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INCONTRO CON DIO
H'ermes
Nella vita di ognuno di noi esiste sempre un particolare momento drammatico, che ti porta a fermarti e riflettere maggiormente.
È in questi momenti che ti rimetti in gioco, constatando l'inutilità della tua vita passata.
Tanti i fallimenti, le delusioni, gli obiettivi sempre mancati.
Allora cerchi di capire dove hai sbagliato, e ti accorgi che di grandi colpe non ne hai, e allora pensi che la vita è anche questo: sei nato disgraziato e non puoi prendertela con nessuno, nemmeno con te stesso.
Talvolta magari credi che gli altri siano più fortunati di te, e sei contento per loro.
Per uno come me abituato a resistere e sopravvivere, accettare le ingiustizie era diventata una normalità. Tanto passeranno, dicevo.
Dopo vent' anni non ci fai più caso e non ti lamenti più di tanto, ormai ci hai fatto l'abitudine.
Però quando vedi negli occhi degli altri quel dolore che già conosci, leggi la loro più totale disperazione, constati l' ingiustizia e ti accorgi che tu non puoi farci niente, che addirittura sei diventato uno strumento legale affinché tutto continui, senza poter soccorrere chi oggi è più debole e bisognoso di te... è allora che ti domandi se Dio sia mai esistito, e se esiste vorresti conoscerlo per domandargli perché non interviene mai.
Potevo sopportare il peso della mia vita, ma non potevo accettare e sopportare le ingiustizie verso gli altri, era più forte di me, mi faceva ribollire dentro.
Da bambino avevo avuto un'educazione cattolica, e tutto il mio sapere mi riportava ad un unico responsabile: Dio.
In collegio i preti e le suore dicevano sempre: Lui sa tutto, vede tutto, perdona sempre, è giusto e misericordioso, è il creatore di tutte le cose, del cielo e della terra, del mondo visibile ed invisibile.
Già da bambino mi sembrava impossibile che potesse esistere, non l'avevo mai trovato quando lo invocavo per difendermi proprio da loro.
Forse, pensavo, non è mai esistito; se esistesse come potrebbe permettere tutte queste ingiustizie e stare sempre fermo, senza mai intervenire?
Se però esiste e non interviene, è colpevole di tutto.
* * *
Nella cameretta da letto della caserma degli agenti del carcere giudiziario dell'Ucciardone, da solo, sdraiato nel mio lettino nel buio più profondo, continuavo a rivedere il pianto e la disperazione dei due figli di cinque e sette anni di un detenuto, che in mattinata erano venuti assieme alla madre, per il colloquio con il padre che, prima incensurato, era ora detenuto per oltraggio.
Non volevano uscire senza il papà.
Il loro sguardo penetrante era di rimprovero e odio allo stesso tempo, come se io fossi - e purtroppo per servizio ero - il responsabile della detenzione del loro padre.
Uscendo di forza, tirati dalla madre, con un ultimo sguardo di pietà e di raccomandazione per il loro padre, compresero, spero, che ero una vittima come loro, parte di un sistema che ci contrapponeva.
Erano stati momenti intensi, drammatici, maledetti.
Per la vergogna di me stesso, ero diventato rosso fuoco in volto.
Non mi piaceva più fare l'agente di custodia.
Rivivevo in me tutta la mia infanzia.
Non trovavo un momento della mia vita che mi avesse regalato un sorriso, una soddisfazione.
Tutti avevano avuto una famiglia completa, una casa dove andare, dei compleanni da ricordare, delle feste a cui andare.
Io avevo solo tutto da dimenticare.
Avevo vent'anni, vent'anni da dimenticare.
Non ricordo un padre, una casa, un compleanno, un Natale.
Ora sapevo che erano un mio diritto la famiglia, l'infanzia, l'adolescenza, la scuola, la giustizia: tutti diritti negati.
E Dio dov'era?
Quante volte da bambino nel terrore e nella solitudine, gridavo il suo nome, e il nome di Gesù Cristo.
Niente per me cambiava. Solo silenzi, abbandoni e sofferenze.
Vent'anni di continua e silenziosa dilapidazione del mio corpo e della mia anima.
Non ero forse anch'io suo figlio? Era così grande il mio peccato di vivere?
Tanto mi vergognavo del mio passato da nasconderlo a me stesso, e alla conoscenza degli altri.
La coscienza mi violentava, nel vedere il mio dolore e le mie lacrime sugli altri, che io non potevo aiutare; ma non volevo nemmeno più continuare ad assistere alla mia impotenza.
Maledivo il giorno in cui ero nato. E perché poi ero nato, per chi era un piacere la mia continua sofferenza?
Non valeva la pena continuare a vivere.
Io però non mi sarei mai ucciso, doveva essere Lui a farlo, se esisteva.
Io non ho paura, pensavo, deve dirmi il perché di questa vita mia e di tanti altri, senza alcuna giustizia, senza diritti, senza amore.
La verità è dentro di voi - così diceva nella Bibbia Gesù Cristo - cercatela e la troverete.
Io l' ho cercata per vent'anni senza mai trovarla.
Solo nel mio letto, nel buio più profondo della notte, cercavo con gli occhi della mente la sua esistenza, una sua risposta, un segnale.
Mandavo il mio grido silenzioso e violento verso l'universo infinito.
Con la mente scrutavo e visualizzavo il mio grido, mentre viaggiava lontano nella profondità immensa dell'universo.
Volevo che il mio grido arrivasse in ogni angolo più remoto, perché Lui lo udisse.
* * *
Improvvisamente mi risvegliai che viaggiavo nell'universo.
Ero su, al centro di una autostrada di luce, composta di intensi colori giallo oro, abbaglianti.
Era larga poco più di cinque metri, con una pendenza ben marcata in salita.
In alto, da dove partiva questa luce, sapevo che lì avrei trovato Dio.
Finalmente, pensavo, ora risponderà a tutti i miei perché a riguardo delle ingiustizie che sono stato costretto a subire, e mi dirà perché non è mai intervenuto. Questa volta non mi scappa, sto arrivando, non mi fai paura...
Non ho paura di morire, sono già morto quando sono nato, non mi interessa continuare a vivere.
La mia morte non la piangerà nessuno, non ho nessuno.
La luce che componeva la strada era intensissima, accecante. Sapevo che nella realtà della veglia non sarei mai potuto riuscire a tenere gli occhi aperti davanti a un bagliore simile a quello che essa emanava.
Mentre viaggiavo velocemente, un piacere sottile invadeva tutto il mio corpo; era una sensazione bellissima, orgasmica, e non riuscivo a localizzare dove esattamente iniziava.
Era intensa ed uguale in tutte le parti del mio corpo.
Ora udivo una musica divina, mai sentita prima.
Pensai che se almeno avessi saputo trascriverla, avrei poi potuto riprodurla. Peccato che di note musicali non ho mai capito niente.
Entrava ed attraversava tutto il mio corpo, come se fosse fatto di musica anche lui.
Erano incredibili il piacere e la fusione tra il corpo e la mente...
* * *
Poi però in me subentrò il sospetto che la musica e questo piacere sottile ed infinito fossero mandati da Dio, per farmi interrompere il mio viaggio verso di Lui.
Allora con più forte volontà mi obbligai a viaggiare ancora più velocemente, per arrivare subito.
Dalla profondità della luce una voce chiamò:
H'ermes!
Sembrava che venisse di lontano, tanto lontano da rimanere udibile a lungo, forse per effetto dell'eco.
Guardai attentamente davanti e di lato a me, ma non c'era nessuno, e nessuno rispose al suo richiamo.
Però questo nome l'avevo già sentito.
Sarà di qualche personaggio dell'antichità, pensai.
Aumentando la mia velocità, la musica e la luce presero a trasmettermi più intense vibrazioni, facendomi provare una sensazione ancora più forte di piaceri infiniti.
Mentre veloce viaggiavo, la mia attenzione venne richiamata dalla presenza di uomini fermi, ai lati della strada di luce.
Alcuni erano soli, altri erano in due, massimo in tre, non erano mai molti.
Se ne stavano ai bordi senza parlare, senza muoversi. Pensai che comunicassero mentalmente tra di loro, perché il loro volto era immobile, senza alcuna espressione.
Tutti vestiti con tuniche di foggia antica, alcuni con barbe lunghe e bianche.
Quando passavo veloce vicino a loro, riuscivo a guardarli dentro gli occhi.
Non c'era in loro nessun rimprovero per la mia sfida, per la mia volontà di voler parlare per forza con Dio.
Avevo la sensazione che fossero dei profeti, forse dei santi, o dei mistici vissuti nell'antichità.
* * *
Ancora pensai, però, che anche la loro presenza aveva come fine di distogliermi dal viaggio, pertanto aumentai ancor di più la mia velocità.
E nuovamente sentii chiamare:
H'ermes!
Continuando a viaggiare velocemente, mi guardai nuovamente davanti e d' intorno.
H'ermes non c'era, e nessuno rispose al suo richiamo.
Il mio sguardo continuava ad essere sempre concentrato e diretto verso il fondo, dove nasceva la luce che dava luogo a questa via luminosa, donde proveniva anche quel grido che chiamava H'ermes.
Sapevo che Dio era lì, all'inizio di questo riflesso abbagliante di luci e di musiche celestiali.
Per evitare di distrarmi cedendo alla curiosità di conoscere i nomi delle presenze dalle fattezze umane che erano ferme ai bordi della fascia di luce, cercai di guardare oltre di loro, nell'infinito dell'universo che si estendeva alle loro spalle.
Sparsi nel buio dello spazio, tutto intorno alla strada di luce, vedevo numerosi pianeti di forma sferica, come la terra.
Spinto dal desiderio di conoscenza, cercai di mettere a fuoco un'immagine più ravvicinata dei pianeti.
L'universo sembrava costellato di piccoli monitor televisivi, sintonizzati su canali diversi, su singoli paesaggi, diversi tra loro, su uomini donne e bambini in movimento, ognuno visto nella sua quotidianità.
Erano simili a noi, molto distanti dalla via di luce.
Subito pensai quanto siamo superbi noi terrestri, quando con ignoranza pensiamo che nell'universo non esista altra vita simile alla nostra.
E di nuovo sentii chiamare:
H'ermes!
Questa volta mi girai anche di dietro, per vedere se c'era qualcuno, ma non vedendo nessuno, né lì né ai lati né davanti a me, risposi urlando:
Non c'è!
Era la prima volta che rispondevo, forse perché il sapere che esistevano altri abitanti nell'universo mi aveva affascinato ed imbonito, o forse per una forma di educazione istintiva, anche se il mio viaggio non era motivato da intenzioni troppo educate e rispettose...
La stessa voce che aveva chiamato H'ermes, ora, rimbombando dal seno dell'eco, rispose:
Libero arbitrio!
Questa espressione l'avevo sentita tante volte in collegio, quando i preti parlavano e ci leggevano la Bibbia.
Subito pensai: se mi ha risposto significa che mi sente, e se mi sente mi può vedere...
Incominciai ad accusarlo di tutta la mia vita, delle ingiustizie che anche altri come me avevano vissuto e ancora vivevano, Lui che mai si era fatto vedere, mai era intervenuto per aiutare chi lo implorava, abbandonandoci alla cattiveria altrui.
Non ti facevamo pena abbastanza, non siamo anche noi figli tuoi, che peccato abbiamo fatto per meritare questo continuo castigo?
Libero arbitrio, libero arbitrio... era la sola risposta.
Ma per me non era una risposta, non ne comprendevo il vero significato, non mi interessava.
Però una cosa almeno l'avevo capita: Lui mi sentiva e mi vedeva, anche se era ancora lontano.
Voglio conoscerti, voglio guardarti negli occhi, devi spiegarmi il perché della mia sofferenza, il perché della tua ingiustizia.
Te lo do io il libero arbitrio...
Consapevole di essergli ormai sempre più vicino, anche se ero stanco, aumentai al massimo la mia velocità verso di Lui.
Ora avevo la certezza che, continuando questo viaggio, io sarei morto fisicamente, perché avevo attraversato il limite della vita.
Questo limite non è marcato, ma si percepisce nell'attimo che lo attraversi e lo superi.
Non mi interessava vivere. Tanto nessuno mi piangerà, pensavo, ma arriverò lo stesso da lui.
Ma quando provai l'intensità massima del piacere dei sensi, della mente, del corpo e dello spirito, mentre sentivo arrivare in me l'annullamento della vita, mi apparve la visione del mio funerale in terra.
Dietro il mio corteo funebre, vedevo mia madre che piangeva e si disperava: era distrutta dal dolore.
Riconoscevo ed odiavo quel pianto, tante volte l'avevo visto durante la mia infanzia.
Attorno a lei soltanto cinque donne vestite di nero, che piangevano assieme a lei.
Anche loro erano madri e avevano perso i loro figli. Come per un legame invisibile che lega il dolore di tutte le mamme, erano lì per partecipare e rivivere il proprio dolore.
Erano addolorate sinceramente anche per me, per la mia morte e per il dolore di mia madre, che pure non conoscevano.
Io non le conoscevo, però cominciai a capire l'importanza e la preziosità di essere figlio.
Mia madre era sopravvissuta al campo di sterminio di Dachau, e non aveva accettato il suicidio solo per darmi la vita. Aspettò e sperò inutilmente il ritorno di mio padre, e lavorò umilmente sacrificando tutto il resto della sua vita per amore mio.
Io ero stato la ragione unica di sopravvivenza nella sua vita.
Ora mi vedeva lì morto, dentro una bara. Con me morivano tutte le sue speranze, il risultato di vent'anni d'amore, di sacrifici, di attese, di sogni.
Tutto il suo passato e futuro stava chiuso dentro quella bara.
Io dovevo essere il bastone della sua vecchiaia, così le dicevano le sue amiche quando era triste e piangeva.
Invece eravamo stati sfortunati tutti e due, perché?
Quante volte da bambino, in collegio, nel silenzio della notte, avevo gridato silenziosamente anche il suo nome, nei momenti più tristi della mia disperazione e del mio abbandono.
Ora la mia morte, il suo futuro senza me, erano la sua disperazione, il suo pianto straziante.
* * *
Non potevo più accettare di morire. Non sopportavo l'idea di sapere che avrebbe continuato a soffrire ancora, fino alla fine dei suoi giorni. Non meritava il mio abbandono.
Proprio ora che ero arrivato vicinissimo a Lui, decisi dunque di fermarmi nel mio viaggio.
Scelsi la vita, non per me, ma per lei che in vita mi aveva dato tutto, anche ciò che non possedeva.
E mi risvegliai di nuovo nel mio letto.
* * *
Ora ricordavo perfettamente tutto il corso della mia vita, e specialmente gli attimi d'amore condivisi con mia mamma, rivissuti velocemente, però in misura sufficiente per ridare memoria al mio passato, una memoria fatta anche d'un amore che il tempo delle ingiustizie e delle cattiverie aveva cancellato.
Qualcosa in me era cambiato in meglio: non odiavo, non giudicavo, comprendevo e perdonavo anche il male, e capivo come esso colpisca in primo luogo proprio chi lo fa.
Dentro di me era successo qualcosa di grande, anche se nella mia vita personale tutto continuava come prima, come sempre.
Avevo avuto in dono il potere della fede, per potere intervenire e soccorrere gli altri. Ed ero libero di interpretare il mio aiuto senza restrizioni né condizioni, secondo il mio libero arbitrio.
Finalmente potevo così godere della felicità altrui.
* * *
Questo racconto potrà sembrare inverosimile, irriverente, assurdo. Capita anche a me di pensare così, talmente suona incredibile.Ma posso assicurare che l'ho realmente vissuto. Forse ho dimenticato di trascrivere qualcosa, però non ho inventato o aggiunto niente.
Incontro con Dio è tratto dal libro inedito I sogni di H'ermes, raccolta di "verità oniriche" in cui l'autore presenta una sua interpretazione di molte delle vicende e dei drammi che hanno coinvolto l'opinione pubblica negli ultimi decenni.
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