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LA QABBALÀ È UNA ROSA BIANCA
Dario Chioli
Invoco su queste pagine la mano lieve della Principessa nascosta. Il suo viso tralucente da innumeri specchi appaia nel vuoto tra le mie parole fatta senso, vita, gloria dell’immagine, sangue stillato sulla rosa bianca.
Una storia
Accadde un giorno che si perse il Sabato. S’era perso perché la Principessa era senza marito, e il Sabato vuole un’anima doppia, non ne basta una semplice. Allora fu indetta una gran festa e fu convocato il popolo, per trovarle uno sposo.
Vennero tutti, e sfilavano davanti a lei. Ma certo la Principessa non s’accontentava d’uno qualsiasi. Che la ricchezza non le interessasse lo si sapeva, tuttavia molti avevano saggezza, conoscenza, esperienza, e su queste riponevano la propria fiducia. La Principessa però non era convinta.
C’era anche un giovane, che era innamorato della Principessa, ma non aveva nulla da donarle e perciò non osava farsi avanti e soffriva, seguendo il presentarsi dell’uno e dell’altro ospite, col continuo timore che un sorriso della Principessa desse il segno d’una scelta compiuta. Ma finora la Principessa tale segno non aveva dato. E ogni volta che mancava di darlo, il giovane sospirava di sollievo.
Non è che si credesse migliore degli altri, pensando di meritare la Principessa più di loro; semplicemente ne era innamorato, e l’amore, si sa, non è particolarmente ragionevole.
Finite le presentazioni, tutto il popolo fu invitato a pranzare. Fu fatto entrare nelle molte sale del palazzo, vennero musici e danzatrici, furono imbandite innumerevoli portate e corsero fiumi di vino.
Fu così che molti pretendenti si eliminarono da sé, cedendo all’ubriachezza e ad uno smoderato piacere dei sensi. Tuttavia molti altri, più saggi e cauti, prevedendo che vi sarebbe stato un seguito che avrebbe richiesto la loro lucidità, mangiarono poco e non bevvero per nulla. Il giovane, come tutti gli innamorati, quasi non mangiò, ma bevve invece del vino per alleviare il proprio affanno.
Terminato il pranzo, coloro che erano ancora in sé vennero invitati nella sala del trono. Il giovane si trovò tra questi, ma lungi dal compiacersene, era anzi ancor più disperato, perché intorno a sé non vedeva altro che volti di saggi, figure di dotti, di esperti delle sapienze del mondo e dell’oltremondo, tutti perfettamente sobrii, ognuno con qualcosa di raro da donare, mentre lui era un po’ offuscato dal vino e non aveva proprio nulla.
La sala era vasta e spoglia, gli ospiti erano seduti intorno ad un enorme tavolo, su cui era disposto un vaso colmo di rose bianche e null’altro.
Infine apparve la Principessa, e si sedette sul trono. Percorse con gli occhi i presenti e così parlò:
"Mio Padre, il Re, desidera ch’io mi sposi, perché il Sabato venga ripristinato nel regno, tuttavia non vi è sposa che non voglia ricevere un dono di nozze, e io non faccio eccezione. Ora vi pongo questo dilemma: tutto quanto vedete, e tutto quel che avete, tutte le ricchezze, i libri, i tesori, la sapienza che vi siete portati dietro, non potete in realtà donarmeli perché sono già di mio Padre. Solo di voi stessi potete disporre. Con quale dono arricchirete dunque il mio regno?"
Queste parole indussero un profondo silenzio tra i presenti, che non sapevano come trarsi d’impaccio. Ma senza molto riflettere il giovane innamorato prese dal tavolo una rosa, la strinse nella mano ferendosi con le sue spine e fece stillare il sangue sui suoi petali bianchi. Dopodiché la porse, incerto, alla Principessa.
E la Principessa sorrise radiosa: il Sabato era stato ripristinato.
La Qabbalà è una rosa bianca
Abbiamo visto che se la Principessa non avesse ricevuto il sangue del giovane, il Sabato non sarebbe stato ripristinato. Ella gli fece dunque trovare una rosa bianca, e lui seppe approfittarne. Questa rosa bianca è la Qabbalà. Se non hai sangue da darle, non ti porterà in alcun luogo, non otterrai la mano della Principessa. E se non vuoi la Principessa, a che ti serve la Qabbalà? La Principessa è la Presenza di Dio nelle vie del mondo e nel tuo cuore, la Shekhinà alla cui gloria manca solo il tuo sangue, l’unico dono che puoi fare.
La principessa non ha marito
Il Re si è contratto in sé per far posto al mondo. Questo nella Qabbalà vien detto tzimtzùm. Contrattosi, qualcosa di sé è però rimasto nel mondo, e questo qualcosa è la sua Presenza, che è diffusa ovunque, in quanto in nessun luogo può essere assente Dio, ma è anche ovunque prigioniera dell’ombra determinata dal ritrarsi di Dio. Quando questa Presenza trova uno sposo, viene liberata e si celebra il Sabato.
Ma perché Dio s’è contratto e, se s’è contratto, come può esserci la sua Shekhinà?
Dio s’è contratto in quanto Nulla (’Ayin), ma permane nel mondo in quanto Infinito (’Ensòf), e compito delle sue creature è giungere alle mistiche nozze con la sua Shekhinà, mediante le quali si mostra in quanto Infinita Luce (’ensòf ’Or), manifestazione che viene altresì chiamata Sabato (Shabbàth) o Gloria (Kavòd).
Qabbalàth Shabbàth, ricevimento della Regina Sabato, è tanto un particolare rito ebraico del venerdì sera quanto il fine stesso del mondo. E fine dell’uomo è ricevere la Presenza Divina (Shekhinà) per aderire all’Infinito (’Ensòf), eseguendo così il comando di essere, implicito nel contrarsi del Nulla (’Ayin) ed esplicito nel yehì ’or (fiat lux) di Genesi 1, 3.
Tale contrarsi di Dio in quanto Nulla è da ritenersi profondamente misericordioso, perché viene attuato lasciando prevalere le potenze della misericordia su quelle del rigore. Le potenze del rigore avrebbero per sé neutralizzato ogni creazione, in quanto imperfetta, se questa non fosse stata imposta da Dio. Perciò si narra nella Qabbalà che molti mondi furono distrutti prima del nostro, come furono e saranno distrutte tutte le nostre costruzioni che non hanno fondamento nella via dell’amore. Solo l’amore infatti adempie la volontà di Dio, che per esso ha consentito il sorgere del male.
Infatti allorché Dio s’è contratto, dalle potenze del rigore nasce l’altra parte (sitrà ’achrà), prigione della Shekhinà.
La sitrà ’achrà consiste nelle qelippòth, gusci idolatrici, scorze di io ciechi e avversi alla luce. Compito del mequbbàl (cabbalista) è sottrarre loro le scintille di luce su cui sono incardinate e di cui sono i carcerieri. Questo significa per esempio che dei nostri innumerevoli personaggi interiori, spesso ridicoli e pieni di inutile boria, dobbiamo scoprire il germe di luce, con ciò lasciandoli dissolvere. Perché le qelippòth, illuminate, svaniscono. I nostri dèmoni fuggono, di fronte alle manifestazioni della Presenza divina.
E della liberazione delle scintille di luce si sostanzia l’interiore manifestazione delle sefiròth.
[14.2.1998; pubblicato su L'Età dell'Acquario, n. 115, maggio/giugno 1999]
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