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Federico Battistutta

VERITÀ E CAMMINO

PARAGRAFI IN DISORDINE SU UN PELLEGRINAGGIO IN GIAPPONE

 

La terra è fatta di cielo.
La menzogna non ha nido.
Mai nessuno s’è perduto.
Tutto è verità e cammino.

Fernando Pessoa

 

Natura della religione e religione della natura

Posizione, fattori atmosferici, morfologici, geologici e, se possibile, altro ancora collocano il Giappone in una posizione che lo rende spesso vittima di fenomeni naturali. Terremoti accompagnati a maremoti (i temuti tsunami), eruzioni vulcaniche (centosessanta vulcani di cui una sessantina ancora attivi), tifoni devastanti, alluvioni, inverni rigidi con venti siberiani, sistematici flussi monsonici sono alcuni degli eventi che colpiscono periodicamente le regioni giapponesi. Nel breve periodo di soggiorno ho avuto modo di incontrare piogge monsoniche fuori stagione che hanno allagato in brevissimo tempo strade e linee ferroviarie, costringendo a modificare il programma, e nei giorni successivi avrei atteso l’arrivo di un tifone dall’oceano, che fortunatamente si sarebbe poi scaricato più a nord, senza causare danni di particolare gravità (ma un tifone è sempre un tifone). Eppure proprio in questa terra è nato e si è sviluppato lo shintoismo, un sistema religioso che originariamente si è presentato come un insieme di miti e di riti naturalistici, fortemente caratterizzati dalla venerazione di numerosissime divinità (kami) che presiedono a ogni forma di fenomeno naturale.

Emergono in serie allora immagini e ricordi: del tempio immerso nel mare a Miyajima, vicino a Hiroshima, con il suo grande portale rosso a forma di arco (torii, vengono detti questi particolari elementi architettonici). O dei numerosi luoghi di culto shintoista a Nara, antica capitale, all’interno di un grande parco dove circola in assoluta libertà un migliaio di daini. O le strisce di origami colorati appesi alle pareti di un tempio ricavato in una grotta, a Kamakura, alla periferia della futurista Tokyo. E ancora: incontrare possenti alberi secolari cinti da funi di paglia di riso intrecciata, per avvertire l’incauto passante della sacralità della pianta.

Forse è proprio questa natura – così rigogliosa, prorompente e all’improvviso tremenda (dal verbo tremere, letteralmente ‘che fa tremare dalla paura’) – di fronte a cui anche le astuzie della ragione e della tecnica devono ammettere tutt’oggi i propri limiti, forse è proprio questa natura che ha saputo suscitare nell’uomo quell’attenzione reverente da cui è nato l’inchino dello shintoismo verso lo scorrere della vita.

  

Elogio della cicala

Tutti conosciamo la favola della cicala e della formica, così come viene raccontata da Jean de la Fontaine. La formica si prodiga nella stagione estiva a procurarsi il cibo e accantonarlo per le giornate fredde e buie, mentre la cicala trascorre il suo tempo a cantare e suonare. Venuto l’inverno, la cicala affamata mendica del cibo alla formica, la quale glielo nega ricordandole la fatica di una e l’ozio dell’altra nei lunghi giorni d’estate.

Nelle campagne giapponesi il canto delle cicale è una colonna sonora costante che ti accompagna giorno e notte, al punto da divenire col tempo una compagnia sonora, uno sfondo a cui le orecchie si abituano al punto di accorgersi del canto proprio quando s’interrompe. Pensando alla favola di La Fontaine, la sensibilità giapponese ha elaborato un’immagine assai differente riguardo alla sorte questo animaletto. È bene sapere che la cicala vive per un lungo periodo sotto terra, fino a sette anni o più, prima di riuscire a guadagnare la superficie aprendosi una via d’uscita nel terreno, lasciando l’involucro trasparente che la ricopriva e aprendo finalmente le ali per volare. Ma la vita all’aria aperta della cicala è breve, al massimo un paio di settimane, poi muore. (Questo, quando va bene: ricordo di aver visto una cicala rimasta incastrata nella fessura che si era aperta e veniva aggredita e divorata da gruppi di formiche).

Così come i giapponesi ammirano i i delicati fiori del ciliegio che cadono a terra dopo pochi giorni, proprio per la loro fragile bellezza, allo stesso modo amano profondamente questo animale, parlando non di canto, ma di un pianto della cicala, i cui lunghi preparativi per venire alla luce si consumano in una manciata di giornate di vita, trovando in questo destino tutta la bellezza, l'impermanenza e l’ineluttabilità dell’esistenza.

Invece, nel racconto di La Fontaine la cicala e la formica risultano fra loro speculari, indicatori, al di là delle finalità pedagogiche della storia, di come uno può fallire un’esistenza: in fondo, nella cicala pentita c’è il desiderio di essere formica e nella formica invidiosa si nasconde l’animo di una cicala. 

  

Del ventaglio, del seme e del simbolo in generale

Un maestro zen stava usando il suo ventaglio, quando un monaco sopraggiunto gli chiese il perché dell’adoperare il ventaglio se la natura del vento è comunque sempre presente, non avendo né luogo fisso né limiti. Il maestro rispose: «Tu sai soltanto che la natura del vento non viene mai meno; non sai qual è il significato del fatto che non c’è luogo dove non arriva». Il monaco replicò: «Ma allora qual è il significato del principio che non c’è né luogo né limite?». Il maestro semplicemente agitò il ventaglio. Il monaco, allora, si inchinò.

Questo breve racconto lo incontriamo in chiusura di uno dei testi più importanti di Dogen, lo Shobogenzo (La custodia della visione autentica), a proposito di una riflessione sul significato e sul valore della pratica religiosa. Mi è venuta in mente questa storia percorrendo a fine luglio le strade di Tokyo. Nella città tutti gli interni – negozi, ristoranti, uffici, ma anche metropolitane e bus – utilizzano abbondantemente aria condizionata. Invece, per le strade le persone che ti capita incontrare – uomini, donne, giovani, vecchi, anche bambini – maneggiano un ventaglio. Proprio in una civiltà come quella giapponese, abituata ad attenuare i fastidi del caldo umido con l’uso del ventaglio (ce ne sono delle fogge e dei colori più diversi) si poteva utilizzare e comprendere appieno una figura metaforica del genere.

C’è un rapporto stretto tra simbolo e realtà vissuta. Mi ricordo che da qualche parte Pasolini affermava che, essendo il cristianesimo una religione nata da una civiltà agricola, ha prodotto tutta una serie di immagini il cui senso è intimamente legato ai ritmi di questo mondo. E aggiungeva: entrando in una società industriale (e postindustriale, aggiungiamo noi, come vuole la prosa contemporanea) tali immagini rischiano di perdere lo spessore di significato per divenire meri segni o tutt’al più favolette edificanti un po’ infantili. Che i semi perdano la loro forma sottoterra e rinascano ci diventa indifferente, lo accettiamo per inerzia, casualmente. Non c’è il pericolo allora che divengano incomprensibili (non tanto alla testa, ma alle viscere) parabole come quelle del seminatore, della pecora smarrita, del grano e del loglio, del granello di senape? Chi sa più cosa vuol dire oggi “mettere la fiaccola sotto il moggio”? Se da un lato è vero che le istituzioni religiose si sono allontanate dalle domande pressanti dell’umanità divenendo autoreferenziali, è pure vero che l’uomo, prendendo distanza dalle religioni, si è allontanato anche da quelle radici profonde che lo connettono alla nuda vita.

  

Cercando un altro Giappone

Da un manuale scolastico: la densità demografica del Giappone si attesta intorno ai 339 ab./kmq. L’isola di Honshu, dove si trovano i principali centri, raggiunge i 430 ab./kmq. Su quest’isola è sorta la megalopoli Tokaido, che si estende per circa 300 km lungo la costa, ove si trova concentrata più di metà degli abitanti dell’intero Giappone, comprendendo le maggiori città: Tokyo, Yokohama, Nagoya, Kyoto, Osaka, Kobe.

La capitale, Tokyo, supera ormai i 5.000 ab./kmq. La mappa della metropolitana è un’incomprensibile ragnatela di fili colorati in cui ci si perde solo a guardarla. Fiumi di gente si riversano senza sosta per le strade, le metropolitane, le stazioni ferroviarie, i grandi magazzini, gli uffici. Sono discreti, composti e soprattutto silenziosi. Un’ora vale l’altra: trovi sempre chi esce dal lavoro, anche quando è buio. Una parte non va a casa ma al Pachinko: sono sale giochi, le puoi trovare in ogni città, alcune sono collocate in locali grandi come palestre, dove il rumore delle macchine-giocattolo impedisce di parlare e la nebbiolina azzurrognola del fumo delle sigarette copre il soffitto contribuendo a creare un’atmosfera assurda sotto ogni aspetto. Il giocatore, davanti ad un pannello verticale, deve imprimere con una levetta un colpo d’avvio a una biglia, la quale se il colpo è stato preciso riesce a liberare una pioggia di biglie. Con le biglie vinte il gioco ricomincia, daccapo. Se si osservano i giocatori si ricava quell’impressione così ben descritta una trentina di anni fa da Roland Barthes: una fatica intensa domina la scena, neppure nel gioco scorgi un atteggiamento pigro, ozioso o disinvolto.

Più tardi in metropolitana per raggiungere Kabuki-cho, il quartiere notturno di Tokyo. Locali di piccole o medie dimensioni, appiccicati l’uno all’altro, all’ingresso giovani sorridenti invitano ad entrare. Luci al neon di ogni tipo, colore e dimensione, immagini di non so che trasmesse su schermi giganteschi appesi agli edifici. Più si fa tardi più aumenta, se è possibile, il flusso e la calca di persone per le strade. La maggioranza è giovane, abbigliata come i coetanei americani o europei, molti si sono fatti il capello biondo e mosso. Ma non sono i soli, c’è gente di ogni età. Domattina la si potrà ritrovare addormentata sui sedili di qualche vagone della metropolitana mentre si reca al lavoro. Ultima immagine che mi è rimasta di Tokyo: stazione ferroviaria di Shinagawa (zona sud-ovest della città), ore 7.30 circa: gli altoparlanti diffondono brani musicali, riconosco Stand by me; arriva trafelato un uomo, completo scuro, camicia bianca, cravatta e una borsa di cuoio in mano. Raggiunge la scala mobile e nel breve tratto di salita adagia il capo sul corrimano scorrevole di gomma e ne approfitta per riposarsi.

Ma c’è tutto un altro Giappone, fuori dagli abituali tour turistici, che si offre allo sguardo non appena esci dal circuito delle grandi città. C’è un Giappone da non dimenticare, molto più rurale delle campagne e delle montagne di casa nostra. Scorrono immagini che meritano essere conservate. Una donna in grembiule, la mattina presto, nel borgo vicino al monastero buddista di Eiheiji, intenta a strizzare i panni a un lavatoio all’aperto. Anziani nel fango, col tradizionale copricapo di paglia in testa, a lavorare con le proprie mani in risaie grandi come un fazzoletto. Botteghe disadorne e poco illuminate. Piccole case in legno bisognose di restauri, coi caratteristici tetti dalle ampie falde cariche di ombra. Bambini che giocano su un’altalena rudimentale montata sul ramo di un albero. Poveri e dignitosi villaggi di pescatori a sud, nell’isola di Tanegashima.

  

Coltivare pietre

A sud est di Tokyo c’è Kyoto, una città di medie dimensioni (secondo i parametri giapponesi), circondata da colline. Per più di mille anni è stata la capitale del paese e splendore della cultura giapponese. Vi sono migliaia di templi shintoisti e buddhisti, e alcuni di questi sono l’orgoglio della città. Come il Kinkakuji o Padiglione dorato, circondato da uno splendido giardino e da un laghetto. La sontuosa costruzione, interamente laminata d’oro, è in realtà la riproduzione fedele dell’originale distrutto nel 1950 ad opera di un monaco. L’intera vicenda la troviamo raccontata nell’omonimo romanzo di Yukio Mishima, tramato sul motivo della cancellazione del bello come pura apparenza, al punto di spingere il monaco a compiere quel supremo gesto sacrilego quanto assurdo: «Nulla sulla terra era bello quanto il Padiglione d’oro, intatto e immutabile in mezzo a tutti i mutamenti del mondo».

Ma, e qui il discorso si sposta su un piano schiettamente soggettivo, il piccolo tesoro che custodisce Kyoto è il giardino del Ryoanji, altro tempio buddista. Non so spiegare il motivo dell’attrazione. L’opera, attribuita a Soami, pittore, giardiniere e maestro di tè vissuto nel Cinquecento, consiste in un rettangolo di soli trenta metri per dieci. Il giardino è privo di alberi e di vegetazione, ad eccezione del muschio che circonda le pietre. Quindici rocce sono disposte su ghiaia bianca rastrellata. Esiste tutta un’arte relativa alla scelta della pietre, chiamata suiseki, letteralmente “coltivazione di pietre”. La pietra non va lavorata dall’uomo, ma colta e apprezzata per la sua naturalezza, per la sua rustica semplicità. La qualità che rende un masso interessante è la sua forma caratteristica che non dev’essere anonima ma neanche particolarmente bizzarra. C'è poi chi dice di vedere nelle pietre grandi isole e nella ghiaia rastrellata le onde del mare, ma è improprio cercare di costringere l'essenza del giardino di pietra dentro immagini mentali, semmai pare di percepire proprio il contrario, un invito ad abbandonarle. I quindici massi disposti nel giardino formano piccoli gruppi di due, di tre o cinque pietre. Gruppi di quattro pietre venivano evitati perché troppo bilanciati e perciò considerati innaturali. Mentre i giardini rinascimentali o barocchi europei sono fortemente simmetrici e la loro prospettiva è solitamente riferita ad un unico punto di vista, le pietre del Ryoanji sono collocate in modo tale che, da qualunque posizione si ponga l’osservatore, è impossibile scorgerle con un unico sguardo, qualcuna sfugge sempre. Per questo si è invitati ad osservare il giardino da angolazioni diverse. L’immobilità del giardino può essere colta solo nel movimento. L’idea del movimento viene suggerita pure dal muretto di cinta che circonda e delimita il giardino, senza impedire di scorgere ciò che vi sta fuori, le fronde degli alberi, e con essi lo scorrere delle stagioni e del tempo.

Fa caldo, rimango lì un po’, seduto su un gradino di legno, scalpiccio di turisti alle mie spalle. Commozione, compostezza. Forse un giorno mi dimenticherò anche di questo, penso, la sera, e a futura memoria rileggo e copio alcuni versi di Ryokan:

La mia veste
si bagna di lacrime,
quando penso
all’impermanenza
di questo mondo.

 

Hiroshima mon amour

Non avrei mai pensato che avrei visto di persona i luoghi mostrati da Resnais in Hiroshima mon amour, uno dei film che in assoluto amo di più.

Il 6 agosto 1945, alle 8 e 15 minuti, per la prima volta nel mondo, è avvenuta l’esplosione di una bomba atomica. Quella, deflagrò proprio nel cielo di Hiroshima, distruggendo e bruciando la maggior parte degli edifici della città, uccidendo centinaia di migliaia di persone. A memoria della tragedia nell’epicentro dell’esplosione è stato costruito un parco commemorativo per la pace, al cui interno c’è un museo, edificato per tramandare alle future generazioni il ricordo di questa tragedia senza precedenti. Oltre all’inquadramento storico da cui scaturisce la vicenda, il visitatore riceve numerose informazioni tecniche e scientifiche riguardanti i danni della bomba. Vi sono pannelli fotografici, descrizioni sonore e filmati con immagini di repertorio, ma ciò che colpisce di più è la collezione di oggetti di uso quotidiano che raccontano le vicende biografiche di chi li possedeva: una giacca, un sandalo, un berretto, bottiglie di sakè, un orologio bloccato al momento dell’esplosione.

In mezzo a queste cose ho visto esposta anche una statua di metallo del Buddha: è di media dimensione e la parte anteriore è vuota, totalmente sventrata dallo scoppio. Dai resti sembra di riconoscere le sembianze del Buddha Amida, il Buddha della compassione universale. Non si sottrae: anche lui, come ogni cosa, partecipa alla sorte del disastro.

A questa immagine ne associo un’altra. Alcuni anni fa i giornali e le televisioni di tutto il mondo trasmettevano dall’Afghanistan le immagini delle due enormi statue di Buddha in pietra bombardate dai talebani. Al posto delle statue ora c’è il vuoto. Non sono buddista, ma credo che nessun sincero devoto all’insegnamento di Buddha si scandalizzi del fatto che le statue prima o poi siano scomparse divenendo polvere, essendo un modo come un altro per entrare nel nirvana sancendo così la natura impermanente della realtà. Lo scandalo semmai è un altro: sta nel procedimento mentale che ha portato uomini che si dicono religiosi a perseguitare le immagini di pietra costruite da altri uomini molti secoli fa. Così come lo scandalo del museo di Hiroshima sta nella constatazione che l’orrore provocato dalla bomba, mostrato finanche nei dettagli, abbia contribuito a insegnare assai poco all’umanità erede di quel disastro: il dopoguerra, fino ad oggi, è stato infatti contrassegnato da proliferazione nucleare, corsa agli armamenti, ripetute sfide militari, fino ad arrivare ai bombardamenti umanitari dei nostri giorni. Intanto, i resti del Buddha compassionevole sono lì, in una teca di vetro, ad interrogarci silenziosamente sul futuro.

  

Vedi alla voce ‘pace’

Il monastero di Antaiji è affiliato alla scuola soto zen. Si trova in un territorio isolato, a nord della prefettura di Hyogo, vicino a un vasto parco naturale. Vi sono stati abati persone di rilievo nella storia dello zen, come Kodo Sawaki e Kosho Uchiyama, ma nell’elenco patrimoniale dei monasteri giapponesi occupa la posizione più bassa. Ciò che lo contraddistingue in maniera evidente dagli altri monasteri è la ricerca di una vita autosufficiente fondata sul lavoro manuale, risalendo in questo modo alle radici cinesi dello zen, le quali, a suo tempo, avevano sovvertito l’idea che i monaci dovessero venire mantenuti dalle persone laiche, per potersi così dedicare integralmente alle pratiche e agli studi religiosi.

Attualmente l’abate è un monaco tedesco ed è possibile incontrare, anche se di passaggio, diversi occidentali: polacchi, australiani, tedeschi, americani, più che in qualsiasi altro tempio giapponese. Il monastero che più di tutti vuole rispettare le regole antiche (fondate sul lavoro quotidiano e sulla pratica dello zazen che apre e chiude la giornata), è proprio quello più occidentale di tutto il Giappone. Stranezze del destino. O forse è solo il sintomo di un passaggio epocale che lo zen sta compiendo proprio ora, sotto i nostri occhi.

L’ultimo tratto per raggiungere Antaiji è una scalinata di pietra, oltrepassata la quale appare il monastero immerso tra grandi siepi di ortensie: l’edificio, in legno, è di tipo tradizionale e si trova al centro di una conca circondata da fitti boschi di conifere e bambù.

Mi dicono che la parola “Antaiji” significa “tempio della pace”. Il visitatore distratto può venire tratto in inganno dal nome, immaginandosi una sorta di oasi protetta con finalità religiose. Uno sguardo ravvicinato suscita invece differenti considerazioni. La vegetazione circonda il monastero, anzi vi incombe sopra costringendo il lavoro dell’uomo a frequenti interventi per arginarne almeno l’esuberanza. (Senza nome | l’erba cresce in fretta | lungo il fiume, dice una poesia del XV secolo). La stessa sensazione si riceve guardando la risaia, l’orto o il frutteto. Anche l’edificio in più punti mostra i segni del tempo e sembra suggerire una robusta manutenzione. Inoltre, gli ultimi chilometri per raggiungere il monastero consistono in una ripida salita su una strada in terra battuta e proprio laggiù, qualche anno fa, a causa di una frana perse la vita sotto la neve l’abate in carica.

«Ma dove sta la pace in un luogo del genere, allora?» mi chiedeva qualcuno con evidente cadenza retorica. Un’occhiata all’orario giornaliero del monastero può fornire la risposta. Pace non è una supposta fuga mundi che ci pone al riparo dagli affanni quotidiani, ma immersione nella vita e sua celebrazione, guardando in faccia le cose, senza risparmi o sottrazioni. Non è stasi ed evitamento del conflitto, ma collocarsi al centro del movimento e lì scoprire la pace.

  

Solvet saeculum cum favilla

A Kagoshima, nel sud del Giappone, terra ove nel Cinquecento sbarcò Francesco Saverio. Sono ospite a cena con due sacerdoti giapponesi. La situazione è curiosa, quasi grottesca: un italiano interessato allo zen si trova di fronte a due preti cattolici giapponesi. Il più giovane dei due è stato ordinato circa un anno fa, prima faceva l’avvocato. L’altro, più anziano, parla discretamente l’italiano, per cui una volta seduti a tavola possiamo conversare toccando diversi argomenti: del tifone in arrivo dall’oceano che sembra puntare sulla zona di Osaka, del Beato Angelico e dell’arte sacra italiana, di calcio (argomento a cui un italiano non può sottrarsi, suo malgrado), delle olimpiadi di Atene che stanno per iniziare.

A un certo punto chiedo loro qual è la difficoltà maggiore che incontrano nella loro attività pastorale. Non è tanto il confronto con le altre religioni, mi dicono, ma la secolarizzazione. Sono colpito dal fatto che viene proprio usata questa parola in italiano, ‘secolarizzazione’. Altre sono le attenzioni oggigiorno che occupano l’interesse degli uomini, mi dicono, rispetto a quello che hanno da dire le religioni. Questa risposta mi riconduce a una mia domanda di fondo: la secolarizzazione è senz’altro una questione primaria per le religioni, almeno nei paesi tecnologicamente ed economicamente avanzati. Sono in tanti a dirlo, ma non è sufficiente fermarsi a questa constatazione. La questione sta nel comprendere se conviene di fronte a ciò attendere l’apocalisse prossima ventura, accontentandosi nel frattempo di amministrare alla bell’e meglio l’esistente, oppure, per venirne a capo, accettare la sfida e immergersi nella secolarizzazione fino a farsi battezzare, rendendosi così disponibili a soluzioni inedite di cui sembra esserci oggi necessità. Fede vuol dire anche questo.

  

Verità e cammino

È stato un pellegrinaggio tutto questo? Un po’ per gioco prima di partire ho consultato il vocabolario, trovando alcune definizioni. Ne riporto le principali: esilio; viaggio di penitenza e devozione a luoghi santi; visita a persone e luoghi celebri e famosi. Possiamo ritrovarci in queste spiegazioni? Inutile protestare e dire che sono riduttive, è la caratteristica, questa, di ogni definizione. In fondo, sotto certi aspetti, tutte e nessuna corrispondono all’esperienza del viaggio che sta per terminare. Ma il viaggio sta per terminare?

Sul mio taccuino mi ero annotato una frase del filosofo arabo del XII secolo Ibn al-`Arabi: «L’origine dell’esistenza è il movimento. In essa quindi non può esistere l’immobilità, perché se l’esistenza fosse immobile tornerebbe alla sua origine, che è il nulla. Per questo il viaggio non cessa mai».

Il viaggio non cessa mai. Ripenso a queste cose mentre me ne sto seduto vicino al finestrino e una hostess delle Japan Air Lines, sorridente come sempre, mi passa accanto per controllare se tutti hanno allacciato le cinture di sicurezza. L’aereo sta per decollare alla volta di Milano-Malpensa. Dodici interminabili ore di viaggio mi attendono.

Ora che volge alla conclusione mi accorgo che sta a me decidere se il viaggio è veramente terminato, se è stata una parentesi che presto sbiadirà nell’andirivieni quotidiano, o proseguirà sotto altre forme, frammento di un viaggio più grande di cui non conosco i confini. Certo, le cose cambieranno sostanzialmente, ad esempio fra alcune ore tornerò ad essere un parlante e, compiaciuto, potrò finalmente decifrare le scritte sui giornali e le insegne dei negozi, né avrò più il timore di smarrirmi in metropolitana, come a Tokyo.

Mi domanderò fra un po’ di tempo che posto avranno i volti noti e meno noti incontrati? Penso a Koho Watanabe, già abate del monastero di Antaiji, e alle sue giustificate perplessità su un dialogo compiuto a livello di istituzioni religiose; al racconto del percorso biografico di Tom Wright, americano, riparato in Giappone per sottrarsi alla guerra nel Vietnam, poi monaco zen e ora insegnante di storia del cinema presso un’università di Kyoto; alla tormentata conversione narrata da p. Okumura, carmelitano giapponese e figura di primo piano nell’incontro tra cristianesimo e buddhismo zen; all’impegno dei padri passionisti della “Casa del silenzio” di Takarazuka, presso Osaka; all’ospitalità della piccola comunità cristiana all’isola di Tanegashima, nell’estremo sud; e altro, molto altro ancora

Dentro questo altro c’è la domanda sull’effettiva comprensione del mondo giapponese. Quando sono stato in India, diversi anni fa, fin dall’inizio mi rendevo conto di trovarmi dinanzi a un altro mondo, lo respiravi e lo toccavi in ogni momento e luogo, invece, la prima idea che uno si fa del Giappone è quella di una civiltà sotto molti aspetti uguale a quella occidentale: le città, l’abbigliamento, il traffico, i negozi sembrano trasmettere questa impressione che, una volta insinuata, ti riassicura e ti accompagna per molto tempo. Finché alcuni particolari, poco più di dettagli sfuggenti, ti offrono differenti aperture e ti fanno comprendere che, dietro l’apparenza di un sistema di vita simile al nostro, si muove un mondo di cui fatichi ad afferrare le coordinate e che comunque sono ben diverse da quelle che abitualmente ti è dato conoscere, anche se non è più il Giappone oleografico e tradizionale, celebrato ad esempio nel Libro d’ombra di Tanizaki (il quale peraltro diceva: «so che indietro non si torna, chiedo l’impossibile»). Ho capito che non ho capito. Lo dico per davvero, senza stare a blandirmi (come nel reversino, gioco a carte dove vince chi fa meno punti). Questo mi porto indietro dal viaggio. È cosa buona. In fondo, si comincia sempre così, balbettando.

 [Tratto per gentile concessione dell'autore da La Stella del Mattino, n. luglio-settembre 2004]

 


Federico Battistutta  da alcuni anni vive e lavora sull’Appennino emiliano. Collabora a numerose riviste (“Diorama letterario”, “Quaderni asiatici”, “La Rivista dolciniana”, “Il Giornale della natura”, ecc.), ha diretto tra il 1988 e il 1990 la rivista di scrittura “Margo” e attualmente è responsabile del trimestrale per il dialogo religioso “La Stella del mattino”. Curatore e coautore di diversi volumi (fra gli ultimi: Scambi. Educazione e globalizzazione, Piacenza, Berti, 2002), ha pubblicato un commento al Cantico delle creature di S. Francesco (Piacenza, Vicolo del Pavone, 2000) e il saggio Trittico eretico (Novara, Millenia, 2005).

 

 

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