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SUL GIOCO DI DIO

commento a Bhagavadgîtâ III, 22-24

Dario Chioli 

   

   

Non c'è nulla nei tre mondi, o Arjuna, che io debba fare, nessuna cosa non raggiunta che io debba raggiungere, eppure sono immerso nell'azione.
Se io in verità non operassi di continuo, infaticato, gli uomini seguirebbero tutti quanti il mio esempio, o Arjuna.
Questi mondi cadrebbero in rovina, se io non fossi intento ad agire, sarei l'autore d'una confusione generale e distruggerei queste creature.
Bhagavadgîtâ
III, 22-24 (trad. Raniero Gnoli)


Il gioco di Dio e la creazione sono tutt'uno. Se Dio non gioca, il gioco è solo potenziale, non viene veramente giocato. 

E se non viene veramente giocato, nessuno può riconoscerlo. Riconoscendo il gioco, si riconoscono i giocatori, e più di tutti il giocatore supremo.

Dio vuole essere conosciuto, e nella sua volontà di essere conosciuto sta tutta la realtà di coloro che giocano. 

Se Dio non volesse che esistesse il gioco, la creazione non sarebbe, non sarebbe la creatura. 

Ma non sarebbe neppure il ritorno della creatura al creatore, non esisterebbe l'abbraccio degli amanti.

Se però non esistesse l'abbraccio degli amanti, Dio non sarebbe il creatore, bensì un distruttore, non sarebbe Se stesso.

Chi ama però non può sfuggire all'amore, e dunque né sfuggirà la creatura né sfuggirà il creatore.

Sottomesso per amore alla sua propria legge, autonomo riducendosi (tzimtzùm) per fare spazio alla creatura.

Il piacere del dono, del sorriso, della vita.

   

[28/3/2009]

   

 

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