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D U N E D A I N

Rosanna Masoero

 

Li vedeva passare la sera, in quel periodo di tarda primavera. Era l'anno.......... ed il suo fratellino aveva perso due denti. Si sentivano i loro passi da lontano, facevano scricchiolare le pietre della via con un ritmo tutto loro, cadenzato, come se non dovessero fermarsi mai. Allora molte imposte si chiudevano e qualcuno richiamava in fretta i bambini.

Gli animali, al contrario, si mostravano sempre socievoli, al loro passaggio: i cani abbaiavano senza convinzione, tanto per far piacere ai loro padroni e, dietro, dimenavano contenti la coda. Le galline e le oche puntavano certi occhi incuriositi e sostavano un momento ad osservare il loro passaggio. I gatti socchiudevano gli occhi e camminavano in su e in giù per attirare la loro attenzione ed anche le rondini svolazzavano sovente ad un palmo dai loro cappucci.

Andavano in fretta, affiancati, ed i loro mantelli si sfioravano appena.Traversavano tutto il paese, con il capo un poco chino, senza guardare nessuno, passavano i Cancelli poco prima che chiudessero e svoltavano in una stradina che portava in aperta campagna. Allora il borgo sembrava respirare di sollievo e ricominciava più tranquillo le sue attività serotine. Li chiamavano i Raminghi e nessuno conosceva le loro case.

Del loro passaggio non restavano che grandi orme sul fango della strada, a riempirsi della prossima pioggia e riflettere il cielo. Greta si era sempre stupita di quelle orme e fantasticava chiedendosi a chi potessero appartenere. Era una ragazzina con una lunga treccia bruna che le arrivava fino alla vita ed i vestiti sempre un po' sciupati, ma possedeva due occhi azzurri che dicevano valere un tesoro. Ma di quale tesoro si trattasse, non era ancora riuscita a capirlo. Tobia, suo fratello, era un bambino esagitato, con a tratti un'improvvisa compostezza da principe presto infranta dalle sue fragorose risate. Vivevano con la madre, in una casa appena all'inizio di Brea, proprio a ridosso delle mura, e così, con un po' d'invidia dei pettegoli del paese, erano i primi a sapere le novità di chi arrivava e di chi partiva, ma non vi badavano granché, un po' per la tipica noncuranza dell'infanzia ed un po' per gli insegnamenti materni, che da quando il loro padre era stato misteriosamente ucciso, si erano fatti rigidi e oltremodo prudenti.

Il loro vicino di casa, aveva sparso la voce che fossero stati proprio i Raminghi a commettere quel delitto, ma non c'erano state effettivamente delle prove ed era fin troppo facile addebitare ogni disgrazia che succedeva a quegli stranieri. Loro, d'altro canto, non avevano mai fatto nulla per disperdere l'alone di mistero che li circondava; apparivano, sostavano un poco, e se ne andavano, ricomparendo magari a distanza di anni. Sempre uguali, nei loro mantelli scuri, nelle figure alte e fosche, negli sguardi lontani, come gli antichi alberi della Vecchia Foresta, che erano lì da tempi immemoriali, eppure nessuno, a Brea, sostava volentieri tra loro. E così era stato fin dai tempi del nonno del bisnonno di Greta, e anche prima, si mormorava.

Ma quando nel villaggio succedeva qualche guaio, qualcuno si ammalava di malattie sconosciute o il bestiame cominciava a morire o dal Verdecammino giungevano bande di ribaldi a depredare, la soluzione, dopo varii conciliaboli, finiva per essere sempre la stessa: qualcuno veniva incaricato di vagare per boschi e colline, chiamando a gran voce e, non si sa come, ecco apparivano i Raminghi, sbucati fuori all'improvviso dagli alberi, o stagliati contro il cielo, lungo la cresta di una collina. Allora raggiungevano il villaggio, sanavano chi era malato, curavano il bestiame e le strade tornavano come per incanto, libere di essere percorse senza brutti incontri. La gente li ringraziava, un po' impacciata per la diffidenza abituale, ma loro, terminato il compito, subito se ne andavano, svanendo velocemente nel paesaggio.

Quella sera, Greta li vide spuntare da dietro la casa di Maggie, al fondo del viottolo ed avanzare veloci senza guardarsi intorno.

"Greta!"

Il richiamo di sua madre la raggiunse dal fondo dell'orto.

"Sì, vengo subito" rispose lei, meccanicamente, senza muoversi.

I Raminghi erano tre e, silenziosi, la stavano per raggiungere. Sotto i cappucci calati, i loro volti apparivano indistinti, eppure rimase là, a guardare da presso il loro passaggio, come si osserva il passaggio delle rondini o degli stormi delle oche selvatiche, quando arrivano dalle loro lontane migrazioni.

Ad un tratto, sbucò saltabeccando il suo capretto preferito, inseguito per gioco dal grosso cane Buf. Il vecchio cane non aveva cattive intenzioni, ma il capretto era troppo giovane per capirlo e attraversò a salti il cortile, precipitandosi contro le gambe dei Raminghi. Greta strillò per la paura che lo travolgessero, ma uno di loro, il più alto, afferrò velocemente l'animale, prima che potesse fuggire e lo porse con un sorriso alla ragazza.

Greta, imbarazzata, mormorò "vi ringrazio, Messere" e fuggì dietro la casa, stringendo al petto il capretto.

"Greta, sono passati i Raminghi, non devi parlarci, hai capito? Non li devi neanche guardare." La voce di sua madre era dura, mentre diceva quelle parole, poi la vide rialzarsi dalla vanga, e passarsi un braccio a liberarsi la fronte dai capelli. Erano belli, quei capelli, striati d'oro, ma da quando era morto il padre sua madre li teneva sempre legati troppo stretti. Lanciò un'occhiata più dolce alla figlia e sospirando, le disse: "Ora va' a casa a preparare la cena, è quasi sera ed è passata anche questa giornata."

Mentre assaporavano lentamente la minestra di ortaggi che costituiva tutta la loro cena, Greta chiese ancora a sua madre: "Ma perché hai così paura dei Raminghi? Ci hanno sempre aiutati, qui a Brea, e a me sembrano più gentili dei viaggiatori che vediamo sostare qui."

"E amano molto gli animali " aggiunse Tobia, venendo per una volta in aiuto alla sorella.

La madre si scurì in volto e rispose: "Perché non sappiamo nulla di loro e non sono come la Gente Alta di qui, sono diversi da noi."

"Potrebbero essere migliori", mormorò Greta.

"O peggiori", concluse la madre, asciutta.

La cena finì nel silenzio e Greta uscì per mettere fuori il cane. La sera aveva già la tenerezza della primavera, nonostante l'aria ancora gelata. La campagna buia oltre le mura, risuonava di fruscii e di sospiri di vento e tutta quell'oscurità mormorante, appena rischiarata dalle stelle, le riportò alla mente qualche brano di antiche canzoni, che narravano di elfi e di come era il mondo al suo nascere.. Si sedette un momento, carezzando il cane: "Che dici, Bulf, torneranno gli Elfi? E tornerà il Re?".

Il cane uggiolò piano, in risposta alle carezze e forse alla sua domanda.

"Se tornasse, ci sarebbe più da mangiare per tutti, non credi? E non dovrei aver paura ad andare per i boschi. E tornerebbero i tempi splendenti delle canzoni. "Bulf approvò scodinzolando energicamente, poi, attratto da un rumore, si concentrò nel suo lavoro di cane da guardia e Greta si accorse di essere presa dall'inquietudine. Pensandoci, scoprì che quella sensazione le girava furtivamente in cuore da un po' di tempo. Non era data da nulla di particolare, non era successo niente di grave in quei giorni, certo la vita era più dura e l'orto faticava sempre di più a produrre la verdura per la loro sussistenza e quel tanto in più da vendere al mercato del giovedì. Eppure era come se a tratti, la tranquilla campagna intorno emanasse un senso di pericolo e di estraneità che turbava e faceva trasalire per un nonnulla. Allora si voltava di scatto, ma non scorgeva niente di più di qualche uccello in volo o la corsa affannata di una volpe. Le venne in mente che anche la cupezza amara che sua madre rivelava in certi momenti, poteva addebitarsi a quella vaga sensazione di pericolo celato, lei, sempre così ardita e battagliera da scrollarsi di dosso le disgrazie con un'impaziente scrollata delle forti spalle, pronta a ricominciare con lena la quotidiana battaglia del suo vivere da vedova.

Poi il momento passava e tutto ritornava nella tranquilla linearità della vita del borgo, in quello strano miscuglio di Gente Alta e di Hobbit, che avevano trovato chi sa come una fusione ed un equilibrio di cui erano molto gelosi, e che poco bastava a turbare.

Passò del tempo e la primavera, dopo i primi momenti d'incertezza, prese lo slancio, dilagando col suo verde tenero per tutta la campagna. Per Greta tornarono i giorni più belli, quando aveva il permesso di portare a pascolare le capre ed il nuovo caprettino, già un po' più cresciuto, per i prati intorno al borgo. E per lei questo significava la libertà e le passeggiate solitarie fino ai confini del bosco Cet e la solitudine limpida e ariosa delle colline. E udiva la voce di sua madre, che come nelle fiabe, le gridava dietro ogni volta "Stai attenta! Non entrare nel Bosco!". Lei, ogni anno un pochino di più, contraddiceva l'ordine e aumentando la spavalderia, si sospingeva sempre più tra gli alberi.

Anche quel chiaro mattino si svegliò presto, trangugiò il latte acidulo della capra, si mise in tasca un pezzo di pane scuro e del formaggio, e corse a liberare le capre. Il cane, già pronto ad andare, l'aspettava impaziente al cancello.

"Greta!" Sua madre sbucò dalla porta, trascinando il suo fratellino insonnolito. "Oggi porta con te anche Tobia, che c'è il mercato e non ho tempo di badare anche a lui."

"Oh, no!" si rammaricò la fanciulla, ma dovette accondiscendere di portare con sé quell'insieme di arti aguzzi, mutismo e malumore che era suo fratello il mattino presto.

Uscirono dal paese ancora semideserto e voltarono a nord, tenendosi a debita distanza, immusoniti dalla reciproca compagnia, ma presto l'allegria di Bulf e quella delle capre, dissipò ogni cattivo umore e quando raggiunsero il grande prato, la differenza di età parve dissolta nel riso e negli scherzi.

Lo sguardo di Greta continuava a volgersi verso il limitare del prato, dove la prima fila di alberi faceva da sentinella al grande bosco Cet, e quando giunse il mezzogiorno la sua irrequietezza giunse al culmine: "Tobia", chiamò il fratello che, immerso com'era nell'erba, faceva spuntare un solo ciuffo nero di capelli.

"Che ne diresti se facessimo pascolare le capre un po' più in là ?"

"Più in là, dove?" Tobia emerse con la testa.

"Tra quegli alberi" fu la risposta.

"Ma la mamma non vuole!" esclamò allarmato.

"Se non glielo dici, non lo saprà" ribatté Greta, con logica ferrea "e potrei comprarti un candito, al prossimo mercato."

"Facciamo due", si decise Tobia, con l'aria di chi vuol fare un affare e, nascondendo il timore, si apprestò a seguirla.

Greta fischiò al cane, che sopraggiunse a grandi salti e sospinse le capre, un po' impigrite dal sole, verso l'ombra degli alberi. Due grandi querce si ergevano nella loro altezza orgogliosa, imponendo l'altolà ai due ragazzi, ma le capre, indifferenti come al solito, le oltrepassarono caracollando ed immersero i loro musi nei ruvidi cespugli di more che le circondavano.

 

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