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FANATICI ANTIESOTERICI ED ESOTERICI NARCISISTI

MOSTRATI ATTRAVERSO DUE APOLOGHI DEL CLASIO

    


Luigi Fiacchi, che assunse poi lo pseudonimo di Clasio, sacerdote e letterato di valore, nato a Scarperia nel Mugello il 4 giugno 1754, vissuto e morto a Firenze il 25 maggio 1825, è stato per me una felice scoperta. Capitati nelle mie mani le sue Favole e i suoi Sonetti pastorali, che per comune opinione sono le sue cose migliori, ho trovato un autore degnissimo di essere riproposto, di lettura gradevolissima e serena, colto ma non affettato. E mi sono meravigliato che sia così poco noto, mentre lo sono di più molti altri che meritano assai meno.

Il Clasio non può certo definirsi un esoterista; tuttavia le due favole che qui ne ripropongo si adattano a meraviglia a due tra le più seccanti categorie di personaggi che con il mondo esoterico hanno a che fare: quella degli scettici acritici e quella dei narcisisti pomposi. Gli uni tediano il mondo con la propria mancanza di sottigliezza, gli altri con la propria prolissità inconsulta, nessuno di loro ovviamente essendo in grado di apprendere o insegnare nulla.

Dario Chioli


   

FAVOLA XXIV

L’Uomo cieco e privo dell'odorato
che giudica della Rosa.

 
Un Uom vi fu, che dal suo dì natale
Privo restò della virtù visiva:
Ed oltre a ciò per cumulo al suo male,
Degli effluvii d'odor nulla sentiva.
Pur contento vivea: che ignoto bene
Nulla dà di piacer, nulla di pene.

Or questi un dì cianciando in compagnia
D'amici suoi di questa o quella cosa,
Udì che il pregio ognun di leggiadria,
Ragionando de' fior, dava alla Rosa.
Oh quale odor, tutti diceano, accoglie
Nel molle sen delle purpuree foglie!
 
Ei non sapea che dir: ma poi che volse
La socievol brigata altrove il piede,
Più volte in mente allor volse e rivolse
I detti lor, cui non sapea dar fede.
Dunque, dicea fra sé, beltà divina
Sortì la Rosa, ed è de' fior regina?
 
E crederlo dovrò? forse sovente
Non è il giudizio uman d'inganno figlio?
Forse talor non odesi la gente
O biasmare o lodar senza consiglio?
Ah! chi di giunger brama al vero appresso
No non creda ad altrui, creda a se stesso.
 
Così dicendo, un fanciullino appella,
E vuol che tosto entro il giardin Io scorga,
Guidami là, gli dice, u' la più bella
Rosa di questo suolo all'aria sorga.
Ubbidisce il fanciullo: e dell'inetto
Giudice il fior già trovasi al cospetto.
 
Stende la mano, e vuol la sorte appunto
Ch'ei tocchi, e prema una pungente spina;
Onde da quella acerbamente punto
Esclama: è questa la beltà divina?
Sapea ben io, che quel che gli altri vanno
Della Rosa dicendo è tutto inganno.
 
Voi che talora a qualche scienza od arte
Giudice sguardo sollevar volete,
Mentre le sue bellezze a parte a parte
Capaci ancor d'esaminar non siete,
S'ella piena di tenebre si mostra,
Non è colpa di lei, la colpa è vostra.

    

   

   FAVOLA XXV

Il Pappagallo.

 
Sentito ho raccontar che nel Perù
Un Pappagal vi fu,
Che, stando presso un nobile signore
In dolce schiavitù,
Passabilmente apprese
La lingua del paese.
Or questi un dì trovò scaltro la via
D'uscir di prigionia;
E' dando tosto un canto in pagamento,
AI suo bosco natio tornò contento.
Quivi, pensando che imparate avea
Tante belle e sublimi
Cose, fra sé dicea: certo io potrei
Tra' Pappagalli miei
Esser uno de' primi,
E guadagnar l'onore
D'eccellente dottore:
Basta ch'io parli, e lor faccia vedere
Tutta l'estensïon del mio sapere.
Risoluto così, dei Pappagalli
S'inoltrò fra le schiere,
E incominciò sull'imparate cose
A recitar pompose
Bellissime stampite,
Ma non punto capite.
Quella turba selvaggia ed inesperta
Ai non intesi accenti
Piena di meraviglia a bocca aperta
Stava non altrimenti
Che un rozzo contadino
Stassi ad udir chi parla di latino.
Ma poi vi fu chi a lui disse: fratello,
Il tuo discorso è bello,
Ma noi non l'intendiam punto né poco;
E per dirtela schietta,
Egli comincia a divenirci un gioco,
Che punto non diletta.
Se grato esser ci vuoi
Favella come noi.
Il dottor Pappagallo a questo avviso
Arcigno fece il viso,
E le ciglia aggrottò; ma non per questo
Del complimento onesto
Punto si persuase,
E di ciaramellar non si rimase;
Onde tutte le turbe alfin noiate
Lo fecero tacer con le fischiate.
 
Or riflettendo al caso
Di questo Pappagallo stravagante,
Io mi son persuaso
Esser nel mondo verità costante,
Che e' non si dee giammai per vanità
Parlare altrui di ciò ch'egli non sa.

  


(da: Favole e sonetti di Luigi Fiacchi detto Clasio,
Torino, 1877, pp. 71-74).


  
  

 

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