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Vittoria Aganoor

POESIE

(da: Poesie complete di Vittoria Aganoor, a cura e con introduzione di Luigi Grilli, Firenze, Le Monnier, 1912)

   

Estratti dall'introduzione di Luigi Grilli alle «Poesie complete di Vittoria Aganoor» (1912)

Armena di stirpe, e nobilissima, la famiglia degli Aganoor. Trapiantata nel 1605 da Shâh Abbâs I, il Grande, dalla. provincia di Nakhicevan in Persia, passò poi nelle Indie, donde, due secoli più tardi, cioè nel 1835, un discendente, Abramo, uomo ricchissimo e molto amante delle lettere, emigrò in Europa con tre figli, stabilendosi successivamente a Parigi, Venezia e Padova. Quivi il 26 di maggio del 1855 da uno di essi, Edoardo, e da Giuseppina Pacini nacque Vittoria nella casa detta anche oggi degli Armeni, in Via del Prato della Valle, attualmente Piazza Vittorio Emanuele.

Di puro sangue armeno dunque Vittoria, non Indiana o Persiana come altri la disse. E alla sua origine ella teneva moltissimo; sì che, scrivendo in proposito a un dotto Padre Mechitarista dell'Isola di S. Lazzaro, si rammaricava con lui d'ignorare la lingua della sua nazione [...]

Primo maestro di Vittoria fu Giacomo Zanella [...] che conobbe la famiglia Aganoor per mezzo di Andrea Maffei [...]

[...] più largo campo alla meditazione e allo studio s'aprì alla giovine poetessa a Napoli dove la troviamo intorno al 76. La famiglia vi si era trasferita da Venezia e abitava, nota il Ciàmpoli, che ve la conobbe verso il 1881, «al palazzo Caputo, nel Corso Vittorio Emanuele. Da' veroni scorgevasi tutto l'incantevole golfo partenopeo, dalla punta di Posillipo al promontorio di Sorrento, da Nisida a Capri».

[...] Enrico Nencioni [...] si onorò di avere a guida preziosa dopo il poeta di Chiampo [...]

Io la conobbi di persona nel 1897. La famiglia si era di nuovo e da tempo stabilita a Venezia, e la poetessa aveva levata già bella fama di sé.

[...] fidanzatasi all'onorevole Guido Pompilj, divenne sua sposa il 28 di novembre del 1901. [...] E venne a Perugia, dove conquistò d'un tratto le simpatie e l'ammirazione di tutti.

La notte dal 7 all'8 di maggio  del 1910 si spegneva a Roma, in una casa di salute [...] La inattesa e  immatura sua fine e il tragico suicidio del marito, avvenuto poche ore dopo, levarono unanime compianto nella Capitale e fuori; onde, per più giorni, il caso pietoso occupò le menti e i cuori di tutti.

cfr. sotto la poesia Io me ne andrò nella notte

Altri riferimenti on line:

Le Poesie complete si possono scaricare da http://colet.uchicago.edu/cgi-bin/iww/documentidx.pl?auth_code=A0001

Inoltre, su http://www.romanzieri.com, previa iscrizione gratuita a una newsletter, si possono scaricare le Lettere d'amicizia a Marina Sprea Baroni Semitecolo (1881-1909), curate da Ornella Vitocco Pittarello.

Sommario:

Mai! - Il canto dell'amore - Il canto del dubbio - Il canto dell'odio - Adolescentula - La porta di bronzo - Gli stornelli del maestro - Gli stornelli del poeta - Magìe lunari - Passeggiata francescana - Io me ne andrò nella notte - La bella bimba dai capelli neri

   

   

 da: «Leggenda eterna»

   

MAI !

   

Sotto la luna i mille cavalieri,

come a squillo che chiami alla raccolta,

vanno, volano, ansanti, a briglia sciolta,

curvi sul crine dei cavalli neri.

   

Ciechi, folli, non vedono, sui vaghi

poggi, il grappolo offrirsi dalle viti,

né i casolari lampeggiar gl'inviti

di pace, in riva agli assopiti laghi.

   

No, no, no! Solo, luminoso, alato,

bello d'una terribile bellezza,

con voce di comando e di carezza

chiama il sogno da tanti anni sognato.

   

Laggiú laggiù tenacemente chiama

e laggiù l'orda turbinosa vola

credula, dove una crudel parola

spegnerà il foco dell'accesa brama.

   

Sta l'orrenda parola nel profondo

dell'abisso, che attira avido e inghiotte

chi le malìe sfidando della notte

corre ai miraggi che non son del mondo.

   

Ma che val! ma che importa? - Il sogno mente;

tutto è invano! - Che importa? Avanti! io sono

con voi, fratelli! e sprono e sprono e sprono

il mio cavallo disperatamente.

   

   

IL CANTO DELL'AMORE

   

Può dunque una parola, una sommessa

parola, detta da un labbro che trema

balbettando, valer più d'un poema,

prometter più d'ogni miglior promessa?

   

Può levarsi, a quel suono, una dimessa

fronte, raggiando, qual se un diadema

la cinga, e può dar tanto di suprema

gioia, che quasi ne rimanga oppressa

   

l'anima?... Io credo svelga oggi dai cuori

ogni ricordo d'amarezza, ormai

sazio d'umane lagrime, il destino.

   

È così certo! non mai tanti fiori

ebbe la terra, e il cielo non fu mai

né così azzurro, né così vicino!

   

   

IL CANTO DEL DUBBIO

   

Tace nella notturna estasi il cielo:

come d'oblìo profondo

in un magico avvolto immenso velo

cade nel sonno il mondo.

   

- O luna! apporti al core, che le aspetta,­

le soavi novelle?

Ancor m'ama? - Risponde: - È tardi, ho fretta:

domandalo a le stelle. -

   

Da le stelle qualcun par che mi guardi

pietoso... - Oh dite! ancora

m'ama? - E gli astri rispondono: - È già tardi,

domandalo all'aurora. -

   

Mesta l’aurora ecco dal mar salire

Velata insino ai piedi.

- M’ama? - Chiedo. Risponde: - Io nol so dire;

alle nubi lo chiedi. -

   

E delle nubi alla crescente notte

Ecco il mio grido suona.

Rispondono con lagrime dirotte:

- Povero cor!… Perdona! -

   

   

IL CANTO DELL’ODIO

   

Fugge al mar nelle fredde ombre del vespero

una fanciulla dalle guance smorte.

Non ha negli smarriti occhi più lagrime

ma il gran proponimento della morte.

   

Laggiù, tra lieti amici, allettan facili

trionfi e vani amori un freddo core

obblioso; laggiù di plausi echeggiano

le affollate per lui stanze sonore.

   

Dagli abissi, improvviso, assorge un dèmone

e passa nella notte alto gridando:

- Possa tu come un disperato piangere,

quella morta fanciulla indarno amando. -

   

   

ADOLESCENTULA

   

Quando t'ho conosciuto era d’aprile,

quel mese traditore

che nell’ebbrezza del nascente amore

pinge ogni cosa d’un color gentile.

Quando t'ho conosciuto era d'aprile!

   

E al di là della siepe io t'ho veduto.

Tornaví polveroso

dalla caccia; eri solo, eri pensoso.

Mi rivolgesti un timido saluto.

Al dì là della siepe io t'ho veduto.

   

Tornavi dalla caccìa; sul cappello,

largo e bruno, un irsuto

pennacchio; la giacchetta di velluto,

lo schioppo a spalla e.... mi sembrasti bello

sotto la larga tesa del cappello.

   

Io tornavo dal bosco ov'ero andata

a coglier dei ciclami;

del mio sentier fra gl'intrecciati rami

ti sarò parsa una silvestre fata

di quei freschi ciclami incoronata!

   

Ed era, ben ricordo, era il tramonto;

veniva su dai prati

l'alito sano dei timi falciati,

la fragranza che vince ogni confronto;

ed era, ben ricordo, era il tramonto!

   

Ma finì quella dolce primavera.

Ti rividi soltanto

l'inverno, in un salotto, ed eri tanto

diverso, Dio! nell'abito da sera,

coi solini alti e la cravatta nera!

   

Io ripensai quei giorni spensierati

e le campestri danze,

quei sogni, quel desìo, quelle speranze

di due giovani cori innamorati,

e ripensai quei giorni spensierati!

   

0 fresco aprile, o sano odor di timo!

Ridir t'udii, tra i crocchi, una volgare

celia; ti vidi, ignobile giullare,

di que’ tuoi lazzi rider tu pel primo.

0 fresco aprile, o sano odor di timo!

   

Tu, nuove arguzie rimestando in mente

di me non t’eri accorto.

Io tremai come se vedessi un morto,

un caro morto amato inutilmente,

tra quella folla gaia e indifferente.

   

Sul cor mi cadde, come un velo fosco,

un súbito sgomento.

E a chi di te mi chiese in quel momento

io rispondere osai : - Non lo conosco! -

Sul cor mi cadde come un velo fosco.

   

solino: colletto staccato di camicia da uomo

   

   

LA PORTA DI BRONZO

   

Un uomo batte ad un'antica porta

di bronzo, ma nessuno ode. La Luna

appena mette una scintilla smorta

sulle sfingi dei fregi e sulla bruna

man di colui che batte a quella porta;

non s'ode voce né risposta alcuna.

Sola l'eco dai cupi anditi porta

il rimbombo dei colpi alla soggetta

palude, intorno alla campagna morta,

dove luccica a gore la costretta

acqua livida e trema la ritorta

vetrice alla pestifera belletta.

Non trillo d'alati ospiti conforta

quel deserto, né strige a quelle in vetta

nere torri giammai la Luna ha  scorta.

Chi sa da quanto il pellegrino aspetta?

Chi sa da quanto batte a quella porta

cinto dalla maremma maledetta?

   

vétrice: salice da vimini

belletta: melma, fanghiglia

strige: gufo, rapace notturno

   

   

da: «Nuove liriche»

   

GLI STORNELLI DEL MAESTRO

   

Bel cavaliero,

lascia le vie traverse e che l'andare

sia pur lento, ma sia dritto il sentiero;

   

e in mente impresso

tieni, che i fior sull'orlo degli abissi

van guardati da lunge e non da presso.

   

Anche rimembra

questo: se trovi una capanna e un'ombra,

non chieder altro per le stanche membra;

   

e se in quell'ore

trovi la pace dentro il casolare,

non chieder altro pel tuo folle cuore.

   

   

GLI STORNELLI DEL POETA

   

Saggio maestro,

per rocce e forre, al sole e sotto gli astri,

io col volere le mie forze addestro;

   

né il piede ho avvezzo

alle rupi ove saltan le camozze

per sostare asolando al primo rezzo.

   

Predica agli egri

di coglier con la man tremula e magra

sol dell'aiuole i boccioletti integri;

   

tu certo ignori

che sui baratri e non per i sentieri

facili de la valle io cerco i fiori.

   

Non la segreta

pace dei casolari e non l'ingrato

ozio, ma il rischio e i turbini il poeta

   

ama; né sgombra

cerca la via di sassi e rovi; ha membra

di combattente, e per seguire un’ombra,

   

per inseguire

un sogno, un'orma, un suon che lo innamora,

affrontare egli sa gli scherni e l’ire

   

del volgo, i roghi

divampanti, le ingorde ugne dei draghi,

e fin l'etica vostra, o pedagoghi!

   

camozza: femmina del camoscio

asolare: alitare, spirare, rinfrescarsi

rezzo: soffio d'aria

egro: infermo, debole

   

   

MAGÌE LUNARI

   

Fosche rupi, dal tempo incise e rotte

tragicamente, intorno a una fanghiglia

d'acque morte, sogguardan nella notte

sorger la luminosa meraviglia

   

che scenderà tra poco alta sui gioghi.

Guardan, sentendo attingerle il portento

che muterà le vette orride in roghi

sacri, e gli stagni in puri occhi d'argento.

   

   

PASSEGGIATA FRANCESCANA

   

(a Jeanne Barrère)

   

- Santo Francesco, un triste parmi udire

fischiar di serpi sotto gli arboscelli.

- «Io non odo che il placido stormire

della pineta e l'inno degli uccelli».

   

- Santo Francesco, vien per la silvestre

via, dallo stagno, un alito che pute.

- «Io sento odor di timo e di ginestre;

io bevo aria di gioia e di salute».

   

- Santo Francesco, qui si affonda, e ormai

vien la sera e siam lunge da le celle.

- «Leva gli occhi dal fango, uomo, e vedrai

fiorire nei celesti orti le stelle».

   

   

IO ME NE ANDRÒ NELLA NOTTE

   

Io me ne andrò nella notte

quando saranno già tutti

sopiti; andrò per l'aperta

campagna, sotto le stelle,

ed esse udranno la voce,

la nota voce di giorni

altri e lontani; per esse

ritroverò le parole

obliate, e l'obliato

fremito, e l'impeto e il foco

di giovinezza.                   

                    In silenzio

m'ascolteranno, siccome

m'ascoltavano al tempo

andato, né del mio volto

vedranno il pallore. Tutto,

tutto, sarà come allora

per esse. Dentro la mia

anima, che avverrà mai?

   

   

LA BELLA BIMBA DAI CAPELLI NERI

   

La bella bimba dai capelli neri

è là sul prato e parla e gioca al sole.

Io so quei giochi e so quelle parole;

rido quel riso e penso quei pensieri.

Son io la bimba dai capelli neri.

   

Ed anche io vedo una fanciulla bruna,

gli occhi sognanti al ciel notturno fisi.

Quante chimere e quanti paradisi

negli occhi suoi! Te li rammenti, o Luna,

gli occhi febei della fanciulla bruna?

   

Ora è stanca; la penna ecco depose.

e la man preme su le ciglia nere.

Di quanti sogni e quante primavere

vide sfiorir le immacolate rose?

Ora è stanca; la penna ecco depose.

   

   

   

 

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