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SEMPRE UGUALE SEMPRE DIVERSO
Analogie tra buddhismo e cristianesimo nei loro rapporti con le tradizioni madri
Dario Chioli
Il centenario
Contemplare l’ascesa e il declino delle forme tradizionali
Chiunque sia genuinamente impegnato in una ricerca spirituale ben conosce la difficoltà di distinguere in sé il vero dal falso, l’impulso religioso sincero dalla tentazione di un egocentrico fanatismo. Chi tale difficoltà trascuri, finisce perlopiù per assumere posizioni "integraliste", che soddisfano il suo desiderio di affermarsi come paladino della verità senza averne affatto la stoffa.
Vi sono per fortuna accorgimenti che possono permettere, se sorregge una intelligenza media, di correggere almeno in parte tali tendenze. Uno di questi è considerare i milioni di anni che costituiscono l’età del genere umano, paragonandoli ai pochi millenni di cui è al massimo composta anche la più antica delle tradizioni religiose. Le tradizioni cinesi ed indiane per esempio rimontano storicamente fin verso il 3000 avanti Cristo. I testi scritti più antichi risalgono più o meno alla stessa epoca.
La storia di cui si ha qualche notizia, e quindi quella delle forme religiose note, sta dunque alla complessiva età del genere umano come qualche settimana che venga ad aggiungersi alla vita di un centenario (le stime paleontologiche attuali fanno risalire l’homo habilis a circa cinque milioni di anni fa). Ciò sembrerebbe dover spingere gli uomini di tutte le fedi ad una certa umiltà, alla considerazione di se stessi come estrema, giovanissima progenie dell’Uomo universale, ed alla curiosità di risalire alle precedenti vicende dell’Antenato, come nipotini che s’interroghino con curiosità sulla vita del nonno. È vero che la storia nota, composta in buona misura di ricorrenti incomprensioni e massacri, non sembra giustificare più di tanto una speranza del genere se estesa all’universalità del genere umano; vale tuttavia la pena di impegnarsi nel nobile tentativo di agevolarne la realizzazione, quand’anche a trarne frutto sia solo una esigua minoranza.
Il centenario sogna
Corrispondenza tra storia della società umana e storia psichica individuale
È presumibile che nella lunga vita dell’umanità, la cui maggior parte ci è ignota, molti siano stati i ritorni, le ricorrenze formali. Per quanto limitata sia la nostra conoscenza del passato, qualcosa si vede con chiarezza. Vi sono infatti esempi che analizzati dimostrano con una certa evidenza la costanza delle forme e delle loro modalità di reciproca trasformazione. Accade nella storia della società umana quello che accade nella storia psichica dei singoli, dove le immagini, i concetti, ogni forma di rappresentazione si trasfondono in altri continuamente, nel sogno e nelle fantasticherie della veglia come anche nel pensiero più analitico. Fenomeni primari e secondari deviano il flusso tanto mentale quanto storico in direzioni continuamente impreviste, determinando così, mediante un’apparente casualità che è in realtà un tessuto causale potentissimo (quello che i buddhisti chiamano paticca-samuppâda, ovvero "insorgenza condizionata"), l’illusione della libertà.
Per sfuggire all’aspetto illusorio di Mâyâ, che mentre ci illude d’essere più liberi, con ciò stesso ci rende più schiavi, e per utilizzarne invece utilmente la sterminata ricchezza creativa (Mâyâ è infatti la potenza che manifesta l’universo, e Mâyâ è la madre del Buddha, e ci si ricordi che Maia si chiama anche la madre di Ermete-Mercurio, dio dell’intelligenza e dell’omonimo astro, che tra l’altro in India, con curiosa assonanza, si chiama Budha), giova affrontare con uno sguardo di limpido discernimento l’ascesa e il declino delle forme tradizionali, nelle loro analogie e differenze indagando le cause delle analogie e differenze tra le nostre e le altrui modalità percettive e di pensiero.
Il centenario fa il gioco delle tre carte
Buddhismo e cristianesimo come trasformazioni dell’induismo e dell’ebraismo
Un fruttuoso terreno d’indagine, che riguarda da vicino gli europei interessati al buddhismo, si scopre mettendo a confronto il buddhismo ed il cristianesimo nei rispettivi rapporti con le tradizioni "madri", ovvero l’induismo e l’ebraismo (qualche riferimento faremo anche all’altra grande tradizione a forma religiosa, l’Islàm, che è intervenuta potentemente sul teatro delle vicende indo-buddhiste e giudeo-cristiane).
Si trovano cose assai interessanti. Il buddhismo sta all’induismo come il cristianesimo all’ebraismo per una quantità di ragioni. Vediamone qualcuna.
Il centenario fa quel che gli pare
Connotazioni etniche e no
Tanto l’induismo quanto l’ebraismo sono tradizioni patriarcali, etniche, nazionali. "Arii", cioè "nobili", sono chiamati nell’India vedica (e nell’Avesta zoroastriano) i popoli che dal nord, con grandi guerre e grandi massacri, invadono il subcontinente indiano (e l’Iràn, il cui nome vuol dire "terra degli Arii"), finendo poi per costituire le caste dominanti della società indiana; e nella Bibbia il popolo d’Israele entra nel paese di Canaan, datogli in possesso da Dio (cfr. Numeri 27, 12; Deuteronomio 32, 49 e 34, 4) votando allo sterminio le popolazioni che si oppongono (e l’infrazione di tale voto comportava gravi punizioni, cfr. per es. I° Libro di Samuele 15). Ciò può spingerci a riflettere sulle caratteristiche della nostra era (il kaliyuga), in cui l’instaurazione (o restaurazione) di forme e leggi tradizionali per un singolo popolo (l’ultimo tentativo, si potrebbe dire, di contrastare la degenerazione dell’umanità mediante un "modello" tradizionale integrale) sembra comportare di necessità il ricorso alla violenza.
Buddhismo e cristianesimo sono invece tradizioni essenzialmente ascetiche, interetniche ed internazionali. "Ario" (ariya in pali) per il buddhismo delle origini è l’uomo "nobile" in quanto riconosce le quattro "nobili verità" (ariya-saccâni), e nel primo cristianesimo, quando di guerra e spada si tratta, sono guerra e spada tutte interiori. Inoltre l’intento missionario è caratteristico sia del buddhismo che del cristianesimo, che si diffusero inizialmente non già per solidarietà razziale o di casta ma per un’opera di conversione diretta agli aderenti delle tradizioni preesistenti in fase di declino (in posizione intermedia, l’Islàm è certamente patriarcale, ma non etnico, se non forse per il mantenimento della circoncisione, ed è fin dalle origini senza dubbio missionario, mentre nel sufismo è chiaro che la guerra santa - jihâd - legittima e obbligata, è "minore" - asghar - se rivolta verso gli infedeli, "maggiore" - akbar - se rivolta contro la propria anima).
Il centenario sta al gioco solo se ne ha voglia; i nipotini però non lo sanno
Caste leggi e conversioni
Se precise norme (assai complicatesi dall’epoca delle Leggi di Manu) regolano in India la suddivisione delle caste e l’eventuale trasformazione di una casta in una di livello superiore od inferiore, (1) analogamente nel Talmùd (raccolta delle interpretazioni tradizionali ebraiche sulla Legge mosaica) rigidi criteri specificano per talune questioni a quale generazione i proseliti possano ritenersi ebrei a tutti gli effetti (per esempio solo se il proselito è di madre ebrea può giudicare un israelita nelle cause penali e civili) ed inoltre i sacerdoti, i discendenti di Levi e gli israeliti di pura discendenza ebraica vengono per certi aspetti considerati caste superiori. (2)
Buddhismo e cristianesimo (ed anche l’Islàm) si rivolgono invece al singolo proponendo vie per uscire dal sistema costituito mediante la rigenerazione come "uomo nuovo", indipendentemente dall’appartenenza etnica o sociale. Ciò era già presente nelle tradizioni precedenti, per esempio nell’istituto dell’iniziazione (la quale, fosse quella indù o quella cabbalistica, è sempre stata intesa in funzione di una interiore rinascita, distruttrice dei vincoli ordinari, tant’è che il saggio, pur in una struttura sociale rigida come l’indù, è da sempre considerato ativarna cioè "di là dalle caste"), ma viene dal Buddha e dal Cristo decisamente accentuato, quasi "estratto" dalla globalità della tradizione. Per questo è molto più frequente (e meno problematica) la conversione al buddhismo o al cristianesimo (nonché all’Islàm) che non all’induismo od all’ebraismo.
Naturalmente anche i successori del Buddha e del Cristo hanno poi in gran parte, come purtroppo sempre succede per un’infinità di ragioni, riannacquato e ricomplicato il messaggio, ricostituendo codici e leggi dapprima abbandonati, così che si vedono i cristiani che, lasciate le norme del Levitico, accettano le norme del diritto romano, e i buddhisti che, ripudiate le caste, finiscono per costituirne una essi stessi all’interno della società indiana, o per accettare a loro volta quasi tutte le convenzioni delle società in cui penetrano e si sviluppano (per esempio pare che in Cina chi voleva farsi monaco dovesse chiedere il permesso ai genitori, il che non molto collima con la visione del Buddha che fugge dal palazzo paterno di nascosto). (3)
Se il posto gli piace, il centenario vi si siede
Terre sante in questo mondo e altrove
Per l’indù l’India e per l’ebreo Israele sono Terre sante, uscire dalle quali fisicamente è già una perdita, una contaminazione. Vi sono brahmani che non sopportano il distacco dall’India, che lo reputano causa di decadenza dalla propria casta, e non altrimenti può spiegarsi tutta la mitologia della diàspora ebraica e la sua versione profana, il sionismo. Nel cristianesimo e nel buddhismo non è affatto assente l’idea di Terra sacra, ma meno diretto è in realtà il collegamento ad una terra specifica. Gerusalemme, Roma, San Giacomo di Compostella per il cristiano, e il Tibet o i luoghi dove visse il Buddha per il buddhista sono certo mete di pellegrinaggi, ma il pellegrinaggio è indicato come fondamentalmente interiore, è simbolizzabile con uno yantra o col labirinto in un pavimento di cattedrale, e soprattutto non è perlopiù inteso a stabilirsi nel luogo meta di pellegrinaggio (l’Islàm assume anche in questo caso una posizione intermedia, in quanto il pellegrinaggio "fisico" alla Mecca è obbligatorio almeno una volta nella vita, indipendentemente dalla nazionalità, e per chi ne fa ritorno c’è uno speciale titolo onorifico, hâjj, ma non pare particolarmente frequente il desiderio di rimanere in Arabia).
L’allentamento del legame con le Terre sante deriva senz’altro almeno in parte dal fatto che tanto il buddhismo che il cristianesimo sono pressappoco scomparse nella terra d’origine, dove ha infine prevalso la tradizione madre. Il buddhismo declinò infatti in India dapprima con l’affermarsi del Vedânta ad opera di Shrî Shankarâcârya (VII-VIII secolo) e poi definitivamente con le invasioni islamiche, che parimenti ridussero drasticamente la plurisecolare presenza cristiana a Gerusalemme, che venne occupata nel 634, persa nel 1099 (quando la occuparono i crociati con squallidi massacri) e ripresa dal Saladino nel 1187. Poche comunità testimoniano ora in Israele la presenza del cristianesimo ed in India (soprattutto con i neobuddhisti ex-intoccabili) quella del buddhismo. Migliore è invece la loro situazione nei luoghi di confine: predominano i buddhisti in Shrî Lankâ e Birmania (buddhisti Theravâda) e nelle zone himalayane (buddhisti Vajrayâna); ed i cristiani sono numerosi in Libano e altri paesi mediorientali (cristiani maroniti e di molte altre confessioni), nonché in Egitto (cristiani copti).
Il centenario quando vuole canta, quando vuole balla
Scritture rivelate e messaggio incarnato
Induismo ed ebraismo si fondano specialmente sulle scritture rivelate, il Veda e la Torà rispettivamente. Buddhismo e cristianesimo prendono invece nome da un singolo personaggio storicamente noto, rispettivamente il Buddha e Gesù Cristo (anche qui la posizione islamica è intermedia, il Corano corrispondendo in tutto al Veda o alla Torà, ma il comportamento del musulmano essendo modellato su quello di Muhammad).
Le scritture indù ed ebraiche sono pertanto composte in una lingua sacra, rispettivamente sanscrito ed ebraico (e così pure il Corano, che è composto in arabo); quelle buddhiste e cristiane no, essendo le une scritte in lingua pali e le altre in greco. E del pali non si sa in effetti con certezza quanto fosse simile alla lingua materna del Buddha, mentre il greco certo non lo era del Cristo, che parlava aramaico ed ebraico. Per tali ragioni, procedimenti come le etimologie sacre e gli anagrammi teurgici sono utilizzati specialmente in relazione agli scritti religiosi in sanscrito ed ebraico (nonché in arabo), mentre per quanto concerne i testi composti in lingue come il pali ed il tibetano, il greco ed il latino che, per quanto possano essere venerabili o di uso liturgico, nelle tradizioni considerate non sono però sacre, predominano le interpretazioni etiche, filosofiche e simbologiche.
Il centenario se gli tiri una pietra scappa; qualche volta cautamente si volge indietro
L’instaurazione di una nuova tradizione come conseguenza del rigetto del rinnovamento da parte della tradizione preesistente
Tanto il Buddha quanto il Cristo contestano la decadenza della tradizione più che la tradizione stessa. Il brahmano è per il Buddha quel che il fariseo è per Gesù. Il brahmano per il Dhammapada (4) può essere un buon brahmano o uno stolto, esattamente come il fariseo nel Vangelo. La frattura con la tradizione esistente non è attuata programmaticamente né dal Buddha né dal Cristo, ma emerge come effetto della loro opera e dei contrasti che emergono tra essi e i loro discepoli da una parte e le strutture preesistenti dall’altra. È ben vero che i buddhisti hanno rigettato il Veda, mentre i cristiani invece hanno accettato l’Antico Testamento, ma è anche vero che poi il Mahâyâna ha avuto continui scambi col tantrismo indù, assimilandone molti aspetti, molte figure divine che ha trasformato nelle sue divinità protettrici, mentre per converso l’interpretazione dell’Antico Testamento è stata svolta in modo assai dissimile dai cristiani e dagli ebrei, di modo che tanto la continuità degli uni che la discontinuità degli altri sono più apparenti che reali (nel caso dell’Islàm si ha una situazione un po’ diversa: una rivelazione, il Corano, che ingloba le precedenti, Torà e Vangelo, ma viene infine rifiutata da ebrei e cristiani).
I vestiti del centenario si somigliano, anche se qualcuno è bianco e qualcuno rosso
Affinità strutturali tra buddhismo e cristianesimo
Buddhismo e cristianesimo hanno un’idea della comunità e del corpo mistico molto simile. Il Sangha buddhista non è granché diverso dalla Chiesa cristiana, ed il Corpo Mistico di Cristo ha molte corrispondenze con il Corpo del Dharma (dharmakâya) buddhista.
In effetti il "Triplice Gioiello" dei buddhisti, ovvero Buddha, Dharma e Sangha, corrisponde perfettamente alla triade Cristo, Vangelo e Chiesa. Questa corrispondenza dà origine a forme devozionali dai toni talvolta sorprendentemente simili nelle due tradizioni. "Prendere rifugio nel Buddha" non è infatti molto diverso psicologicamente dall’"affidarsi a Gesù", il Nembutsu ("pensare al Buddha") del buddhismo Shin non molto dissimile dal "Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me" della preghiera esicasta (5) ed il significato interiore della preghiera che è stata talmente assimilata da venir recitata automaticamente persino dormendo non è poi molto diverso se chi prega è un lama invece di un monaco athonita.
Tanto il buddhismo quanto il cristianesimo rappresentano come tipo ideale dell’uomo spirituale il monaco (o anche il sacerdote nel cristianesimo). L’ascesi e l’appartarsi dai desideri del mondo vengono visti come la più nobile scelta (anche se poi il tantrico Padmasambhava aveva più mogli, ma il tantrismo è un fenomeno interattivo indo-buddhista piuttosto particolare). Solo il monaco è in effetti un vero membro del Sangha, gli altri buddhisti lo sono solo potenzialmente; similmente, tranne poche eccezioni, solo al celibe viene nel cattolicesimo impartito il sacramento dell’ordine, ed anche nel cristianesimo ortodosso, dove i preti possono sposarsi, è comunque il monaco o l’asceta itinerante (starec) a far da prototipo esemplare della vita spirituale. Tutto ciò determina una frattura tra l’ordine sociale comune e la vita spirituale, con effetti sia positivi che negativi. Questo non accade nella stessa misura nell’induismo e nell’ebraismo, dove il celibato è di massima malvisto (come nell’Islàm).
Il centenario si nasconde in una donna
La donna disistimata ovunque
Tutte e quattro le tradizioni considerate (nonché l’Islàm) disistimano sostanzialmente la donna come soggetto autonomo. Nell’induismo, non ha accesso alle scritture vediche, (6) nell’ebraismo talmudico (7) non può testimoniare né giudicare (mentre nell’Islàm la sua testimonianza vale la metà di quella d’un uomo), (8) nel buddhismo e nel cristianesimo non ha parte nella gerarchia, e la consacrazione di monache, peraltro sempre sottoposte a una guida maschile, fu una concessione fatta dal Buddha a malincuore, (9) mentre nel cristianesimo il sacerdozio non è aperto affatto alle donne, che al massimo diventano diaconesse o, se monache, badesse (fanno eccezione le confessioni protestanti che eleggono pastori donne).
È inutile nascondersi dietro esili paraventi; questa è la posizione sociologicamente costante delle religioni qui considerate. C’è però da riflettere quanto la posizione dell’uomo risulti migliorata dalla concessione che costantemente gli vien fatta di esercitare in esclusiva i poteri gerarchici e gestionali, che sono sostanzialmente secondari, e paragonabili alle siddhi che il vero aspirante alla saggezza tende a rigettare perché d’ostacolo nel cammino spirituale. Ciò, ben lungi dal lusingare la vanità del maschio, dovrebbe anzi suscitare in lui un giustificato timore, e deve inoltre obbligare a considerare i limiti delle gerarchie religiose, il rispetto per le quali non deve portare alla cecità ed all’asservimento.
E del resto non dimentichiamo che nel cristianesimo cattolico ed ortodosso in cima alla gerarchia dei santi c’è comunque Maria Vergine, che gode, lei sola, del culto di iperdulìa, e che la prima testimone della resurrezione di Cristo è nei Vangeli Maria di Magdala. Nessuna delle due ebbe ruoli gerarchici od organizzativi. Ed a questo proposito è singolare che anche nel buddhismo Mahâyâna la figura del bodhisattva Avalokiteshvara s’identificasse con quella della dea della pietà Kuan Yin (in Giappone: Kwannon) e venisse in questa forma fatto oggetto di diffusissimo culto. Ben appare dunque come la "maternità" dell’Invisibile rispetto al visibile (ben espressa nell’induismo con le varie shakti) si manifesti, aggirando tutti gli ostacoli frapposti dalla volontà umana e spesso dalle gerarchie religiose, per le vie e confluenze più strane, determinando convergenze che non si sarebbero potute prevedere. Tale "maternità" altro non è del resto che il Santo Spirito (in ebraico Rùach haqqòdesh, femminile), la Presenza (Shekhinà) di Dio nel Tempio del cuore, ovvero l’indispensabile proiezione del Sadguru (10) nell’esperienza ordinaria, senza cui non può venir generato il corpo di resurrezione (o vajrakâya) che deve far da veicolo al Messia (o al Buddha) interiore.
Ogni tanto il centenario compra un mazzo di fiori
Regalità universalità e ritorno del Buddha e del Cristo
Tanto il Buddha quanto il Cristo sono di stirpe regale: il Buddha è erede del clan dei Shâkya; il Cristo è discendente del re Davide. Ambedue possono scegliere se regnare sul mondo o nello spirito, e ambedue scelgono la seconda alternativa. Il Buddha poteva scegliere se diventare un cakravartî, un Re del Mondo, oppure un Illuminato, e fu altresì tentato in vari modi da Mara. Similmente, anche a Gesù, Satana, l’Avversario, propose varie tentazioni, tra cui il dominio del mondo (Matteo IV, 8-9; Luca IV, 5-7).
Mâyâ, la madre del Buddha, era l’unica ad essere in possesso dei trentadue segni di eccellenza; similmente Maria, oltre che unica nel suo partorire virgineo, fu considerata "immacolata", ovvero esente da ogni difetto.
Una prima manifestazione del loro destino si ha in modo abbastanza simile: Gesù lascia che i genitori partano senza di lui per discutere coi dottori nel tempio (cfr. Luca 2, 41-50); Siddhârtha sfugge alla stretta vigilanza dei suoi incontrando successivamente un vecchio, un ammalato, un funerale ed un monaco.
Ambedue vengono traditi, sia pure con esito diverso, Gesù da Giuda Iscariote, suo apostolo, e il Buddha da Devadatta, suo cugino. Ambedue queste figure assommano peraltro in sé il tradimento ed un eccesso di severità (Giuda condanna lo spreco dell’unguento versato sul Cristo, e Devadatta auspica regole più ferree per i monaci), divenendo così i prototipi di tutte le specie di ipocrisia e fanatismo che infestano il campo di tutte le tradizioni religiose.
Tanto il Buddha quanto il Cristo vengono venerati anche al di fuori della loro tradizione: il Buddha nell’induismo come avatâr di Visnu; Gesù Cristo nell’islamismo come Messia partenogenito.
Esiste per ambedue, Buddha e Cristo, un "ritorno" futuro; per l’uno è il Buddha Maitreya, per l’altro il Cristo venturo dell’Apocalisse. Queste figure ricalcano poi entrambe figure delle tradizioni preesistenti: Maitreya quella dell’avatâr di Visnu Kalkî, e il Cristo venturo (a cui credono anche i musulmani) quella del Messia glorioso ebraico (a tutti costoro peraltro corrisponde anche il Saoshyant, versione futura di Zarathushtra).
I nipotini del centenario sono dei gran seccatori
Separazioni e disconoscimenti
Tanto il buddhismo che il cristianesimo si sono suddivisi in molte correnti talvolta assai diverse: Theravâda, Mahâyâna, Vajrayâna per il buddhismo; Cattolici, Ortodossi, Riformati per il cristianesimo. Le tradizioni d’origine sono invece rimaste, pur nelle differenze cultuali talvolta straordinarie (l’India venera milioni di dèi), relativamente unitarie, in quanto le differenze, tranne casi sporadici, non sono mai state formalizzate come scismi (la divisione tra sunniti e sciiti nell’Islàm è una via di mezzo: assomiglia per certi versi alla divisione tra Theravâda e Mahâyâna, in quanto gli aderenti dei rispettivi gruppi, pur differenziandosi anche sensibilmente ed avendo un tempo condotto magari lotte fratricide, accettano tuttavia gli altri come compagni di fede). Questa diversità origina certamente dal minor collegamento, nelle tradizioni derivate rispetto a quelle madri, tra forma sociale e scrittura sacra, nonché dalla molteplicità etnica. Beninteso, settarismo ed ecumenismo sono similmente presenti in tutte.
Tanto il buddhista che il cristiano hanno spesso la tendenza a disconoscere i collegamenti della loro tradizione con quella precedente. Viene a questo scopo artificiosamente accentuata la divergenza delle scritture tradizionali buddhiste rispetto al Veda e del Nuovo Testamento rispetto all’Antico. Le tradizioni d’origine del resto s’adeguano e, lungi dall’accettarne la sfida, le rifiutano senza appello: gli ebrei non riportarono nelle loro tradizioni il nome di Gesù Cristo e di Pietro se non per denigrarli (11) e gli indù interpretarono il Buddha come un avatâr di Visnu incarnatosi con lo scopo di liberare l’induismo dalla gente malvagia convertendola al buddhismo o, come dice il Bhâgavatapurâna, "a confusione dei nemici degli dèi (sammohâya suradvishâm)". (12)
Nel tentativo di differenziarsi teologicamente nascono infinite diatribe di nessun valore, totalmente "exoteriche" se non addirittura "profane", e generatrici di innumerevoli scuole teologiche di dubbia utilità. Un esempio macroscopico di tali inutili contese è il plurimillenario litigio tra buddhisti ed indù intorno all’Âtman; se vi sia, cioè, oppure no, un "Sé". L’uno parla di "Sé" e l’altro parla di "Vacuità", ma chi ha un po’ di discernimento capisce benissimo che ambedue sono allusioni, diversamente formulate, alla stessa gamma di esperienze, riguardante qualcosa la cui comprensione non può scaturire che da una trasformazione della mente ordinaria in una facoltà sovrannaturalmente potenziata. Negazioni ed affermazioni non hanno pertanto senso alcuno se non se ne verifichi il collegamento ad un intento di interiore metamorfosi entro uno specifico contesto di esperienza. Se ci si ferma alle parole, si diventa schiavi delle parole, come quei bizantini che si scannavano per inezie teologiche allo stesso modo con cui si scannavano per le corse dei cavalli.
Il centenario costruisce giardini d'infanzia per mandarci i suoi terribili nipotini
Teologie negative e scuole di meditazione
A ciò cercano di porre rimedio "teologie negative" di vario segno, posizioni che come lo Zen o la mistica di Juan de la Cruz spingono la mente ordinaria verso una sorta di autoannientamento, accentuando l’importanza di una percezione non riflessa ma diretta, del riconoscimento distruttivo delle divagazioni della mente. Da ciò la nascita di molteplici scuole di meditazione e di contemplazione, che hanno di molto arricchito il patrimonio spirituale dell’umanità. Peraltro, già le analisi della mente fatte dai buddhisti delle origini (come anche dal Vedânta o dallo Yoga indù) o il discernimento degli spiriti trattato dai padri del deserto ovvero nella Filocalia (come anche nella Qabbalà ebraica) spiccano per valore assoluto nella storia spirituale dell’umanità.
Qualche volta il centenario piglia un bastone ma in genere, forse apposta, sbaglia la mira
Potere e gerarchia
Per governare l’eccesso di proliferazione delle forme teologiche e le tristi risse che ne conseguono vengono altresì a crearsi strutture organizzative governate da capi autorevoli o ritenuti tali, soprattutto laddove esiste un potere politico del clero. A questo proposito citiamo due casi di grande importanza storica.
A Roma il Papa (titolo in origine proprio di tutti i vescovi) si trasformò man mano da primus inter pares in monarca spirituale e temporale, con un processo che passa per l’editto di Costantino del 313 che sancì la libertà di culto per tutte le fedi, l’editto di Teodosio del 380, che riconosceva la fede di papa Damaso come fede dell’Impero, la definizione ad opera di papa Celestino I del vescovo di Roma come "vescovo dei vescovi (episcopus episcoporum)", e la "donazione di Pipino", con cui questi nel 756, fonda il patrimonium Petri, poi confermato nel 774 da Carlomagno, che nell’anno 800 viene incoronato Imperatore da papa Leone III, creando una frattura con Costantinopoli che non verrà mai più del tutto sanata ed avrà come ultima conseguenza lo scisma del 1054 con gli ortodossi.
In campo buddhista, si ha a parziale riscontro la figura del Dalai-Lama, che emerse da un processo analogamente intricato in cui gran parte ebbero i Mongoli, per sostegno dei quali assurse a dignità regale, con vicende discontinue e non senza ostacoli tuttavia, perduranti fino ad oggi da parte di chi non ne riconosce la supremazia. È del resto ben noto che al Dalai-Lama come tale (cioè indipendentemente dalla considerazione dei suoi meriti personali) non è attribuita alcuna particolare autorità al di fuori della tradizione tibetana; la sua posizione non è dunque identica a quella del Papa, ma è forse in ambito buddhista quella che le è più affine.
Tutto ciò ha spesso assunto un’importanza eccessiva, ostacolando il progresso spirituale. Non si dimentichi però che l’esistenza di gerarchie ha procurato anche grandi vantaggi, impedendo spesso eccessi di personalismo e degenerazioni troppo evidenti, e mantenendo una continuità nelle varie linee d’insegnamento e negli innumerevoli ordini religiosi. Si può dire che in generale le commistioni tra religione e politica risultano inevitabili, e inevitabile la contaminazione che ne consegue. Non è però che la totale libertà di predicare qualsiasi inezia, magari per fini di lucro e con facoltà d’inganno verso gli ingenui, costituisca un vantaggio. Che il clero si contamini costituisce inoltre un segno importante: anche se lo vorresti, anche se ti farebbe maledettamente comodo, nessuna struttura può darti la soluzione, se tu stesso, in prima persona, non la cerchi con tutto il tuo cuore. Ma quante volte ciò è stato detto, e quante volte lo si è scordato...
Il centenario se ne va se gli pare
Conclusione
Molte cose simili, molte diverse. Certamente i buddhisti non considerano il Buddha incarnazione di Dio, né i cristiani possono dimenticarsi la risurrezione di Cristo. Ma al di là del primo livello d’apparenza, quanto possiamo scoprire, se pensiamo quanto è oscuro il termine "Dio", quanto affine il "corpo d’arcobaleno" al "corpo di risurrezione", quanto simili le varie siddhi ai miracoli dei santi occidentali, e soprattutto quanto poco ci siamo inoltrati per il Gran Sentiero.
Il Buddha è morto a ottant’anni, il Cristo sulla croce, ma come può chiamarsi morte quella dell’Estinto, e come, quella del Risorto? Daisetz Teitaro Suzuki parlava del fastidio che prova un buddhista a vedere la figura del crocifisso, (13) e molti cristiani d’altra parte ridono dei buddha panciuti cinesi o inorridiscono davanti alle raffigurazioni terrifiche dei Protettori del Dharma: tutto ciò vale meno che niente, è il gioco della nostra mente condizionata. Bisogna lasciare padre e madre, mondo e abitudine mentale, e camminare nel sentiero della sincerità.
O Saichi, dov’è la tua Terra di Beatitudine?
La mia Terra di Beatitudine è qui.
Dove si trova la linea di divisione
Tra questo mondo e la Terra di Beatitudine?
L’occhio è la linea di divisione. (14)
[7.VI.1997; pubblicato su L'Età dell'Acquario, n. 111, settembre/ottobre 1998]
(1) Cfr. l’eccellente libro di Guy Deleury, Il Modello indù. Le strutture della società indiana di ieri e di oggi, Sansoni, Firenze, 1982. Per le origini del modello castale ci si deve riferire alle Leggi di Manu (Mânavadharmashâstra), di cui Adelphi ha fatto volgere in italiano la traduzione di Wendy Doniger.
(2) Cfr. A. Cohen, Il Talmud, Laterza, Bari, 1935, p. 363.
(3) Cfr. François Houang, Il Buddhismo dall’India alla Cina, Ed. Paoline, Catania, 1963, p. 99.
(4) Cfr. L’orma della Disciplina (Dhammapada), a c. Eugenio Frola, Boringhieri, Torino, 1962, cap. XXVI, p. 85.
(5) Cfr. Daisetz Teitaro Suzuki, Misticismo cristiano e buddhista, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1971, pp. 127 segg.; Anonimo, Lo joga cristiano - La preghiera esicasta, a c. Giovanni Vannucci, LEF, Firenze, 1978, p. 10.
(6) Cfr. Mânavadharmashâstra cit., IX, 18.
(7) Cfr. Cohen cit., p. 364.
(8) Cfr. Khalîl ibn Ishâq, Il ’’Mukhtasar’’ o Sommario del Diritto Malechita, a c. Ignazio Guidi e David Santillana, Hoepli, Milano, 1919, cap. XXXV, 120-122, pp. 628-630.
(9) Cfr. Pio Filippani-Ronconi, Canone buddhista. Discorsi brevi, UTET, Torino, 1968, Introduzione, p. 44.
(10) Cfr. Dario Chioli, Guru & Sadguru, "Occidente Buddhista", n. 16, giugno 1997.
(11) Cfr. Riccardo Di Segni, Il Vangelo del Ghetto, Newton Compton, Roma, 1985 (traduzione delle Toledòth Jéshu).
(12) Cfr. Krsna Dvaipâyana Vyâsa, Shrîmad Bhâgavatam, a c. A. C. Bhaktivedanta Swami Prabhupâda, Bhaktivedanta Book Trust, Roma, 1977, 1° volume, canto I, cap. 3, v. 24.
(13) Cfr. Daisetz Teitaro Suzuki, op. cit., pp. 101-107.
(14) Saichi in: Suzuki cit., pp. 128-129.
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