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LA RICERCA INTERIORE
Mario Thanavaro
Porsi le domande «Da dove veniamo? Chi siamo? Come viviamo? Dove andiamo?» è fondamentale per comprendere la nostra vita. Queste domande si presentano come l’inizio di un percorso di crescita interiore e di esplorazione della coscienza.
Ci sono diversi motivi per cui si inizia un percorso di questo genere. Ne cito alcuni: la curiosità, lo spirito di ricerca della verità, o un dramma familiare che ci fa trovare nel profondo la ferita di essere separati, divisi, soli, abbandonati, sofferenti.
Qualora ci si trovi a vivere questo tipo di esperienza, con un input così forte, non saremo più disposti a perdere tempo, sentiremo una certa urgenza. Il disagio provocato dalla sofferenza, dal senso di separatezza che proviamo al nostro interno non può che stimolarci a dare maggiore attenzione a quella ferita e a fare tutto il possibile per curarci e guarire.
Per coloro che hanno un orientamento materialista e sono attaccati ad una visione limitata della vita la spiritualità non ha senso, ne negano il valore e non danno spazio alla possibilità di una vita oltre la realtà fisica della loro persona, di una vita che vada al di là dei confini della realtà percepita dai sensi e oltre i limiti di un’unica esistenza umana. La ricerca interiore è invece propria di coloro che sono interessati a sapere di più della propria persona, della propria vita, che sono interessati a migliorare la propria condizione andando oltre la paura di vivere e di morire.
L’interesse per la spiritualità emerge in tutte quelle coscienze sensibili che vogliono in qualche modo riscattarsi dal senso di prigionia originato dall’ignoranza e dalla sofferenza che ne deriva, originato dal non vedere, dal non sapere quali sono la causa e il senso della propria esperienza.
Nell’ambito della pratica meditativa la causa della nostra esperienza va ricercata attraverso l’esplorazione degli elementi costituenti della persona, e le sfere sensoriali diventano il campo coscienziale in cui possiamo notare le caratteristiche dell’esistenza.
Queste caratteristiche sono state ben descritte da vari maestri di spiritualità nell’arco della nostra storia più recente. Volendo fare riferimento al Buddha, vissuto circa 2500 anni fa, ricordiamo quelle che comunemente vengono chiamate le tre caratteristiche dell’esistenza.
La prima caratteristica è quella della transitorietà, dell’impermanenza. In altre parole tutto ciò che appare nello spettro della coscienza come esperienza personale è transitorio. Acquisire conoscenza di tale impermanenza, verificarla attimo dopo attimo, ci dà la possibilità di liberarci da una visione statica della realtà. Ciò significa che nel bene e nel male non c’è niente che si possa arrestare; in nessun modo possiamo trattenere, fermare e possedere alcunché, tutto cambia, tutto è transitorio. Viviamo nella continua alternanza di eventi, nella buona o nella cattiva sorte, ma l’elemento costante in questa alternanza è comunque la legge dell’impermanenza: tutto è transitorio.
Questo tipo di conoscenza deve scendere nel profondo, in altre parole deve trasformare il nostro stesso corpo, lo stesso corpo fisico che ha memorizzato la propria realtà finita, confinata nella materia.
Questo tipo di memoria porta inevitabilmente alla paura, in altre parole il corpo ha paura di non essere più corpo, ha paura di sparire. Fin quando c’è il concetto "io sono il corpo” c’è karma e di conseguenza siamo prigionieri della “legge di causa e d’effetto”.
La comprensione che tutto è transitorio, tutto è impermanente, è un buon approccio all’esplorazione del corpo/mente e dei suoi contenuti. Questa esplorazione ci può portare a una comprensione ancora più profonda: non solo tutto è vanità, ma tutto è vuoto,
Siamo cenere e torneremo ad essere cenere: questo tipo di considerazione, di riflessione, può veramente aprirci alla visione spirituale e farci scendere nel profondo, perché nella misura in cui entriamo in quest’ottica il distacco ci risulta del tutto naturale, in altre parole riconosciamo la fugacità degli eventi, riconosciamo che questi stessi non possono essere arrestati. La realtà così come la percepiamo si manifesta di momento in momento.
La seconda caratteristica dell’esistenza consiste nel fatto che tutto è insoddisfacente, nel senso che non c’è desiderio o esperienza che ci porti ad un appagamento ultimo, definitivo, a una vera pienezza dell’essere.
Può sembrare un’affermazione pessimista, che ci rende un po’ freddi rispetto all’esperienza della vita, che spegne un po’ il nostro entusiasmo, la nostra euforia, o se non altro l’eccitazione che troviamo al contatto percettivo dei sensi con l’oggetto. Generalmente siamo propensi alle esperienze di piacere, ed in effetti io reputo salutare orientare la nostra vita affinché questa diventi sempre più piacevole, mi preoccuperei di più se l’orientamento fosse verso una ricerca dell’afflizione, del male, del dolore. Tuttavia dobbiamo riconoscere che la ricerca del piacere in se stesso si rivela un vicolo cieco e porta frustrazione, distruttività e morte.
Inoltre ci sono molti milioni di persone che di fatto non hanno molta scelta nella loro vita. La loro condizione di vita è una lotta per la sopravvivenza per cui la stessa esperienza del piacere è qualcosa di remoto, relegato ad un angolo della loro speranza di sopravvivenza o alla fede religiosa. Il piacere per loro non appartiene a questo mondo, appartiene all’esperienza ultramondana, sarà qualcosa che vivranno, se saranno ben accetti alla loro divinità in una condizione ultraterrena, condizione descritta come paradisiaca, piacevole anche per i sensi.
Diverse tradizioni religiose fanno proprio il legittimo desiderio di felicità dell’individuo e ne favoriscono il trasporto fideistico. Si diffondono anche nella descrizione di come sarà la vita dopo la morte, nel tentativo di rendere il mondo spirituale quanto più reale possibile, e sono molto specifiche rispetto ai vantaggi che il fedele può acquisire attraverso una buona e corretta condotta morale.
Dal canto suo la pratica meditativa vuole risvegliare in noi il senso di ciò che è reale, di un presente che sta al di là di quello che può essere una condizione ultramondana. La pratica meditativa in questo senso non propone delle soluzioni post-mortem, ma vuole in qualche modo aiutarci a risvegliarci nella vita, ci vuole aiutare a vivere meglio, ad essere più felici in questa vita.
Questa felicità la possiamo ritrovare nella nostra esperienza quotidiana, recuperando il senso del nostro vivere, il nostro obiettivo ultimo.
Come dice il grande poeta e mistico sufi Kabir:
Amico, spera di trovare la verità finché sei vivo.
Gettati a capofitto nell'esperienza finché sei vivo!
Pensa... e pensa ancora... finché sei vivo.
Quella che chiami 'salvezza' appartiene a un tempo
che è prima della morte.
Se non spezzi le catene finché sei vivo
pensi forse che dopo lo faranno i fantasmi?
L'idea che l'anima si fonderà nell'estasi
solo perché il corpo è imputridito
è pura fantasia.
Troverai dopo quel che trovi ora.
Se ora non trovi niente,
finirai semplicemente con l'abitare nella Città della Morte.
Se ora fai l'amore col divino, nella prossima vita
avrai il volto del desiderio soddisfatto.
Sprofonda dunque nella verità,
scopri chi è il Maestro, credi nel Grande Suono!
Sprofonda dunque nella verità,
scopri chi è il Maestro, credi nel Grande Suono!
Questo dice Kabir: Quando si è cercato per davvero l'Ospite,
a fare tutto quel che c'è da fare
è l'intensità del desiderio di lui.
Guarda me, e di quell'intensità vedrai uno schiavo. [*]
Scoprire chi siamo veramente è il grande compito da adempiere in questa vita. Come dice T. S. Eliot, in The Dry Salvages:
Comprendere il punto
d'intersezione del senza tempo
col tempo, è un'occupazione da santi.
E nemmeno un'occupazione, ma qualcosa
ch'è dato e tolto, in un annientamento
di tutta la vita nell'amore,
nell'ardore, altruismo e dedizione.
Siamo soliti considerarci nei termini della nostra appartenenza a questo o a quello: siamo nella misura in cui abbiamo realizzato qualche cosa all’esterno. Si deve invece ritrovare l’immagine interiore di sé. Chi siamo veramente? Il frutto della pratica meditativa, a volte descritto come realizzazione spirituale, non è l’effetto, a mio avviso, di una tecnica, bensì è l’espressione naturale della stessa gioia di vivere, della stessa percezione dell’essere, al di là di qualsiasi ricerca, al di là di qualsiasi dubbio, al di là di qualsiasi illusione.
Per andare al di là del senso di separatezza che caratterizza la nostra visione limitata della realtà è importante superare l’ostacolo che si frappone all’interno della coscienza. Questo ostacolo viene descritto come la maschera, l’ego, che opera secondo la visione dualistica dell’io-mio. Questa maschera di fatto è puramente funzionale, come la nostra forma fisica, che ha un valore strumentale, quello che l’energia possa scorrere dall’alto verso il basso e viceversa unendo “cielo e terra”. Se entriamo in questo flusso, possiamo vivere in armonia, facciamo parte del tutto, non siamo più succubi di una volontà limitata e di una coscienza individualizzata.
Quando c’è questo tipo di risoluzione al nostro interno – e questa risoluzione viene nella misura in cui non c’è più identificazione con il corpo, le sensazioni, le emozioni, le percezioni e la coscienza – ecco che possiamo accedere ai livelli superiori di coscienza e lo stesso corpo/mente sarà completamente trasformato, completamente libero da automatismi, sarà un naturale strumento del divino: lo spirito, la realtà suprema.
Siamo tutti chiamati a questa ultima trasformazione dell’essere, se non altro perché siamo in vita. È importante accogliere il divenire, che è la vita stessa, nell’ottica di una completa risoluzione della problematica esistenziale. Questa risoluzione avviene nell’ambito della propria esperienza; è dunque importante accogliere la propria esperienza nelle sue varie fasi: nascita, malattia, vecchiaia, morte. Questi sono tutti punti di riferimento fondamentali per sciogliere il legame che ci tiene prigionieri alla materia, ma affinché questo distacco sia completo e totale è importante esprimere tutta la nostra carica vitale nel corpo, nell’arco della propria vita.
Se siamo stati in grado di accogliere questa energia e di farne forma, materia, di esprimerla, sarà possibile uscire fuori dalla dinamica imprigionante del desiderio inconscio, non espresso e non realizzato.
Se abbiamo questa retta visione e vediamo le cose così come sono, ci risparmieremo qualche conflitto in più. In un ambito religioso si può magari avere una propensione di tipo ascetico, ma questa a lungo andare non ci porterà alla comprensione delle dinamiche che operano, come forze contrapposte, al nostro interno, non ci porterà all’equilibrio.
Percorrere la via di mezzo del Buddha significa evitare gli estremi, significa accettare la propria vita, il proprio essere, quello che noi siamo, ed uscire dall’ottica del divenire qualcosa altro da sé. L’accettazione di sé ci porta all’accettazione dell’altro, e in questo volersi bene c’è il fiore dell’amore, un senso di unità, mentre quando ci abbandoniamo al giudizio operiamo secondo la modalità dualistica del buono e del cattivo, del giusto e dello sbagliato, di ciò che va bene e di ciò che va male. Questa modalità dualistica è priva di tenerezza, è priva di calore, di rispetto, di compassione, e manca di pazienza. Benevolenza, rispetto, compassione, tenerezza, pazienza, sono tutte qualità del cuore, e sono qualità alle quali possiamo attingere. In questo senso la pratica meditativa richiede una grande umiltà, una capacità di cambiare le piccole cose, di fare passi piccoli, accogliere piccoli cambiamenti. Non bisogna seguire ciecamente dei modelli, dei miti, è importante abbandonare la tendenza ad imitare l’altro. Siamo portati a guardare fuori di noi, e questa tendenza risulta spesso più forte della nostra stessa capacità d’introspezione. È importante riconoscere che tutto ciò che è all’esterno riflette, come in uno specchio, il nostro mondo interiore.
Possiamo accrescere le nostre qualità nella misura in cui cominciamo ad accettare anche i difetti. In questo modo si riduce la distanza tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Se ci accogliamo, saremo ancora più grandi, ancora più interi. In questo senso ogni cosa ha un valore, ha un'importanza, e il mio rispetto di quella cosa, di ogni espressione della vita, accresce la mia vita.
Abbiamo infinite possibilità davanti a noi, sono connaturate al nostro modo di essere. La crescita interiore, la fine della sofferenza, la felicità, la beatitudine dell’essere sono a portata di mano. Ciò richiede semplicemente una maggiore attenzione a ciò che è già qui, si tratta di scoprirlo di momento in momento. Raccogliere il fiore della propria vita, in qualsiasi fase questo incontro sia possibile, ci permette di superare la paura, ci permette di guardare avanti con una grande fede. Ci dà la forza e il coraggio per essere finalmente liberi.
Dentro di noi è nascosta la felicità che tanto cerchiamo. Ma dov’è ? L’ho cercata per anni, fin quando ho compreso che non si tratta di cercarla ma di trovarla. Da allora, ogniqualvolta cerco qualcosa, per esempio un mazzo di chiavi o gli occhiali, faccio uso di un piccolo stratagemma che mi è stato di grande aiuto: mi fermo, smetto di cercare, mi dico «non cercare ma trova». Bene, come per incanto, quando effettivamente smetto di cercare, trovo le cose.
Io penso che la stessa cosa accada nella ricerca spirituale. Tutto questo affanno, questo girarci attorno, questo cercare al di fuori di noi, di fatto non fa che portarci fuori dal nostro binario. La felicità o la pace, la serenità, qualsiasi cosa a cui effettivamente aspiriamo e che riteniamo importante, sicuramente devono essere prima trovate al nostro interno. Come dice Gendun Rinpoche, maestro di saggezza tibetano, «La felicità non si può raggiungere con lo sforzo, o con la volontà, perché è già qui nel rilassarsi, nel lasciare andare. Datti pace dunque, non c’è niente da fare. Qualunque cosa sorga nella mente, non ha la minima importanza, perché è del tutto privo di realtà. Non restarne coinvolto, sospendi il giudizio. Lascia che il gioco venga come vuole, che nasca e muoia senza cambiare nulla. E tutto svanirà e riapparirà all’infinito. Solo perché la ricerchiamo, la felicità ci sfugge, come un arcobaleno che inseguiamo senza raggiungerlo mai. Certo è irreale, ma da sempre è con te e ti accompagna dovunque. Non credere alla realtà delle esperienze, belle o brutte che siano: sono altrettanti arcobaleni. Nel tentativo di afferrare l’inafferrabile consumi invano le tue forze, ma non appena lasci la preda, ecco lo spazio, aperto, invitante, accogliente. Usalo dunque, non ti manca nulla. Smetti di cercare. Non addentrarti nella giungla impenetrabile a caccia dell’elefante che è già a casa, tranquillo. Niente da fare, niente da conquistare, niente da godere e tutto accade spontaneamente».
[*] Libera rielaborazione di Kabir tratta da Nel Grembo del Buddha di Gavin Harrison.
Mario Thanavaro si è formato nella Scuola Theravada secondo la tradizione dei Maestri della Foresta di Achaan Chah e Achaan Sumedho. Nel 1990 ha fondato il monastero Santacittarama («Il giardino del cuore sereno») di cui è stato abate per sei anni.
Negli ultimi 30 anni ha incontrato e ricevuto preziosi insegnamenti da molti maestri tra i quali: S. S. il Dalai Lama, S. S. il Karmapa, il Ven. Kirti Tsenshab Rinpoche, Krishnamurti, Namkhai Norbu e il maestro mahayana Hsuan Hua. Ha ricoperto la carica di presidente dell'Unione Buddista Italiana (UBI) e di Vicepresidente della Fondazione Maitreya.
Tornato alla stato laicale dopo 18 anni di vita monastica, oggi è presidente dell'Associazione AMITA Luce Infinita che propone il benessere psicofisico, la crescita interiore e il risveglio spirituale attraverso conferenze, seminari, corsi di formazione e ritiri di meditazione.
È autore di diversi libri: Non creare altra sofferenza, Verso la luce, Da cuore a cuore, Uno sguardo dall'arcobaleno e Meditiamo insieme (ed. Ubaldini); La via del pellegrino - Visita ai luoghi sacri del Buddha (ed. Promolibri Magnanelli); Spiritualità olistica - L'alba di un nuovo risveglio (ed. Venexia); Meditare fa bene (ed. Punto d'Incontro).
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