagita in poi – si parla di nove gerarchie angeliche suddivise in tre triadi, così perlopiù costituite in senso ascendente: Angeli-Arcangeli-Principati; Potenze-Virtù-Dominazioni; Troni-Cherubini-Serafini. Questi ultimi costituiscono pertanto la gerarchia più alta. Sintetizza bene Pierre-Joseph Pession [Considérations théologiques sous forme de méditations sur le Paradis considéré principalement comme lieu, Aosta, 1899, n. 453] che «I Serafini sorpassano anche i Cherubini in scienza e li illuminano, come i Cherubini illuminano i Troni; ma essi se ne distinguono soprattutto per l’ardore d’amore che hanno per Dio. Così, secondo quanto dicono gli ebraisti, l’augusto nome di Serafini significa «Incendiari» o «Abbruciatori» [San Dionigi, Gerarchia celeste, 7, 1], o forse meglio ancora, secondo l’ebraico, gli Ardenti. Il primo ordine esistente è quello delle persone divine, che termina nello Spirito Santo, l’Amore procedente, l’Amore ipostatico. Ora, i Serafini, così chiamati a causa dell’incendio del loro amore, hanno una particolare affinità con lo Spirito Santo. Come potenti fiamme, non smettono d’innalzarsi verso Dio; fuochi attivissimi e penetrantissimi, agiscono fortemente sui loro subalterni, ch’essi purificano di ogni minima macchia e infiammano d’un sublime fervore; possessori d’una luce inestinguibile, illuminano perfettamente gli altri angeli» [cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa Theol., I, 108, 5-6].
E Adolphe Tanquérey spiega: «Spesso l’anima ama assai più di quanto non conosca: è la contemplazione serafica, per opposizione alla contemplazione cherubica in cui predomina la conoscenza» [Précis de Théologie Ascétique et Mystique, pubblicato on line all’indirizzo http://www.JesusMarie.com (n. 1395)].
Si noti infine che la parola ebraica saràf (pl. serafìm), oltre che “serafino” come in Isaia, 6, 2 e 6, significa anche “dragone o serpente alato e ardente”, e in tal senso viene usato in Numeri 21, 6 e 8, in Deuteronomio 8, 15 e ancora in Isaia 14, 29 e 30, 6. Questo ci può far pensare a una non casuale analogia con talune delle immagini del percorso tantrico, e specialmente con la Kundalinî, l’ “arrotolata” potenza di natura serpentina, che si risveglia col calore interno (tapas) e insorge su per la sushumnânâdî («le vene spirituali e sostanziali dell’anima»), schiudendo e trapassando nel suo ascendere le “ruote” o “centri” (cakra) interni, così come il mistico serafino – innalzandosi peraltro al di sopra dei cherubini, che sono collegati (Ezechiele 1, 15 ss.) alle “ruote” del Carro divino – conduce nell’ascesa verso i “centri” sempre più profondi dell’anima, che sono tanti «quanti sono i gradi d’amore divino» (I, 13). E che poi i serafini siano sette come i pianeti astrologici e come i cakra, potrebbe anche questo non essere un caso".
(*) Questo punto è da me sviluppato nello studio sulla Mistica tedesca (Meister Eckhart, versione e studio) [uscito poi come: Maestro Eckhart, Sermoni. Traduzione di Augusto Hermet. Carabba, Lanciano, 1930].
La convergenza dello spirito indiano nel valore intellettivo, è causa dell'inesorabile immanentismo in cui ogni più decisa posizione trascendentalistica decade e si smarrisce: superato, nella grazia della conversione, tale destino, Sundar è ormai nella possibilità di rivivere assieme al valore affettivo l'altro, verso il quale la sua intima natura tende. L'equilibrio che tra i due valori si stabilisce in lui, lo mantiene in quella luce di trascendenza verso la quale con tutto se stesso e più che se stesso ha aspirato: equilibrio che è un aspetto, un'espressione di quella pace. Anche lo spirito indiano ricerca, nella conoscenza, la pace, non la pace in se stessa dunque ma come effetto della conoscenza: e non può essere che pace egocentrica, paurosa del dolore, tutta esaurita nella sua immanenza. La pace che non è effetto ma causa e non del solo valor conoscitivo ma pur dell'altro, manifesta invece tutto il suo significato trascendentale: poiché essa nella sua intera potenza si rivela appunto là dove è dolore. Quindi non fuga, ma ricerca e gusto del dolore, filosofia della croce, vocazione di martirio.
«La Croce porterà coloro che portano la croce fino a sollevarli al cielo, alla presenza del Redentore».
È così che egli patisce con allegrezza financo quella pausa mistica, quella tremenda pausa, che è detta «notte oscura dell'anima», che invece, ai mistici nati cristiani, ogni allegrezza esclude. Ma per lui tal differenza si spiega a pensare che la prova della «notte oscura» è quella che decisamente lo conferma nella persuasione del trascendente; e che più fugace, e meno forse profonda, è l'esperienza «notturna».
«Alcune volte mi sentii abbandonato. Poi cominciai a pensare: Io devo certo aver commesso peccato; ecco la ragione per cui la mia pace mi fu tolta. Volli indagare per qual peccato io avevo perduta la mia pace. Talora siamo abbandonati per cagione dei peccati nostri; talora non per tal cagione, ma affinché maggior testimonianza possiamo da re di Lui». «Se mai la mia pace ho perduta, io la riguadagnai tostoché cominciai a pregare».
Accanto alla vocazione del dolore, opposta alle intime premesse spirituali psicologiche della sua razza, va considerata la vocazione apostolica, in accordo questa con l'indole Sikh.
«A chi abbia ottenuto questa pace e questa beatitudine, non fa bisogno dire: va ed annunziala agli altri: egli non la può chiudere in sé. Chiedo a molti cristiani: Perché non andate ed annunziate Cristo agli altri?»
Ma pure questa vocazione, con l'altra, nell'idea del trascendente converge: questa come quella non sono che modi mediante i quali l'assoluto vince sul relativo, il divino sull'umano, mediante i quali è effettuabile la rinunzia di sé come di ciò che immediato vi continge.
La rinunzia: ecco un punto in cui il Convertito assume una posizione ben sua.
«Facile è morire per Cristo. È difficile vivere per lui. Morire dura poco; ma vivere per Cristo significa quotidianamente morire. Solo durante, i pochi anni di questa vita, io godo il privilegio di servire Cristo e gli uomini. Se fosse per me bene dimorare sempre solo in cielo, vi sarei stato chiamato; ma poiché vivo ancora sulla terra, è mio compito esservi attivo. Questo è anche il punto in cui io non concordo affatto con la concezione indiana della rinunzia. Io non mi dico un Sannyâsî, poiché Sannyâsî significa rinunziante. Egli rinunzia al mondo perché crede che tutto vi sia male, mentre io credo che tutto sia bene. Tutto il mondo è possesso di mio padre e perciò anche mio. Se io rinunzio al mondo, rinunzio a una parte dei beni che il mio padre celeste mi dona dal tesoro dell'amor suo. Perciò al mondo non rinunzio, ma solo al male che vi è in esso».
La concezione cristiana della rinunzia si fonda sull'idea di un principio maligno insito nella creatura: sull'idea di uno stesso principio si fonda quella indiana, se pur diversamente inteso, cioè in senso assoluto, mentre lo intende l'altra in senso relativo (dottrina della caduta): nel mutamento di fede, il Convertito accentua l'antipessimismo, così da non avvertire più affatto quel principio, come se la redenzione, che contro di esso avviene, tutto, quasi materialmente, lo consumi: l'ascetica cristiana anzi appunto in forza dell'atto redentivo più l'avverte, sentendo tale atto come quello che fa potenti a vincerlo: a rinunziare.
«Le buone cose di questo mondo non sono in sé cattive; ma facilmente possono impedire che noi sentiamo fame e sete spirituale e così diventare la causa della morte dell'anima nostra».
Tale è la sua rinunzia. Vediamo ancora una volta come questo fatto della redenzione, del mistero dell'incarnazione, sia in lui così armoniosamente e verticalmente vissuto da poter rintracciare di tal vita la diretta azione in ogni atteggiamento, mentale o affettivo, in cui il Convertito si mostri.
* * *
Ormai nell'anima sua si delineano le analogie dei singoli punti delle due opposte fedi: la dottrina dell'incarnazione di fronte a quella avatarica, il valore della preghiera di fronte a quello della meditazione.
La meditazione, nel senso che questa parola assume a significare un raccoglimento mistico, è aspirazione – e realizzazione anche – a una totale solitudine dello spirito, a denudare l'essenza sua eterna: bisogno di ricercar dunque se stesso, sia pure l'intimo, metempirico, sé, e ciò che è in lui di divino; ma non bisogno di Dio, del non sé, dell'assolutamente altro. Tutta la mistica di carattere speculativo, anche la cristiana, è in questa ricerca, in questo inabissamento nell'intimità propria, nella propria super-temporalità: ma la cristiana, nelle sue forme più aderenti all'ortodossia, più obbedienti all'idea del trascendente, media tale ricerca attraverso l'opposta, cioè quella di Dio, così che la ricerca di sé resta subordinata, in funzione di quella: la meditazione, o concentrazione, mistica cristiana vige in funzione della preghiera, è quasi l'interiorizzamento della preghiera stessa. Nello spirito indiano essa è invece assoluta, incondizionata: poiché tale spirito è destinato a dover considerare il divino come l'intimità dell'umano, e però l'umano come la sua esteriore parvenza: dunque ciò che è è soltanto il divino, e così il Brahman, l'assoluto, considerato macrocosmicamente, è l'âtman stesso, che non è che quell'assoluto medesimo nel suo aspetto microcosmico. Anche lo spirito indiano, come ogni altro, è inizialmente mosso, inizialmente svegliato a coscienza religiosa, da un'idea del trascendente: ma questa, se da un lato si esteriorizza e si sperde nella religiosità naturistica e magica, dall'altro, quasi per violenta reazione, per eccesso d'interiorità, si sfigura e si tramuta nell'idea contraria. E la parvenza, cosmica e umana, è il male; il bene è la realtà vera, divina: lo sforzo spirituale è nel ricercarla, nel metterla a nudo, chiusa e nascosta com'è dall'effimera veste ingannatrice, nel lacerare questa, nel rompere l'incantesimo dell'inganno. Soltanto, invece, un saldo riconoscimento delle due realtà, della assoluta e della relativa, della divina e della cosmica e umana, potrà valere come sostegno e difesa incrollabile all'idea del trascendente: idea che non indulgerà a identificazioni tra i due aspetti, macro e microcosmico, dell'assoluto, se essenzialmente è negatrice della unicità di questo. Ma quale rapporto potrà fissarsi allora tra queste due realtà, che dal punto di vista di tale unicità cioè della concezione indiana, appaiono il più pazzesco assurdo? Ecco la tremenda idea della creazione, il mysterium tremendum, cui l'anima indiana è remota per suo natural destino, e di cui strani sparsi echi pur suonano in qualche inno vedico e nella Bhagavadgîtâ. E corollario di questa idea fondamentale, quelle della redenzione-incarnazione e della adorazione o preghiera. Riconosciuta dunque la duplicità del reale, nei termini di creatore e di creatura, la meditazione mistica assoluta diventa essa una follia e un'empietà. Non nell'intimo fondo dell'umano si esaurisce il divino; tra l'uno e l'altro è l'abisso, che l'atto creativo, e quindi quello redentivo e quello adorativo, nega e afferma ad un tempo. L'adorazione, la preghiera, dunque ha, in tal concezione, l'analogo posto che nella concezione contraria tiene la meditazione.
Così egli esprime in forme parabolica l'essenza della preghiera:
«Un giorno io sedevo sulla sponda di un fiume ed osservavo come i pesci salivano alla superficie e schiudevano la bocca. Pensavo essi volessero prendere i pesci più piccoli; ma chi se ne intendeva ebbe a dirmi più tardi che dovevano venire così a fior d'acqua per attingere aria, se pur potessero sott'acqua un certo tratto di tempo respirare. Come questi pesci, così anche i cristiani devono sollevarsi di tempo in tempo dalle loro faccende quotidiane, per giungere a contatto più intimo con Dio, se pur anche durante il lavoro d'ogni giorno possano fino a un certo grado restare in rapporto con Lui». «... Pregare è necessario così come respirare. Non si dice mai: non abbiamo tempo di respirare». «Vegliate e pregate, perché non abbiate a cadere in tentazione... Perché dirige nostro Signore queste parole a Pietro e gli dà questo consiglio?... Pietro era colui che era prossimo a rinnegarlo. Cristo lo ammonì di pregare onde non dovesse soggiacere a questa grande tentazione. Ma egli trascorse dormendo questa ora sola, e rinnegò il Signore. Cristo passò quest'ora in preghiera. La sua preghiera fu ascoltata ed un angelo dal cielo venne a confortarlo. Ebbe così la forza, a morire della morte in croce. Se Pietro avesse trascorso quest'ora nella preghiera, gli sarebbe forse stata data la forza di resistere alla sua tentazione».
Da questi passi si intenda quanto egli, esperto in meditazione, viva la verità della preghiera. E resta, in lui, assieme a questa verità, la possibilità meditativa quale nella mistica cristiana di carattere speculativo? Un'eco dell'essenza della meditazione pare vaghi ancora leggermente nella sua preghiera, se una volta la definisce: «La preghiera è un esercizio, come lo scavare: essa ci fortifica», ma subito aggiunge: «ci fortifica contro le tentazioni: e mediante la preghiera si trova un tesoro molto più prezioso di quello che ci si sia messi a cercare». Mentre invece la qualità e il valore intercessivo che la preghiera può assumere, la distanzia dal suo analogo decisamente, e se egli usa preludiare la preghiera con un atto meditativo, è la meditazione che alla preghiera serve, non questa che serve da mediazione intima a quella, la quale così appaia come la preghiera stessa sotto un men solito, meno umilmente umano aspetto; ed ancora, il distanziamento dall'abitudine meditativa si manifesta nel libero modo di pregare, giacché mentre l'indiano s'attiene a precisi e dettagliati canoni per il suo raccoglimento mistico, i quali riguardano la posizione delle membra e lo sguardo e il respiro, egli prega seduto come in ginocchio, come in cammino; soltanto la forma propria dei Sikh e del Corano [*], la prostrazione, non gli è più affatto consueta.
[*] N. d. C. – Sostituisco "propria dei Sikh e del Corano" alla cacofonica espressione di Hermet "sikisto-coranica".
«La lingua della preghiera è senza parole. Se Dio parla all'anima, noi comprendiamo subito ciò che vuol dirci, in modo simile a quello che sovente accade nei colloqui, che già si sappia ciò che l'altro vuol dire ancor prima ch'egli lo enunci. Così in quiete profondissima Dio parla all'anima. I suoi pensieri penetrano diretti, senza parole, nel nostro spirito, e sono spesso pensieri che non sono esprimibili. Così possiamo in tal guisa in un istante apprendere ciò che noi in altra guisa non potremmo imparare in trent'anni. Perciò non adopero parole, se prego solo; in grandi radunanze, son necessarie». «Dio è quieto; perciò anche noi dobbiamo essere quieti, per poterlo comprendere».
È così ch'egli evita anche le formule di preghiera, come per un timore di meccanicità. Ma è Dio stesso che c'insegna a pregare: questo è la cima dell'esperienza devozionale del Convertito, il punto dove ci è dato cogliere nel vivo la differenza tra preghiera e meditazione; la preghiera non è che atto preparatorio, di addestramento, alla vita in cielo, nell'eterna presenza di Dio.
Poiché è l'idea di creazione quella che stabilisce un rapporto fra le due realtà, concretando per tal modo l'idea di trascendenza, e assieme ad essa, consequenziarie, quelle di adorazione e di redenzione, consideriamo ora questa seconda, di fronte alla sua analoga dell'avatâra, come di fronte all'analoga della meditazione, abbiamo considerato la prima.
L'incarnazione dell'essere infinito è dottrina anzitutto vishnuita, che dunque si scosta alquanto dal carattere generale della spiritualità dell'India. L'essere infinito si manifesta innumerevoli volte, quando la necessità cosmica o quella sociale umana lo esigano. Questo carattere della ritmicità periodica dell'avatâra, carattere che è in perfetta corrispondenza con quella spiritualità e mentalità, e che impronta di sé ogni altra dottrina indiana (es. la reincarnazione), naturalizza, chiude nei limiti dì una legge naturale, quello che, concepito invece cristianamente come unico, è il mistero dell'incarnazione redentrice. Non è il tragico bisogno di un riscatto, della riparazione di una rovina, una volta per sempre così come una volta per sempre è creato l'universo e l'uomo, difficile, tremenda, opera, e più della stessa creazione, che soltanto il creatore stesso dunque può compiere; è la semplice necessità che la creatura, di volta in volta, ha della presenza accanto a sé del creator suo, come un figlio ha del padre, per consiglio e guida. Nella dottrina cristiana della incarnazione redentrice è nascosto il senso di una necessità misteriosa del creatore di espiare, scontare, quasi, il suo atto creativo: egli, come redentore, si umilia alla sua stessa creatura, se ne fa povera vittima e cibo, onde, di lui ristorata, essa possa risollevarsi da quello stato dove il peso della propria nuda, immediata, creaturalità, l'ha fatta precipitare; quella indiana dell'avatâra, per quante analogie esteriori più o men genuine possa presentare con l'altra, bastino a differenziarla questi tre versi della Bhagavadgîtâ:
Quelli che son privi di discernimento credono che Io, l'Immanifesto, sia venuto in manifestazione; essi non conoscono la Mia essenza suprema, imperitura, incomparabile.
Avviluppato dal mio mistico potere d'illusione, non sono a tutti manifesto; Me, non nato ed inesauribile, questo mondo deluso non conosce.
Io conosco tutto ciò che è stato, che è, e che sarà, ma nessuno conosce Me.
L'affermazione del trascendente, la quale può essere considerata come il centro di gravità del vishnuismo, suona appunto qui dove la manifestazione avatarica vela, per una mente indiana, quell'idea: nel mistero dell'incarnazione, un cristiano la sente invece in perfetta luce: poiché il creatore è redentore, ricreatore, della propria creatura, ma l'emanatore (che pur, in un passo dello stesso Poema, si dice, ma figuratamene, a intendere non alla lettera: «creatore») è soggetto assieme al proprio emanato alla legge dell'emanazione, anch'essa periodica; se l'idea di creazione è un concretamento dell'idea di trascendenza, l'idea di redenzione rientra tutta nell'ambito della prima. Dall'idea di emanazione, anche dove si impone l'idea di trascendenza, questa rimane offuscata, e così da quella di avatâra che, analogamente all'altro rapporto, nell'ambito di quella di emanazione rientra. Tutto, la mentalità indiana, profondamente astratta, concepisce secondo la legge, e ciò la rende logicamente schiva a quanto dall'ordine di una legge, misterioso, esorbita: è al lume di quest'ordine che possiamo spiegarci quella molteplicità, nel tempo, e quindi nello spazio, per la quale l'universo – anzi gli universi – eternamente ritorna, riemana ("notti e giorni di Brahmâ"), e ogni singola esistenza, se tutta non giunga ad affisarsi nel punto dell'assoluto, rinasce, e l'assoluto si riumana. La legge assorbe in sé e in sé annulla ogni iniziale concretezza che mai possa spuntare nei due termini di emanato e di emanatore, così che in fine non potrà questo assumere se non arbitrariamente il valore di assoluta unica realtà di fronte all'altro, mera illusione: o ambedue sono dunque reali, non schiavi assieme, coordinatamente, di una astratta legge, come nella concezione cristiana dove appunto l'uno è creatura, subordinata all'altro, creatore, o, come in quella indiana, ambedue sono illusori. Nella concezione cristiana – intendo così com'è, essa elaborata attraverso il processo di sintesi ebraico-ellenica – ciò che costituisce il centro vitale, non è l'astrattezza di una legge ma la concretezza del mistero che, fondo ultimo di ogni legge, questa trascende: e allora il rapporto qui si capovolge, qui è il mistero, nella sua legittima trascendenza, che tiene sotto di sé ogni legge: ed esso è attributo primo del sommo concreto, del sommamente personale, che è detto creatore, che è detto redentore. Né qui è perciò possibile quella idea del molteplice, del periodico, in cui consiste la legge assoluta nella sua attualità; qui essa non è né un assoluto né assoluta, e però l'ordine delle cose non è, universalmente, contemplato alla sua luce.
Tralasciamo di soffermarci a considerare un altro lato meno urgente al nostro studio, della dottrina avatarica, cioè quello shivaita, così diverso dal vishnuita, se in esso scorgiamo il fatto dell'Incarnazione non nel suo semplice, naturale, significato di periodica necessità che obbliga l'immanifesto a delimitarsi e manifestarsi, ma in uno più ricco di dramma e di mistero: l'assoluto, manifestandosi, delimitandosi, incarnandosi, patisce la sua incarnazione. Assumendo la forma di ciò che gli è opposto, si assoggetta a soffrir dentro di sé il dolore di questa irriducibile opposizione; basti pensare come qui siamo ben più vicini alla concezione cristiana, dove il rapporto tra infinito e finito, tra creatura e creatore, ha quel carattere di urgenza, d'intimità e di tragedia che alla concezione vishnuita manca.
Sundar, meditatore della Gîtâ ne fa suo tutto il contraddetto anelito a fissarsi nell'idea della trascendenza, ch'essa tanto più afferma, con tanta più decisa violenza, quanto più quell'idea è ancor sempre, in realtà, incerta e remota; e Cristo, allora, per lui appare in verità, l'Incarnato. Convertito a Cristo, crederà nella creazione, non nella emanazione, nella preghiera non nella meditazione, non nell'avatâra ma nel redentore.
Si noti la ripugnanza ch'egli ha sempre sentito verso la dottrina della reincarnazione, cerchio perpetuo di morti e di nascite, che soltanto un supremo sforzo umano può rompere. Questa dottrina, assieme alle altre, è anch'essa un aspetto dell'attualità di quell'assoluto astratto che è la legge: la mente dell'indiano non si ferma a contemplare per se stesso il mistero della vita definita nei suoi due limiti della morte e della nascita, ma lo stempera nella diffusa, indefinita molteplicità, periodicità, quasi essa potesse illuminare la sua tenebra. Paura del dolore, paura del mistero.
«Prima di esser cristiano, ogni volta che vedevo qualcheduno morire, sentivo nostalgia verso un luogo dove non ci fosse più morte... Quando nell'estasi salii per la prima volta in cielo, fui ben sicuro d'essere giunto al luogo dove più non v'era morte».
Non v'è dunque, nell'esperienza intellettuale di Sundar, che da un lato l'unicità della vita, nel suo nascere e nel suo morire, nel tempo, unicità che, in ultima analisi, essenzialmente, permane al di là pur d'ogni diffusione nel molteplice, la quale dunque vale soltanto a momentaneamente eludere quella, il mistero di quella; e dall'altro lato l'eternità: due termini, anche qui, reali entrambi, ben separati e inconfondibili, non l'uno preoccupato nell'altro e decaduti in astrattezza, in illusione. Si ricordi ora a proposito di tali preoccupazioni e confondimenti ciò che s'è detto del rapporto che nello spirito indiano è stabilito tra atto speculativo ed atto mistico, dove questo si trova già preoccupato in quello, così che una vera realizzazione mistica manca e il misticismo, nella sua indole panteistico-immanentistica, naturalmente subentra.
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Continuiamo ora ad osservare il Convertito di fronte agli altri dogmi cristiani, misticamente esperiti nella visione estatica.
«Mi fu detto che i cristiani abbandonano nella morte il loro corpo di carne. Esso viene sepolto; così il corpo spirituale che vi è contenuto si libera e di questo vestiti saliamo, secondo il grado del nostro sviluppo, al secondo o al terzo cielo».
Il primo cielo è, secondo la visione, il cielo sulla terra, quella meravigliosa intima pace e quel godimento della presenza di Cristo, che consegue alla conversione; il secondo è uno stato intermedio: è il paradiso, del quale Cristo in croce parlava al ladrone pentito. Qui soggiornano per alcun tempo le anime che nella vita spirituale non hanno ancor fatto sufficienti progressi per giungere, dopo la morte, al terzo cielo. Qui sono con Cristo ma non lo possono vedere; come se onde di luce scaturissero da Lui, lo sentono ed odono una musica celeste; il terzo cielo è il vero cielo, meta ultima di tutti i giusti. Ma alcuni, come anche Sundar, ottengono il privilegio di poter alcun poco indugiarvisi già durante la loro vita terrena.
«Quando vi fui, mi parve di avere un corpo, come forma e figura, ma tutto tessuto di luce. Questo è ciò che Paolo chiama corpo spirituale».
«Nessuno può con questo corpo di carne salire al cielo; ma nel caso di pochi, Enoc, Mosè, Elia, questo corpo è trasfigurato. Così avvenne per il corpo di Cristo».
«Mi fu detto che l'amor di Dio è attivo pur nell'Inferno. Dio non irradia nel suo pieno splendore, poiché ciò non vi potrebbe essere tollerato, ma a poco a poco Egli mostra ai dannati una sempre maggiore luce... Dio agisce dal di dentro sui loro spiriti, nel modo simile, ma in opposta direzione, a quello in cui il demonio ci ostacola con tentazioni. Così, con l'aiuto di Dio nell'intimo e con la sua luce di fuori, quasi tutti quelli che sono nel l'inferno, giaceranno al fine ai piedi di Cristo. Passeranno forse milioni di ère, ma quando il fine sia raggiunto, essi saranno felici e pieni di gratitudine verso Dio, se pur sempre meno felici di quelli che già in terra han ricevuto Cristo. Pure l'inferno è dunque luogo di preparazione per la patria eterna. Quelli che sono nell'inferno, sanno ch'esso non è la patria loro, poiché vi soffrono. Gli uomini non sono stati creati per l'inferno, perciò nemmeno vi possono vivere felici e vorrebbero fuggire in cielo. Lo possono; ma nel cielo ancor più si sentono ripugnati che nell'inferno, e così vi ritornano. Soltanto per tal modo giungono a persuadersi che la loro vita è peccaminosa e così a grado a grado sono portati a pentimento... Ma vi sono alcuni pochi esseri, p. es. il demonio stesso, di cui mi fu detto: Non domandare. Io non domandai, ma sperai che anche per essi vi sia ancora speranza».
Ma aggiunge che forse anziché l'eterna dannazione dovrà toccar loro la finale distruzione; pure, insiste:
«Se per tutti i non cristiani nel mondo e per tutti i cristiani morti in peccato, non vi fosse speranza, Dio cesserebbe di creare uomini».
Il supremo mistero escatologico, della finale eterna dualità, irriducibile, in cui l'essere ha da risolversi, il male eterno e l'eterno bene, l'eterna luce e la tenebra eterna, è forse, nella sua fondamentale tragicità, il punto critico nel quale lo spirito dell'indiano convertito viene necessariamente ad imbattersi: assai abbiamo esaminato e tentato di mettere in luce quanto una mentalità indiana rifugga da concezioni di carattere dualistico, tragico, quanto solamente su tali concezioni una vera idea del reale possa basarsi, e come invece quella mentalità sia affascinata da concezioni di carattere monistico, idillico, per cui lo spirito resta chiuso in un incantamento, smarrito in se medesimo, e, non potendo mai sentire fuori di sé altro che sé (tat tvam asi), [*] pur di se medesimo il senso smarrisce. Ma, ben compenetrato dalla forza concreta e compatta del mistero, in cui la nuova fede lo solleva, davanti a questo che del mistero è forse l'aspetto più definitorio, il Convertito obbedisce con tutta l'anima sua al coerente ammonimento: Non domandare – Non parlarne – se pur un sottile anelito in lui persista a superarlo, ma anelito che ormai si colora di un profondo, tragico, senso di cristiana pietà, simile a quello della mistica Giuliana di Norwich nella sua visione della catarsi finale («Tutto deve finire nel bene»).
[*] N. d. C. – L'espressione sanscrita vuol dire «Quello tu sei».
La visione estatica, forma di misti (*) analoga allo yoga – come la preghiera è analoga alla meditazione, la creazione alla emanazione ecc. – Sundar tiene a ben distinguerla dal suo analogo, a lui non davvero ignoto, e si diffonde nei dettagli della distinzione:
«L'estasi è un'immersione nel profondo delle cose spirituali. Essa non è una trance».
(*) Distinguo misti – atto mistico – da mistica così come usa distinguersi prassi da pratica. [In greco mystis vuole in realtà dire iniziatrice, maestra, per cui non sembra etimologicamente perspicua la scelta di Hermet].
La trance yogica è arbitraria e cerebrale, l'estasi è necessaria e totalmente spirituale, non è allucinatoria né è uno stato di sogno, ma stato estremo di veglia. È, in termini di psicologia, quell'atto che, nell'intimità ultima dello spirito umano, trascende l'atto umano del pensiero, e del volere, quell'atto al quale come a suo culmine il pensiero, e il volere, tende, e da cui come da fonte sgorga: al Convertito esso dunque vale, come s'è fatto cenno, ad esperire le verità eterne che il pensiero, la speculazione, umanizza nel dogma: nello yoga una funzione analoga non ha ragione di poter sussistere se lo yoga è appunto quella meditazione, cioè concentrazione di pensiero, che ha per analogo, nel cristianesimo, la preghiera, mentre la preghiera non è lo stesso dell'estasi: questa è atto mistico, in cui l'assoluto è esperito anzitutto come un ultimo, limite e cima; quella è atto devozionale (atto ascetico, nelle sue forme sublimi), dove l'assoluto è esperito come un primo, un'origine. Le analogie tra estasi e yoga, tra meditazione e preghiera possono, in astratto, ben porsi, ma cadono per la concreta constatazione da cui i termini di una delle due parti dell'analogia risultano un termine solo: l'assoluto, ripetiamo, secondo la spiritualità indiana, si esperisce unicamente nel suo aspetto di ultimo, non dunque di origine, non dunque di creatore, e però la distinzione nostra fra yoga e meditazione non è che un istintivo arbitrio analogico.
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Resta, nel Convertito, in ombra la prima persona della Trinità: nella visione estatica della trina divinità, questa tende a ridursi tutta alla seconda persona: «Cristo: Egli è Dio», la visibilità dell'invisibile Dio: un'eco upanishadica è qui avvertibile, a rammentare l'idea dell'impensabile Parabrahman, ma quel che più interessa è la considerazione del contrasto che le due persone, nella loro stessa unità ed amore, presentano: la prima, il creatore, il signore, Colui che divide la luce dalle tenebre, il giustiziere; la seconda, il redentore, il padre nostro, colui che fa brillare la luce in fondo alle tenebre, il perdonatore; è a questa che la salute, la vita umana è dovuta: Sundar fin troppo, per il fatto della sua conversione, ne è persuaso. All'altra è dovuto l'essere, il quale è, nel suo mistero, l'assiduo sottinteso, quasi il Parabrahman, cuore nascosto del Brahman. La prima troppo remota per contingere con l'umano, con le ansie e le rovine umane, fissa nella sua solitudine, inaccessibile, tutta chiusa nella sua trascendenza, inesorabile ordinatrice: il suo segno è l'ira; la seconda, umiliata nell'umano, consolatrice delle angosce, ristoratrice delle umane rovine, rinunziante alla propria solitaria gloria, sperduta dentro la dura cecità del mondo: il suo segno è l'amore. Vero che la prima soltanto in forza di questa è ciò che è, e viceversa, ma la loro distinguibilità pur s'impone, tanto da provocare anche le più acute e inquietanti eresie (es.: Marcioniti). S'impone, a Sundar, sia per il fatto della conversione, sia anche per quell'eco upanishadica che in fondo a lui ancor tuona: ed è qui allora il punto in cui le due fedi, nella dinamica del convertimento, rivelano un attimo di unità, ma al di là di questo è la nuova fede che rende il divino concentrato tutto nella seconda persona, ed in ciò che essa ha di perentorio, il mistero dell'incarnazione: mistero per cui il Convertito può alfine esperire in concretezza e necessità, fuori di sé, indipendente da sé, ben sensibile (tangibile, quasi) il trascendente divino, l'altro, cui affidare il proprio vano se stesso, pericolante in arbitrio ed illusione, e da cui assumere realtà vera, e salvarsi. Il suo segno è amore: e anche qui, questo segno non può non valere in piena assolutezza. L'altro, quello dell'ira, rimane in ombra e silenzio:
«Se gli uomini vivono in peccato, essi devono anche in peccato morire. Non è Dio che cagiona questa morte. Dio non getta nessuno nell'inferno. Il peccatore da se stesso si condanna a questa pena. Consideriamo il caso di Giuda Iscariota: quando tradì il Signore, né Pilato lo fece impiccare né il sommo sacerdote, né il nostro amoroso Salvatore né gli apostoli. S'impiccò da sé. Si macchiò di suicidio. Morì nei suoi peccati. Tale è la fine di chi vive in peccato».
Dio è per sé soltanto amore: chi contrasta a questo amore si strappa da Dio, cade nell'eterna morte, ma Dio non cessa in tal caso d'essere soltanto amore, non si tramuta in ira – anch'essa però un aspetto dell'amore – ma resta come ignaro di colui che da sé si condanna e si danna. Ed anzi il suo amore è pronto al soccorso, ad arrestar l'espiazione: purché nell'anima peccatrice albeggi pentimento, causa del perdono. Par dunque che nell'ordine etico tutto si svolga quasi indipendentemente da un assoluto metafisico, se questo resta indifferente all'effetto della colpa e alla colpa stessa, e non serve che da passiva conferma al valore che il pentimento irradia: il deprecato immanentismo minaccia forse qui di rovinare la acuta e profonda fatica della conversione? A fissar l'idea del trascendente è dunque inevitabile quella dell'ira, del creatore, assieme e al di là di quella del redentore e dell'amore: è ben nella sfera di questa che la salvazione (la conversione) si compie, ma è nella sfera dell'altra che essa si mantiene e sussiste, poiché il suo intimo significato è appunto trapasso da una posizione secondo immanenza ad una secondo trascendenza, salvamento da quella in questa, dall'arbitrio alla necessità e libertà: libero l'uomo davanti al bene ed al male, tragicamente libero – come l'assoluto stesso, Dio, davanti al- creare e al non creare – ma in questa sua libertà misteriosamente necessitato: egli è solo, unico, nell'atto della libertà, ed è come se Dio, per e in forza di quest'atto, al proprio sussistere rinunzi, e pur, al di là della rinunzia, è ancora. La ricca vivezza di questo mistero illumina e consolida l'idea della trascendenza nel modo più totale, ed elimina ogni distratto richiamo a quella legge karmica che è tutta intesa ad escludere il mistero affermantesi nella diversità delle singole vite, e secondo la quale ogni male, ogni dolore, è contemplato sotto specie causale-effettuale, soffrendo ognuno soltanto ad espiazione di colpe in altra, se non nella presente, esistenza commesse. Paura del dolore, paura del mistero: ancora una volta, il mistero astrattamente, illusoriamente, chiarito, il dolore detronizzato da quella gloria dove l'esperienza cristiana lo colloca. Nella legge karmica è ben l'uomo arbitro del proprio destino, sotto l'assenza dell'assoluto, ma l'assoluto, pur al di là di questa assenza, manca, e, fuori da ogni principio necessitante, la libertà non è più libertà ma arbitrio folle e vano; arbitrio schiavo di se medesimo nel meccanismo di una troppo logica legge.
In forza del suo gusto del dolore come valore assoluto, della sua filosofia della croce, Sundar mantiene intatta l'opera della conversione, minacciata dalle proprie medesime condizioni (apparizione reale del Redentore), e scansa ogni agguato che dentro l'intima complessità di quel fatto possa celarsi.
«Dolore e sventura ci portano più presso a Dio e ci rendono atti a servirlo. Molti sentono la loro sventura solo un castigo per i loro peccati. Eppure la sofferenza, e il modo di soffrire, è un'eccellente via al servizio di Dio, e fruttuosa a magnificarlo».
Ricorderemo qui le grandi parole giovannee: «Né lui peccò né i genitori suoi; ma è cieco perché l'opere di Dio in lui si manifestino». Ma si tenga presente però che nel gusto del dolore è sempre l'idea dell'amore divino che trionfa, l'idea dell'ira essendo correlativa a quella del dolore come espiazione, e non nel senso meccanico karmico, o anzi come dannazione: è un assoluto trascendente che in libertà punisce a purgare o maledice a dannare; il Convertito, tutto inteso contro l'idea del dolore come espiazione karmica, contro la paura del dolore come valore assoluto, a salire oltre, verso l'idea del dolore come espiazione – o dannazione – nel senso cristiano, rischierebbe di cadere e ricompromettersi nello spirito di quella tradizione da cui la nuova sua fede ben lo separa.
Se l'ira divina può considerarsi un aspetto del divino amore, anche l'inverso è legittimo: amore che non è davvero soltanto tenerezza e compassione, ma anzitutto passione disperata e implacabilmente attiva. E di ciò Sundar è ben consapevole:
«Ecco, il re dei re sta davanti alla nostra porta, volendo tutto cancellare il nostro debito di peccato. Egli batte alla porta, con nutrimento celeste in Sua mano, nutrimento che ci rafforza e invigorisce, a riportar vittoria sui nemici dell'anima nostra».
L'idea dell'ira si associa a quella del nemico, del principio personale del male, dell'antidio: ma contro questo figlio dell'ira è l'iracondo amor divino che celebra i suoi trionfi:
«Un santo, prima della sua conversione, aveva commesso varie colpe. Ma dopo, servì il Signore con tutte le forze e condusse una santa vita. Quando venne a morte, il demonio gli recò una lista degli antichi suoi peccati e gli disse: Tutti codesti peccati hai commesso. Tu sei indegno di entrare in Cielo; il tuo posto è nell'Inferno. Con questo il demonio tentava di spaventarlo. Ma il santo gli rispose: Il mio Salvatore nessuno respinge che a Lui s'avvicini: ma come noi confessiamo i nostri peccati, Egli è fedele e giusto così da perdonarli e da purificarci da ogni colpa. Pur seguitò il demonio a tormentarlo; ma il santo non si scoraggiò, e perseverò nella preghiera. Allora apparve un dito e die' un frego alla lista dei peccati. Quando il santo vide questo, fu ripieno di gioia e cominciò a glorificare Dio. Ma il demonio disse: Non rallegrartene... Nel Cielo puoi ben giungere, ma la tua colpa a tutti sarà aperta e tu dovrai davanti a tutti vergognarti. Il santo ancora pregò. Cadde sulla lista una goccia del sangue di Cristo. Tutta sopra vi si diffuse, cancellò le lettere e la carta fu bianca come neve. Quando il santo vide questo, fu pieno di gioia celeste e in pace ascese a Dio».
L'amor divino è grazia e carità, non passivo suggello dell'umana virtù, ma creatore di questa e donatore, oltre ogni umano merito, di premio eterno.
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Allo spirito indiano la natura non può apparire che un illimitato multiforme fantasma, il sogno che l'assoluto spirito sogna come pausa alla nuda purezza del suo essere: nell'uomo, parte anch'esso di un tale sogno, questo può assurgere a coscienza di sé, e però l'uomo può, consapevole, sapiente, liberarsi dal suo stato passivo di sognato e ascendere a quello attivo del sognatore, dell'assoluto stesso, o anzi addirittura del non-più-sognatore, cioè dell'assoluto nella sua nuda purezza. Il fatto dell'emanazione che, analogo a quello della creazione, stabilisce il rapporto tra assoluto e relato, è approfondito, colto nella sua essenza ove sia interpretato come sogno.
«Vivi con Cristo e il libro della natura ti sarà intelligibile». Così può parlare soltanto chi non nell'emanazione creda ma nella creazione: la natura non è allora un sogno, un'illusione, ma una misteriosa realtà, i cui i segreti si rivelano unicamente a chi viva in comunione col creatore, col generatore di tale realtà.
«Ambedue la Bibbia e il libro della natura sono scritti dallo Spirito Santo in lingua spirituale. Poiché lo Spirito Santo è la fonte originaria di tutta la vita, così l'intera natura vivente è l'opera dello Spirito Santo, e la lingua in cui fu scritta è la lingua dello Spirito. Lo Spirito Santo è la madre dei rinati, e perciò la lingua della Bibbia e della Natura è la loro madrelingua, che senza fatica da sé essi comprendono. Semplice è il messaggio biblico, immediato e intelligibile, mentre quello del libro della natura deve attentamente essere decifrato lettera per lettera».
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La distanza dunque che il Sâdhu Sundar Singh sente ed afferma tra la fede e la tradizione spirituale della propria razza e la fede e la tradizione nella quale è rinato, è troppo nitida, troppo decisa per mancar di farlo anche meditare su questi due punti, quello dal quale è partito e quello a cui è giunto, così da accettarli come inconfondibili, al di là di ogni precipitosa illusione di conciliazioni o di sintesi. Un sacerdote tibetano disse a proposito di Gesù Cristo, dopo la lettura del Vangelo: «Non so se Egli sia il Salvatore del mondo; so certo ch'è una incarnazione del Buddha. Egli ritornerà... Noi lo attendiamo: regnerà sul mondo intero, Egli, la reincarnazione del Buddha, Gesù Cristo». Da tali interpretazioni la conversione, come quella del Nostro, difende e salva: ma il cristianesimo è da lui concepito nella sua verità di religione universale, e perciò come vertice ultimo, adempimento, di ogni altra religione, di ogni altra tradizione spirituale dunque anche di quella indiana.
«L'induismo ha scavato canali: Cristo è l'acqua che deve scorrere attraverso questi canali. La Bhagavadgîtâ ha grande somiglianza con il Vangelo giovanneo... Anche pensatori non cristiani hanno avuto luce dal Sole di giustizia. Molte bellezze sussistono nell'induismo, ma la luce suprema scende da Cristo. Ognuno respira l'aria. Così ognuno respira, cristiano o non cristiano, lo Spirito Santo, anche se non lo nomini in tal modo».
Il Convertito tenta di sentire la sua stessa antica tradizione spirituale inclusa in quell'ambito storico che converge nel fatto del cristianesimo: non s'appaga alla semplice immediatezza personale della propria conversione ma sente il bisogno di sollevare questa nel suo significato universale, nel suo valore di tendenza di quella tradizione verso la nuova fede: e cerca così in quella elementi e motivi in cui questa sia presentita ed attesa, cerca di diminuire un poco la distanza che divide le due nel loro intimo spirito.
Il contrasto che si delinea tra il senso e l'affermazione della distanza da un lato e dall'altro il bisogno di trascendere questa distanza medesima, ci pone davanti al problema del verbo cristiano nella sua potenzialità e necessità universalmente umana, per cui esso ci appare nel suo ufficio di elaborazione e di sintesi non soltanto, nel suo primo affermarsi, delle civiltà ebraica, ellenica, romana, egizia, ma delle più lontane, delle più estranee alla sua prima storia, ma di tutte le tradizioni e civiltà.
III
Il fatto di questa continua attività storica del cristianesimo per cui esso va rivelando sempre più profondamente l'essenza sua, e per cui, precisamente oggi [1923], esso di fronte alla civiltà e alla religiosità indiana si trova a uno dei momenti più complessi e difficili del suo compito e della sua storia, ci induce a soffermarci nella considerazione della presente civiltà cristiana e del valore che in essa mantiene lo spirito religioso del cristianesimo.
Quando si dice civiltà moderna, e geograficamente s'intende quella europeo-americana, bisogna, a ben individuarla, rifarci a ripensar il rapporto che tra due cardinali idee opposte il pensiero cristiano medievale aveva fissato, nella sua prima sintesi delle due più ricche e decisive civiltà, l'ebraica e la ellenica. Dell'idea d'infinito, di anti-limite, questa aveva sentito un senso di sacro orrore, orientando verso l'idea contraria tutto l'organamento storico del suo pensiero; quella ne aveva sentito religioso timore, così che l'idea d'infinito s'era elevata ad attributo divino; la civiltà indiana ne aveva sentito invece istintivo piacere. Sintetizzando le due prime, il verbo cristiano identificò con l'idea del divino l'idea d'infinito, fissandovi il principio creatore come assoluto trascendente, e con l'idea di creatura quella di finito: il Cristo, divinità incarnata, unica pace tra questi due opposti; il rapporto tra i quali, che lo spirito ellenico aveva squilibrato in ragione di un solo termine, l'idea di finito, e dell'altro, quella d'infinito, l'ebraico, è così stabilito nella sua perfetta esattezza. La civiltà moderna, quale viene formandosi dal '500 in poi, gravita tutta nell'idea d'infinito, di anti-limite, frangendo e rovinando dì nuovo l'equilibrio in forza di una confusione dei due termini: l'infinito è di nuovo idea dominante, ma non, come nella civiltà ebraica, nel senso di un trascendente opposto al finito e signore e creatore suo, ma nel senso d'immanenza dell'infinito nel finito, o anzi di finito fatto infinito lui stesso- contrariamente a quanto avviene nello spirito indiano: il finito nell'infinito. Se seguiamo lo sviluppo della storia musicale, vediamo appunto come in Grecia essa sia l'unica arte che possa esprimere quel sacro senso di orrore in cui l'infinito è pudicamente esperito come l'aldilà del limite, e come tale passa poi nel canto gregoriano; e vediamo come senta e segni per prima il transito all'età moderna, cioè allo spostamento d'equilibrio nel rapporto dei due principi: il senso armonico si sviluppa contro quello contrappuntistico, la sinfonia contro la polifonia; seguono poi tutte le altre manifestazioni, fino al delirio immanentistico del pensiero, all'idea della materia, o dello spirito, né creato né creatore, infinito. In questo mutamento, in questa violazione che l'opera cristiana par subire, il principio fondamentale del cristianesimo resta più che mai vivido e vigile, servendosi anzi di questo stesso tentativo violatore per manifestare ancora una volta, la sua intera potenza. Se nulla di più direttamente opposto al principio della civiltà moderna può attualmente esistere che quello della civiltà indiana, è ovvio che l'attività storica del cristianesimo possa servirsi del secondo contro il primo, ma per affermare al di sopra di entrambi il proprio principio, e celebrarvi un trionfo suo: per tal via avrà anche modo di affermare novamente quella sua universalità per cui nessuna storia, nessuna tradizione può essere estranea al verbo cristiano, e di tutte esso è destinato a inverare l'unità suprema. La conversione di Sundar Singh, contemplata in questa luce, discopre le sue meno avvertibili significazioni: la salvezza di un'anima singola riesce a sintomo d'uno dei più vasti e profondi problemi storici. Il viaggio del Convertito in Europa, nel paese classico della cristianità, ma anche la patria della civiltà moderna, non è un semplice spostamento spaziale di persona che si riduca a motivi di curiosità e di sentimento: è il primo inizio di quella riaffermazione dell'opera cristiana, verso il ristabilimento di quell'equilibrio, cui lo spirito moderno contraddice. Ma se, da assai prima di questa conversione, l'anima moderna europea è sospinta da aneliti verso lo spirito indiano, avida di dissetarsi alle antichissime sorgenti di sapienza che pur essa sente, per suggestione di razza, essere profondamente anche sue; ciò può sembrare qualche cosa che all'inverso orientamento di tale conversione immediatamente contrasti, e non è invece che una necessaria premessa: poiché non si tratta, almeno in generale, di vere e proprie conversioni dalla fede cristiana alla fede buddhista o brahmanica ma di fatali nostalgie ariane di cristiani, soffocati nella loro fede dall'ambiente moderno, verso i principi di quelle fedi, che con maggior evidenza e crudezza d'ogni altro appaiono gli immacolati nemici della modernità. Illusione inevitabile, di cui questi nostalgici ed inquieti possono rimaner vittime, di un abbandono della fede cristiana per quella che essi nella loro ansia sentano più profonda e integrale; illusione contro cui appunto un fatto come quello della conversione di Sundar può servire d'efficace ammonimento. Poiché è in esso che in realtà giunge a chiaramente realizzarsi ciò che in quelli è ancora oscuro bisogno, disorientata brama: è qui un'anima indiana, passata attraverso tutta la intimità dello spirito della sua gente, e intimamente ricca di questo spirito, che, per reale miracolosa conversione, entra con tutta questa sua ricchezza e concretezza nel profondo della fede cristiana e novamente se ne accende ed illumina, e tanto da sentire in ultimo, dopo esperitane ed affermatane la totale distanza, le remote tendenze della stessa propria tradizione spirituale verso questa fede e la immancabile sua foce in essa. Ma come il Convertito apre alla nuova fede l'anima sua, così anche apre la nuova fede all'anima sua e assieme allo spirito della sua razza, della sua civiltà.
Alle soglie di una nuova èra nella storia del cristianesimo, saremmo tentati di ripensare a nuove possibilità eretiche, al fondarsi di una chiesa indiana con una propria speciale teologia, e al fondarsi d'altra parte di una grande setta cristiana induistica dove trovino sfogo le nostalgiche inquietudini dell'occidente moderno ariano verso la primordiale, patria. Schivi dai profetismi pericolosi, ricorderemo invece quel profondo e diffuso movimento neoplatonico che, tentativo di totale sintesi di pensiero tra l'Occidente e l'Oriente, impregnò della sua vita tutto lo sviluppo del pensiero medievale cristiano, mantenendo vigile il fuoco mistico nel cuore della sistemazione scolastica pur non a torto diffidente verso le estasi ed i rapimenti: e che se è stato un movimento fecondo di eresie da una parte, è stato d'altra parte il serbatoio nascosto di energie sempre nuove per lo sviluppo della religione del Redentore, ove nella precisa chiarezza del verbo di redenzione quelle energie siano stato assorbite e chiuse. Se oggi questo verbo si prepara ad imporsi all'assalto che lo spirito moderno gli muove ed a vincerlo, il pensiero neoplatonico, per il suo stesso carattere che vige in un dinamismo di sintesi, e però è analogo al compito storico del cristianesimo, potrà costituire una infallibile guida, esperta d'ogni pericolo, attraverso il lavoro d'assorbimento di elementi della spiritualità dell'India nel vivo della fede cristiana.
Pensiamo che è attraverso il neoplatonismo che lo spirito religioso del nord entra con tutto se stesso, originalmente, nel vivo di questa fede, (mistica tedesca benedettina e domenicana del XIII-XIV sec.); oggi è l'altro dei due soli veri spiriti religiosi rimasti estranei al primo organarsi storico del cristianesimo, è quello indiano, che v'entra.
PASSI TRADOTTI DA ALCUNI DISCORSI DEL SÂDHU SUNDAR SINGH
Impotenza della morale umana
I predicatori di morale assicurano di non aver bisogno alcuno d'un Salvatore. Essi dicono: Fate delle opere buone, e sarete buoni. Ma forse noi siamo tanto peccatori e tanto deboli da non poter salvarci da noi stessi coi nostri propri sforzi. Il peccatore è come un pesce nella rete: il pesce può guardare attraverso le maglie e credersi libero, ma se incominci a dibattervisi, s'accorge di non essere libero affatto, e che gli è impossibile di uscire, poiché è preso dentro la rete. I predicatori di morale possono mirare assai lontano con le pupille del loro ideale, ma se comincino a lottare s'accorgono d'essere presi nella servitù del loro peccato. Ben possiamo deciderci di non più mai peccare, ma questo non ci salva dalla rete. Senza dubbio la rete non è la morte ma è il mezzo della morte. La vita del pesce è dentro l'acqua: quando egli sia nella rete, è separato dall'acqua. La rete non è per se stessa la morte, ma separa il pesce dall'acqua ed è questa separazione che è la sua morte. Quando pecchiamo, non moriamo all'istante, ma il peccato ci divide dall'amor di Dio e così moriamo. Gesù Cristo è venuto per liberarci dal servaggio, dalla rete, e quando siamo liberati, viventi nell'oceano dell'amor Suo, noi prendiamo coscienza delle grazie ricevute e diventiamo Suoi testimoni.
L'esperienza della salvezza per la preghiera
Non possiamo intendere questi fatti spirituali se non trascorriamo alcun tempo nella preghiera e nella meditazione. Magnifici uccelli posson vivere nell'aria e nel cielo splendori di stelle, ma se volete delle perle.. sommergervi dovete negli abissi dell'oceano... Se vogliamo le perle dello spirito, dobbiamo sommergerci, cioè dobbiamo pregare ed allora vedremo le perle preziose.
Ma gli uomini sono troppo occupati; essi non han tempo di pregare. Approssima l'ora della morte; diranno essi pure: «Non abbiamo tempo di morire»? La morte non attenderà ch'essi abbiano terminato il loro, lavoro. Non forse è meglio serbarci ogni giorno tempo d'entrare nell'intimo di Chi solo potrà aiutarci dopo la morte? Egli a noi si rivelerà nella preghiera; conosceremo la Sua grazia e saremo salvati; poiché così è stato detto: «Nel profondo silenzio dell'anima mia io trovo il mio Cielo e il mio Dio». Quando consacriamo del tempo alla preghiera, noi siamo in Dio e Dio è in noi, ma ciò non significa che siamo Dio o che Dio sia noi. Noi ci rendiamo conto ch'Egli è il nostro Creatore e che noi siamo le Sue creature, ch'Egli è il Padre nostro e che noi siamo i figli Suoi....
Conversione di Sundar
Nulla ho trovato nella speculazione indiana, ma soltanto in Gesù Cristo ho trovato, in Chi prima io odiavo. Mai dimenticherò quel giorno del 16 dicembre 1904 in cui avevo bruciato la Bibbia e mio padre mi disse: «Perché fai un atto così stupido?» Risposi: «La religione dell'Occidente è falsa, noi dobbiamo distruggerla». Così distruggevo la Bibbia, pensando di far il mio dovere, e tre giorni dopo io vidi la potenza del Cristo vivente.
Pregavo come un ateo, poiché avevo smarrito la mia fede in Dio...
La stanza si riempi d'una meravigliosa, d'una gloriosa luce, e vidi un uomo tutto risplendente ritto davanti a me. Credetti fosse Buddha, Krishna, o un altro dei santi che adoravo, ed ero pronto a prosternarmi davanti a Lui, quando, con mia sorpresa profonda, udii queste parole: «Quanto tempo ancora mi perseguiterai? Io sono morto per te; per te ho dato la vita mia». Non potevo comprendere, non potevo dir parola... allora vidi le cicatrici del Cristo vivente, di quel Cristo che pensavo come un grand'uomo vissuto in Palestina e morto da gran tempo, e scopersi ch'Egli era vivente, il Cristo vivente e non un Cristo morto e scomparso.
Non ero preparato ad adorarlo; vidi il suo viso raggiante d'amore...
La parola è stata fatta carne
Ecco che io sono qui, in mezzo a voi, in questo paese cosiddetto cristiano, ma non per predicarvi il Vangelo: può essere utile e necessario predicare il Vangelo nei paesi che non san nulla di Gesù Cristo, ma qui, voi già lo conoscete. Io sono qui per rendere testimonianza di ciò che Gesù Cristo, il Cristo vivente, va compiendo nei paesi pagani, rivelandosi a quei che erano i nemici del cristianesimo per trasformarli in servitori di Colui del quale essi hanno veduto la potenza.
Nelle contrade cristiane, gli uomini non credono in Lui; essi lo disprezzano, essi lo trascurano. Non vedono la Sua presenza, poiché non è Lui ch' essi cercano, ma cercano se medesimi. Non è la verità ch'essi cercano, non è Cristo; ciò ch'essi cercano, è il loro proprio benessere. E d'altronde, se non v'ha né persecuzione né sofferenza, non possiamo provare veramente la presenza Sua. Ma se consacrino del tempo alla preghiera, allora Dio potrà ad essi rivelarsi, allora conosceranno che il Cristo che cominciavano a obliare, il Cristo è vivente e loro Salvatore.
Gli abitanti dei paesi cristiani non si rendono conto che è per il cristianesimo che han ricevuto tutti i beni della civilizzazione, la libertà, l'istruzione. Andate nei paesi dove il Cristo è ignoto e voi constaterete che gli uomini sono appena migliori degli animali. Si dimentica che tutti questi beni esteriori son venuti col cristianesimo e che prima voi eravate, voi d'Europa, quasi dei selvaggi. E poiché i paesi cosiddetti cristiani han rigettato il Cristo, egli comincia a rivelarsi da se stesso in quelli dei pagani dove è salutato ed adorato. È così che «i primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi». «Io ho dato tanti beni a queste genti – dirà il Cristo – ed ora essi non mi considerano più che come un uomo, eppur son Dio. Mi volgerò dunque verso i pagani». Spesso sono stato sorpreso a constatare che le genti d'Occidente, che tante grazie han ricevuto dal Cristianesimo, ora le perdono poiché s'affidano alle cose esteriori, all'agio al danaro, al lusso e a tutto quanto è di questo mondo; però al giorno del giudizio i pagani saran puniti meno severamente, perché non hanno sentito parlare di Cristo; ma i cristiani di razza lo saranno più severamente che gli altri, perché, avendolo conosciuto, essi l'hanno rigettato.
Prossimo è il tempo in cui il Cristo ritornerà con i suoi angeli e, rivolto ai cosiddetti cristiani, dirà loro: «Io non vi conosco; conobbi il vostro nome; sapevo ciò che vi concerne; e voi pure conoscevate la mia vita e l'opera mia, ma non avete voluto conoscere me, personalmente me: io non vi conosco». Allora, quando voi vedrete la Sua gloria, bramerete di pentirvi di non aver creduto in Lui come in Dio vostro, ma sarà tardi. Vi siete lasciati sviare dagl'infedeli, dai razionalisti che vi dicevano di non credere alla Sua divinità: allora sarà troppo tardi a pentirvi; ma ora ve n'è data l'occasione. Forse in quel giorno sentirete dirvi: «Un uomo è venuto a voi dalle contrade pagane; egli ha reso di me testimonianza come del Cristo vivente, perché aveva fatto esperienza della potenza mia e della mia gloria, eppur non avete voluto credere. Allora sarà troppo tardi. Ma oggi è tempo ancora, ed è perciò ch'io rendo questa testimonianza davanti a, voi, non per mia propria gloria ma per la gloria Sua. E le grandi cose ch'Egli ha fatte per me, non sono per me solamente, ma anche per voi, pur che vogliate donargli il cuor vostro.
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Quelli che credono in Gesù Cristo e che vivono con Lui riceveranno un nuovo corpo, un corpo glorificato quando il Signore apparirà nella Sua gloria, ed essi regneranno con Lui in eterno. Allora noi riconosceremo che la Parola è stata fatta carne, che il Cristo s'è fatto uomo per salvare gli uomini.
* * *
Io pensavo un tempo: «Come sono infelice d'esser nato in un paese pagano, e come son felici quei che sanno tutto ciò che concerne Gesù Cristo!» Ma dopo aver visitato altri paesi, io dovetti mutare il mio modo di vedere, e benedissi Dio d'avermi fatto nascere in una contrada pagana, poiché io non potevo qui essere soddisfatto, mentre gli abitanti dei paesi cristiani s'immaginano aver trovato, non aver nulla a cercare... Molti si contentano di sapere ciò che è stato detto di Gesù Cristo, ma l'ultimo giorno, Gesù Cristo dirà loro: «Io non vi conosco! voi mi conoscevate, sapeste che io nacqui in Palestina e vi morii, e so dove nasceste e viveste, ma io non vi conosco, poiché voi non m'avete conosciuto». Ed allora resteranno tristi e confusi, e constateranno che nulla è valso a loro di sapere chi Gesù Cristo sia invece di conoscere Lui stesso, e di sentirlo dire: «Sì, ti conosco, sono con te vissuto, ed insieme vivremo in cielo».
Gesù l'ha detto: «Molti verranno dal nord e dal sud, dall'est e dall'ovest... ma i figli del Regno saranno rigettati». Chi sono questi figli del Regno? Sono i cristiani di nome. Essi si credono salvati, ma non lo sono. E questa è per noi occasione a riflettere: siamo noi dei cristiani di nome oppure conosciamo personalmente Cristo?
Quando così lo conosceremo, allora riceveremo quella pace tanto maravigliosa che io non so parole per descriverla...
Pure, voi siete di me più felici, perché non avete come me strappato e dato alle fiamme la Bibbia, e mai odiato Gesù Cristo come io l'ho odiato. Ma se un grande peccatore come me può essere salvato, come non lo potranno tutti gli altri? D'altra parte, molti ve ne sono, nei paesi cristiani, che saranno puniti, perché, davanti ad essi, si leveranno quei che rappresentano i paesi pagani a dir loro: «Voi avete perduto la verità che conoscevate dalla vostra infanzia».
Ho una gran gioia a incontrare dei fratelli qui. Noi c'incontriamo per un istante, ma viene il tempo, e sarà presto, che tutti, quei del nord e del sud, quei dell'est e dell'ovest, s'incontreranno per non lasciarsi mai più. Allora non più diremo: «La mia patria è la Svizzera, l'Inghilterra, l'India», ma: «La mia patria è il Cielo».
Ci aiuti Iddio, a trovar veramente la pace e la gioia in Lui, perché noi possiamo essere pronti a passare con Lui l'eternità.
Pentitevi!
Nei paesi pagani ho veduto gli uomini adorare degli idoli, ma in questo paese ho veduto gli uomini adorare se stessi.
Perduti – poi salvati
Quelli che sono immersi nei loro peccati non ne sentono il peso, mentre quelli che sono salvati sono fuori dal pelago del peccato e si rendon conto del loro stato di peccatori. È molto pericoloso sentirsi senza peccato ed è un segno di vita cominciare a gridare a Dio per avere il suo aiuto. Vi fu un tempo in mia vita che io ero fiero del mio sapere e della mia religione, né potevo comprendere che Cristo è venuto per salvare i peccatori. Credevo che noi potessimo salvarci da noi stessi e che Dio, che è onnipotente, potesse salvarci con una sola parola. Io non potevo credere che Dio potesse incarnarsi.
Più tardi, il Signore ebbe pietà di me e mi si rivelò; io compresi d'essere un grande peccatore e che Cristo è il Salvatore del mondo Mi fu mostrato chiaramente che è l'amore infinito di Dio che l'ha fatto discendere dal cielo.
Dio non desidera punirci, è il peccato nostro che ci punisce. Cristo è venuto per salvarci, affinché crediamo in Lui, e Lui, che è la Vita, ci darà la vita eterna.
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Improvviso, gli apparve il Sole di Giustizia, come a San Paolo sulla via di Damasco. Egli vide la potenza del Cristo vivente e fu salvo... È una evidente prova che Dio s'è fatto uomo per salvare gli uomini. Forse domanderete perché gli Orientali vedan simili fatti e non gli occidentali. Perdonate se dico dure cose. Laggiù, gli uomini possono ingannarsi, ma cercano la verità. Qui, voi cercate il piacere e l'agiatezza. Non dico questo dei veri figli di Dio, ma della massa degli abitanti di codesto paese. A costoro, dice il nostro Salvatore: «Dove io vado, non potete seguirmi». Questi negligenti, e indifferenti, morranno nel loro peccato. È dovere dei salvati d'aiutare a salvare i perduti. Ci aiuti Iddio a conoscerlo sempre meglio, per essere riempiti del suo Santo Spirito. Amen.
Della gioia celeste
La nostra gioia sarà molto più dolce che quella degli angeli. Ciò non significa che gli angeli non hanno la vera gioia, ma che essi possiedono la gioia senza aver attraversato il tormento. La gioia nostra, dopo le nostre lotte e le nostre sofferenze di quaggiù, avrà dolcezza di ben diverso sapore... Il conflitto, la lotta, che nell'anima nostra si combatte, non termina soltanto a darci gioia, ma pure a renderci più forti nello spirito... L'uomo spirituale dovrà lottare più dell'uomo ordinario. Dobbiamo accettar questo, ma vinceremo.
Della preghiera
V'è chi domanda se, per mezzo della preghiera, noi possiamo cangiare il disegno divino. Questo problema m'ha preoccupato a lungo. Io ho trovato una risposta nella mia propria esperienza. Non possiamo cangiare il disegno di Dio, ma, pregando, possiamo conoscerlo per quanto ci concerne. Quando preghiamo in un luogo tranquillo, Dio parla all'anima nostra nel linguaggio del cuore. Il Suo piano è per il nostro bene e per il bene altrui; quando noi lo conosciamo, non lamentiamo più. Noi lamentiamo finché non comprendiamo perché ci siano dati turbamenti e tormenti, ma, per la preghiera, comprendiamo; il piano di Dio ci è rivelato e noi siamo soddisfatti nel pensiero che s'adempie la Sua volontà.
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…Egli è perfetto, vivendo con Lui diverremo perfetti, e allora il Cielo non sarà più per noi una dimora straniera dove sentirci a disagio: come a casa nostra vi staremo poiché avremo già qui vissuto con Cristo.
Tanti ve ne sono che non possono passar pochi minuti in preghiera ai piedi del Maestro! Se sono stanchi dopo pochi minuti, non saran stanchi dopo pochi secondi in Cielo? Dio non impedirà di vivere in Cielo, ma il loro tenor di vita l'impedirà d'esservi felici. Il secreto che solo ci renda capaci di vivere in Cielo, è di vivere fin da ora la vera vita, nella comunione del Salvatore.
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La preghiera è la chiave, la sola, la vera, che aprirà davanti a te la porta della verità…
Il più grande miracolo di questo mondo, è la pace del cuore, che noi non troviamo che in Cristo. Come Egli ha messo in noi il nostro cuore, vi ha messo il desiderio di questa pace…
Quando voi avrete trovato questa pace, non potrete più separarla dall'amore di Dio; voi sentirete questo amore che vi sospingerà ad amare gli altri. Questa pace perfetta vi forzerà a parlare ad altri del Suo amore. Finché noi non abbiamo trovato noi stessi ciò che può soddisfarci, come potremo noi preoccuparci del turbamento altrui? La prima condizione è che noi abbiamo trovato la pace, ed allora potremo rendere testimonianza all'amore meraviglioso del Salvatore.
Del peccato e della salvezza
Il tempo viene in cui noi compariremo davanti al trono del Giudizio, ed allora forse vi saranno peccatori che si rallegreranno vedendo Gesù Cristo e che diranno: «Noi siamo liberati! Egli ci ha salvati! Egli ha dato per noi la sua vita!» Ma sarà troppo tardi! Dio ci dà ogni giorno un'occasione di pentirci; se noi la trascuriamo, altra non ne avremo dopo la morte. Cristo non sarebbe disceso su questa terra se vi fosse stata per noi ancora un'occasione d'essere salvati più tardi. Egli sarebbe rimasto in Cielo.
Della conoscenza di Cristo
Qui in Europa, le genti sono tanto occupate ch'esse non hanno il tempo di vedere il loro Dio. È bene lavorare, ma è necessario avere un po' di tempo per essere solo con Dio...
Molti cristiani sono come Maria, che amava Gesù Cristo e andava a vederlo nella sua tomba quando Egli resuscitò dai morti. Essa amava. Gesù con tutta l'anima sua, e pur, quando lo vide uscito dalla tomba, essa non lo riconobbe. La sua vista era turbata dalle lacrime, v'era davanti ai suoi occhi come una nebbia che le impediva di riconoscerlo; essa credette che fosse il giardiniere. È così per molti cristiani; essi amano Gesù senza in Lui riconoscere il Salvatore che si levò di tra i morti, il Cristo che vive. Essi non possono riconoscerlo a causa della nebbia del peccato e dell'errore; essi hanno pieni gli occhi delle lacrime di tristezza. Ma quando aprono il loro cuore a Cristo, allora lo riconoscono. Maria riconobbe la sua voce. Se i nostri cuori son ripieni della Sua presenza, noi lo riconosciamo in ogni luogo, nel giardino, nelle solitudini, lui, Gesù, il Salvatore del mondo. Egli s'è fatto uomo per noi, e, poiché egli è vissuto come un uomo, noi non possiamo credere ch'egli è Dio.
* * *
Quando abbiamo trovato Cristo, non possiamo restare muti; noi dobbiamo parlare di Gesù Cristo, ci diventa impossibile tacere.
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Non abbisogniamo di filosofia e di dottrine, ne siamo stanchi; ciò che ci è necessario, è la vita, la vita, la vita, quella vita che solo Cristo può dare.
Mistero del Golgotha
Al Golgotha, noi vediamo tre croci e tre uomini su queste croci. Tutti e tre morivano della stessa morte: la morte per crocifissione; ma spiritualmente, v'era una grande differenza tra queste tre morti. Nel mezzo il Salvatore, e ai due lati, un ladrone. Tra i due ladroni, si trovava il Salvatore che moriva per il peccato; alla sinistra, il ladrone che moriva nel peccato, e alla destra il ladrone che moriva al peccato... Per il peccato, nel peccato, al peccato. Cristo morì per il peccato, a salvare gli uomini; il ladrone ch'era a sinistra era ben vicino al cuore e al fianco trafitto del Salvatore, vicino al sangue e all'acqua che sgorgarono. Egli era vicino, e pur morì nel peccato, perché non s'era pentito. Il ladrone di destra disse: «Quest'uomo non ha peccato; egli è santo». Egli credette e morì al peccato per cominciare a vivere in Cristo; Cristo gli disse: «Oggi tu sarai meco in paradiso»,
Vita e morte
È più facile morire una volta per Cristo che vivere per Lui, poiché vivendo per Lui bisogna morire ogni giorno a sé medesimi.
Ho conosciuto che quelli che sanno come morire ogni giorno, sanno come vivere ogni giorno; è un secreto che essi soli conoscono.
L'ho completamente rivista e integrata da varie fonti; ciò nonostante è sicuramente incompleta e contiene probabilmente degli errori. Sarò grato a chi vorrà contribuire ad integrarla e correggerla. Col grassetto ho segnalato le opere in italiano.
D. Ch.
OPERE DI SUNDAR SINGH
Riporto le traduzioni italiane, inglesi e francesi; per quelle tedesche e scandinave una bibliografia molto particolareggiata fino al 1937 è contenuta nell'opera sotto citata di Paul Gäbler, leggibile e scaricabile all'indirizzo http://gaebler.info/ahnen/gaebler/sss.htm.
1919 Sâdhu Sundar Singh. Seven Addresses (United Christian Mission, Kandy, 1919).
1920 Sâdhu Sundar Singh. Six Addresses (Colombo, 1920).
1920 Sâdhu Sundar Singh. Soul Stirring Messages. A Collection of the Sermons and Sayings of Sâdhu Sundar Singh. Compiled and edited by Alfred Zahir (Agra, 1920).
1920 Sâdhu Sundar Singh. What Christ is to me ("The Foreign Field", giugno 1920).
1920 Sâdhu Sundar Singh. La merveilleuse puissance de la Bible. Allocution à l'Assemblée annuelle de la société, biblique britannique et étrangère à Londres. Trad. di C. Meylan. (Losanna, 1922).
1921 Sâdhu Sundar Singh. A Recent Tour in Tibet ("Missionary Review of the World", New York, 44/1921, 862-864).
1921 Sâdhu Sundar Singh. Maktib i Masih az Sâdhu Sundar Singh Sahib (Lucknow 1921) – Trad. inglesi: At the Master's Feet. Transl. from the Urdu by Rev. Canon Goldsmith (C. L. S., Madras, 1922); At the Master's Feet. Transl. from the Urdu by Rev. Arthur and Mrs. [Rebecca Jane] Parker (Fleming H. Revell Co., Londra & Edimburgo, 1922). Leggibile agli indirizzi http://www.sadhusundarsingh.homestead.com/files/feet.html e http://www.ccel.org/ccel/singh/feet.pdf – Trad. francese di Mme G.N.: Aux Pieds du Maître (Losanna, 1924). Leggibile all'indirizzo http://www.livres-mystiques.com/partieTEXTES/Textes/index.html. – Trad. italiana: Ai piedi del Maestro (Bilychnis, Roma, 1925). Traduzione italiana all'indirizzo http://www.gemmedigrazia.com/librierubriche/libri/scritti/ai_piedi_del_maestro.htm.
1922 Sayings of Sâdhu Sundar Singh while in Switzerland ("The Lausanne and Neuchâtel Magazine", 1922). – Trad. francese: Par Christ et pour Christ. Discours du Sâdhou Sundar Singh (Secrétariat de la Mission Suisse aux Indes. Losanna, 1923). Leggibile agli indirizzi http://www.myaoj.com/diamond/littlebrothers/pdf/Par-Christ-et-Pour-Christ.pdf e http://www.livres-mystiques.com/partieTEXTES/Textes/index.html. Con diversa disposizione: Discours et conférences du Sadhou Sundar Singh, all'indirizzo http://livres-mystiques.com/partieTEXTES/SundarSing/Discours/conferen.html.
1922 Sâdhu Sundar Singh. The Peace of the Hearth. Translated and Adapted from the French by Yoseph C. Yaza (The Little Brothers of the Sadhu, U.S.A. Australia, 2006). Leggibile all'indirizzo http://www.myaoj.com/diamond/littlebrothers/pdf/peace-of-the-heart-sss.pdf.
1924 Sâdhu Sundar Singh. Mazhab our Haqiqat (Lahore, 1924) – Trad. inglese: Reality and Religion. Meditations on God, Men and Nature. With an introduction by Canon Streeter (MacMillan, Londra, 1924). – Trad. francese di M.lle E. Eberle: Religion et réalité. Brèves méditations sur Dieu, l'homme et la nature (Secrétariat Suisse de la Mission aux Indes, Lausanne, 1926). Leggibile all'indirizzo http://www.livres-mystiques.com/partieTEXTES/Textes/index.html.
1924 Sâdhu Sundar Singh. Reality and Religion. Meditations on God Man and Nature (MacMillan, Londra, 1924).Leggibile all'indirizzo https://archive.org/details/RealityAndReligion-MeditationsOnGodManAndNatureBySadhuSundarSingh.
1924 Sermons and Sayings of Sâdhu Singh during his visit to the Khasia Hills, Assam, March 1924. Compiled and published by J. Helen Rowlands and Hridesh Ranjan Ghose (Welsh Mission, Sylhet, Assam, 1924).
1925 Sâdhu Sundar Singh. The Search after Reality. Thoughts on Hinduism, Buddhism, Muhammadanism, and Christianity (MacMillan, Londra, 1924).
1925 Sâdhu Sundar Singh. Meditations on Various Aspects of the Spiritual Life (MacMillan, Londra, 1925) – Trad. francese dal tedesco di Gaston V. Rosselet: Méditations sur différents aspects de la vie spirituelle (1925). Leggibile all'indirizzo http://www.livres-mystiques.com/partieTEXTES/Textes/index.html.
1926 Sâdhu Sundar Singh. Visions of the Spiritual World. A Brief Description of the Spiritual Life, its different states of existence, and the destiny of good and evil men as seen in visions (MacMillan, Londra, 1926, 1927). Leggibile all'indirizzo https://archive.org/details/VisionsOfTheSpiritualWorldBySadhuSundarSingh-1926-UploadedBy_532 – Trad. francese: Visions du monde spirituel. Traduit de l'anglais par C.I. Meylan (1923). Leggibile all'indirizzo http://www.livres-mystiques.com/partieTEXTES/Textes/index.html.
1926 Sâdhu Sundar Singh. The East and the West ("National Christian Council Review", Mysore City & Londra, 1926, 455-457).
1926 Sâdhu Sundar Singh. Parables of Life in Christ ("The Miss. Rev. of the World", New York, 49, 1926, 31-33).
1926 The Visions of Sâdhu Sundar Singh of India. Foreword by Bishop LaFroy of Lahore, India (Anker G. Dahle, 1926). Leggibile on line agli indirizzi http://www.livres-mystiques.com/partieTEXTES/Textes/index.html e http://www.myaoj.com/diamond/littlebrothers/pdf/visions-sss.pdf.
1927 Sâdhu Sundar Singh. The Real Spiritual Life ("National Christian Council Review", Mysore City & London 5/1927, 307-310). – Tests of Spiritual Life ("The Miss. Rev. of the World", New York, 50/1927).
1929 Sâdhu Sundar Singh. With and without Christ. Being incidents taken from the lives of Christians and of Non-Christians which illustrate the difference in lives lived with Christ and without Christ. With an introduction by the Lord Bishop of Winchester (Cassell, Londra etc., 1929; Harper & Brothers, New York, 1929).
1929 Sâdhu Sundar Singh. The inner Life ("National Christian Council Review", Mysore City & Londra, 7/1929, 24-29). – Life. Its Meaning and Use ("The Miss. Rev. of the World", New York, 52/1929, 590-593).
1986 The Complete Works of Sundar Singh, including At the Master 's Feet (1922), Reality and Religion (1923), Search After Reality (1924), Spiritual Life (1925), Spiritual World (1926), Real Life (1927), With and Without Christ (1928), and Life in Abundance (first published in 1980) (Christian Literature Society, Madras, 1986).
1989 The Christian Witness of Sâdhu Sundar Singh. Edited by T. Dayanandan Francis (CLS, Madras, 1989).
2003 Wisdom of the Sâdhu. Teachings of Sundar Singh. Compiled and edited by Kim Comer (The Bruderhof Foundation, 2003). Leggibile all'indirizzo http://glorytoglory.pbworks.com/f/WisdomSadhu.pdf.
2004 Sâdhu Sundar Singh. 39 sermoni in francese (quelli di Méditations sur différents aspects de la vie spirituelle, Aux Pieds du Maître, Par Christ et pour Christ) all'indirizzo http://www.enseignemoi.com.
2005 Sadhu Sundar Singh: essential writings. Selected with an introduction by Charles E. Moore (Orbis Books, Maryknoll, NY, 2005).
2005-2006 Sâdhu Sundar Singh. Speaking the Truth. Consisting of Brief Excerpts Adapted from Various Writings and Sermons of Saint Sundar Singh the Apostle of the Bleeding Feet (The Little Brothers of the Sadhu, Jerusalem, Israel, 2005-2006). Leggibile all'indirizzo http://www.myaoj.com/diamond/littlebrothers/pdf/speaking-the-truth.pdf.
s.d. Sâdhu Sundar Singh. Parables and Insights. Leggibile on line agli indirizzi http://www.livres-mystiques.com/partieTEXTES/Textes/index.html e http://www.myaoj.com/diamond/littlebrothers/pdf/parables-and-insights-sssingh.pdf.
s.d. Sâdhu Sundar Singh. Excerpts of Sayings & Sermons, on line all'indirizzo http://www.sadhusundarsingh.homestead.com/files/excerpts.htm.
PRINCIPALI OPERE SU SUNDAR SINGH
Una bibliografia molto particolareggiata fino al 1937 è contenuta nell'opera sotto citata di Paul Gäbler, leggibile e scaricabile all'indirizzo http://gaebler.info/ahnen/gaebler/sss.htm. Di alcune opere che non ho visto ho trovato on line brevi descrizioni che riporto per comodità dello studioso, senza assumermi in merito alcuna responsabilità.
1917 Alfred Zahir. A Lover of the Cross. An account of the wonderful life and work of Sunder Singh, a wandering Christian friar of the Punjab (Agra, 1917). Leggibile all'indirizzo https://archive.org/details/ALoverOfTheCross1stEnglishBookOnSadhuSundarSingh-AnAccountOf.
1918 Rebecca Jane Parker (compare qua e là come Mrs./M.me Arthur Parker oppure come A. Parker). Sâdhu Sundar Singh, Called of God (Christian Literature Society, Madras & S. C. M. Press, Londra, 1918). – Trad. francese di Ch. Rochedieu: Un Apôtre Hindou. Le Sâdhou Sundar Singh (Secrétariat Suisse de la Mission aux Indes, Losanna, quinta edizione rivista ed aumentata: 1922). Leggibile all'indirizzo http://www.livres-mystiques.com/partieTEXTES/Textes/index.html. – Trad. tedesca: Sâdhu Sundar Singh, ein Berufener Gottes (Liebenzeller Mission, 1923). – Trad. italiana: Un apostolo indù: il Sâdhu Sundar Singh (Ed. Claudiana, Torre Pellice, 1954); ristampa anastatica del 1988 col titolo: Sundar Singh apostolo indù.
<=1920 Brenton T. Badley. Sundar Singh, the Apostle of the Bleeding Feet. A sketch of the life and work of one of India's great evangelists, giving some of his adventures in the "forbidden" lands (The Abingdon Press, Chicago, Illinois, s.d. ma <=1920).
1921 Burnett Hillman Streeter & Aiyadurai Jesudasen Appasamy. The Message of Sâdhu Sundar Singh: A Study in Mysticism on Practical Religion (MacMillan, New York, 1921); The Sâdhu: A study in Mysticism and practical Religion (MacMillan, Londra, 1922). – Trad. tedesca: Der Sâdhu. Christliche Mystik in einer indischen Seele (Verl. A. Perthes, Stuttgart, Gotha 1922). – Trad. francese: Le Sâdhou. Étude de Mysticisme et de religion pratique, leggibile all'indirizzo http://www.livres-mystiques.com/partieTEXTES/Textes/index.html.
1922 Alys Goodwin. Sâdhu Sundar Singh in Switzerland: His Sojourn as Recorded by Alys Goodwin in Switzerland, March 1922 (Christian Literature Society, 1989: «An invaluable record of the time Sundar Singh spent in Switzerland in 1922. Reports of meetings in various places include summaries of the Sâdhu's preaching and accounts of personal interaction with various people. A question and answer dialogue format is often present, giving unique insight into Sundar's mind. Goodwin took shorthand notes and those notes became this book»).
1923 [W. Müller]. Sundar Singh der Pilger (Evangelischer Missionsverlag, Stuttgart, 1923). – Trad. italiana: Sundar Singh il pellegrino indiano (Tip. Spinelli, Firenze, 1924). L'autore, che è riportato nelle bibliografie, non compare nel libro italiano. L'opera contiene alle pp. 81-93 un breve estratto dalla traduzione tedesca del 1922 dell'opera di Streeter e Appasamy.
1924 Friedrich Heiler. Sâdhu Sundar Singh. Ein Apostel des Ostens und Westens (E. Reinhardt, München, 1924). Trad. inglese abbreviata di Olive Wyon: The Gospel of Sâdhu Sundar Singh (Oxford University Press, New York, 1927; ISPCK [Indian Society for Promoting Christian Knowledge], Kashmere Gate, Delhi & Christian Institute for Sikh Studies, Batala, Punjab, 1927, 1996: «Heiler was the prime defended of Sundar Singh during the debates that raged in Europe over the basic credibility of SSS. This work begins with an excellent biographical sketch of the Sâdhu, although incomplete as written during his lifetime. Scholarly analysis of his life and teaching and significance follows. An essential book for serious students of Sundar Singh»). Leggibile all'indirizzo https://archive.org/details/in.ernet.dli.2015.261765 e in francese all'indirizzo http://livres-mystiques.com/partieTEXTES/SundarSing/gospel.pdf.
1924 Augusto Hermet. Fede cristiana in un mistico indiano. Il Sâdhu Sundar Singh (Studio e antologia) (Rivista “Bilychnis”, Roma, 1924). L'opera qui riprodotta, di cui parlò con una certa acredine nel 1928 padre Mario Barbera (se pure era lui) nella "Civiltà Cattolica", principalmente per il fatto che "Bilychnis" era una rivista battista, non cattolica.
1924 Émile Besson. Le Sadhou Sundar Singh, Sa vie, Son enseignement (articoli tratti dal bollettino Les Amitiés Spirituelles, settembre/ottobre 1924), leggibile all'indirizzo http://www.livres-mystiques.com/partieTEXTES/Textes/index.html.
1926 Friedrich Heiler. Christlicher Glaube und indisches Geistesleben: Rabindranath Tagore, Mahatma Gandhi, Brahmabandhav Upadhyaya, Sâdhu Sundar Singh (Ernst Reinhardt, München, 1926).
1928 [Mario Barbera]. Il Sâdhu Sundar Singh. Una leggenda dei nostri tempi ("La Civiltà Cattolica", Roma, 79/1928, III, 3-18, 110-125). Leggibile all'indirizzo https://books.google.it/books?id=KcRveZ1rpnwC. Testo che compare anonimo ma viene attribuito al gesuita padre Mario Barbera; è sostanzialmente avverso alla figura di Sundar Singh.
1931 James A. Kelso. Sadhu Sundar Singh. The Apostle of the East and West (Pittsburgh, 1931). Leggibile all'indirizzo https://archive.org/details/SadhuSundarSingh-TheApostleOfTheEastAndWestByJamesA.Kelso-Dated.
1934 C. F. Andrews. Sâdhu Sundar Singh: A Personal Memoir (Hodder & Stoughton, Londra, 1934; Christian Literature Centre, 1970: «This life of Sundar Singh contains reflections and memories of C. F. Andrews»). Leggibile all'indirizzo http://www.livres-mystiques.com/partieTEXTES/Textes/index.html.
1937 Paul Gäbler. Sâdhu Sundar Singh. Inaugural-Dissertation zur Erlangung der Lizentiatenwürde einer Hohen Theologischen Fakultät der Universität Leipzig, vorgelegt von Paul Gäbler, Leipzig, 1937, leggibile all'indirizzo http://gaebler.info/ahnen/gaebler/sss.htm. Contiene un'eccellente bibliografia, che riporta le opere pubblicate in molte lingue europee ed in urdu fino al 1937.
1947 L. O. R. Joseph. Sâdhu Sundar Singh, A Lover of the Cross: A Play (India Sunday School Union, 1947, 1989: «A popular presentation of the childhood and conversion of the Sâdhu, his baptism, and incidents in his later life as a preacher in Tibet»)
1958 Aiyadurai Jesudasen Appasamy. Sundar Singh: A Biography (Lutterworth, London, 1958; CLS, Madras, 1966; Christian Literature Society, 2003: «The standard biography of Sundar Singh written by the esteemed Indian theologian. Appasamy defends the Sâdhu in his controversies but does not cover over inconvenient facts. Still essential reading for those who want to understand Sâdhu Sundar Singh»).
1950 Cyril J. Davey. The Yellow Robe: The Story of Sâdhu Sundar Singh (Christian Literature Centre, 1950, 1967: «A popular account of the life of Sâdhu Sundar Singh»).
1963 Cyril J. Davey. The Story of Sâdhu Sundar Singh (Moody Press, Chicago, 1963); ristampato come Sâdhu Sundar Singh (STL Books, Bromley, 1980). Non so se è lo stesso del precedente.
1967 Alice van Berchem. Le Sâdhou Sundar Singh. Un témoin du Christ (Emmaüs, 1967). Leggibile all'indirizzo http://www.livres-mystiques.com/partieTEXTES/Textes/index.html.
1971 T. E. Riddle. The Vision and the Call. A life of Sâdhu Sundar Singh (Christian Literature Centre, 1971; ISPCK, New Deh li, 1987: «The best short biography of Sundar Singh by a missionary who knew him and helped translate some of his books. The penultimate chapter is a lengthy account of the author's journey in search of Sundar after his 1929 disappearance»).
1975 Janet Lynn Watson. The Saffron Robe (Hodder and Stoughton, London, 1975).
1980 Solo una chiave. Passo tratto da It Must Have Been An Angel di Marjorie Lewis Lloyd, pp. 108-111. Leggibile all'indirizzo http://www.risorseavventiste.net/Letture/Miracoli/Solo%20una%20chiave.pdf.
1988 Joshua Daniel. Sâdhu Sundar Singh: He Walked with God (Laymen's Evangelical Fellowship International,1988, 1996: «A popular account of the life of Sundar Singh, mostly on his earlier years»). Leggibile all'indirizzo https://archive.org/details/NJCMESSAGESBANGALORE_20170707 o all'indirizzo http://lefi.org/library/singh.txt.
1990 Eric J. Sharpe. The Legacy of Sâdhu Sundar Singh (International Bulletin of Missionary Research, Oct 01, 1990, Volume 14:4, pp. 161-167).
1992 Phyllis Thompson. Sâdhu Sundar Singh (Operation Mobilisation, Carlisle,1992).
1992 John Woodbridge. More Than Conquerors (Australia, 1992).
1994 H. B. Raj Kumar. Sâdhu Sundar Singh (Biography for Children) (Logos Printers & Publishers, 1994: «The story of Sundar Singh with a focus on the dramatic and sensational»).
1994 Douglas Hare. Escape from Death: Sundar Singh - Faith in Action (Canterbury Press, 1994: «Sundar Singh and his journeys through India and Tibet teaching Christianity»).
1996 Alfred Zahir. Heaven and Hereafter (North Indian Christian Tract and Book Society, 1996: «Records of Sundar Singh's supposed conversations with an ancient Christian rishi in the Himalayas»).
1996 Kathryn Lindskoog. Links in a golden Chain: C. S. Lewis, George MacDonald, and Sâdhu Sundar Singh (1996). Leggibile all'indirizzo http://www.lindentree.org/chain.html.
1999 Edward T. Babinski. The Uniqueness of the Christian Experience (1999). Leggibile all'indirizzo http://www.infidels.org/library/modern/ed_babinski/experience.html.
2000 R. H. Lesser. Lesser Known Saints and Sages of India (ISPCK, 2000: «Twenty brief biographical sketches of Indian saints, including Hindus (Ramakrishna Paramahansa, Chaitanya, Sasava, Andal, Lal Ded, etc.) Christians (Jordan of Sererac, V. V. John, George Proksch, Robert de Nobili) and Hindu-Christians (Sundar Singh, Keshab Chandra Sen, Nehemiah Goreh, Devasahayam Pillai, Madhusudan Dutta, Brahmobandhav Upadhyaya)»).
2002 Dr. Samuel. Sâdhu Sundar Singh: The Apostle of the Bleeding Feet (Word of Christ, 2002: «A new popular biography of Sundar Singh»).
2002 H. Louis Fader. Called from Obscurity: The Life and Times of a True Son of Tibet, Gergan Dorje Tharchin (Vol. 1) (Tibet Mirror Press, 2002: «This first of a three volume study of Tharchin will really cover the history of Christian mission to Tibet over most of the twentieth century and is an invaluable study on that topic. This first volume is almost as much about Sâdhu Sundar Singh as Tharchin, as the two worked together for some time and (following the general pattern of the book) there are many tangents to discuss questions about the Sâdhu (the traditional defense of the Sâdhu is presented, even though it is noted that Tharchin himself did not fully support all aspects of that traditional defense). Tharchin's story begins at Poo, where the Moravian missions had a center which is thoroughly described; his work with Sundar Singh is central to the rest of the volume, first on their western Himalayan contacts and then their interaction in the eastern Himalayas where Tharchin lived out most of his adult life. There are many photographs, including many of Sundar Singh, and seven maps along with a bibliography and an index. With a foreword by His Holiness Dalai Lama XIV»).
2005 Alec Stevens. Sâdhu Sundar Singh graphic novel (2005). Biografia a fumetti in parte riprodotta all'indirizzo http://alecstevens.tripod.com/singh. Riproduce anche il facsimile di due articoli del New York Times del 9/4/1922 e del 25/4/1933. In quest'ultimo si comunicava che, dopo inutili ricerche, Sundar Singh era stato dichiarato deceduto.
2006 Tony Zekveld. Sâdhu Sundar Singh’s Love For Christ (SikhSpectrum.com Quarterly, febbraio 2006). Leggibile all'indirizzo http://www.sikhspectrum.com/022006/sundar_tz.htm
2006 G. B. Singh. Sâdhu Sundar Singh: A Case for Re-examination (SikhSpectrum.com Quarterly, febbraio 2006). Leggibile all'indirizzo http://www.sikhspectrum.com/022006/sadhu_gbs.htm.
s.d. Sâdhu Sundar Singh (http://www.esspirit.com/essential_old/jesubhaktan/sadhu.htm); Sâdhu Sundar Singh's Spiritual Practice (http://www.esspirit.com/essential_old/jesubhaktan/devotion.html); Sâdhu Sundar Singh's Spiritual Journey (http://www.esspirit.com/essential_old/jesubhaktan/vision.htm). Tre pagine dedicate a Sundar Singh dagli Hindu Shishyas of Christ in una vecchia versione del sito www.esspirit.com.
s.d. Snippets from the biography of Sâdhu Sundar Singh. Leggibile all'indirizzo http://gloryofhiscross.org/apostle7.htm.
s.d. Sâdhu Sundar Singh - A Short Biography. Leggibile all'indirizzo http://www.livres-mystiques.com/partieTEXTES/Textes/index.html.
SITI WEB SU SUNDAR SINGH
http://livres-mystiques.com/partieTEXTES/SundarSing/oeuvres.html. Una ricca porzione del sito http://www.livres-mystiques.com di Roland Soyer.
http://www.myaoj.com/diamond/littlebrothers/. Una pagina dei Little Brothers of the Sadhu che riporta parecchi testi di Sundar Singh.
http://sadhusundarsingh.homestead.com/files/introduction.html. Una pagina dedicata alla Sadhu Sundar Singh's True Witness of Christ, con una biografia e diversi estratti da opere di Sundar Singh.
http://www.ccel.org/ccel/singh/. Una pagina dedicata a Sundar Singh nella Christian Classics Ethereal Library.
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