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M A T E L D A

Rosanna Masoero

 

A quel tempo viveva, nel castello che chiude l'alta valle, un marchese di nome Alberico, che diede in isposa la sua figlia maggiore al Duca di Vienne.

Conosciuta la sua decisione, la ragazza obbedì senza lagnarsi e, se era dispiaciuta di lasciare il castello paterno, non lo diede a vedere a nessuno. Era stata allevata per questo e aveva imparato a non legarsi troppo ad un ambiente che avrebbe dovuto in ogni caso lasciare. Quindi dispiegò le pezze di stoffa più pregiata che aveva preparato per il corredo, scelse i gioielli che avrebbe portato con sé, e quelli da bambina li regalò alla sua sorella minore. Sua madre, con manifesta solennità, le consegnò il bacile, il boccale ed i piatti d'argento che le spettavano in dote.

Si chiamava Matelda e, se era triste di lasciare quella valle, pur non lo dava a vedere.

A primavera appena iniziata, le pezze di lana grossa e lana fina, di canapa, lino e di velluto, erano trasformate in vesti e sopravvesti, camicie, camiciole e perfino in un manto, foderato di lupo, che era l'invidia di tutte le sue ancelle. L'argenteria era stata passata con sabbia fine e ortica ed i gioielli, pochi in verità, erano stati smontati e rimontati alla moda francese, ché la marchesina non avesse a sfigurare con le dame straniere. In ultimo e in assoluto segreto, Matelda portò con sé un vecchio mazzo di Tarocchi, avuti da una cuoca misteriosa, poi scomparsa dal castello, che erano per lei, fin dalla sua infanzia, i suoi unici ed inquietanti confidenti.

In una limpida mattina di marzo, in occasione di una delle grandi fiere che segnavano la primavera, il corteo con i suoi carri, le sue mule, e i soldati della scorta, finalmente si mosse, e se Matelda aveva paura del suo futuro, non volle farsene accorgere da nessuno.

Si guardava intorno, imprimendosi nella memoria il paesaggio familiare: quella era la roccia con la forma di orso dove era giunta con la prima cavalcata, e poi il torrente e il prato con le genziane più belle, e quello dove le mucche dei suoi villani se ne stavano beate a prendere il sole dopo aver pascolato.

Le sue dame chiaccheravano a tratti, sottovoce, facendosi cullare dagli scossoni del carro, eccitate dalla novità del viaggio, ma intimorite dal silenzio distaccato della marchesina.

Man mano che avanzava, il corteo veniva affiancato dai valligiani che volevano salutare Matelda per l'ultima volta.

"Salute, marchesina, felicità! - gridavano - che il Cielo vi aiuti!" e le lanciavano fiori e orzo per la fecondità. Le donne le deponevano in grembo certi pani infiocchettati di buon augurio e una di loro, tutta avvolta in uno scialle, nel far questo le prese una mano e, rapida, ne scrutò avidamente il palmo.

Matelda la fissò stupita e la sconosciuta le sussurrò:

"Attenzione, marchesina, un dono ti darà la mala sorte", poi corse via tra la folla.

Passato il torrente, i valligiani ritornarono sui loro passi e solo più i bambini e i cani fecero ancora chiasso per un po' dietro al corteo. Poi la strada si fece più stretta e cominciò a salire, mentre già la valle diventava un ricordo.

Gli uomini soppesavano il tempo, osservando le montagne innanzi a loro, e le dame del castello, poco avvezze ai viaggi, mostravano i primi segni d'apprensione. Per distrarsi, presero a conversare del futuro sposo, il delfino di Vienne, e chi diceva quanto fosse giovane e bello e chi quanto fosse valoroso, ma tutte giravano intorno all'unico argomento che suscitasse davvero la loro curiosità, ovvero se il duca avesse o meno la famosa gobba gonzaghesca, derivata dai suoi legami con la potente e sfortunata famiglia.

E questo accennare a spalle e a schiene, rimbalzava nei loro discorsi e le faceva atteggiare a pena il volto nel bel mezzo di racconti di cose liete.

Matelda taceva, ma i suoi occhi saettavano di sottecchi dall'una all'altra, a cercar di scoprire quanto di vero ci fosse in quei discorsi, prefigurandosi con ansia celata quello che l'avrebbe attesa.

In suo soccorso venne Dorina, la ridente ancella che sempre l'accompagnava, mettendosi a contare i versi del cuculo che lanciava il suo richiamo dalle scure querce.

"Ascoltate, signore! - esclamò -  il cuculo ha cantato non più di venti volte: questi dunque saranno gli anni del futuro sposo. Rallegratevi, marchesina, perlomeno sarà giovane". Matelda ebbe un breve sorriso.

Verso sera il corteo raggiunse l'ultimo monastero della valle e la casa che lo avrebbe ospitato. Prima di ristorarsi, Matelda e le sue compagne scesero per il sentiero che portava all'abbazia, fino a raggiungere la croce che i monaci stessi avevano innalzato a barriera contro tutte le donne. Si diceva che molto tempo prima, proprio in quel punto, fosse morta la regina Berta, moglie di Carlo Magno, fulminata per aver osato avanzare in quei luoghi benedetti.

La marchesina e le sue dame pregarono per qualche tempo alla cappella presso la croce, timorose di fare anche un solo passo più del dovuto e lei, con tutta l'incognita per il suo futuro che le pesava sul cuore, si ritrovò stupidamente a pregare: "Vergine Santa, vi chiedo solo questo, fa' che non abbia la gobba", ché tutto il resto, in ogni caso, avrebbe dovuto accettarlo. Poi tornarono alla casa che le ospitava e la notte sbarrò ogni cosa.

La mattina presto, il corteo arrancava faticosamente su per il valico che l'avrebbe condotto in Francia e anche le donne dovettero scendere dal carro ed affrontare a piedi o sulle mule il sentiero. Presto raggiunsero le nevi e si fecero portare i mantelli più pesanti, ma prima che l'abetaia diradasse, ecco che Matelda ebbe sete e volle raggiungere il ruscello che vi scorreva nel profondo.

Le dame ne approffittarono per sedersi e ristorarsi un poco e la marchesina, chiamata a sé  l'ancella, prese a camminare lungo il bordo dell'acqua per cercare una polla tranquilla, dove attingere a suo agio.

"Guardate, Signora, qui è così bello che sicuramente vi vengono a bere anche le fate!", esclamò ad un certo punto Dorina, e in effetti trovarono un'ansa del fiume ben riparata dai cespugli, dove la neve già disciolta faceva posto a certi fiorellini pallidi come stelle.

Matelda, attratta, sporse il viso a rimirarsi e si accorse che, riflesso nell'acqua, un altro viso le stava sorridendo.

In quel mentre una folata di vento scompigliò le due immagini ed ella levò il capo stupita, ritrovandosi innanzi, sorto dal nulla o dalla foresta, un uomo tutto coperto di pelli dello stesso colore della sua capigliatura, tali da farlo apparire più animalesco che umano. Solo gli occhi, del verde fondo delle foglie, mostravano la struggente dolcezza e la gioia leggera della sua anima.

Lo strano essere aveva raccolto la coppa che l'ancella, pietrificata dallo stupore, aveva lasciata cadere, ne aveva attinto dell'acqua e ora la porgeva a Matelda con queste parole:

"Dolce regina delle montagne, se vorrai, quando vorrai, io sarò il tuo sposo". Matelda lo guardò dritto negli occhi e non seppe se fosse uomo o se fosse bestia, ma le sembrò di scorgere in lui il silenzio misterioso delle abetaie e la forza smagliante delle rocce al sole. Prese la coppa dalle sue mani e bevve un sorso quasi involontariamente, ma in quel momento l'ancella si riebbe dalla sorpresa e lanciò alte grida: " Jean il Selvatico ci assale!", e raccolte delle pietre prese a lanciarle contro il bizzarro personaggio. Egli fece a tempo ad esibire un inchino scherzoso e dileguò.

Intanto accorsero gli uomini della scorta, seguiti dalle altre dame agitatissime.

"Prendetelo! Catturate l'uomo selvatico! Ha aggredito la marchesina! ", gridava a perdifiato Dorina.

"Jean il Selvatico! Prendete Jean il Selvatico! Uccidetelo!", strillavano le dame tutte insieme. Poi Dorina, scorta la coppa che Matelda ancora reggeva, le intimò terrorizzata: "Non bevete quell'acqua, per carità, marchesina, Jean è figlio degli elfi, lo sanno tutti, e può avervi fatto una malìa".

Intanto i soldati setacciavano l'abetaia, ma dell'uomo selvatico non trovarono più traccia. Al loro ritorno si giustificarono mortificati, dicendo: "Signora, se l'è portato via il diavolo. È dai tempi dei nostri bisnonni che Jean appare sulle montagne, ma nessuno finora è mai riuscito a catturarlo".

La marchesa stava immobile in tutto quel trambusto, immobile e lontana; gettò la coppa nell'acqua con un segreto sorriso e si lasciò ricondurre sul carro. Per calmare le sue donne, promise loro che avrebbe fatto, appena arrivata a Vienne, una novena alla Madonna per scongiurare gli incantesimi, poi si chiuse nel silenzio e le altre dovettero imitarla.

A mezzogiorno raggiunsero finalmente la cima del Cenisius, e l'altro versante della montagna si spalancò ai loro occhi. La primavera pareva più avanzata, in quei luoghi, e l'aria fine portava già il profumo delle valli sottostanti con un presagire di cose liete.

Le genti della marchesa si sentirono rinfrancate e la stanchezza era dimenticata nell'eccitazione e nella curiosità per il nuovo paesaggio. Presto anche l'incontro con l'uomo dei boschi fu un episodio riferito al passato, lasciato alle spalle del valico insieme a tutta la solita vita, e addirittura Dorina cantò all'indirizzo del temibile Jean delle vecchie strofe che lo dileggiavano. Ma la marchesa non partecipò né alla paura delle donne né alle loro risate e, se era stata impressionata dall'incontro, non lo rivelò.

Eppure quando venne la notte, mentre gli altri erano occupati ad allestire il campo per dormire, Matelda trovò un pretesto per rimanere sola e, estratti i Tarocchi, scelse una carta in gran segreto: era quella dell' Innamorato e lei, turbata dal significato, si affrettò a riporre il mazzo tra le pieghe della veste.

L'indomani ripartirono sotto un sole che già scaldava la pelle e faceva arrossire le gote delle donne e lungo la strada incontrarono i primi pastori "franzès". Le compagne di Matelda li trovarono più biondi e più gentili dei loro e ridevano scambiando motteggi e commenti, mentre la contessa di Rivoli, la più contegnosa del gruppo, insisteva nel dire che erano proprio rudi e villani come quelli delle loro montagne.

A sera l'umore era ancora festevole ed il corteo si fermò ad un ospizio presso il grande lago. La buona cena, servita in quel rustico ambiente, contribuì all'atmosfera di gaia avventura che si era creata.

Anche la marchesina pareva distesa, e chiaccherava e cantava con le altre le vecchie ballate del suo paese, tutta avvolta nella complicità che dava al gruppo l'essere in terra straniera.

Poi il convoglio proseguì di lena lungo sentieri resi più dolci dai declivi e, in capo a qualche giorno, raggiunse le colline in vista della città. Una mattina, la contessa di Rivoli svegliò Matelda con queste parole: "Ora, mia signora, dovete smettere le vesti di fanciulla e acconciarvi come ci si aspetta di vedere la futura duchessa di Vienne". La marchesina non fece obiezioni, poiché era suo dovere, da quel momento in poi, di diventare anche bella . Così si lasciò vestire con i drappi fini ed i gioielli, mettendo da parte la nostalgia che già provava per il viaggo appena intrapreso. Ora che ne era giunta alla fine, lo ricordava come un tempo di tregua felice, prima di affrontare le incognite della sua nuova vita.

Quando fu pronta, si fece portare uno specchio e si studiò con la concentrazione con cui un guerriero prova le sue armi. Corrugò la fronte, pensando: "Forse andrò bene, forse non avrò l'aria troppo rustica delle montagne". Eppure lo specchio le rimandava un volto un po' troppo squadrato a parer suo, con certe sopracciglia chiare e sbiadite che erano il suo cruccio segreto. Ci passò un bastoncino di nerofumo, sentendosi subito dopo ridicola e ancora ben lontana dalla descrizione di un poeta di quei giorni , che definiva le donne della sua terra belle come le 'circasse delle montagne'. Scrollò le spalle, presa dall'impazienza, dopo tutto il suo futuro marito poteva essere un gobbo e lei, anche se non era una bellezza - pensò con improvviso orgoglio - era pur sempre una marchesa, e diede ordine alle dame e agli uomini di indossare gli squillanti colori della sua casata.

Mossero verso la città ed il delfino di Vienne, secondo il costume, andò ad incontrarla a mezza via. I due cortei mescolarono il rosso e il verde del marchesato con l'argento e turchino francese, tanto che sembrava che nella valle fosse già arrivata l'estate.

Da lontano, in mezzo ai suoi nobili, ella lo vide e lo trovò bello e dritto nelle spalle, senza traccia di gobba, e per il sollievo e il capriccio della sorte, le bastò un'occhiata per innamorarsi di lui e per capire che non l'avrebbe mai amata. Tuttavia, quando entrarono fianco a fianco nella città pavesata a festa, in mezzo alle grida di gioia del popolo, ella si sentì felice e, con la caparbietà tipica delle montagne, pensò di riuscire a farsi amare dal bellissimo marito.

Il matrimonio si celebrò tra lo sfarzo della corte ingioiellata ed il tocco festante delle campane e, quando la cerimonia finì, gli sposi raggiunsero il cortile del palazzo ducale, dove li attendeva il banchetto .

Matelda sorrideva a tutti gli invitati e sorrideva allo sposo, scoprendosi una femminilità morbida nuova per lei, e del tutto inattesa, che stupiva piacevolmente il delfino, senza peraltro scalfire la sua cortese indifferenza. La nuova duchessa lo percepì e, proprio in quel momento, una nube leggera passò dinanzi al sole spegnendo lo scintillio delle coppe d'argento.

Allora a Matelda sembrò di scorgere, riflessi nel fondo della sua coppa, due occhi del verde dei boschi che le sorridevano e le parve di udire una voce scherzosa che le mormorava all'orecchio: "Se vorrai, regina delle montagne, quando vorrai...".

Ella si voltò di scatto, ma intorno a lei non scorse che volti di nobili sorridenti e sconosciuti e la contessa di Rivoli che l'osservava preoccupata. Allora celò il suo turbamento ma, per un attimo, il ricordo dell'uomo selvatico era balzato nitido dal suo cuore.

Seguì un periodo lieto di feste e tornei, dove venivano a giostrare i più valenti cavalieri di Francia. Le dame di Matelda erano strabiliate dalla novità e dal lusso di quella corte cittadina, e perfino la contessa di Rivoli ebbe a dichiarare che mai aveva posato lo sguardo su di un simile lusso di vesti e di arredi. L'ancella Dorina, invece, non aveva occhi che per un giovane scudiero a parer suo più bello degli angeli dipinti in cattedrale.

Ma quando l'ultima giostra fu conclusa e gli ultimi commedianti partirono, anche Matelda dovette lasciar liberi i suoi di ritornare al marchesato paterno e poté trattenere solo Dorina. Assistette con rimpianto alla partenza delle sue donne e ringraziò la scorta che le aveva protette durante il viaggio. Così guardò andarsene, col cuore pesante, fino all'ultima mula bardata di rosso e verde, ma ecco si volse ed incontrò lo sguardo freddo e gentile del suo signore.

La chiara luce del mattino si rifletteva sui suoi capelli biondi, donandogli l'aspetto un po' irreale di un principe delle fiabe e lei, pur nella sua severa saggezza, non poté non credere nella felice conclusione della favola.

"Quando gli avrò dato dei figli mi amerà certamente" pensò sorridendo e d'altra parte quello era ciò che le avevano sempre insegnato, e così cominciò con grazia e attenzione il suo nuovo ruolo di sposa.

Passò un anno, e fu un tempo felice per lei, perduta nella dedizione al suo duca, che le rendeva le giornate leggere ed ariose nella cornice di una corte così raffinata da suscitarle meraviglia e farle sembrare, al confronto, la sua vita nel castello paterno come una cosa da selvaggi.

Presso il duca, Matelda era trattata con la curiosità e l'aspettativa riservata alla novità del momento e i nobili mostravano di fare a gara per ingraziarsela, mentre ne valutavano il potere che poteva acquisire in qualità di nuova duchessa. Eppure ne erano segretamente distaccati, poiché ben sapevano la facilità con la quale il delfino aveva ripudiate le altre mogli.

L'inverno trascorse ma l'erede tanto atteso tardava ad arrivare e, quando non giunse né con l'estate né con l'autunno successivo, il delfino di Vienne prese a passare sempre più tempo lontano dalla città, cacciando nei territori selvaggi del suo regno.

Intanto la corte cominciava a mormorare sulla presunta sterilità della duchessa e le amanti ufficiali del duca esibivano con spavalderia i loro figli naturali.

Matelda in poco tempo si ritrovò isolata e scoprì sguardi di commiserazione anche negli occhi delle sue stesse dame. Dorina partecipava all'isolamento della sua padrona e, mentre ricamavano accanto alla finestra della loro stanza, lanciava certe lunghe occhiate tra il rammarico ed il rimpianto verso il giardino, da cui provenivano suoni di canti e risa.

Matelda si ostinò in un disperato ottimismo e cominciò una fitta novena alla Madonna del luogo per avere la grazia di un figlio e l'amore del duca. Ma la Madonna lignea della cattedrale aveva ella stessa un'espressione talmente dolente da scoraggiare chiunque volesse invocarla. Pareva dire ai suoi fedeli: "Lasciatemi al mio dolore, lasciatemi al mio strazio, ché nulla delle vostre beghe terrene può compararsi ad esso". Intimidita dal divino dolore, decise di disertare l'oscura cattedrale, ma Dorina si accorse che più il tempo passava, più spesso la disperazione affiorava  negli occhi della padrona, sicché decise di trovare un modo per aiutarla. Chiacchierando con le serve e le donne del mercato riuscì a venire a conoscenza di un luogo dove si ricevevano grazie sicure e ne informò la duchessa. Si trattava di una fonte in mezzo al bosco ai piedi delle colline, frequentata da popolane talmente coraggiose o disperate da sfidare ogni pericolo di accusa di stregoneria pur di recarvisi.

Matelda e Dorina, approfittando di una delle prolungate assenze del duca, raggiunsero il bosco in un fiammeggiante pomeriggio di mezzo autunno, e dopo aver girovagato fino a sera senza aver trovato nessuna sorgente, stavano già per rinunciare, quando si accorsero di una serie di nastrini variopinti che, appesi ai rami dei noccioli, stavano ad indicare la via.

In questo modo scoprirono una piccola radura dove sostavano alcune contadine, immobili anch'esse come gli alberi.

Stavano fissando delle immagini scolpite nella roccia, le figure di tre donne, due in piedi ai lati e quella al centro seduta; sul suo grembo, era posato qualcosa che poteva essere un cesto di frutta o un bambino in fasce, ma il tempo aveva quasi cancellato la forma. Un bacile di pietra, ai loro piedi, raccoglieva l'acqua della sorgente.

Dorina sussurrò preoccupata e già pentita: "Andiamo via,Signora, queste sono le Bonae Matres, le conosco, ci sono anche sulle nostre montagne. Torniamo al castello, se qualcuno ci riconoscesse sarebbe molto pericoloso per noi". Matelda non rispose, ma le tre figurine in pietra non le ispiravano nessun timore, anzi, conservavano nei loro volti sbrecciati un'aria partecipe e consapevole che rassicurava. Avanzò lenta, guidata dall'impulso di toccare quelle vecchie pietre, e allora una di quelle contadine voltò verso di lei un volto antico come quello delle statue e con un sorriso le toccò la mano e le mostrò quello che doveva fare. Matelda, nell'improvviso silenzio del bosco, ripeté i gesti arcaici, poi bevve l'acqua e ringraziò le divinità. Prima di andarsene chiese alla vecchia: "Mi aiuteranno, le Madri?"

"Faranno quello che va bene per te, t'indicheranno la via, ma forse non sarà quello che hai chiesto; stai attenta" rispose la vecchia.

Al ritorno, una pioggia improvvisa cantò sulle foglie, e parve dire:

Scappa Matelda, scappa lontano,

non elargire il tuo amore invano.

Sulle montagne ti attenderà

gioia, amore e libertà.

Matelda sostò un attimo ad ascoltare e chiese a Dorina: "Hai udito anche tu, la voce nella pioggia?"

"No, non ho udito nulla, ma forse era la risposta delle Madri".

"Allora non riesco a capirne il senso, forse è solo una vecchia filastrocca della mia infanzia, che mi è ritornata alla mente". Eppure, tra le foglie, per un attimo le parve di vedere il volto di Jean il Selvatico che la scrutava con apprensione.

Quella sera, nel segreto della sua stanza, consultò dopo tanto tempo il suo mazzo di Tarocchi. Le rispose il severo Eremita ed ella protestò rauca: "Non è possibile! Isolamento e solitudine mi aspettano, neppure voi mi aiutate, Bonae Matres". Scagliò via con furia il mazzo, e tutte le figure, scomposte dinanzi al fuoco, parvero irriderla e sbeffeggiarla in una danza di possibilità e di destini differenti, sfuggenti come sabbia sulle dita. Eppure, con la sua caparbia così cieca da diventare ossessiva, tornò molte volte alla fonte e portò doni e gioielli, e divenne sempre più temeraria.

Una sera, la vecchia contadina che le aveva insegnato i rituali, le confidò : "Sei tornata troppe volte alla fonte e questo è pericoloso. Forse quello che domandi non è scritto nel tuo destino e quello che ti conduce qui sono ostinazione e disperazione, due brutte compagne. Ma domani è la notte d'Ognissanti e Diana giunge a noi. La Signora del Gioco, la più potente di tutte, conosce tutte le oscurità, e forse ti vorrà aiutare. Raduna il tuo coraggio e gioca allora il tuo destino, e spera che ti sia favorevole".

Quella notte, Matelda non dormì, in preda alla paura e ai conflitti, ma l'indomani, prima che avesse trovato il modo di prendere una decisione, il duca tornò all'improvviso, con un gran fermento di cani e guardiacaccia e battitori, per cui non ebbe più modo di sgaiattolare inosservata fuori dal palazzo. Eppure era talmente felice del ritorno del marito che le sue angosce sembravano appartenere ad un'altra persona.

Indossò gli abiti più belli e gli andò incontro festevole e speranzosa che qualcosa fosse mutato nell'animo dell'amato. Egli la ricevette con la sua cortesia affascinante, illuminata da sprazzi di un'allegria vivace che sembrava quasi calore.

Matelda era raggiante e per tutto il banchetto volle scorgere in quell'umore giocoso i segni di un amore che doveva emergere.

La serata proseguiva animata dai racconti sempre più esagerati della caccia intrapresa, quando una dama, una delle amanti del duca, si alzò dal suo posto e, sorridendo, si avvicinò alla coppia. Teneva in mano un piccolo involto e lo mostrò a Matelda dicendo: "Ecco, Signora, un piccolo omaggio da parte mia. Forse gradirete ritrovare ciò che avete perduto".

Matelda sentì che una vaga inquietudine si stava dilatando dentro di lei e non si mosse, ma il duca, incuriosito, invitò la dama ad aprire l'involto. Apparve allora un anello di zaffiro, uno dei doni di nozze che aveva elargito alla sua sposa.

La dama, continuando a sorridere, proseguì in un sussurro: "La duchessa ha perso questo anello presso la fonte delle Bonae Matres, evidentemente è sua consuetudine di frequentare quel luogo maledetto".

Matelda si fece di pietra, ma il duca esibì uno strano sorriso soddisfatto. Tuttavia nessuno, nella sala, aveva udite le parole della dama ed il banchetto proseguì tranquillamente. A notte inoltrata, Matelda ricevette la visita del duca. Ora non pareva più il bel principe delle fiabe, così allegro e svagato, ma era solo un uomo politico e scaltro che aveva trovato l'occasione giusta per risolvere, senza guerre di mezzo, una questione fastidiosa. Infatti, il ripudio della nuova sposa avrebbe sicuramente portato ad un conflitto con i parenti di lei, troppo vicini e troppo valenti guerrieri per poterseli inimicare alla leggera.

"Mia Signora - esordì - penso che mi dobbiate delle spiegazioni. Quell'anello grida una dura accusa al vostro riguardo".

Matelda rispose, altera ed orgogliosa: "Mio Signore, non posso negare di essermi recata alcune volte alla fonte del bosco, ma se l'ho fatto, è stato solo per ottenere la grazia di un figlio".

Il duca sorrise: "Troppo onore, Matelda, e troppa devozione dimostri, rischiando il rogo per la speranza di un erede. Suvvia, non ho che da riconoscere qualche mio figlio naturale e la successione è assicurata".

Matelda lo fissava pallida, cercando di capire quali implicazioni potessero avere quelle parole, ma una piccola parte di lei cominciò a mostrargli, per la prima volta, l'oggetto del suo amore quale suo nemico. Forse, dopotutto, le sue convinzioni, semplici e rigide, si dimostravano ben lontane dalla realtà.

Eppure il duca ora sorrideva pieno di comprensione, mentre diceva: "Suvvia, Matelda, non angustiarti, non sei stata ancora pubblicamente accusata ed io, pubblicamente, non posso ripudiarti. Tuttavia, è meglio che per ora tu dimori lontano da qui, poi, quando le acque si saranno calmate, ti verrò al più presto a chiamare".

E così la duchessa finse ancora una volta di non sentire gli avvertimenti di quella sua piccola parte selvaggia che fiutava il pericolo e decise di interpretare quel provvedimento come una dimostrazione dell'interesse che il marito poteva ancora provare nei suoi confronti sicché, quando partì, la sua illusione la rendeva quasi felice.

Doveva raggiungere un piccolo castello in mezzo alla boscaglia, fornito di un'alta torre di vedetta che veniva usata per le segnalazioni sul territorio, ma che per il resto era in uno stato di isolamento e di abbandono quasi totali. Solo Dorina insisté per accompagnarla nel suo esilio temporaneo e Matelda, delle sue ricchezze, portò con  sé solo il mazzo dei Tarocchi.

Arrivarono in una fredda sera invernale ed i soldati della scorta, resi inquieti dalla selvatica desolazione del luogo, si affrettarono ad affidarle al vecchio guardiacaccia che custodiva il castello e se ne tornarono subito indietro. Vennero ricevute da una serva già anziana che portava su di  sé l'odore di stantio e di solitudine dell'interno della costruzione. Poi il portone si chiuse dietro di loro e Matelda si fece subito condurre nella stanza più alta della torre. Diede un'occhiata indifferente agli arredi spogli e polverosi, si fece accostare lo scranno alla piccola finestra e, dura e determinata, si apprestò ad attendere la chiamata del duca.

Passò l'inverno, e i raggi del sole, la mattina, avanzavano sul pavimento della stanza ogni giorno di più, già qualche uccellino aveva ripreso cauto a cantare, e Matelda aspettava. Aspettava il messaggero del duca la mattina, quando si levava, aspettava mangiando in fretta la sua colazione, aspettava ricamando fantasiosi disegni di cervi nel sole già tiepido del pomeriggio, aspettava durante il pranzo silenzioso, e alla sera, scrutando dalla finestrella l'accendersi lento delle stelle, Matelda aspettava.

Venne la primavera e il bosco s'ammantò di foglie verdi e di canti e di richiami e la lietezza della natura assediava il castello, rendendolo quasi allegro. Matelda aspettava, ascoltando il bramito del cervo, aspettava ascoltando la canzone del cervo e quella dell'usignolo, la notte, ed il suo ricamo s'infittiva di segni e di decori che a mano a mano diventavano sempre più bizzarri.

La notte precedente le tempora di primavera riconobbe tra i versi notturni degli animali un canto lontano provenire dal folto del bosco e pensò: "Ecco la Signora del gioco, la dea Diana sta giungendo alla sua festa e cantano in suo onore", e le parve di scorgere tra gli alberi delle pallide luci, e di udire un suono lontano di zoccoli e di sonagli. Le luci sfilarono veloci tra i rami, illuminandoli di un chiarore latteo di luna, e folate di vento chiamarono il suo nome. Poi lo sfavillìo si allontanò sempre di più e tutto il bosco ripiombò nell'oscurità più fitta. Solo il vento, ancora per un pezzo, le sembrò che dicesse:

Matelda, fuggi lontano,

Matelda non attendere invano,

Matelda il vero sposo è impaziente

e si strugge lassù, alla sorgente.

La duchessa si sporse dalla finestrella, agitò le braccia e chiamò, in preda all'impulso di seguire il corteo, ma ormai, più forte di lei, l'ossessione dell'attesa la costrinse di nuovo all'immobilità, sul suo scranno di sempre. In quel tempo, dell'incontro con l'Uomo Selvatico aveva solo più un vago ricordo, un angolo di minuscola dolcezza talmente lontano nella memoria da sembrare irreale.

Ora anche il vento era cessato, e la stanza era tornata silenziosa, fasciata di ombre segrete, eppure qualcosa riluceva nel buio appena illuminato dal chiarore delle stelle. Matelda vide che, nell'alzarsi, le era scivolato dalla veste uno dei suoi Tarocchi. Lo raccolse, trattenendo per un momento il suo mistero, poi lo voltò e riconobbe la carta della Luna.

L'estate gonfiò il bosco di una vitalità straripante ed il sole fluiva da tutte le aperture e dalle crepe del castello, e inondava le vecchie sale di uno splendore caldo e luminoso. Fuori le antiche mura s'inghirlandavano di edere e la torre pareva vestita a festa. Dorina cantava le canzoni della sua infanzia, mentre stendeva il bucato e la vecchia serva si ostinava in eroiche imprese di pulizia nel camerone principale "per ben accogliere messere sole" come lo chiamava lei. Allora Matelda serrò le imposte della sua finestra e più non le aprì .

Passarono i giorni e le notti e i mesi e gli anni, passarono sette lunghi anni, finché in una sera d'autunno, grigia e soffice di nebbia, giunse da quelle parti un trovatore che aveva smarrito la via e che, scorta di lontano la torre, venne a chiedere ospitalità al castello.

Gli aprì il vecchio guardiano e la serva, borbottando, lo rifocillò nella cucina. Tomaz, così si chiamava il trovatore, si stupì dello stato di abbandono che scorgeva all'interno e chiese se almeno poteva rallegrare il Signore con qualcuna delle sue ballate.

La serva si voltò con un sospiro, rispondendo: "Nel castello abita la duchessa di Vienne, ma non riceve nessuno, da anni ormai".

Tomaz, scrutando la porta che immetteva nel salone, assentì: "Conosco la storia della Duchessa Dimenticata, ma forse un poco di melodia saprà restituirle il sorriso" e subito raccolta l'arpa si recò nel mezzo del grande salone deserto e si mise a suonare una chiara melodia bretone, una di quelle fresche danze scintillanti come acqua di ruscello. Allora fu come se l'ombra di antiche risa e di danze e di allegri banchetti ritornasse, per un momento, a rianimare il tetro ambiente. Poi attaccò la ballata del Principe Codardo e di come fosse stato senza cuore e di come alfine vennero i draghi ad annientarlo, e lui non aveva per difendersi che la sua spada fatta di paura. Le ultime note di cristallo volarono per il soffitto e scesero lungo la parete, ma Matelda dalla sua stanza le udì ed alzò per un attimo il volto dal ricamo, che ora ricopriva tutto il pavimento con le sue figure allucinate.

Il trovatore si trattenne qualche tempo nel castello, suonando ogni sera nel salone buio, fino a che, un giorno, una porta si aprì e apparve Dorina, bella e pallida come se fosse l'aralda della bellezza della padrona. Con un breve inchino, sussurrò : "La Signora vuole vedervi". Allora Tomaz seguì l'ancella attraverso le camere disadorne, fino alla scala della torre e poi su su, fino a raggiungere la stanza della duchessa.

Entrarono nella stanza offuscata, appena illuminata dal riverbero delle braci. Il ricamo si dispiegava dappertutto come un mare inquieto, e accanto al camino sedeva la duchessa Matelda e sulla sua veste scura spiccavano, come gioielli abbandonati sul suo grembo, i rettangoli colorati dei Tarocchi. Teneva nella sinistra l'Appeso e la mano destra abbandonata sul ginocchio, e Tomaz si accorse che la vita scorreva lontana da lei, come un orizzonte irraggiungibile.

La mano bianca si mosse appena, invitandolo a sedere, poi meccanicamente ricompose il mazzo e lo dispose a ventaglio. Allora lo fissò con occhi stranamente accesi e gli chiese: "Scegli una carta, musico, gioca una carta per me". Tomaz lanciò un'occhiata incerta all'ancella, che assentì con un cenno impercettibile del capo, poi lentamente prese una carta e la lasciò cadere ai piedi della duchessa. La carta si volse da sola, svelando il suo piccolo mondo colorato e Tomaz sorrise di sollievo, esclamando: "Ecco, Signora, cacciate la tristezza, ecco il mondo ai vostri piedi!"

"È da tanto tempo che non esce più questa carta, è da tanto tempo che non vedo il mondo - rispose Matelda - eppure io devo aspettare".

"Potrei sapere chi, mia Signora?"

"Il duca di Vienne. Egli mi promise di richiamarmi a corte e non può tradire la promessa".

Tomaz scosse il capo all'evidenza di quella follia e disse dolcemente: "Attendete un sogno, allora, attendete un'ombra. Il duca è morto tanto tempo fa, in una futile battaglia di confine e mi stupisco che voi, signora, non l'abbiate saputo".

"Avevo vietato a tutti di darmi notizie, la sua promessa mi bastava. E ora andate" sussurrò, e ristette sola a pensare.

Poi si guardò le mani e si accorse dei piccoli segni lasciati dal tempo, si osservò la treccia dorata e vi scoprì alcuni fili candidi, e si rese conto del suo pazzo ricamo, che ormai avvolgeva la stanza come un sudario. Si alzò, ancora stordita, e cercò di aprire gli scuri, ma quelli, bloccati da tanti anni, non si mossero. Allora Matelda liberò la sua rabbia contro l'illusione che l'aveva devastata per tutti quegli anni e si accanì contro le tavole fino a scardinarle.

Si affacciò alla piccola finestra e bevve avida lunghe boccate della nebbia umida del bosco, gravida dei suoi profumi misteriosi, e la colse pungente il rimpianto di tutto ciò che era vita e libertà. In quel momento, percepì una voce fatta di nebbia e di ricordo che le diceva: "Svegliati Matelda, destati dal tuo lugubre sogno! Corri Matelda, lontano dal tuo castello di menzogne!" e le ritornarono in mente, a confortarla, le cime candide e fiere del paesaggio della sua infanzia, stagliate contro la libertà perenne del cielo.

E fu così che Matelda, in questo modo stranamente semplice e immediato, riuscì a liberarsi della prigione che si era costruita, grazie alla musica e alle chiare parole di un trovatore sconosciuto. Ma forse egli era stato inviato dalle Matres, e forse solo a quel punto della sua vita Matelda avrebbe potuto accettarne la risposta.

La mattina dopo stupì la servitù con il suo desiderio di partire.

"Ma dove volete andare, mia Signora? - domandò esterefatta Dorina - siete ancora così debole!"

"Eppure partirò, e mi abituerò di nuovo al sole e ad assere felice. Voglio rivedere le montagne e respirarne l'aria fredda e pulita fino a che la mia mente non sarà mondata da tutta l'ossessione di questi anni. Tu, dolce e paziente compagna del mio dolore, puoi tornare a Vienne, se vuoi, nella corte che ti divertiva tanto, oppure rimanere qui al sicuro".

Dorina sorrise, rispondendo:  "Vi accompagnerò, Signora, come sempre, e speriamo che questo nuovo viaggio si concluda più felicemente di quello che abbiamo intrapreso tanti anni fa".

Prepararono i bagagli ed i cavalli e Tomaz si offrì di scortarle, volendo anch'egli raggiungere il valico, ed il sole alto li vide già al galoppo attraverso la foresta. Dalla torre del castello, il vecchio guardiacaccia e la serva decrepita li salutarono per un bel pezzo, agitando una sciarpa verde e rossa, i colori della loro Signora.

I boschi terminarono, lasciando spazio ai brulli dorsi delle colline, quando ad un tratto Tomaz scorse qualcosa di giallo e dorato volar via dal manto della duchessa e si arrestò a raccoglierlo dicendo: "Guardate, Signora, avete perso uno dei vostri Tarocchi". Matelda si girò incuriosita, con l'ansia che già si affacciava di nuovo nel suo cuore.

"Che cos'è? " chiese subito.

"Mia Signora, il Sole!" gridò Tomaz.

Matelda rise e gli ordinò: "Rendimelo". Lo riunì al mazzo, poi, spronato il cavallo al galoppo, baciò i Tarocchi e li gettò al vento, e parvero uno sciame di farfalle colorate.

"Siate liberi anche voi, e non svelatemi piuù nulla, ve ne prego. Non voglio più sapere nulla di ciò che accadrà, ma solo vivere il presente".

Il viaggio dei tre cavalieri proseguì senza intoppi, su per i pendii che già formavano i larghi troni delle montagne, e Matelda, a vederle avvicinarsi, trovava sempre più forza e slancio, lasciando stupefatta Dorina per l'energia ritrovata in così poco tempo. Giunsero al grande lago e là soggiornarono di nuovo nella locanda.

"Appena in tempo! - esclamò l'oste vedendoli arrivare - la neve è già scesa al Baraccon de Chamois ed i Tre Denti sono già bianchi da un pezzo. Tra poco il valico si dovrà chiudere".

C'erano pochi avventori in quel periodo e l'oste, scambiandoli per comuni viaggiatori, si trattenne con loro a chiacchierare. Seppero così che il vecchio marchese era morto anch'esso ed ora, nel castello dell'Alta Valle, regnavano la sorella minore di Matelda e suo marito. Allora Tomaz le domandò: "Dove volete andare ora? Desiderate tornare al castello e rivedere vostra sorella?"

"No, Tomaz - rispose Matelda - voglio passare il valico per rivedere un posto che mi è caro. E poi non so cosa succederà". Ma dove fosse quel luogo misterioso e cosa significasse per lei, non lo volle rivelare.

Tomaz e Dorina ripresero a chiacchierare sulle città e le corti che il musico aveva conosciuto nel suo peregrinare e, a udire quelle descrizioni, all'ancella già brillavano gli occhi per l'entusiasmo. Se ne accorse Matelda e si rese conto di quanto duri fossero stati tutti quegli anni di reclusione per un carattere curioso e socievole come quello di Dorina, quindi dopo un po' propose: "Dorina, mi sei sempre stata fedele e mi hai seguito in tutte le mie vicissitudini, ed ora non sei più la mia ancella ma la mia dolce amica e sei libera di disporre di te come più desideri. Potresti unirti a Tomaz ed accompagnarlo nel suo viaggio. Hai sempre avuto una splendida voce e questo sarà di aiuto per la sua musica".

Dorina protestò la sua devozione, ma le sue guance rosse rivelarono quanto gradita le fosse questa nuova prospettiva.

L'indomani ripresero il cammino e dopo qualche giorno finalmente superarono la cima più alta, dove una grande croce spiccava nitida sulla neve. Il sentiero, da lì in poi, scendeva ripido, con balze e giravolte, come se anch'esso non vedesse l'ora di raggiungere la valle. I tre viandanti galoppavano veloci, con lo sfrenarsi allegro di chi si sente finalmente a casa ma, alla vista dei primi abeti che annunciavano le pinete, ecco Matelda arrestò il cavallo e si fermò. Si volse ai compagni e con un sorriso luminoso annunciò: "Qui ti dico addio, gentile musico; qui ci salutiamo, cara e fedele amica. Ora la mia strada è in questi boschi e mai più li abbandonerò".

"Vivrai dunque sola e selvaggia, mia signora?" si preoccupò subito Dorina.

"Selvaggia sì, ma forse non sola. Dieci anni fa partii dal mio castello per andare in sposa, ma colui al quale ero destinata in realtà non era il duca di Vienne, bensì colui che abita questi luoghi, e che ho fatto attendere già troppo a lungo".

Allora Dorina l'abbracciò e le disse addio, e mentre lei s'inoltrava sicura tra gli alberi, Tomaz, per salutarla, prese a suonare una dolce melodia. Così Matelda ritrovò la polla dove aveva bevuto tanto tempo prima, e subito apparve tra gli alberi la figura metà umana metà animalesca di Jean il Selvatico, che le porse la piccola coppa cesellata del loro primo incontro.

Ed ancora oggi la cima del monte dove la duchessa è stata vista per l'ultima volta si chiama 'La tomba di Matelda', ma lei non è morta affatto, vaga ancora adesso tra faggi e abeti e, quando la luna piena splende sulla neve, allora Jean chiama il vento a far da suonatore, e danzano insieme, sollevando tempeste.

 

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