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NOTA SU «IL REGNO DI AGARTTHA» DI SAINT-YVES D'ALVEYDRE

Dario Chioli

   

È uscita nel 2009, curata da Gianfranco de Turris per le Edizioni Arkeios, col titolo Il regno di Agarttha, la traduzione di Matteo De Chiara dell'opera Mission de l'Inde en Europe. Mission de l'Europe en Asie di Alexandre Saint-Yves d'Alveydre, uscita nel 1886 per i tipi di Calmann Lévy ma subito dopo ritirata e distrutta (salvo un paio di copie) dall'autore. Fu riedita, con qualche variazione, nel 1910 dalla "Société des Amis de Saint-Yves" fondata da Papus, e poi, in modo più conforme all'originale, nel 1981 dalle Éditions Bélisane di Cazilhac. L'edizione italiana riporta da quest'ultima l'introduzione di Jean Saunier, premettendole però l'introduzione che Joscelyn Godwin ha steso per la sua traduzione The Kingdom of Agarttha (Inner Traditions, 2008, trad. it. di Pasquale Faccia). Contiene inoltre l'Avvertenza degli "Amici di Saint-Yves" e qualche documento in appendice.

Bisogna dire che le introduzioni di Godwin e Saunier risultano essere la parte più interessante dell'opera, in quanto forniscono dati interessanti su Saint-Yves e i suoi informatori orientali.

Il testo di Saint-Yves vero e proprio, invece, è sì interessante per ragioni storiche, ma denuncia pesanti limiti.

1) In primo luogo l'autore è scarsissimamente attendibile, con la sua fissazione per la sinarchia e la sua incredibile presunzione mentre, per quanto riguarda Agarttha, nella maggior parte dei casi si rifà a Louis Jacolliot, generalmente ritenuto altrettanto inattendibile, o alle proprie discutibili visioni in astrale (peraltro lo prese troppo sul serio anche Guénon, che così si ritrovò ne Il Re del mondo diversi lasciti di Jacolliot). Va tuttavia concesso che Saint-Yves ritirò la sua opera dal commercio, il che potrebbe significare non già chissà che di arcano (come hanno ipotizzato troppo fedeli ammiratori) ma che si fosse accorto dei suoi troppi limiti.

2) In secondo luogo la cura editoriale è per taluni aspetti inesistente, sicché viene travasata dall'edizione francese nell'edizione italiana tutta una serie di errori marchiani.

Ad esempio, conformemente al testo francese (cfr. su Gallica l'edizione del 1910), a pagina 80 dell'edizione italiana, due righe di testo ebraico sono riprodotte al contrario (e la seconda infarcita d'errori). Possibile che il curatore o qualcun altro in casa editrice non siano perlomeno in grado, non dico di correggere il testo, ma perlomeno di accorgersi che è rovesciato e raddrizzarlo? Già era strambo che Saint-Yves citasse, invece dell'originale greco del Vangelo di san Giovanni, una sua traduzione ebraica, per giunta trascritta male, ma se poi la si mette anche a testa in giù...

Altra serie di errori (risalenti a Saint-Yves o all'editore francese o a tutt'e due?): nel capitolo primo, tra p. 69 e p. 90 dell'edizione italiana, sono riportate una quantità di parole in sanscrito che però per buona parte sono scritte sbagliate. Anche qui, non era forse il caso di chiedere una consulenza a qualcuno e scrivere qualche nota esplicativa?

Per far capire, due esempi tra tanti: la prima parola riportata, che dovrebbe essere la trascrizione di "Agarttha", è in realtà scritta "Âgashthatha", con la "a" iniziale lunga, senza "r", la prima "t" cerebrale e aspirata e seguita da una "a": quattro errori in una sola parola. E a p. 90, invece di "dham", c'è scritto "davam", con iniziale erronea e una sillaba "va" in mezzo che non c'entra niente.

Ma gli errori sono tanti, senza contare le parole di cui si dà un significato sbagliato, come a p. 73 il termine "Pândava" ("n" e "d" cerebrali), che indica i "discendenti di Pându" ma viene trascritto "Pandavâm" ("n" e "d" dentali) e interpretato per "sapienti", nonché l'inqualificabile pretesa di Saint-Yves di spacciare per sanscriti composti come "Agnael", "Yamael", "Varanael" e "Uvael", che sono degli ibridi composti di pseudosanscrito e della parola ebraica "El", che indica Dio e in quella posizione caratterizza in ebraico i nomi degli angeli.

Anche a p. 167, in una inconsistente elucubrazione, Saint-Yves pretende di vedere il nome di Agarttha nella traduzione ebraica delle Lettere di San Paolo. Peccato che la parola che lui legge "Agarttha" sia invece "Iggèreth", normalissima parola ebraica che vuol dire «lettera».

3) In terzo luogo è vero che nella Nota del traduttore a p. 46 si dice che «i nomi propri sono stati conservati in maniera fedele all'originale», ma era proprio il caso di farlo senza mettere neppure una nota? E senza indicare magari le derivazioni da Jacolliot, come quel terribile Christna al posto di Krishna che Jacolliot tirò fuori dal suo cappello ma non corrisponde a nulla in sanscrito?

Insomma il volume è curioso da leggere sia per le introduzioni sia perché è storicamente utile a capire come si sia introdotto in Europa il mito del paese misterioso di Agarttha (in un'epoca in cui, nonostante Csoma de Körös, poco o nulla si sapeva della tibetana Shambhala), nonché la mentalità che caratterizzava gli occultisti  successivi a Éliphas Lévi (in genere assai peggiori, meno colti e più presuntuosi di lui). Serve anche agli studiosi di Guénon per indagare sulle fonti de Il Re del mondo, anche se a questo fine sarebbe indispensabile la rilettura – se ci si riesce, perché è assai prolissa – dell'opera di Louis Jacolliot.

   

[26.IV.2011]

   

 

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