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LA DOLCEZZA RENDE SENSIBILI ALLO SPIRITO

Dario Chioli

   

La strada dolce

Ben sanno gli orientali che si ragiona col ventre, e che se il ventre assimila cibi dolci e armoniosi, si ragiona fluidamente e dolcemente. E questo "ragionar dolce" è fonte di genuina conoscenza, mentre chi sforza, sforza in ogni cosa, e mostra un'amarezza di fondo. Il Chanyuan Qinggui (raccolta di regole per i monasteri Zen) dice perciò che se il capocuoco «offre un pasto privo dell'armonia dei sei sapori e delle tre qualità, non si può dire che serva la comunità». (1)

Si tramanda del Buddha che prendesse la determinazione ultima di ottenere l'illuminazione dopo essersi rinfrancato con un riso cotto nella panna ed addolcito al miele e dopo essersi riposato. (2) Egli in precedenza, per ben sei anni, si era dato a pratiche di ascetismo estremo, finché si era reso conto che non lo avrebbero portato al fine che si proponeva. Ma poi, cedette: svanì in lui l'attaccamento alle pratiche, svanì il dominio dell'io, accettò la sua natura umana senza perciò rinunciare alla trasformazione, e sorrise: sorrise a Sujata, la fanciulla che gli offriva il riso, sorrise dentro di sé mentre lo mangiava, mentre si riposava nella macchia, come più tardi sorriderà mostrando un fiore a Mahakashyapa, che risponderà a sua volta col sorriso e così gli succederà.

«Imparate da me, perché io sono mite ed umile di cuore» dirà il Cristo, il cui «giogo» è «soave», il cui «peso» è «leggero» (Matteo 11, 29-30), e «che mangia e beve» (Matteo 11, 19 e Luca 7, 34). Non si tratta cioè di aggredire le nostre presunte debolezze, ma di raffinare la percezione, di giungere fin là dove il parlar forte non si ode, ma sola nel vuoto alita la brezza più lieve:

«Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: 'Che fai qui, Elia?'» (1 Re, 19, 11-13).

Così Elia ben conosce che la verità non è presente nei fenomeni violenti, che la verità è lieve, non pesa, non crea dolore, non esalta. E similmente rifletteva il Buddha, secondo quanto riporta il Mahasaccakasutta:

«Mi venne, Aggivessano, il pensiero: 'Io mi ricordo, una volta, durante i lavori dei campi presso mio padre Sakko, sedendo nella fresca ombra d'un albero di melarosa, ben lungi da brame, lungi da cose non salutari, in sensiente, pensante, nata di pace beata serenità, aver raggiunto il grado della prima contemplazione: questa può forse essere la via del risveglio'.
Quindi mi venne, Aggivessano, la conscienza conforme al sapere: 'Questa è la via del risveglio'.
Quindi mi venne, Aggivessano, il pensiero: 'Che, temerei io forse questa felicità, questa felicità di là dal bene, di là dal male?'.
Quindi mi venne, Aggivessano, il pensiero: 'No, io non temo questa felicità, questa felicità di là dal bene, di là dal male'.
Quindi mi venne, Aggivessano, il pensiero: 'Non si può certo ben raggiungere questa felicità con un corpo così straordinariamente spossato; che, se io ora prendessi nutrimento solido, riso cotto?' Ed io presi, Aggivessano, nutrimento solido, riso cotto».
(3)

Prende dunque buon cibo, di gusto dolce, facilmente digeribile, perché il corpo deve essere forte, ben funzionante. E similmente deve essere forte, gioioso, non estenuato l'animo, e adattabile, fluente, ricco il pensiero. È l'uomo insomma che deve essere coltivato, plasmato, addolcito, liberato, mentre le pratiche sono soltanto un mezzo, un'erba medicamentosa che può talvolta divenire troppo amara. Diceva il sufi e martire al-Hallaj:

Sei Tu che m'incanti, e non la Tua menzione [dhikr]:
non sia mai che il mio cuore ad essa sia attaccato!
La menzione è un orpello che ti sottrae al mio sguardo,
quando la mente s'adorna di pensieri
. (4)

Anche l'invocazione del nome divino (detta dhikr dai musulmani), dunque, o la meditazione, possono diventare un ostacolo, un amaro veleno, una finzione dell'io, se ci si attacca ad esse invece che alla verità. La stessa indicazione dà anche il racconto Zen – riportato da Nyogen Senzaki e Paul Reps (5) – della vecchia cinese che, dopo aver mantenuto un monaco per più di vent'anni, dà fuoco alla sua capanna perché, tutto compreso del senso della propria importanza personale, egli ha perso ogni fluidità di mente, ogni dolcezza, e pertanto non è più in grado di dimostrare comprensione e pietà verso l'amore di una ragazza.

   

Gusto e profumo dello spirito

Non bisogna insomma prendere la penna per lo scritto, il cannocchiale per la cosa vista, la fatica del trasportare per il tesoro trasportato, il piatto per il cibo, le pratiche religiose, cioè, per il fine a cui dovrebbero condurre. E per raggiungere il fine, si passa per uno stato di dolcezza interiore che tutti i mistici conoscono, del quale si parla come "gusto" o "sapore" (dhawq in arabo, rasa in sanscrito), "ebbrezza" o «Vino, che perfetto educa l'uomo», come diceva Khayyam. (6) San Gregorio Magno parlava di un «gusto dell'intima contemplazione (sapor intimae contemplationis)» conosciuto dal mistico, «onde, talvolta, viene introdotto ad una certa inusitata dolcezza del gusto interno». (7) Il mistico persiano Sohravardi dal canto suo diceva della Presenza divina (Sakina) che «la dolcezza ch'essa fa sperimentare è più perfetta di quella degli altri lampeggiamenti. Quando l'uomo ricade dalla Sakina e torna alla condizione umana ordinaria, prova un immenso dispiacere per questa separazione. È in questo senso che uno dei giusti ha pronunciato questi distici: O brezza della prossimità, come sei dolce! - Ha provato il gusto dell'intimità colui che con te dimora - O nutrimento degli uomini che t'hanno avvicinata - Che sono stati dissetati dalla coppa che attinge alla tua fonte!». (8) Infine, un passo della Rasatarangini riportato da Daumal dice che «Il sapore è di due specie: mondano e non-mondano (naturale e sovrannaturale). Il primo nasce dal contatto con le cose di questo mondo. Il secondo nasce dal contatto con le cose non-mondane [...] ed è conoscenza [conoscenza che ha il carattere di una reminiscenza]». (9)

Tale stato dunque, ignoto agli ipocriti, confuso nelle forme mondane per le persone ordinarie, è ben noto agli spirituali di tutte le tradizioni. E per chi è così intimo col mondo del mistero, non vi è più forma alcuna che possa scegliere, essendo egli passato al mondo senza forma, fonte d'ogni estasi e dolcezza, e di tutte le forme avendo riconosciuto la vacuità e l'amarezza. Infatti la dolcezza dell'animo nasce nella distruzione della forma, l'estasi si manifesta allorché viene svelato il segreto celato dietro l'impermanenza dei fenomeni di questo mondo, quando col loro profumo, dolce per chi è dolce, ci hanno incantato e guidato di là da se stessi, all'infinita intensità dell'origine. Così dichiarava infatti Abu'l Fadl, visir di Akbar:

Né l'eresia né l'ortodossia riguardano i tuoi eletti,
perché né l'una né l'altra giungono dietro il velo della Tua verità.
All'eretico l'eresia, all'ortodosso la religione:
ma la polvere del petalo di rosa appartiene al cuore
del Mercante di Profumi.
(10)

   

Sul dorso del cielo

Le forme - corporee, verbali o logiche che siano - per quanto possano costituire un veicolo indispensabile per giungere fino a un certo punto del cammino, di per sé non vanno "di là dal velo", non raggiungono cioè quella felicità di cui il Buddha, come abbiamo visto, diceva che è «di là dal bene, di là dal male», volendo con ciò negare la validità del raffronto con le esperienze comuni e delle categorie di giudizio ordinarie per un'esperienza che tutto ciò totalmente eccede.

La stessa cosa vuol suggerire, con linguaggio estremo, la Kaushitakibrahmanopanishad (III, 1): Indra vi afferma che il volto di chi Lo conosce non perderà colore qualunque male possa operare, neppure se ucciderà il padre o la madre, tale conoscenza essendo la cosa migliore che esista per l'uomo. Un'applicazione pratica di tale punto di vista fu data per esempio dal maestro Zen Nan-ch'uan che uccise un gattino che due monaci si disputavano poiché questi non avevano saputo rispondergli. Commentava Suzuki che «Nan-ch'uan può sembrare un buddhista dal cuore duro», (11) e in effetti tali atteggiamenti mi sembrano sospetti ed alquanto eccessivi (impensabili ad esempio nel Buddha), ma dice anche Laozi che «umanità e giustizia» nacquero «quando il gran tao fu messo in disparte» (Daodejing, 18); (12) che l'identificazione dei valori morali è cioè effetto di uno stato di decadenza, in cui motivazioni molteplici han sostituito nell'agire la semplicità del Tao.

Vi è dunque uno stato in cui ogni norma è senza luogo, ogni concetto o abitudine mentale svanisce, e di cui così parla Nagarjuna: «Pacificazione di tutte le percezioni, pacificazione dello spiegamento discorsivo, benigna». Ed aggiunge: «Mai dovechessia nessuna legge è stata insegnata dallo Svegliato» (Madhyamakakarika, XXV, 24). Spiega Gnoli riportando una tradizione secondo cui «dalla notte... in cui il Tathagata ha ottenuto la suprema completa illuminazione fino alla notte in cui egli è entrato nel parinirvana senza residuo (intendi: fino alla sua morte) neppure una sola sillaba è stata da lui espressa né pronunciata né la pronuncerà». (13) Tale stato di completa «pacificazione»«benigno» in quanto sovrumano, immortale – è dunque caratterizzato dall'assenza d'ogni attitudine formale, dal silenzio di ogni espressione terrena.

Di questo stesso stato parla Platone nel Fedro dicendo che «La vera ragione per cui le anime si affannano tanto per scoprire dove sia la Pianura della Verità è che lì in quel prato si trova il pascolo congeniale alla parte migliore dell'anima e che di questo si nutre la natura dell'ala, onde l'anima può alzarsi». Tale ala poi, nutrita ed arricchita di «bellezza, sapienza, bontà ed ogni altra virtù affine», solleva l'uomo che ne è degno alla dimora degli dèi: «le anime che sono chiamate immortali, quando sian giunte al sommo della volta celeste, si spandono fuori e si librano sopra il dorso del cielo: e l'orbitare del cielo le trae attorno, così librate, ed esse contemplano quanto sta fuori del cielo». In tale luogo sopraceleste poi «dimora quella essenza incolore, informe ed intangibile, contemplabile solo dall'intelletto, pilota dell'anima, quella essenza che è scaturigine della vera scienza». Di tale essenza, fonte di ogni reale dolcezza, l'anima si nutre prima di immergersi «di nuovo nel mezzo del cielo» e scendere «a casa». (14)

   

Bodhicitta

Ci si nutre dunque di ambrosia, cioè del nettare dell'immortalità, del nettare celeste della vera conoscenza, efficace e trasformatrice: sembra essere questo il senso di quei passi dei sutra buddhisti dove si racconta di dolci e leccornie che cadono dal cielo sul Buddha, (15) o del mito di Zeus, dio del cielo, nutrito dalle api. Tale dolcissima incorporea nutrizione è indispensabile, poiché solo per suo tramite si rafforza quella che Platone chiama «la parte migliore dell'anima» e che per i buddhisti è il bodhicitta, l'intento dell'illuminazione, la passione sacra della liberazione.

Chi tale bodhicitta ha adeguatamente mantenuto e nutrito, esce, come dice Platone, «sopra il dorso del cielo», in un sito sopraceleste (che ci ricorda il sahasrarapadma, che nello Yoga è un vero e proprio "cielo dell'uomo", ed è la sede del Sadguru), ovvero, in termini buddhisti, raggiunge la shunyata: libertà, inimmaginabile intensità del vuoto, estinzione (nirvana) delle cause.

   

Il silenzio della compassione

Si possono dunque identificare due passaggi importanti nel cammino verso la verità:

1) bisogna possedere un "gusto" raffinato, che ci renda "cedevoli e dolci", per essere vasi adatti alle acque dolci della verità;

2) quando la verità si è riversata nel nostro vaso, la dolcezza vien trasformata in silenzio.

Se non si ha dolcezza infatti, e gusto per la dolcezza, non si può percepire la differenza di sapore tra la verità e la finzione.

Senza percezione della differenza tra verità e finzione, non si può confidare nella verità.

Senza fede nella verità, non si può sopportare la consapevolezza della relatività della conoscenza umana.

Solo infatti se il cuore, rigenerato da una adeguata "dieta" di sapori interni, ha aperto il suo occhio, se siamo dunque coscienti del bodhicitta, e siamo così diventati persone davvero "cordiali", libere, vere, non desiderose di rappresentazioni formali che soddisfino l'io, possiamo, infine tacendo, comprendere appieno quanto dice Nagarjuna:

«Tutte le entità essendo vuote, cos'è che ha non fine? Cos'è che ha fine? Cos'è che ha non fine ed ha fine? Cosa non ha né non fine né fine?». (16)

Tale domanda non sopporta risposte puramente verbali, non si può controbatterla con espedienti dialettici, ma soltanto con l'amore, la compassione, che stando di là dalle forme danno ragione di esse. Tale ragione è ultraverbale, antischematica. Appartiene all'esperienza integrale, non scissa, è conoscenza di tutto l'essere, svuotamento d'ogni opinione, autopercezione inopinabile del non formale. Per questo Nagarjuna conclude così le sue Madhyamakakarika:

«Mosso da compassione Egli, Gautama, ha insegnato la buona legge che conduce all'eliminazione di tutte le opinioni: e a Lui, a Gautama, io rendo omaggio». (17)

Si pone dunque Nagarjuna sulla vasta scia del Buddha, il quale aprì una via per estirpare il dolore, per estirpare le cause del dolore, preso da compassione per coloro i cui occhi sono incapaci di aprirsi da sé.

Tale compassione che estirpa il dolore non è che l'estrema manifestazione della "dolcezza" di cui abbiamo parlato. Il Buddha se ne andò dal suo palazzo per compassione, amando tuttavia la moglie ed il figlio, non per disamore o per apatia; per compassione cercò la verità e, trovatala, solo per compassione, nonostante le enormi difficoltà, la insegnò.

Tale compassione è la stessa cosa dell' "amore" (agàpe) di cui diceva San Paolo: «quand'anche dovessi avere il dono della profezia e conoscere tutti i misteri ed ogni scienza, e quand'anche avessi tutta la fede, così da trasportare le montagne, se però non avrò amore, non sono nulla», aggiungendo poi che «L'amore non viene mai meno» mentre «sia le profezie verranno svuotate, sia le lingue cesseranno, sia la scienza verrà resa vana. In modo parziale infatti conosciamo, ed in modo parziale profetiamo» (1 Corinzi, 13, 2-8-9). (18)

E che altro è questa "conoscenza parziale" se non le "opinioni" della cui eliminazione il Buddha c'insegna, secondo Nagarjuna, la strada, e che anche Platone insegnava nel Fedro (248b) essere il cibo delle anime che non hanno goduto la visione dell'essere?

L'opinione infatti è un indurimento, una scorza, ma la dolcezza la scioglie: quante opinioni prima affermate con durezza vengono poi trascurate per amore, in virtù di un'intellezione che partendo dal cuore sopraffà la mente ordinaria mantenendo un po' di umanità. Così comprendendo, si dovrebbe essere davvero cauti nell'esprimersi. Chi molto afferma, poco conosce. La conoscenza ha vesti di silenzio.

 

[24.VI.1997; pubblicato su L'Età dell'Acquario, nn. 107 e 108, gennaio/febbraio e marzo/aprile 1998]

   

   


(1) Cfr. Dogen e Uchiyama Roshi, Istruzioni a un cuoco Zen, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1986, p. 18.

(2) Cfr. Samuel Bercholz e Sherab Chödzin Kohn, Le vie del Buddha. Vita, pensiero, insegnamenti, Sansoni, Ariccia, 1994, p. 25.

(3) I discorsi di Gotamo Buddho del Majjhimanikayo per la prima volta tradotti dal testo pali da K.E. Neumann e G. De Lorenzo, Laterza, Bari, 1916, 3 volumi. Vol. I, p. 365.

(4) Al-Hallaj, Diwan, ediz. it. a c. Alberto Ventura, Marietti, Genova, 1987, n. 30, p. 52.

(5) 101 storie Zen, a c. Nyogen Senzaki e Paul Reps, Adelphi, Milano, 1973, n. 6.

(6) Cfr. `Omar Khayyam, Quartine (Roba`iyyat), a c. Alessandro Bausani, Einaudi, Torino, 1956, n. 213, p. 76.

(7) Cfr. Étienne Gilson, La théologie mystique de Saint Bernard, Vrin, Paris, 1960, cap. I, p. 33.

(8) Cfr. Shihaboddin Yahya Sohravardi, L'Archange empourpré. Quinze traités et récits mystiques a c. Henry Corbin, Fayard, Paris, 1976, p. 454-455.

(9) Cfr. René Daumal, La conoscenza di sé. Scritti e lettere 1939-1941, Adelphi, Milano, 1972, p. 86.

(10) Versi finali della Prière composée pour le culte de la Foi Divine unique sur l'ordre de l'empereur Akbar par son vizir Aboul Fazl en 1582, "La Revue Théosophique - Le Lotus Bleu", giugno 1935.

(11) Cfr. Daisetz Teitaro Suzuki, Saggi sul buddhismo Zen, Mediterranee, Roma, 1975, vol. I, p. 260.

(12) Cfr. La Regola celeste di Lao-Tse (Tao Tê Ching), a c. Alberto Castellani, Sansoni, Firenze, 1927.

(13) Nagarjuna, Le stanze del cammino di mezzo (Madhyamakakarika), a c. Raniero Gnoli, Boringhieri, Torino, 1961, XXV, 24, p. 130.

(14) Platone, Fedro, 248, 246, 247 trad. Piero Pucci, in: Opere complete, Laterza, Bari, 1971, vol. 3°, p. 248.

(15) Cfr. per es. il "Sutra degli innumerevoli significati", in: The Threefold Lotus Sutra, a c. Bunno Kato, Yoshiro Tamura e Kojiro Miyasaka, Weatherhill-Kosei, New York-Tokyo, 1975, pp. 17 e 26.

(16) Nagarjuna, op. cit., XXV, 21-22.

(17) Ibidem, XXVII, 30, p. 138.

(18) Novum Testamentum Graece et Latine, a c. Eberhard Nestle, Erwin Nestle e Kurt Aland, United Bible Societies, Londra, 1963/1969, p. 448.

 

 

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