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Edoardo Bresci

DUE LETTERE DEL TEMPO DI GUERRA

   

Edoardo Bresci a Torino, nella sede della sua casa editrice in via Vespucci, nel 1980

Edoardo Bresci a Torino,
nella sede della sua casa editrice
in via Vespucci, nel 1980

   


QUESTE LETTERE

Ho trovato questi scritti di mio padre tra le decine di lettere e cartelle polverose dell'archivio della nostra casa editrice, pacchi e pacchetti che mi hanno seguita nei vari traslochi degli ultimi anni. Veline azzurre e carte ingiallite con lo stemma monarchico, battute a macchina, molto probabilmente scritte nella caserma di Novara, nei lontani anni quaranta, durante la guerra.

Riconosco qui la sua anima sensibile sempre protesa verso la qualità nei rapporti, nel lavoro, nelle piccole cose. Col tempo il suo stile era diventato più essenziale, meno enfatico, ma immagino che a quel tempo, aveva allora circa 28 anni, egli fosse ispirato dalle molte letture che gli avevano aperto nuovi orizzonti mentali e ampliato la sua coscienza. Da buon pioniere, fu coraggioso nell'intraprendere la professione di editore circa trent'anni dopo, a un'età in cui la maggior parte delle persone pensa a ritirarsi e in un'epoca in cui certe tematiche erano sconosciute al grande pubblico. In vent'anni di attività cercò sempre di mettere in pratica, col suo lavoro e nella sua vita, gli ideali e le idee di cui parlavano i libri da lui pubblicati.

Isabella Bresci
26/12/2005


NOTA BIOGRAFICA

Edoardo Bresci nasce a Cirò, in provincia di Catanzaro, nel febbraio 1916, e passa al di là del velo della materia a Torino nel 1990, in una bella e ventosa giornata di San Valentino. È il primo di sei figli, destinato quindi a diventare sacerdote, secondo l'usanza del tempo. Ma l'esperienza del seminario lo allontana dalla religione invece di avvicinarlo e dopo qualche anno fugge, letteralmente, rinunciando ai vantaggi che una tale "carriera" gli avrebbe garantito. Durante la guerra viene arruolato e mandato a Novara, dove conosce Bernardino del Boca, il futuro direttore della casa editrice L'Età dell'Acquario, figlio di nobili decaduti proprietari delle acque di Crodo.

Quest'ultimo lo introduce alla Teosofia ed Edoardo si immerge in quelle letture che lo riavvicinano alla spiritualità, gli aprono nuovi orizzonti e danno un nuovo senso alla sua vita. Bernardino nel '43 gli salva la vita inducendolo a scappare dalla caserma subito dopo l'armistizio. I loro compagni finiranno tutti nei campi di concentramento nazisti. Edoardo prima si nasconde come disertore poi, con la compiacenza di un amico tedesco, viene messo a lavorare nell'ospedale militare.

Dopo la guerra fa mille lavori per sbarcare il lunario e per inviare denaro alla famiglia in Calabria. Insieme al fratello Guido e alla sorella Maria, negli anni '50 si trasferisce a Torino, prende il diploma da geometra alle scuole serali e inizia a lavorare per qualche casa editrice come disegnatore tecnico per i libri di testo delle scuole.

Nel '55 sposa Gemma, nel '61 nasce la figlia Isabella, e intanto riallaccia i contatti con l'amico Bernardino. Nel 1970, insieme, decidono di dar vita al sogno formulato durante la guerra: fondare una casa editrice che negli anni difficili di fine millennio divulgasse nuovi valori relativi alla nuova era dell'umanità e che al tempo stesso si discostasse dalla Società Teosofica, troppo legata al passato e ai personaggi che le avevano dato vita.

Nel '75 lascia la sua attività precedente per dedicarsi solo all'editoria e, nonostante le sopravvenute difficoltà economiche, continua indefesso il suo lavoro. Negli anni ottanta l'idea dell'età dell'acquario si fa più commerciale, identificandosi con il new age, e quindi i libri della casa editrice sono molto più richiesti. Nel 1990 infine Edoardo lascia il corpo. La figlia Isabella prende le redini della casa editrice, che continuerà la sua attività fino alle soglie del nuovo millennio, nel dicembre 2000.


   

In viaggio verso Chivasso (anni '40)

Dalla foschia cupa della notte, il vento umido penetra attraverso le sottili fenditure degli sportelli. Il freddo mi fa rannicchiare sul sedile, sotto la leggera coperta che non riesce a scaldarmi.

D’intorno, aliti di respiri pesanti che danno una sensazione di affanno.

I miei occhi sono semichiusi ma non riesco ad addormentarmi: la mia mente vaga lontano perdendosi dietro mille fantasticherie mentre ascolto il rumore cadenzato delle ruote sulle giunture equidistanti delle rotaie che accompagna, con la sua musica monotona e sincopata, quella languida e triste dei miei pensieri.

Si cammina così da ore, nella notte; verso dove?

Verso l’ignoto. La mia mente si rifiuta di considerare la realtà; mi piace fantasticare e mi sembra che quel viaggio nel buio, su quel bolide che varca gli spazi lacerando i silenzi delle solitudini, sia il viaggio verso l’ignoto. Un viaggio di uomini tristi come l’esodo di un popolo infelice in cerca di nuovi orizzonti, un viaggio di anime stanche verso l’oblio…

Una dopo l’altra, le stazioni si susseguono; a tratti l’alone luminoso di un paese, di una borgata, di una città si intravede dal convoglio in corsa, come un’oasi fugace di luce.

Intorno a me gli uomini sono immoti ed assenti: dormono, qualcuno mentre trema dal freddo, forse sogna la sua terra lontana, laggiù verso oriente, la sua bella terra inondata di sole e profumata di zagara, i suoi cari che non vede da tempo.

Qualcuno di quegli uomini immoti che forse come me si lascia cullare da quel suono di nenia stanca, lontano dalla realtà.

Intanto il convoglio continua la sua corsa tenace senza avvertire il peso di corpi e di pensieri che trascina con sé. Prosegue, incurante e sicuro per la sua strada.

C’è dunque qualcuno che per noi non riposa, che non dorme, che vigila.

Nella notte fredda quest’uomo coperto di fuliggine, ignorato si occupa della nostra sicurezza; nel buio della notte il suo occhio, dietro quello luminoso del suo mostro che fora le tenebre, vigila nella foschia, sulla strada libera, lucida, labile che si estende all’infinito come due fili interminabili che conducono ad un approdo lontano e ignoto, irraggiungibile come l’ideale; verso quella meta anela il mostro sbuffante, su di essa è puntato lo sguardo fisso di quell’uomo, verso questo punto lontano, oltre le tenebre, spiccano il volo tanti sogni di anime in tormento.

Dietro questo miraggio si smarrisce la mia mente stanca e intorpidita dalle brume di questa terra, che vorrebbe fuggire…

   

 * * *

   

Lettera a destinatario sconosciuto, senza data ma sicuramente scritta dopo l’armistizio del ’43

Rispondo con ritardo per le ovvie ragioni che ormai conosci bene anche tu.

Ma quello che forse ancora tu non conosci è che, mentre tu mi credevi e mi credi a Novara, io manco da tale città da prima della dichiarazione della guerra.

Difatti al momento dell’azione, non mi sono voluto avvalere del diritto di rimanere all’interno e sono partito col comando per il fronte occidentale.

Ho preso quindi parte all’azione di sfondamento di uno dei tratti più difficili del fronte alpino, zona Monginevro.

Per più d’una volta sono stato in procinto di descriverti le mie impressioni e l’orgoglio di aver preso parte ad un’azione di portata storica come questa.

Avrei voluto farti conoscere tutte le intese sensazioni di questa breve e violenta lotta contro posizioni ritenute da tutti imprendibili, condotta con spirito magnifico di abnegazione e di audacia tanto da strappare al nemico, dopo l’armistizio, la sua confessione di meraviglia e di ammirazione.

Avrei voluto scriverti una lunga pagina di guerra e farti conoscere tutti i complessi sentimenti che essa ha provocato nel mio spirito, con le sue multiformi impressioni: dall’orgoglio alla soddisfazione dell’impeto, dalla rabbia a volte impotente, all’entusiasmo, al timore, alla pietà, ai sublimi sentimenti di cameratismo e anche di orrore, dall’ebrezza della lotta ai brividi del pericolo, alle emozioni del rischio, i momenti di impazienza, di ansia, di attesa.

Una gamma infinita di sentimenti che dominano a volta a volta nell’animo e che fanno vibrare tutte le corde del cuore, quelle delicate, tenere e nostalgiche nella rimembranza di luoghi e di persone che sembrano infinitamente lontane, come di un altro mondo, a quelle dell’odio incosciente e quasi della ferocia verso il nemico e verso se stessi.

Momenti che rimuovono e fanno affiorare dal fondo dell’animo le sconosciute potenze dello spirito.

Quell’avanzo di selvaggio che è nel fondo di ogni uomo sino ai più sublimi sentimenti di suprema delicatezza di cui noi stessi non sospettavamo l’esistenza dentro di noi.

   

   

 

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