René Zuber

Monsieur Gurdjieff, ma lei chi è?

Titolo originale: Qui êtes-vous, Monsieur Gurdjieff? (Courrier du Livre, Paris, 1977).

Trad. it. di Serena Maiani, Marco Pettini, Angela Russa, Jeanne Spiegel.

>> Libreria Editrice Psiche, Torino, 2000 <<

Pp. 80.

ISBN 88-85142-53-2


 

MONSIEUR GURDJIEFF, MA LEI CHI È?

 

Sono stato introdotto per la prima volta a casa di Monsieur Gurdjieff in un momento storico completamente diverso da quello attuale.

Durante la guerra, sotto l’occupazione tedesca, a Parigi regnava il black-out. Non appena il più piccolo raggio di luce filtrava all’esterno bisognava soffocarlo, chiudere le tende.

Parigi era il regno del copri-fuoco; nessuno avrebbe osato circolare per le strade deserte dopo le undici di sera se non a rischio della propria vita. C’era, insomma, quel che si chiamava “il razionamento”, cioè la povertà organizzata con la conseguente ossessione alimentare; per non parlare della martellante propaganda nazista che si sforzava, ma invano, di far perdere ai parigini quel germe di speranza loro affidato.

Eravamo tagliati fuori dal resto del mondo e non è quindi sorprendente che non avessi sentito parlare degli allievi americani di Gurdjieff, sebbene fossero a lui così cari. Quanto alla vasta Russia, essa esisteva per noi attraverso la sua famiglia - aveva anch’egli una famiglia come tutti - ed attraverso alcuni vecchi amici che gli si aggrappavano “come dei parassiti” e che noi vedevamo alle volte apparire all’improvviso alla sua tavola o nella sua cucina. Egli li trattava, mi sembra, come un tiranno generoso e bonario, mentre con noi, suoi allievi, aveva esigenze diverse.

 

Ma egli chi era? Sono sicuro che molti di coloro che lo hanno avvicinato, se non tutti, hanno avuto voglia di porgli questa domanda ma il suo prestigio ed il suo potere erano tali che non osavano formularla apertamente.

A volte si trattava di semplici curiosi, altre di persone assetate a cui era stato detto che a questa sorgente avrebbero potuto estinguere la loro sete.Lo shock dell’incontro superava sempre l’aspettativa ed allora alcuni preferivano fuggire piuttosto che entrare in un’esperienza che rischiava di far loro mettere in dubbio ogni preconcetto.

All’epoca in cui lo conobbi, era il 1943, non era più giovane; aveva sessantacinque anni. Egli univa alla maestosità di un vegliardo l’agilità di uno schermitore capace di uno scatto fulminante; ma per quanto imprevedibili fossero i suoi sbalzi d’umore e sorprendenti le sue manifestazioni, non abbandonava mai una calma impressionante.

“Assomiglia, mi aveva detto Philippe Lavastine prima di condurmi da lui, al Bodhidharma… per la sua severità di risvegliatore di coscienza e per i suoi grandi baffi”.

Riscontravo in lui il portamento piuttosto rassicurante di un contrabbandiere macedone o di un vecchio capetan cretese; ne aveva l’autorità. Egli sarebbe stato capace di gettarvi nella Senna dopo avervi sottratto l’orologio ed il portafoglio e poi di tendervi il braccio per tirarvene fuori.

La cosa più buffa è che, appena salvati, avreste sentito il bisogno di ringraziarlo.

La parola “autorità” ha connotazioni talmente diverse da generare malintesi. Diciamo che Monsieur Gurdjieff emanava l’impressione di una forza tranquilla alla quale gli stessi animali erano sensibili. Si sostiene che gatti e cani lo seguissero per la strada. Non ne sono mai stato testimone, ma quante volte ho visto persone simili a lupi pacificarsi al suo fianco! Al punto che avrebbero preso cibo dalla sua mano.

La sua andatura, i suoi gesti non erano mai precipitosi, ma, come quelli di un montanaro o di un contadino, erano legati al ritmo dalla respirazione.

Ricordo il giorno in cui, per il ritardo ad un appuntamento che mi aveva fissato, avevo percorso precipitosamente l’avenue Carnot e salito le scale quattro a quattro. Cominciavo a farfugliare una scusa quando egli lasciò semplicemente cadere su di me queste parole: “Mai affrettare”.

Lo si sentiva carico di un’esperienza - quasi incomunicabile - che lo poneva ad una distanza abissale dai comuni mortali. Dipendeva forse dall’aver incontrato nel corso della sua esistenza molte creature di cui conosceva tutte le debolezze e dall’aver fatto della condizione umana un soggetto di meditazione quasi costante? Oppure da un altro motivo?

Se si stabiliva tra lui e voi una certa complicità, gettata come un’angusta passerella sopra gli abissi, essa poggiava non tanto su speculazioni intellettuali quanto su semplici evidenze quali freddo, caldo, altezza, larghezza, ieri, oggi, domani, io, qui, ora. Una complicità con il sapore della sincerità, ancorata nel più profondo dell’essere.

 

Paul Valéry, interrogandosi su ciò che resta di Leonardo da Vinci, constata:

“Di un uomo rimangono i sogni legati al suo nome ed alle sue opere che fanno di questo nome un oggetto di ammirazione, odio o indifferenza”.

Si è dunque costretti, secondo Valéry, ad “immaginarlo” e, aggiunge, “se quest’uomo eccelle in tutti i campi lo sforzo è tanto più grande per coglierlo nella sua unità”.

È vero che i contemporanei devono far rivivere Gurdjieff a partire dall’opera alla quale egli ha legato il suo nome e cioè tanto dagli scritti di cui è l’autore, quanto da realizzazioni compiute in altri campi sotto la sua direzione e dietro la sua ispirazione.

Bisogna, infatti, sempre risalire alla sorgente. Dopo la nostra, ogni generazione si incamminerà, con un materiale che le sarà proprio, verso una nuova lettura di Gurdjieff.

Noi che l’abbiamo conosciuto, non andremo a cercarlo in un archivio, anche se contenesse testimonianze stampate o documenti ufficiali, con la speranza di trovarvi un’eco della sua voce. Evocheremo la nostra propria esperienza, i nostri ricordi più vivi.

Gurdjieff musicista? coreografo? scrittore? medico? psichiatra? cuoco?

“L’unico uomo assolutamente libero, se un uomo siffatto fosse concepibile, sarebbe quell’uomo di cui neppure un gesto sapesse d’imitazione”.

Inizierò dal suo assoluto disprezzo per le convenzioni sociali. Avrebbe fatto sedere un premio Nobel accanto ad uno spazzino, una lady accanto ad una prostituta.

Ciò premesso, è ancora più sorprendente che egli abbia molto maltrattato una categoria di persone che, dopo tutto, si guadagnano da vivere come le altre. Parlo dei giornalisti; egli li teneva a distanza, vietando loro di varcare la sua porta.

Ho assistito un giorno a questa scena: due giovani avevano avuto la sfacciataggine di introdursi presso di lui, presentando la loro tessera di giornalisti e dichiarando di appartenere alla redazione di un giornale molto famoso. Si andò ad annunciarli a Monsieur Gurdjieff; prima che avessero avuto il tempo di fare tre passi nella sua anticamera, egli in persona venne a scacciarli come fossero canaglie.

Che egli abbia sfidato in tutte le occasioni il potere della stampa, passi ancora. Ma c’è di più. I suoi allievi alle volte si prendevano cura di condurre fino a lui personaggi di fama mondiale, nell’aspettativa che da tali incontri nascesse almeno una riconoscenza reciproca; ma le cose in genere non andavano nel verso sperato. Dopo un inizio abbastanza promettente, il detentore della coccarda della Légion d’honneur smetteva all’improvviso di sentirsi in una situazione corrispondente al suo personaggio: perdeva piede, crollava.

Si va forse alla corrida solo nella speranza di vedere il torero, dopo un certo numero di finte, abbattere con un solo colpo il suo avversario - o viceversa.

Io non ricercavo questo genere di spettacoli. Mi domandavo cosa sarebbe accaduto se Stendhal o Baudelaire o Marcel Proust si fossero seduti alla sua tavola. Li avrebbe confusi con degli scribacchini? Mi faceva male pormi tali domande. Preferivo dirmi: “Poveretto! le finezze della lingua francese gli sfuggono. Conoscitore della Vodka russa, non capisce niente dei vini francesi”.

In questo mi sbagliavo. Gurdjieff, di fronte a un nuovo venuto, metteva sempre in atto un gioco che dipendeva dalle circostanze. Se era un personaggio di spicco e che, nell’interesse dei suoi allievi, avrebbe dovuto risparmiare, era capace in un batter d’occhio di farne un boccone. Altre volte lo si è visto negare le più evidenti qualità del nuovo venuto, al punto da sembrare stupido. La cattiva opinione che avrebbe in seguito avuto di lui la vittima non lo interessava. Se l’altro non aveva visto e compreso alcunché, che andasse al diavolo! Egli, infatti, giocava in quel momento un gioco, secondo lui molto più importante, a favore dei suoi allievi; un gioco che si proponeva di mostrarci a cosa si riduce, a dispetto delle apparenze, la realtà essenziale di un uomo, chiunque egli sia. Alcune anime buone della mia specie non ne avrebbero sopportato la vista? Che importa! Non si diventa adulti senza passare per tali prove.

 

Il tratto più significativo di Monsieur Gurdjieff era il suo sguardo. Sin dal primo incontro vi sentivate messi a nudo. Avevate l’impressione che egli vi avesse visto e vi conoscesse ancora meglio di quanto voi non conoscevate voi stessi.

Era un’impressione straordinaria.

Avevo finito per ammettere, come molti idealisti della mia specie, che tra gli esseri umani non possono esserci che “conversazioni tra sordi” (non so se il termine ciechi non risulterebbe più appropriato a questo stato di mutua ignoranza). Così, la possibilità di essere finalmente conosciuto apriva a me, prossimo alla quarantina, forse alla metà della mia vita, una speranza luminosa.

Sentivo nello stesso tempo, ma in maniera molto confusa, che per questo ci sarebbe stato un prezzo da pagare. Certamente mi era stato detto che la frequentazione di un uomo come Gurdjieff avrebbe potuto essere molto pericolosa. Ma, dopo tutto, cosa avevo da temere? Il gusto del rischio esiste, Dio sia lodato, in fondo al cuore di ogni figlio di Adamo. Denaro da pagare? Non ne possedevo. Sudore da spendere? Ero ancora abbastanza giovane da credere le mie forze illimitate.

Illusioni da perdere? Essendo caduto di delusione in delusione, mi sembrava di averle già perse tutte. Dei pregiudizi da vincere? Un uomo come me non ne aveva.

Mi dicevo queste fanfaronate mentre entravo in casa sua come un nuotatore che ha sostenuto lo sforzo di una traversata troppo lunga, rischiando la vita, e che sente infine terra ferma sotto i piedi. Per metà asfissiato, già sorride, ributtando fuori l’acqua dal naso, dalla bocca e dalle orecchie.

Il vecchio lottatore, al primo sguardo, aveva già intuito tutto ciò. E aveva visto e compreso molte altre cose ancora: le mie mancanze, le mie debolezze, le mie paure.

Fu allora che mi attribuì un soprannome con il quale capii di essere stato ammesso nella cerchia dei suoi allievi. A ciascuno di essi, come scoprii più tardi, veniva affibbiato un soprannome spesso molto buffo e più descrittivo del suo vero nome. Una, esile, si chiamava “Maigriche” - Magroluccia - . Un’altra, dall’aspetto appetitoso, si chiamava “Brioche” e, più tardi “Ex-Brioche “. Un professore era chiamato semplicemente “Maître” - Maestro - . Un’americana si chiamava “Crocodile” - Coccodrillo - (pronunciate “crocodail”) alludendo alle lacrime di questo animale. Io stesso divenni “Demi-Petit” - Mezzo-Piccolo - . Questo soprannome mi rimase per lungo tempo un enigma, una provocazione. “Petit” passi ancora, perché io sono di alta statura. Ma perché “Demi”? Non avevo che da chiederglielo? Non era così semplice. Egli mi invitò a porgli la domanda un giorno, dichiarando con un’aria furbesca in presenza di alcune persone: “In Demi-Petit tutte le cose veramente molto molto bene; eccetto una sola cosa…”. Egli si aspettava che gli chiedessi “Quale, Monsieur Gurdjieff?” Ma avevo intuito la sua intenzione. Mi rifugiai vigliaccamente nel silenzio come se non avessi capito la magnifica occasione che egli mi aveva offerto; stampai così sul mio viso una specie di sorriso, dal quale non si fece imbrogliare, ma che poteva fare credere agli altri che c’era complicità tra me e lui e che avevo capito tutto. Egli non insistette.

Quello che aveva voluto dirmi quel giorno, seppe farmelo intendere molto bene qualche tempo più tardi in tutt’altro modo.

 

Nelle immediate vicinanze di Monsieur Gurdjieff, non si poteva dormire in pace. Nessuno era al riparo da uno sgambetto che lo mandava a terra. Mi meraviglio che non ci siano state più spesso gambe rotte! La sua tavola, quando alla fine del pasto un grande silenzio si stabiliva per far posto alle domande dei suoi allievi, era simile al tappeto di un club di judo. Il maestro, con il suo cranio rasato di samurai, attendeva tranquillamente senza muoversi. Il “Monsieur, posso porre una domanda?” che veniva a rompere il silenzio, aveva qualche cosa di rituale, come il saluto di due judoka che si inchinano uno di fronte all’altro. In quel momento, il rispetto che impregnava la stanza raggiungeva il culmine.

Ho conosciuto quest’impressione di essere al di là del bene e del male, al di là della paura, quando ho posto per la prima volta una domanda a Monsieur Gurdjieff.

Gli dissi: “Monsieur, per cercare la verità bisogna correre il rischio di sbagliare. Ora, ho paura di sbagliarmi e resto seduto dietro la mia finestra e non c’è motivo che questo stato cambi…”.

Avevo formulato questa domanda perché il mio vicino di sinistra, Philippe, dandomi di gomito, mi aveva bisbigliato: “Dài, è il momento “; inoltre, Monsieur Gurdjieff mi aveva accordato un “oi, oi” di approvazione e tutti gli occhi si erano rivolti verso di me; mi ero ritrovato all’improvviso davanti lo spazio infinito come, suppongo, il cosmonauta in stato di assenza di gravità se avesse aperto il portello della sua capsula. Nell’attimo di silenzio che seguì, risentii di nuovo affluire in me tutte le correnti di vita alle quali ero abituato, con una tale forza che non avrei udito la risposta di Monsieur Gurdjieff se fosse stata un’altra. Questa risposta rotolò su di me, in me, come una valanga. Udii, attraverso la nebbia, una voce provenire dalla montagna e affermare che sì, era così, io non ero una gran cosa, io ero un buono a niente, ero un “pezzo di carne vivente”, una “merdité”. “Nel mio paese, continuò Gurdjieff, si pagano persino delle persone per sbarazzarvi di ciò”. Non si poteva contare su di me. Avevo forse un libretto di assegni, ma la mia firma era senza valore. Tuttavia, tutto avrebbe potuto cambiare se lo avessi voluto. Più tardi, alla fine della guerra forse, la mia firma avrebbe avuto un valore…”.

Alla domanda insidiosa: “Monsieur, ma lei chi è? Un vero o un falso maestro? Non mi imbarcherò mai su una nave senza avere tutte le garanzie sulla durata del viaggio e sull’identità del capitano”, a questa domanda non mi era stata data risposta.

Ero stato riportato a me “E tu piuttosto, chi sei?” con una tale forza che non lo dimenticherò mai.

Un vero colpo da maestro.