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Dario Chioli
LA CINQUANTESIMA PORTA
Storia ed esoterismo del giubileo
Sant'Antonio di Ranverso in Val di Susa (foto dell'autore) | Scalone dei Morti e Porta dello Zodiaco della Sacra di San Michele in Val di Susa | Sant'Antonio di Ranverso in Val di Susa (foto dell'autore) | Sacro Monte di Varallo Sesia (foto dell'autore) |
IL PRIMO GIUBILEO CRISTIANO DELLA STORIA
DAL GIUBILEO BIBLICO A QUELLO ROMANO
IL GIUBILEO CATTOLICO COME INDULGENZA
Le indulgenze prima del Concilio Vaticano II
Le indulgenze dopo il Concilio Vaticano II
L'ETERNO GIUBILEO DEL SANTO. Commentario a Levitico 25, 8-24
- Lev 25,8 - Lev 25,9 - Lev 25,10
- Lev 25,11 - Lev 25,12 - Lev 25,13
- Lev 25,14 - Lev 25,15 - Lev 25,16
- Lev 25,17 - Lev 25,18 - Lev 25,19
- Lev 25,20 - Lev 25,21 - Lev 25,22
Di giubileo si parla nel mondo cattolico - come è ben noto soprattutto in quest'anno 2000 - come di una ricorrenza attualmente venticinquennale in cui, se il cuore è coordinato al pellegrinaggio, si può ottenere un'indulgenza plenaria; ma si parla anche nella Bibbia - cosa in realtà assai meno nota tra i cattolici, che leggono poco l'Antico Testamento - come di un anno di reintegrazione dello status quo ante, in cui cioè dovrebbero essere annullati i debiti ed ogni alienazione di proprietà.
Infatti, secondo Levitico 25, 23,
la terra non sarà venduta definitivamente,
perché mia è la terra,
perché stranieri e avventizi siete voi presso di me.
Il giubileo biblico non è dunque la stessa cosa di quello cattolico, questo essendo infatti di quello come una trasposizione sul piano morale che non ebbe mai - a differenza di quello biblico - lo scopo immediato di operare una concreta trasformazione della società, alleviando la povertà dei vari gruppi sociali con la ridistribuzione delle ricchezze e la cancellazione dei debiti. Il giubileo biblico fu in questo - quando e se fu applicato - senz'altro assai più rivoluzionario di quello cattolico. Mediante esso si ingiungeva con cristallina chiarezza di operare, di rendere indietro, non già di esprimere buone intenzioni pacificatrici della coscienza personale, e in verità gli effetti morali dei fatti sembrano assai più attendibili degli effetti morali delle intenzioni. Per questo tale istituto fu ben presto posto in oblio dalle gerarchie dell'epoca, come sempre probabilmente ne vorrà dimenticare la profetica esistenza qualsiasi detentore del potere di questo mondo, a qualunque gruppo politico o religioso appartenga.
Con ciò non voglio dire che risulti spiritualmente insignificante la celebrazione ben vissuta del giubileo cristiano; voglio solo rilevare che in questo fa da giudice la buona volontà; in quello biblico la legge, che è qualcosa di decisamente più costrittivo. Il cristiano può infatti considerare buone azioni - se le fa - quelle che l'ebreo biblico doveva considerare obblighi, il che fa una certa differenza. Se il cristiano è un cattivo cristiano, non fa nulla, e comunque perlopiù farà poco; ma l'ebreo biblico, buono o cattivo che fosse, durante il giubileo doveva fare, e doveva fare molto.
Non è tuttavia facile immaginare oggi una concreta applicazione delle leggi bibliche sul giubileo, che erano specialmente intese per il mantenimento dell'equilibrio nella suddivisione della terra d'Israele tra le dodici tribù; giova tuttavia - di là da ogni interpretazione comodamente storicistica, edulcorata e soggettiva - non dimenticarsi di quanto in realtà fu ingiunto dalle Scritture, di cosa esse realmente considerassero necessario, di come infine per esse il proprietario della terra fosse esclusivamente Dio, giammai l'uomo.
Non risulterà pertanto inutile - speriamo - questa nostra operetta di chiarimento e di approfondimento, che vorrebbe fornire al lettore un'opportunità per poter contemplare con uno sguardo più vasto, più libero e più sensibile del solito tutta la questione.
Incominceremo pertanto in primo luogo a rievocare - con l'aiuto di alcuni testimoni dell'epoca e di taluni storici successivi - la prima celebrazione cristiana, quella del 1300, al fine di cogliere almeno parzialmente le intenzioni che ne furono origine.
Procederemo quindi - con l'ausilio dell'ottima sintesi di un dizionario biblico del settecento - a penetrare le fonti scritturali ed esegetiche a cui il giubileo cristiano - come si è visto non in modo così immediato - è stato ricollegato, nonché a comprendere di conseguenza, di tale parola giubileo, la duplicità - biblica e cattolica - di significato e di contenuto.
Considereremo poi brevemente la base teologica della celebrazione cattolica, ovvero la dottrina delle indulgenze, e vedremo com'era formulata sia prima che dopo il Concilio Vaticano II.
Infine lasceremo del tutto da parte il giubileo medioevale e moderno e ci addentreremo - sarà questa forse la parte più interessante - nell'analisi diretta delle fonti scritturali e nelle connesse interpretazioni e simbologie ebraiche e cristiane, per cercare in ultimo di approfondire ancor più il discorso mediante una meditazione sul giubileo quale mistica rivelazione che pienamente si attua nell'intimo del santuario interiore dove abita il Santo, unica origine di ogni santità.
IL PRIMO GIUBILEO CRISTIANO DELLA STORIA
Ciò che poi verrà chiamato giubileo si celebrò nel mondo cristiano, per quanto documentalmente ci risulta, per la prima volta nel 1300. Leggiamo al proposito alcune testimonianze.
Giovanni Villani (1270 circa-1348), Cronica, libro VIII, cap. XXXVI:
"Negli anni di Cristo 1300, secondo la nativitade di Cristo, con ciò fosse cosa che si dicesse per molti, che per addietro ogni centesimo d'anni della natività di Cristo, il papa ch'era in quei tempi facea grande indulgenza, papa Bonifazio ottavo che allora era apostolico, nel detto anno a reverenza della natività di Cristo, fece somma e grande indulgenza in questo modo; che qualunque Romano visitasse infra tutto il detto anno, continuando trenta dì, le chiese dei beati Apostoli Santo Pietro e Santo Paolo, e per quindici dì l'altra universale gente che non fossono Romani, a tutti fece piena ed intera perdonanza de' suoi peccati, essendo ben confesso o si confessasse, di colpa e di pena. E per consolazione de' cristiani pellegrini, ogni venerdì e dì solenne di festa si mostrava in San Piero la Veronica del sudario di Cristo. Per la qual cosa gran parte de' cristiani che allora viveano, feciono il detto pellegrinaggio così femmine come uomini, di lontani e diversi paesi, e di lungi e d'appresso. E fu la più mirabile cosa che mai si vedesse, che al continuo in tutto l'anno durante, avea in Roma oltre al popolo romano, duecentomila pellegrini, senza quegli ch'erano per gli cammini andando e tornando, e tutti erano forniti e contenti di vittuaglia giustamente, così i cavalli come le persone, e con molta pazienza, e senza romori e zuffe; ed io il posso testimoniare, che vi fui presente e vidi. E dell'offerta fatta per gli pellegrini molto tesoro ne crebbe alla Chiesa, e' Romani per le loro derrate furono tutti ricchi".
Antichissima immagine dei santi Pietro e Paolo in un medaglione bronzeo trovato dal Boldetti nel cimitero di Domitilla, probabilmente del II secolo, riportato in: Orazio Marucchi, S. Pietro e S. Paolo in Roma. Cenni storici ed archeologici per uso dei visitatori della città nell'anno del Giubileo 1900, Pustet, Roma 1900, p. 162.
Tommaso Gallarati Scotti, Vita di Dante (1921), ed. BUR, Milano 1957, cap. VI, pp. 141-143:
"Si era sparsa la voce, portata con la rapidità che hanno i movimenti mistici, per tutti i paesi della cristianità, che grandi indulgenze si lucrassero visitando le Basiliche romane nell'ultimo anno di ogni secolo. Tanto che nel gennaio e febbraio si cominciò a vedere un insolito numero di pellegrini giungere alla città eterna.
Allora papa Bonifazio, colpito dall'inatteso concorso e desideroso di riavvicinare i popoli cristiani alla Sede del Vicario di Cristo, nella festività della Cattedra di San Pietro emanò solennemente una bolla in cui bandiva a notizia dei presenti e a memoria dei posteri, che a tutti coloro che in quell'anno, e in ogni primo anno di secolo, si fossero recati a visitare le Basiliche dell'Urbe veramente pentiti e confessati, era concessa non solo larga e piena, ma "pienissima" perdonanza di "tutti i peccati". Questa promessa di indulgenza plenaria, non fece che accrescere il movimento già spontaneamente iniziato. E le folle, commosse dalla speranza di remissione delle colpe, si erano messe in cammino per le lunghe e aspre vie dell'Europa selvosa, verso la lontana città ancora avvolta per il romeo medievale dalla mistica luce della leggenda e del miracolo. Scendevano dai sentieri delle Alpi, affrontando i pericoli delle nevi e delle foreste ancora abitate dalle fiere, giù per tutte le vie della penisola in file nere salmodianti, guidate dai sacerdoti e dalle croci e quasi portate dalla fede verso la città del perdono. Genti di lingua, di stirpi, di costumi diverse si erano volte da oriente da occidente e da settentrione a decine di migliaia, a centinaia di migliaia, là onde veniva il messaggio e l'invito alla penitenza. "...Gran parte de' Christiani che allhora viveano feciono il detto pellegrinaggio così femine come uomini di diversi et lontani paesi et di lungi et d'appresso et fu la più mirabile cosa che mai si vedesse, che al continuo in tutto l'anno haveva in Roma oltre al popolo romano 200 mila di pellegrini, senza quelli che erano per li camini andando et tornando...".(1) Il moto religioso scuoteva i più lontani e chi non poteva venire si faceva portare dai suoi figli, come quel contadino centenario venuto dalle montagne di Savoia per vedere la città dei martiri, quasi a pregustare le consolazioni celesti. Il poeta deve aver veduto allora anche il rozzo e pio pellegrino venuto "forse di Croazia" a venerare "la Veronica nostra" quasi estatico di fronte alle reliquie della Passione del "Dio verace". (2)
Perché tutto lascia credere che Dante si lasciasse trascinare da quell'onda di fede e di popolo fino alla tomba degli Apostoli. La vivace descrizione della folla, sul ponte di Castel Sant'Angelo "l'anno del giubileo", divisa nelle due file di quelli che "hanno la fronte - verso il castello e vanno a Santo Pietro", (3) mentre gli altri vanno verso Monte Giordano, ha la precisione delle cose viste. Anch'egli deve essersi trovato sperduto tra quella moltitudine paurosa, che non ordinata nei primi giorni, travolse parecchi pellegrini che vi lasciarono la vita. Ma comunque si voglia pensare di ciò, una cosa è certissima: che lo spettacolo grandioso di quel Trecento mistico scosse profondamente la fantasia del poeta e la coscienza del peccatore credente. Sopra l'ire di parte, sopra le antipatie personali, sopra le avversioni e i sospetti per la politica pontificia, per i paciari e per l'oscuro e terribile pontefice, una calma luce di perdono e di grazia divina splendeva dopo molti erramenti e molte oscurità anche per lui, richiamandolo con una voce di donna, laggiù verso quella foce del Tevere dove per la sua immaginazione mistica l'Angelo nocchiero raccoglieva l'anime nel "vasello snelletto e leggiero" che varca, senz'altro remo che l'ala, verso i "liti lontani" della purificazione. (4) Anche per lui, l'oppositore fiero di Bonifazio e il più parziale dei suoi nemici, il Vicario di Cristo appariva illuminato da un'altra luce che non quella politica e come lo dichiarerà dopo l'affronto del 7 settembre 1303, quando il Nogaret e Sciarra Colonna avevano "catto" e "deriso" (5) in Anagni Bonifazio, superando i suoi risentimenti d'uomo di parte, nella commossa sua fede di cattolico non doveva veder che il custode delle "somme chiavi" (6) e il dispensatore della misericordia e del Sangue di Gesù.
Grande deve essere stata per Dante anche la rivelazione dell'antica Roma, così come gli appariva traverso la cadente maestà dei Fori, dei palagi, degli anfiteatri e degli archi, da cui veniva a lui una voce solenne e grave che gli rammentava la sua origine e lo eccitava a cose magnanime. Né con parole molto diverse da quelle del suo concittadino Villani avrebbe potuto esprimere la commozione profana per quel "benedetto pellegrinaggio nella santa città di Roma" ricordando "le grandi e antiche cose di quella, leggendo le storie e grandi fatti de' Romani scritte per Virgilio e Sallustio..." da cui anch'egli riconosceva di aver preso "lo stile"". (7)
Arturo Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo con un'appendice sulla leggenda di Gog e Magog, Chiantore, Torino 1923, p. 44:
"Bandito nel 1300 da papa Bonifacio VIII il Giubileo, accorsero in Roma due milioni di pellegrini.(8)
Quando si scopriva loro dinanzi la città eterna, i pellegrini intonavano un canto la cui prima strofa sonava così:
O Roma nobilis, orbis et domina,
Cunctarum urbium excellentissima,
Roseo martyrum sanguine rubea,
Albis et virginum liliis candida:
Salutem dicimus tibi per omnia,
Te benedicimus, salve per sæcula. (9)
Entrati in città, e dato principio alle pratiche di devozione, si trovavano tosto in presenza delle ruine, le quali servivano a dirigere le processioni nella via lunga e malagevole, su per i colli, traverso ai grandi spazii disabitati" .
Claudio Rendina, I papi. Storia e segreti, Newton Compton, Roma 1996, p. 417:
"Bonifacio VIII decise di celebrare il primo giubileo della storia.
La bolla con cui fu indetto l'Anno Santo è del 22 febbraio 1300, la Antiquorum habet fidem; essa decretava un'indulgenza plenaria per tutti coloro che nell'anno in corso e in ogni futuro centesimo anno avessero visitato le basiliche di S. Pietro e S. Paolo a Roma. L'avvenimento fu veramente eccezionale: tutti i cronisti del tempo concordano nel riferire l'afflusso a Roma di un enorme numero di pellegrini ".
L. Todesco, Manuale di storia della Chiesa, Marietti, Torino-Roma 1937, vol. I, p. 429:
"Delle sue amarezze Bonifacio si sollevò alquanto lungo l'anno 1300, contemplando lo straordinario spettacolo che offrì Roma in occasione del grande Giubileo. Nei primi e negli ultimi mesi dell'anno giubilare l'Europa sembrò darsi convegno nell'eterna Città. Vi si confluiva in folla, a piedi, a cavallo, trascinando su carri i vecchi e gli infermi. Il numero dei pellegrini superò i 200 mila, (10) cifra straordinaria se si considerano le difficoltà del viaggio e la popolazione d'Europa, che raggiungeva a fatica i 50 milioni di abitanti".
Paolo Brezzi, La civiltà del Medioevo europeo, Eurodes, Città di Castello 1978, vol. 3, pp. 272-275:
"[...] chiunque rifletta con un po' di attenzione sul fenomeno storico del primo giubileo cristiano comprende facilmente di trovarsi di fronte ad un'esplosione improvvisa e clamorosa, né alcun richiamo alle condizioni generali della società medioevale, allo spirito dei tempi, all'azione pontificia potrà spiegare a sufficienza l'enorme rispondenza che quell'episodio ebbe, l'eco che suscitò e le conseguenze che produsse. Davvero questa istituzione inserita nella vita religiosa cristiana fu uno dei fatti generatori della storia, un acquisto compiuto dall'umanità.
Alcuni testimoni oculari ed autorevoli per la posizione da loro occupata nella curia di Bonifacio VIII hanno lasciato degli scritti che permettono di ricostruire, nei particolari, le prime fasi del giubileo, anzi la gestazione di esso in quanto si tratta di avvenimenti svoltisi prima della sua proclamazione ufficiale. Il primo Autore è il cardinale Iacopo Gaetano Stefaneschi, diacono di S. Giorgio in Velabro, che scrisse poco dopo la chiusura dell'Anno Santo il De Centesimo seu Jubileo anno liber [...]
Cerchiamo dunque di renderci ragione di quel che avvenne in Roma nei primi giorni del nuovo secolo, dato che lo stile della curia romana fissava l'inizio dell'anno al 25 di dicembre festa di Natale. Scrive lo Stefaneschi nel suo oscuro latino che dal 25-12-1299 al 1°-1 successivo "rimase come occulto il mistero di quella nuova perdonanza" ma dal tramonto del 1° alla mezzanotte "come se a poco a poco quel mistero si fosse aperto e svelato ai Romani" una folla immensa accorse alla basilica di S. Pietro, i fedeli si accalcarono intorno all'altare ammonticchiandosi l'uno sull'altro come se pensassero che col termine della giornata spirasse il tempo del maggior perdono. Vi era chi asseriva che in quel giorno si poteva ottenere la cancellazione di tutte le colpe, mentre nei successivi si sarebbe acquistata un'indulgenza di 100 anni, ma fu impossibile stabilire a chi risalisse la responsabilità di quella notizia.
Sappiamo, infatti, che nessun precedente liturgico poteva offrire un appiglio sufficiente per creare quello stato d'animo, né le testimonianze di ultracentenari che vennero allora portate sono attendibili, risultando fittizie costruzioni posteriori (anche lo Stefaneschi ne dubita); lo stesso papa Bonifacio VIII, dopo aver fatto compiere ricerche negli archivi di curia per saper se qualcosa di simile era avvenuto nel 1100 ovvero nel 1200, dovette onestamente riconoscere che mancavano documenti od altre prove; né la scusa che i saccheggi degli archivi potevano aver provocato la dispersione degli atti appare plausibile. Un cronista orvietano si dimostrò più ragionevole di tanti studiosi posteriori riportando l'informazione che "nel 1300 venne fuori una mai udita opinione del popolo romano, il quale diceva che nelle chiese degli apostoli Pietro e Paolo in quel centenario c'era piena indulgenza di tutti i peccati".
Frattanto la folla dei penitenti cresceva continuamente in Roma e lo slancio popolare non dava segno di cedere; ai cittadini incominciavano ad aggiungersi i forestieri che giungevano in pellegrinaggio, ed allora il papa decise di prendere in serio esame la cosa. Convocato il collegio dei cardinali discusse la questione e prese una decisione molto importante, ossia emise una bolla con la quale dava il sigillo della sua approvazione apostolica alla cerimonia sorta spontaneamente, non volendo resistere ad un desiderio sincero e generale, ma senza per questo esser costretto a cedere di fronte al fatto compiuto. Ma in queste trattative erano trascorsi circa due mesi e si era giunti quasi alla fine di febbraio; la bolla papale porta, infatti, la data del 22-2, che è il giorno stabilito dal calendario liturgico per la celebrazione della festività della Cattedra di S. Pietro. La scelta del giorno era di per sé molto significativa, ma la sua importanza risulterà ancor meglio se si riflette che in un primo tempo il documento pontificio era datato 16-2 ed era emanato dal Laterano, residenza ufficiale dei papi nel Medio Evo; il cambio (venne modificato anche il luogo di emissione ed ora si legge: datum S. Petri) sta ad indicare il desiderio di concentrare l'attenzione dei fedeli sul ricordo del primo papa ed indirizzare la devozione verso la tomba di colui al quale Cristo aveva dato le chiavi del regno dei cieli [...].
La rispondenza della Cristianità alla decisione papale fu calorosissima e l'interesse suscitato dall'iniziativa enorme; le immagini trovate dai cronisti per indicare l'accorrere delle folle sono pittoresche non meno che efficaci; è superfluo citare i versi danteschi: "Come i Romani per l'esercito molto...". L'afflusso maggiore fu costituito da umili fedeli (dei "grandi della terra" non si ricorda nessuno presente a Roma in quell'anno) ed anche il ricavato finanziario fu notevole benché non favoloso come qualcuno immaginò (il denaro raccolto servì al restauro o costruzione di chiese)".
DAL GIUBILEO BIBLICO A QUELLO ROMANO
Dopo esserci fatta una più chiara idea del primo giubileo cristiano, vedremo ora sulla base di quali fonti scritturali ed esegetiche si poté considerarne legittima l'istituzione.
E lo vedremo con l'aiuto di un vecchio dizionario biblico del settecento, e dei dotti commenti ad esso di Prospero dell'Aquila. (11)
Il suono dello shofar
Au son du Shofar: l'appel du Monde qui Vient (Rituel des fêtes, XIVe siècle), riportato in: Guy Casaril, Rabbi Siméon bar Yochaï et la Cabbale, Seuil, Bourges 1961, p. 126.
Dice dunque tale dizionario (12) che la parola giubileo "deriva dall'ebreo yovél, che significa un corno di Ariete, poiché si faceva uso di questo corno per annunziare al popolo l'anno del Giubileo, in cui si riposava, si restituiva la libertà agli schiavi e si restituivano le possessioni che si erano comprate; cosicché le compre che si facevano presso i Giudei non erano per sempre, ma solamente fino all'anno del Giubileo. La terra riposava, ed era proibito di coltivarla, e sementarla. L'anno del Giubileo era il cinquantesimo, che veniva dopo le sette settimane d'anni, o sette volte sette anni (Levitico XXV, 8). Iddio nell'istituire l'anno del Giubileo ebbe in vista d'impedire che i ricchi opprimessero li poveri e gli riducessero ad una perpetua schiavitù, e d'inculcar loro l'obbligazione di vivere con una universal dipendenza da lui, ch'era loro Signore e di cui essi erano come Vassalli, e con un perfetto distaccamento da tutte le cose presenti. Questa legge era la figura del tempo salutare in cui Gesù Cristo, ritornando nel Cielo, aprì l'ingresso agli uomini, per metterli nel possesso de' beni e della libertà della quale il peccato gli avea spogliati".
Prospero dell'Aquila aggiunge il seguente commento: "L'istituzione del Giubileo è descritta nel XXV capo del Levitico con queste parole: Conterai parimente (disse Dio a Mosè) sette settimane di anni, vale a dire, sette volte sette, che fanno in tutto quarantanove anni: E nel settimo mese, al decimo giorno del mese, nel tempo della espiazione, farai suonare la tromba per tutto il vostro paese: perocché è il Giubileo. Ciascuno ritornerà nella sua possessione, e ciascuno ritornerà alla sua famiglia: poiché è il Giubileo e l'anno cinquantesimo. Non seminerete, e non mieterete quello che sarà nato da se stesso nel campo, e non coglierete le primizie della vendemmia, a causa della santificazione del Giubileo, ma voi mangerete quello che vi si presenterà davanti. Nell'anno del Giubileo ciascuno ritornerà nelle sue possessioni (XXV, 8-13). Sicché l'anno del Giubileo era in tutto Israele di pienissimo rilascio, come pure era l'anno Sabbatico, di cui si parlerà nel suo luogo. Nondimeno quest'era la differenza tra l'anno Sabbatico, ed il Giubileo; che nell'anno del Giubileo, come nota il P. Calmet nel Dizionario Biblico alla voce Jubilæum, si dava la libertà a tutti coloro che nell'anno Sabbatico avean ceduto a questo gius di ricuperare la libertà.
Inoltre l'anno Giubileo si dice egli o da YWBL yovél, che significa il corno dell'Ariete, in quanto che co' corni dell'Ariete, e colle trombe fatte a figura di corno d'Ariete, si pubblicava l'anno del Giubileo, come sostengono Lirano, Pagnino, Strauchio ed altri; oppure da HWBYL hovìl, (13) che significa portare, addurre, e ciò con allegrezza, e gioia, poiché in tal tempo tutte le cose ritornavano con gran piacere a' loro padroni, come affermano Cornelio a Lapide, Calmet ed altri.
Non può mettersi in dubbio che l'anno del Giubileo fosse cominciato nel tempo in cui cominciò l'anno Sabbatico. L'anno Sabbatico cominciò a numerarsi da quel tempo in cui gli Ebrei si fecero padroni della Terra di Canaan, perché allora potevano essi coltivare e sementar la terra, e raccorne i frutti, cioè nell'anno settimo di Giosuè; e dal medesimo anno deve ripetersi l'inizio del Giubileo per la stessa ragione. Ma non convengono i scrittori nel numero degli anni del Ciclo del Giubileo. L'Abulense, Saliano, Torniello ed altri molti, che citano una serie di Padri in favore della loro opinione, sostengono che il ciclo del Giubileo costava di anni 50 dimodoché ciascun anno cinquantesimo esclusivamente numerato dall'antecedente era Giubileo per comandamento di Dio. Ma Scaligero, Petavio, Calmet ed altri stimano che il Giubileo era nell'anno 49 ultimo nella sommana (14) delle sette d'anni, siccome l'ultimo giorno della sommana era il Sabbato, e l'ultimo nella sommana degli anni era il Sabbatico. Fortunato da Brescia così dispone, e numera gli anni del Giubileo in guisa tale che non gli disgiunge dal settimo Sabbatico; onde siccome gli anni 49, 98, 147, 196 &c. erano sabbatici, così gli anni 450, 99, 148, 197 &c. furono giubilei. Disse Iddio a Mosè: Conterai parimente sette settimane di anni, vale a dire, sette volte sette, che fanno in tutto quarantanove anni: E nel settimo mese, al decimo giorno del mese, nel tempo della espiazione, farai suonare la tromba per tutto il vostro paese. Sicché nell'ultimo anno delle sette settimane di anni si pubblicava il Giubileo. Quest'anno non si può negare che sia Sabbatico; dunque l'anno che siegue immediatamente, cioè il 50° dal Giubileo antecedente, era l'anno di pienissima remissione da santificarsi per ordine di Dio.
Deve però osservarsi che tanto l'anno Sabbatico quanto il Giubileo incominciavano non dal mese Nisan, (15) primo dell'anno Sagro, ma da Tishri, (16) primo dell'anno Civile. In fatti si è detto che l'anno del Giubileo si pubblicava nel giorno decimo del settimo mese. Ora il mese settimo dell'anno Ecclesiastico, di cui parlava Mosè, è il primo dell'anno Civile, chiamato Tishri. Dunque Tishri era primo mese tanto dell'anno Sabbatico, quanto del Giubileo. E ciò per motivo che gli Ebrei non avessero perduta la raccolta di due ann'insieme, cioè di quello che principiava da Nisan e di quello che seguiva immediatamente al Giubileo: avrebbero perduta intanto la messe del primo anno, perché gli Ebrei non potevano mietere nell'anno del Giubileo; avrebbero ancor perduta la messe del secondo anno, perché proibito era nel medesimo anno a loro di seminar la terra.
La nostra Chiesa Romana Cattolica a somiglianza della Chiesa Giudaica istituì il Giubileo spirituale, per cui solamente rilascia i peccati, e concede le indulgenze, per mezzo della potestà ed autorità ricevuta da Gesù Cristo di legare e di sciogliere. Qual Giubileo fu istituito da Bonifacio VIII (17) nell'anno dell'Era Volgare 1295 con la condizione di portarsi in Roma alla visita del Sepolcro de' SS. Apostoli Pietro e Paolo, e da celebrarsi in ogni centesimo. Ed il primo fu celebrato nell'anno 1300 dopo Bonifacio. Il nome però di Giubileo fu imposto da Sisto IV (18) dopo due anni del suo Pontificato in una Bolla che pubblicò nell'anno 1473, per la quale concesse a' Fedeli una pienissima remissione, chiamandola Giubileo. Ma perché l'età dell'uomo difficilmente può giungere a' cento anni, Clemente VI (19) nel 1342 ribassò il Giubileo ad ogni cinquantesimo; di poi Urbano VI (20) lo restrinse in ogni trentesimo terzo; finalmente Paolo II (21) ad ogni ventesimo quinto, come si osserva al presente". (22)
IL GIUBILEO CATTOLICO COME INDULGENZA
I testi fin qui riportati, parlando del giubileo cattolico, accentuano il fatto che vi si ottengono indulgenze. (23) Cerchiamo pertanto di illustrare ora con breve sintesi come tale questione delle indulgenze è stata trattata dal magistero cattolico, (24) sia per se stessa sia in relazione al giubileo, indicando anche quanto di importante è stato modificato dal Concilio Vaticano II.
Si noterà, a ben guardare, che l'istituto dell'indulgenza di per sé non è da sottovalutare, perché teologicamente è fondato sulla percezione della comunione spirituale di tutti i credenti. Chi realmente afferri il significato interiore di ciò, avrà a propria disposizione un valido aiuto, un saldo appoggio per evitare la disperazione, per dare un significato alle proprie prove; avrà nel suo cuore l'immagine di un cammino che partendo dall'interno della sua vita di tutti i giorni si addentra nell'aldilà mediante l'aiuto dei suoi abitanti; di un sentiero che, inizialmente visibile, si tramuta, rimanendo il medesimo, in invisibile, trasformando con sé chi lo percorre e facendogli avvertire presenti al suo fianco coloro che furono un giorno, che simili sentieri hanno già nel loro tempo costruito e percorso.
Le indulgenze prima del Concilio Vaticano II
Citiamo dapprima la concisa sintesi dogmatica di un autore pre-conciliare, A. Boulenger. (25)
"1° Definizione. - L'indulgenza è la remissione della pena temporale dovuta ai peccati già perdonati, che la Chiesa concede in virtù dei meriti sovrabbondanti di Gesù Cristo, di Maria Vergine e dei Santi.
2° Specie. - A) Sotto l'aspetto dei suoi effetti, l'indulgenza può essere plenaria o parziale. - a) Plenaria; se rimette tutta la pena temporale dovuta al peccato; - b) parziale, se ne rimette soltanto una parte. Per comprendere il senso di questa espressione, bisogna ricordare che, nei primi secoli della Chiesa, tutti i peccati gravi erano puniti con una penitenza canonica la cui durata era, come si è detto, determinata dai penitenziali. La Chiesa, abbandonato l'antico rigore, alla soddisfazione che esigeva una volta, supplisce oggi con le indulgenze e ne misura il valore secondo gli antichi canoni penitenziali. Per conseguenza quando si dice che la Chiesa concede un'indulgenza parziale, per esempio di sette anni e sette quarantene, di cento, di quaranta giorni, questo non vuol dire che siano rimessi altrettanti anni o giorni di Purgatorio, ma che la pena la quale veniva rimessa una volta con una penitenza di tanti anni o di tanti giorni, oggi viene rimessa con quell'indulgenza.
B) Sotto l'aspetto del soggetto, vi è - a) l'indulgenza per i vivi, che la Chiesa concede per modo di assoluzione (Can. 911), e - b) l'indulgenza per i defunti, che si concede per modo di suffragio, ossia con la mediazione e le preghiere dei fedeli. In altri termini, la Chiesa non potendo rimettere direttamente le pene delle anime del Purgatorio che non sono più soggette alla sua giurisdizione, permette ai fedeli di attribuire loro le proprie indulgenze, per ottenere da Dio il loro sollievo o la loro liberazione.
C) Sotto l'aspetto del modo, le indulgenze sono personali, locali o reali. - a) Personali, cioè concesse direttamente a una o più persone: tali sono le indulgenze concesse a comunità, confraternite, ecc. - b) locali, quando sono annesse ad un luogo, come una chiesa, una cappella, ecc.; - c) reali, quando sono annesse ad un oggetto, come un crocifisso, un rosario, una medaglia.
D) Sotto l'aspetto della durata, le indulgenze sono perpetue o temporanee. - a) Perpetue, quando sono concesse per sempre; - b) temporanee, se concesse per un dato tempo. Nel primo caso durano finché non sono revocate; nel secondo anno, cessano spirato il tempo per cui furono concesse".
Le indulgenze dopo il Concilio Vaticano II
Il Concilio Vaticano II ha modificato alcuni punti. Nella Costituzione Apostolica Indulgentiarum doctrina, al n. 12, si dichiara che
"Nel redigere le nuove norme si è cercato in particolar modo di stabilire una nuova misura per l'indulgenza parziale, di apportare una congrua riduzione al numero delle indulgenze plenarie e di dare alle indulgenze cosiddette reali e locali una forma più semplice e più dignitosa.
Per quanto riguarda l'indulgenza parziale, abolendo l'antica determinazione di giorni e di anni, si è stabilita una nuova norma o misura considerando la stessa azione del fedele, che pone un'opera indulgenziata.
E poiché l'azione del fedele, oltre al merito che ne è il frutto principale, può ottenere una remissione di pena temporale tanto maggiore quanto più grande è il fervore del fedele e l'importanza dell'opera compiuta, si è ritenuto opportuno stabilire che la remissione della pena temporale che il fedele acquista con la sua azione, serva di misura per la remissione di pena che l'Autorità Ecclesiastica liberamente aggiunge con l'indulgenza parziale".
In conseguenza di ciò al n. 4 viene detto che "L'indulgenza parziale d'ora in poi sarà indicata con le sole parole "indulgenza parziale", senza alcuna determinazione di giorni o di anni" ed al n. 12 che "È abolita la divisione delle indulgenze in personali, reali e locali, perché più chiaramente apparisca che le indulgenze sono concesse alle azioni dei fedeli, sebbene esse siano talvolta collegate ad un oggetto o ad un luogo".
Alla luce della dottrina sulle indulgenze testé sunteggiata, vale ancora sul giubileo quanto diceva il Boulenger: (26)
"1° Definizione. - Il giubileo è un'indulgenza plenaria più solenne delle altre, alla quale sono annessi certi privilegi. (27) L'istituzione del giubileo risale al principio del secolo XIV. Prima fu stabilito per il primo anno di ogni secolo; poi il papa Clemente VI decretò che si celebrasse ogni cinquant'anni a cominciare dal 1350, e Paolo II stabilì che si celebrasse ogni venticinque anni, a partire dall'anno 1475.
2° Specie. - Vi sono due sorta di giubilei: - a) il giubileo ordinario e - b) il giubileo straordinario. Il primo è quello che si concede ogni venticinque anni a Roma; comincia ai primi vespri di Natale e termina ai secondi vespri dell'anno seguente. Tutto questo tempo si chiama l'anno santo. Il papa estende poi, con una bolla, il giubileo a tutte le diocesi della Chiesa cattolica. Il secondo è concesso per qualche circostanza particolare, come la creazione di un nuovo papa, la cessazione di qualche pubblica calamità, ecc.
3° Opere prescritte. - a) Le opere, prescritte per l'indulgenza del giubileo ordinario, sono la confessione e la comunione, visite alle chiese; b) per il giubileo straordinario bisogna aggiungervi il digiuno e l'elemosina".
Dopo esserci fatta un'idea più precisa della dottrina tradizionale cattolica, leggiamo a conclusione il capitolo 12 della Incarnationis Mysterium - bolla d'indizione del giubileo del 2000 - che ci dà la misura di cosa dovrebbe particolarmente caratterizzare la celebrazione presente, oggi che - soprattutto per ragioni tecnologiche - le distanze tra popoli e culture sono ridotte come non mai prima, rispetto a quelle del passato, quando ogni tradizione culturale e religiosa era molto più chiusa in se stessa. Nel passo riportato troveremo altresì auspici che credo sia difficile, per qualunque persona in buona fede, fare a meno di condividere.
"12. Un segno della misericordia di Dio, oggi particolarmente necessario, è quello della carità, che apre i nostri occhi ai bisogni di quanti vivono nella povertà e nell'emarginazione. Sono, queste, situazioni che si estendono oggi su vaste aree sociali e coprono con la loro ombra di morte interi popoli. Il genere umano si trova di fronte a forme di schiavitù nuove e più sottili di quelle conosciute in passato; la libertà continua ad essere per troppe persone una parola priva di contenuto. Non poche Nazioni, specialmente quelle più povere, sono oppresse da un debito che ha assunto proporzioni tali da renderne praticamente impossibile il pagamento. E chiaro, peraltro, che non si può raggiungere un progresso reale senza l'effettiva collaborazione tra i popoli di ogni lingua, razza, nazionalità e religione. Devono essere eliminate le sopraffazioni che portano al predominio degli uni sugli altri: esse sono peccato e ingiustizia. Chi è intento ad accumulare tesori solamente sulla terra (cfr. Mt 6, 19) "non arricchisce dinanzi a Dio" (Lc 12, 21).
Si deve altresì creare una nuova cultura di solidarietà e cooperazione internazionali, in cui tutti - specialmente i Paesi ricchi e il settore privato - assumano la loro responsabilità per un modello di economia al servizio di ogni persona. Non deve essere ulteriormente dilazionato il tempo in cui anche il povero Lazzaro potrà sedersi accanto al ricco per condividerne lo stesso banchetto e non essere più costretto a nutrirsi con quanto cade dalla mensa (cfr. Lc 16, 19-31). L'estrema povertà è sorgente di violenze, di rancori e di scandali. Portare rimedio ad essa è fare opera di giustizia e pertanto di pace.
Il Giubileo è un ulteriore richiamo alla conversione del cuore mediante il cambiamento di vita. Ricorda a tutti che non si devono assolutizzare né i beni della terra, perché essi non sono Dio, né il dominio o la pretesa di dominio dell'uomo, perché la terra appartiene a Dio e solo a Lui: "La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini" (Lv 25, 23). Quest'anno di grazia possa toccare il cuore di quanti hanno nelle loro mani le sorti dei popoli!".
Dal giubileo di oggi passiamo ora a quello biblico, che purtroppo non è stato celebrato molte volte - mai nel mondo cristiano. Mentre il giubileo odierno sembra nella consuetudine riguardare soprattutto l'individuo, il suo pentimento e la sua conversione, dove le ricadute sociali ed economiche sono effetto unicamente della reintegrazione morale e sottoposte alla discrezione del singolo, in quello biblico si evidenzia un disegno notevolmente più vasto, dove le vicende umane, quelle sociali e quelle spirituali si fondono in un'unica maestosa architettura soprannaturale, che ha per scopo la sottomissione a Dio del tempo stesso mediante la remissione ogni cinquant'anni a Lui (e da Lui ai propri simili ed alla terra) di tutti i vantaggi e gli svantaggi accumulati dall'uomo nel suo quotidiano vivere. In tal modo il ciclo del tempo diventa metafora della vita, i cui beni non sono effettivamente altro che un deposito che va infine rimesso nella morte a Colui che ce lo ha concesso.
Il giubileo nel Pentateuco (28)
Il Pentateuco c'istruisce sulla sacralità del tempo mediante gli istituti del sabato, dell'anno sabbatico e del giubileo, nei quali si può avvertire il ritmo spirituale della storia, che impone l'accettazione di un periodico abbandono parziale dei propri possessi ovvero delle proprie attività, e minaccia in caso contrario la distruzione di tutto il posseduto.
Il primo a darne l'esempio - terreno e celeste - è nella rivelazione biblica Dio stesso, come appare da Genesi 2, 1-3:
1 Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere.
2 Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro.
3 Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto. (29)
Si noti come curiosità che, laddove si consideri la corrispondenza che in ebraico è naturale tra lettere e numeri, si ha questa strana conseguenza: nel nome per eccellenza di Dio, YHWH, (30) che vale 10+5+6+5 (Y+H+W+H), la lettera Y (10) può essere vista come la somma delle prime quattro lettere (ABGD, 1+2+3+4), le quali possono essere interpretate come simboli dei primi quattro giorni della creazione, quelli in cui viene creata la natura, fino ai vegetali; H è la quinta lettera, simbolo del quinto giorno in cui vengono creati gli animali marini e i volatili; W è la sesta lettera, simbolo del sesto giorno in cui vengono creati gli animali terrestri e l'uomo; mentre l'ultima H ovviamente non è la settima lettera (che sarebbe Z). Dunque nel nome stesso di Dio può essere vista questa cessazione, questo ritorno. Nel settimo giorno Elohìm si riposa, ritrae la sua mano. (31)
Che si accetti o meno questo tipo di esegesi, si può tuttavia riflettere che nel riposo di Dio risiede tuttavia la possibilità per l'uomo di vivere. Se Dio creasse sempre, e pertanto sempre venisse esercitato il suo giudizio, l'uomo verrebbe distrutto in ragione dei propri errori. In virtù del settimo giorno invece egli può sopravvivere, perché in esso sosta anche il giudizio di Dio ed egli può così compenetrarsi nella sua misericordia. Il sesto giorno, in cui l'uomo è creato, è infatti nella tradizione ebraica identificabile con tifèreth, che è appunto la misericordia. Il fatto dunque che al sesto giorno ne subentri un settimo di sosta ci indica che questo settimo giorno è l'opportunità della nostra vita, nell'ambito della quale dobbiamo saper approfittare della comunanza naturale che abbiamo con la sfera della misericordia divina per salvarci dal giudizio che al termine della vita dovrebbe determinare il nostro destino. E dal giudizio di Dio nessuno può salvarsi, come ben sapeva Giobbe quando esclamava:
come può un uomo aver ragione innanzi a Dio? (32)
Ogniqualvolta tuttavia ritroviamo la nostra natura, cioè la misericordia, torniamo anche in un certo modo al sesto giorno, al giorno in cui fummo creati, e allora davanti a noi si estende ancora il settimo giorno, il giorno del riposo. E se infine riusciremo a far tutt'uno con la misericordia divina, di lì non dovremo muoverci più, e giammai i nostri errori ci verranno contestati, essi soli verranno distrutti, perché in eterno il giudizio di Dio davanti a noi sosterà, come sempre sosta di fronte alla Sua misericordia.
All'esempio del riposo divino si deve dunque conformare la disposizione della creatura, secondo il dettato di Esodo 20, 8-11: (33)
20. 8 Ricordati del giorno di sabato per santificarlo:
9 sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro;
10 ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, (34) né il tuo bestiame, (35) né il forestiero che dimora presso di te.
11 Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro.
Dopo ogni costruzione umana, ogni accumulazione, ci deve sempre essere il riposo, e più è sacro tale riposo, più ingiunge la solidarietà verso le altre creature: non si può far lavorare neanche la bestia da soma, o lo schiavo, il sabato. Ma, beninteso, neppure noi possiamo comportarci da schiavi o da bestie da soma in tale giorno; dobbiamo aver rispetto anche per noi stessi, per la nostra umanità.
Nell'anno sabbatico poi vanno lasciati in pace campi e redditi per un anno, liberando i debitori e concedendo i raccolti spontanei ai bisognosi. Tale anno è una benedizione di generosità per chi è generoso, come indica Deuteronomio, 15, 1-18: (36)
15. 1 Alla fine di ogni sette anni celebrerete l'anno di remissione.
2 Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore che abbia diritto a una prestazione personale in pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto: non lo esigerà dal suo prossimo, dal suo fratello, quando si sarà proclamato l'anno di remissione per il Signore.
3 Potrai esigerlo dallo straniero; ma quanto al tuo diritto nei confronti di tuo fratello, lo lascerai cadere.
4 Del resto, non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi; (37) perché il Signore certo ti benedirà nel paese che il Signore tuo Dio ti dà in possesso ereditario,
5 purché tu obbedisca fedelmente alla voce del Signore tuo Dio, avendo cura di eseguire tutti questi comandi, che oggi ti do.
6 Il Signore tuo Dio ti benedirà come ti ha promesso e tu farai prestiti a molte nazioni e non prenderai nulla in prestito; dominerai molte nazioni mentre esse non ti domineranno.
7 Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città del paese che il Signore tuo Dio ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso;
8 anzi gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova.
9 Bada bene che non ti entri in cuore questo pensiero iniquo: È vicino il settimo anno, l'anno della remissione; e il tuo occhio sia cattivo verso il tuo fratello bisognoso e tu non gli dia nulla; egli griderebbe al Signore contro di te e un peccato sarebbe su di te.
10 Dagli generosamente e, quando gli darai, il tuo cuore non si rattristi; perché proprio per questo il Signore Dio tuo ti benedirà in ogni lavoro e in ogni cosa a cui avrai messo mano.
11 Poiché i bisognosi non mancheranno mai nel paese; perciò io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nel tuo paese.
12 Se un tuo fratello ebreo o una ebrea si vende a te, ti servirà per sei anni, ma il settimo lo manderai via da te libero.
13 Quando lo lascerai andare via libero, non lo rimanderai a mani vuote;
14 gli farai doni dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio; gli darai ciò con cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto;
15 ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese di Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha riscattato; perciò io ti do oggi questo comando.
16 Ma se egli ti dice: Non voglio andarmene da te, perché ama te e la tua casa e sta bene presso di te,
17 allora prenderai una lesina, gli forerai l'orecchio contro la porta ed egli ti sarà schiavo per sempre. Lo stesso farai per la tua schiava.
18 Non ti sia grave lasciarlo andare libero, perché ti ha servito sei anni e un mercenario ti sarebbe costato il doppio; così il Signore tuo Dio ti benedirà in quanto farai.
Nel giubileo, infine, vanno resi gli immobili rurali, annullata ogni ipoteca sull'altrui eredità, perché la distribuzione di terre tra le tribù rimanga fondamentalmente sempre la stessa.
Nessuno può cumulare insomma indefinitamente, senza limiti assorbendo diritti e possessi dell'altro. Il possessore unico è Dio, suo è il mondo, e la distribuzione della terra da lui stabilita mediante sorteggio tra le tribù d'Israele è immodificabile dall'iniziativa umana.
Questo emerge con chiarezza anche in Numeri 36,1-12:
36. 1 I capifamiglia dei figli di Gàlaad, figlio di Machir, figlio di Manàsse, tra le famiglie dei figli di Giuseppe, si fecero avanti a parlare in presenza di Mosè e dei principi capifamiglia degli Israeliti
2 e dissero: "Il Signore ha ordinato al mio signore di dare il paese in eredità agli Israeliti in base alla sorte; il mio signore ha anche ricevuto l'ordine da Dio di dare l'eredità di Zelofcad, nostro fratello, alle figlie di lui.
3 Se queste si maritano a qualche figlio delle altre tribù degli Israeliti, la loro eredità sarà detratta dalla eredità dei nostri padri e aggiunta all'eredità della tribù nella quale esse saranno entrate; così sarà detratta dall'eredità che ci è toccata in sorte.
4 Quando verrà il giubileo per gli Israeliti, la loro eredità sarà aggiunta a quella della tribù nella quale saranno entrate e l'eredità loro sarà detratta dalla eredità della tribù dei nostri padri".
5 Allora Mosè comunicò agli Israeliti quest'ordine ricevuto dal Signore: "La tribù dei figli di Giuseppe dice bene.
6 Questo il Signore ha ordinato riguardo alle figlie di Zelofcad: si mariteranno a chi vorranno, purché si maritino in una famiglia della tribù dei loro padri.
7 Nessuna eredità tra gli Israeliti potrà passare da una tribù all'altra, ma ciascuno degli Israeliti si terrà vincolato all'eredità della tribù dei suoi padri.
8 Ogni fanciulla che possiede una eredità in una tribù degli Israeliti, si mariterà ad uno che appartenga ad una famiglia della tribù di suo padre, perché ognuno degli Israeliti rimanga nel possesso dell'eredità dei suoi padri
9 e nessuna eredità passi da una tribù all'altra; ognuna delle tribù degli Israeliti si terrà vincolata alla propria eredità".
10 Le figlie di Zelofcad fecero secondo l'ordine che il Signore aveva dato a Mosè.
11 Macla, Tirza, Ogla, Milca e Noa, le figlie di Zelofcad, sposarono i figli dei loro zii paterni;
12 si maritarono nelle famiglie dei figli di Manasse, figlio di Giuseppe, e la loro eredità rimase nella tribù della famiglia del padre loro.
"Ognuno degli Israeliti rimanga nel possesso dell'eredità dei suoi padri", dice Numeri 36, 8.
Nessun ulteriore acquisto fatto è per sempre, nessuna proprietà accessoria è realmente nostra. Ciò che ci è dato da Dio, nessuno ce lo può togliere, ma ciò che Dio rivuole non si può tenere.
Come la vita, così pure le cose vanno viste nella loro qualità di possessi temporanei. In ciò possiamo e dobbiamo vedere un insegnamento di fratellanza fondato nel comune destino di transitorietà della forma umana.
Non possiamo acquistare più del necessario, se il nostro possesso implica il dolore del nostro simile.
Non possiamo mangiare la carne del nostro fratello.
Ma le leggi sul giubileo sono restate nel mondo cristiano sempre inapplicate. Il diritto romano vi ha infatti sostituito quello biblico.
Per quanto poi riguarda l'applicazione di tali leggi nel mondo ebraico, Nicola Jaeger ci segnala "che la reale osservanza della legge concernente il giubileo è stata posta in dubbio da esegeti autorevoli, i quali non esitano a qualificare la legge stessa come utopistica e destinata a restare lettera morta. Si osserva che "al di fuori della Bibbia, questo cinquantesimo anno non è contraddistinto in alcun luogo da una ridistribuzione della terra, una liberazione di debiti o di persone vincolate, anzi non si trova attestata alcuna liberazione generale, indipendentemente da ogni questione di data". Si aggiunge anche che effetti di questo genere sarebbero stati talmente gravi da provocare resistenze e da compromettere la stabilità dei diritti di proprietà. Il rispetto dell'anno sabbatico è invece attestato da altri luoghi della Bibbia e da Giuseppe Flavio, e pertanto dovrebbe restare fuori discussione". (38)
Jaeger non è tuttavia convinto che tale scetticismo sia giustificato, e argomenta tra l'altro che il fatto che l'istituto del giubileo "si trovi esposto nella Bibbia deve costituire una prova più che sufficiente per noi della sua appartenenza al diritto positivo di Israele; e ciò era certamente riconosciuto da tutti i membri del popolo e più ancora dagli organi della istituzione. D'altra parte, si sa che le norme della Legge erano conosciute e osservate dagli israeliti molto più esattamente di quanto lo siano le leggi attuali". (39) È certo interessante che la legge del giubileo "porta a dubitare addirittura che il diritto degli israeliti sulla terra e sugli altri beni immobili destinati alla coltivazione di essa possa essere qualificato come un vero e proprio diritto di proprietà, nel senso in cui lo intendiamo almeno noi moderni". (40)
Nello stesso senso si espresse Martin Buber: (41) "Da diverse parti è stata formulata l'ipotesi "che la sospensione, nel settimo anno, dello statuto giuridico concernente la proprietà fondiaria in vigore fino a quel momento, in origine fosse completa", completa come la più tarda legge sull'anno giubilare che, a mio avviso, nel suo nucleo non è così tarda e in nessun caso semplicemente "teorica", ma anzi volta all'ampliamento del periodo della restaurazione (poiché quello fissato in origine non veniva rispettato). In tal modo nell'anno sabbatico ha luogo un nuovo sorteggio degli appezzamenti di terra coltivabile distribuiti ai singoli clan, come succede addirittura ogni anno presso certi arabi seminomadi, e in un modo che ricorda la terminologia biblica".
Per quanto riguarda l'applicazione di queste norme tra gli ebrei attuali, riportiamo due note apposte al Levitico dal suo traduttore Menachem Emanuele Artom.
Commentando Levitico 25, 2-7, scrive che "Durante l'anno sabbatico la proprietà sulla terra viene quasi sospesa, e tutti gli uomini e tutti gli animali hanno uguale diritto di godere dei prodotti spontanei per cibarsene. L'osservanza dell'anno sabbatico è imposta solo in Erez Israel [Terra d'Israele], nelle condizioni attuali è obbligatoria per disposizione rabbinica, ma, sottostando a certe formalità, il lavoro agricolo nell'anno sabbatico può essere in gran parte permesso".
Commentando poi il versetto 10 scrive che "Il Giubileo deve essere osservato solo quando esiste il Santuario e la maggior parte del popolo è in Erez Israel, e quindi oggi le norme relative ad esso non vengono applicate". (42)
Però è detto nella Mishnè Torà di Rabbi Mosè Maimonide, (43) Hilkhoth Melakhim 11,1, che "Nel tempo futuro, il Re Messia sorgerà e rinnoverà la dinastia davidica, restituendola alla sua iniziale sovranità. Egli riedificherà la Beth ha-Miqdash [la Casa del Santuario] e vi raccoglierà il resto disperso d'Israele. Allora, nei suoi giorni, tutti gli statuti saranno ripristinati com'erano nei primi tempi. Offriremo sacrifici ed osserveremo gli anni sabbatico e giubilare secondo tutti i particolari esposti nella Torà". (44)
Del giubileo esistono naturalmente anche interpretazioni esoteriche. In ambito ebraico, il Sefer ha-Temunà parla del "santuario interiore dal quale derivano i tre sabati del Signore: il giubileo, l'anno sabbatico e il cinquantesimo giorno, che è la sefirà [divina energia interiore] dell'intelligenza" (45) e così si esprime il curatore Giulio Busi, usando una metafora teatrale: "Gli attori escono dalla porta dalla quale sono entrati, al suono del corno d'ariete che proclama il giubileo, il cinquantesimo giorno divino, il giorno della liberazione. Sette volte sette porte si sono aperte in vista di questo giorno, così come le ventidue lettere dell'alfabeto ebraico si sono combinate fino a raggiungere il numero di quarantanove: la cinquantesima porta è la porta superna dalla quale tutto ha origine e alla quale tutto ritorna; è il santuario celeste che rende santa ogni cosa". (46) E Scholem, trattando della scuola di Gerona da cui origina il citato Sefer ha-Temunà, parla di sette cicli di sette millenni: "Dopo 49.000 anni, l'intera creazione ritorna dunque, nel corso del "grande anno del giubileo", alla sua origine, in seno alla Binà o madre dei mondi, allo stesso modo che, secondo la norma enunciata dalla Torà, dopo cinquant'anni, "la libertà è proclamata nel paese" e tutte le cose ritornano al loro primo proprietario. Il giubileo dei mondi, di 50.000 anni, dove la forza del Creatore esercita completamente il suo effetto, è la più vasta unità cosmica". (47)
Anche Yosef Giqatilla e Menachem Recanati, (48) infine, identificano il mistero del giubileo alla sefirà dell'intelligenza, binà, che ha "cinquanta porte". Essi collegano poi il giubileo all'esodo; infatti "gli israeliti sono usciti dall'Egitto mediante la modalità operativa binà" (49) e "l'uscita dall'Egitto insegna qualcosa riguardo alla liberazione degli schiavi che ha luogo nell'anno giubilare. E l'anno giubilare cade nel cinquantesimo anno; ciò rinvia a binà/intelletto, che ha cinquanta porte". (50)
Tutto ciò lascia intravedere, come sullo sfondo, la ricerca di un ritmo interiore che possa armonizzarsi con il ritmo del macrocosmo, al fine di giungere, così sospinti da forze celesti, alla cinquantesima porta, il sommo giubileo, apoteosi dell'intelletto, fonte del tempo e altresì uscita da esso.
In ambito cristiano, osserviamo che il numero 50, caratteristico del giubileo, è indicato in ebraico dalla lettera nun, che significa pesce, e che la parola greca ichthús, "pesce", con il relativo emblema, è uno dei più antichi simboli del Cristo, sia perché il termine greco è acronimo di Iesoûs Christós Theoû Uiós Sotér, "Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore", sia perché Gesù rappresenta per il cristiano il giubileo dell'uomo, la reintegrazione di Adamo, la liberazione dell'umanità decaduta a cui viene infine cancellato il proprio debito.
La parola ichthús graffita in un mausoleo di San Sebastiano sull'Appia Antica a Roma con interposta la lettera tau (T) equivalente alla Croce, riportata in: Enciclopedia Cattolica, alla voce Pesce, di Enrico Josi.
Notiamo inoltre che anche nella tradizione islamica nun rappresenta un "grosso pesce" cioè soprattutto la balena, (51) e che "signore del pesce" o "compagno del pesce" è chiamato dal Corano (21, 87 e 68, 48) il profeta Giona.
E Giona, ingerito per tre dì e tre notti e poi vomitato dalla balena (Giona, 2, 1-11), dai cristiani è sempre stato considerato figura di Cristo sceso nel ventre della morte e risorto da essa. Nel dizionario biblico curato da Prospero dell'Aquila, già ampiamente citato, si dice infatti che "I Padri riguardano Giona come un di quegli uomini in cui tutto è misterioso, e tutte le di cui azioni sono profetiche. Questo Profeta, il solo che sia stato inviato a' Gentili, conoscendo per divina rivelazione che la commissione datagli di predicare a' Niniviti era una immagine di ciò che dovea succedere un giorno, allorché i Gentili chiamati alla fede prenderebbero il luogo degl'increduli Giudei, (52) è preso da una somma tristezza ed evita per quanto può di eseguire gli ordini che vanno a spogliare la sua Nazione di tutto ciò che faceva da lungo tempo la sua grandezza e la sua gloria. Nelle principali circostanze del suo viaggio egli rappresenta mirabilmente l'opera di Dio nel negozio della salute. Giona nel fondo del naviglio dormiva profondamente nel mezzo della tempesta; anzi quando il mare di questo Mondo era agitato dalle maggiori furie cagionate dalla collera di Dio, il Verbo godendo d'un'eterna pace e riposo nel seno del suo Padre, sembrava di essersi dimenticato degli uomini, allorché risvegliato da' gridi loro egli comparve e, tra tanti peccatori, egli è il solo giusto sopra di cui cade la sorte, e deve colla sua morte calmare i flutti dello sdegno divino. Giona dimora tre giorni e tre notti come sepolto nel ventre d'una balena, che figurava la sepoltura nella quale il Salvatore fu posto dopo la sua morte. Egli è vomitato sulla riva, e Dio resuscita Gesù Cristo, e lo fa uscire dalla tomba in cui l'avean condotto i dolori e la morte". (53)
Pare sufficientemente evidente che stia proprio in questa uscita dalla morte il più alto significato e il più profondo suggerimento che possano dai cristiani attribuirsi al simbolismo del numero 50, e pertanto al giubileo che ne è caratterizzato.
Commentario a Levitico 25, 8-24
25,8 - 25,9- 25,10 - 25,11 - 25,12 - 25,13 - 25,14 - 25,15 - 25,16 - 25,17- 25,18- 25,19 - 25,20 - 25,21 - 25,22 - 25,23 - 25,24
Chiudiamo il libro facendo tralucere, dalle parole apparentemente aride del Levitico, il segreto fermento.
Per speculum in aenigmate. (54)
Specchiamoci nell'antica Scrittura, captiamo dalla sua arcaica maestà una luce, un sogno sacro che ci possano anche oggi condurre nel palazzo interno dell'anima.
Immergiamoci, fatti pesci del fondo, nell'abisso del giubileo, santo dei santi della storia del mondo, santo dei santi della nostra vicenda.
Levitico 25.8 (55) E conterai per te sette sabati di anni, (56) sette anni sette volte, e saranno per te i giorni di sette sabati degli anni quarantanove anni.
Conterai per te sette settimane d'anni, è questo il tuo tempo.
In ebraico quarantanove è il numero di middà, (57) che vuol dire dimensione, misura. Quarantanove è pertanto la mia dimensione, il mio ciclo, la mia misura.
Sette volte ho compiuto, attraverso le età della mia vita, per mezzo di tutti i miei giorni, la mia settimana di pellegrinaggio interiore verso l'Altissimo.
In quarantanove anni ho dunque compiuto la mia dimensione.
E ora?
Ora mi sporgo al di fuori di essa.
9 E farai passare un corno del giubilo nel settimo mese, nel decimo [giorno] del mese: nel giorno delle espiazioni farete passare un corno in tutta la vostra terra.
Sto guardando fuori della mia dimensione ed ecco, la grandezza del Santo mi sovrasta.
Non posso che pentirmi, cercare di riconoscere i miei errori.
Quanto ho detto e fatto è così poco.
Fu fatto secondo la mia misura, non secondo quella, ignota, di Dio.
Ho capito questo, e forte sorge in me la proclamazione della mia incomprensione.
Suona un corno di giubilo (shofar teru`à) che ride della mia passata desolazione, in ogni luogo della mia umanità. Il giorno delle espiazioni è oggi giubileo, il giorno del giubilo. (58)
Guardo al Santo e tutto quanto è mio è nulla, tutto quanto è Suo è incomprensibile.
Chi è Dio?
Chi?
10 E consacrerete l'annata dei cinquant'anni e proclamerete libertà nella terra per tutti i suoi abitanti. Un giubileo quello (59) sarà per voi, e riposerete ciascuno nella propria possessione, e ciascuno nella propria famiglia ritornerete.
In ebraico cinquanta è il numero di Mi, (60) che vuol dire Chi?
Oltre la mia dimensione, di là dalla mia umanità, non sono che una domanda:
Chi?
Ho legato mille nozioni ed esperienze in un manipolo di personaggi interiori che hanno sostenuto la mia illusione, ma ora non ho più tempo per essi.
Il mio paesaggio interiore è solo un deserto di fronte a Dio.
Quel che c'è non è mio e non m'importa.
Ho liberato tutti i suoi abitanti. Ognuno è tornato alla sua casa.
Sono integralmente povero, e questa povertà è la fonte della prima vera gioia che provo.
La gioia di essere libero, di lasciare libero, me stesso e gli altri.
Non ho più bisogno di vederti come mi servi.
Non ho più bisogno di impadronirmi della tua attenzione.
E poiché non ho più bisogno, anche le mie follie mi lasciano.
Non nego più nulla, non fuggo più nulla.
Dove sono nato, lì sto.
È la mia famiglia, la mia proprietà.
Qui è il mio luogo, qui è la mia middà, la mia dimensione.
Ma fuor di essa tuttavia mi sporgo, colmo il cuore di oblio per il noto e di passione per l'ignoto, e rivolgo all'invisibile quell'unica domanda:
Chi?
Questa domanda - che in ebraico corrisponde al numero cinquanta - è santa, perché è l'unico nome di Dio che posso davvero pronunciare.
E perciò nel cinquantesimo giorno, nella pentecoste, (61) lo spirito di Dio scende davvero su coloro che lo cercano.
11 Un giubileo [sarà] quello, l'annata dei cinquant'anni sarà per voi; non seminerete né mieterete il suo prodotto spontaneo, e non vendemmierete quanto le è consacrato,
L'ariete è lui - yovél hu' - l'anno cinquantesimo. (62) Così si può interpretare il testo. Infatti quanto viene tradotto "giubileo" (yovél) vuole in ebraico primariamente dire "ariete". E del corno dell'ariete è fatta la tromba con cui s'annunzia il giubileo. Ora l'ariete nello zodiaco è il primo segno, quello dell'equinozio di primavera, e rappresenta perciò il risveglio, la rinascita dopo l'inverno. Ma è anche l'animale sacrificale per eccellenza: un ariete (àyil) viene sacrificato da Avrahàm che lo offre in olocausto, per divina grazia, al posto del figlio Isacco (Genesi 22, 13). (63)
Il sacrificio d'Isacco
Le sacrifice d'Isaac (Francfort, 1692), riportato in: Guy Casaril, Rabbi Siméon bar Yochaï et la Cabbale, Seuil, Bourges 1961, p. 19.
Tale ariete va lasciato pascolare tranquillamente.
Lasciamo l'Invisibile agire senza ostacolarlo.
È vero che non possiamo ostacolarlo, tuttavia possiamo fare in modo da intendere che non possiamo e neppure desideriamo compiere ciò che Lui non compie.
L'ariete è libero di nutrirsi dei nostri campi, delle nostre vigne. Ciò che ce ne verrà è senz'altro d'un altro livello rispetto a ciò che perdiamo.
Lasciamo i nostri campi riposare a maggese, nutriti dal Cielo, salvi dalle nostre mani troppo cariche di desideri.
L'ariete li feconderà.
Non sappiamo donde giunga, né dove vada, ma sappiamo che in lui tutto viene restaurato.
E sappiamo anche dal Talmùd che la tromba tratta dal suo corno, suonata nel giorno dell'espiazione, rende impotente il satana, ha-satàn, perché esso governa 364 giorni - questo è il numero suo in ebraico (64) - ma sul giorno dell'espiazione non ha potere.
E tanto meno quando in esso si annuncia il giubileo.
In questo giorno dunque possiamo distruggere gli effetti dell'istinto del male.
12 poiché un giubileo [è] quello; cosa sacra sarà per voi; sul campo mangerete il frutto di tale [annata].
Per combattere l'istinto del male non dobbiamo, in questo anno sacro dell'anima, far nulla, bensì nutrirci di ciò che il Cielo ci dispensa.
Nulla affermare, nulla negare.
Poveri di fronte al ricco, senza nulla da dargli.
E l'ariete feconda il nostro campo, che produce il nostro cibo.
Ce ne cibiamo liberamente, sul campo stesso. E min-hassadè, "sul campo", può leggersi anche man-hassadè, "manna del campo". E il giubileo è cosa sacra, ma anche il santuario del tempo fuori del tempo, il santuario del deserto dove ci cibiamo di manna, il Sinai interiore dalle cui tamerici fluisce il celeste succo. (65)
Ramoscello di tamerice mannifera, riprodotto in: Giuseppe Ricciotti, Storia d'Israele, SEI, Torino 1964, vol. I, n. 240, p. 243
I campi erano pieni di sterpi, che chiamavamo cibo, un cibo adatto a nutrire i nostri personaggi fittizi.
Ma ora vengono compenetrati di succhi ben diversi, e daranno spighe e grappoli d'un bel colore, di ottima qualità.
Senza volontà di arricchire, saremo sazi.
Senza desiderio di conoscere, saremo penetrati dalla divina intelligenza, binà, che - dice la qabbalà - apre le sue porte nel giubileo.
La mente va fuor di se stessa verso il Santo.
Nella stanza della divina Madre dell'Intelletto umanità e divinità si profondono nel mistero dell'unità.
Non più qualcosa che già mi attendevo.
Non più qualcosa che il mio orecchio ha già udito, che il mio occhio ha già visto.
Non più scarti dal magazzino della mia mente, bensì il puro oro del Tesoro dell'Invisibile, le gemme meravigliose di Salomone.
Odo il linguaggio degli uccelli, che gioiscono nel giubileo, nutriti dai frutti del mio campo incolto.
13 In quest'anno del giubileo, tornerà ciascuno alla sua proprietà.
Sono il più sventurato in questo mondo se m'identifico con un possesso del tutto illusorio. E se poi questo mondo lo possedessi tutto, sarei certo in un bel guaio.
Ma dall'Ignoto mi viene l'ingiunzione di lasciare tutto.
Lasciando tutto, ritrovo quanto è mio, la mia vera storia, il mio vero nome, la vera stella del mio destino.
Ho capito quant'è sgraziato il disegno che ho fatto, e mi viene dato un altro foglio, per ricominciare.
Ma nel frattempo ho anche acquisito esperienza, chissà che non disegni meglio.
Felice me, se ho sentito la voce dell'ariete, e capisco che debbo ricominciare.
Sempre debbo ricominciare, finché vivo.
Se mi fermo combino un guaio.
Una finta sapienza, una finta gioia. Non è questa la mia eredità.
14 E quando effettuerete una vendita al vostro prossimo o acquisterete qualche cosa dalla mano del vostro prossimo, non froderete ciascuno il proprio fratello.
Se ti ho dato qualcosa, certo non debbo credermi per ciò migliore di te. Non so nulla di te, nel tuo intimo non entro, non so con quali parole t'intrattiene Dio. L'apparenza non corrisponde né sempre né spesso alla verità.
E se pure da te ho preso qualcosa, non posso né svilirti né darti un credito che spetta solo all'Unico.
Se infatti ti do poco, sono un avaro. Se ti do troppo, ho fatto di te un idolo.
E se ti trasformo in idolo attiro su di te la morte. Ho un torto verso di te.
Se ti ho dato qualcosa, te l'ho venduto, perché tu m'hai offerto qualcosa in cambio, la tua riconoscenza, il tuo affetto.
Se invece sei tu che mi hai dato qualcosa, l'ho acquistata da te, e debbo pagarti il prezzo. Devo riconoscere quel che ti debbo e onorarti.
Se dunque troppo o troppo poco ti onoro, vuol dire che la via di mezzo è smarrita, che l'istinto della separazione ha prevalso, che l'occhio mio guarda a destra mentre tu sei a sinistra o viceversa, perché sono diventato intimamente strabico.
Possa tuttavia, prossimo a questo momento eterno di là dal tempo, abbandonare i miei soliti sguardi, e riapprendere a vedere come il neonato, pieno di intensa meraviglia.
15 Per un numero di anni dopo il giubileo acquisterai dal tuo prossimo, per un numero di anni di raccolti venderà a te.
Nel mondo degli affari degli antichi ebrei aumentava il prezzo se si era lontani dal giubileo, in quanto, poiché in questo tutto veniva reso al proprietario originario, più il giubileo era lontano, di maggior durata era la rendita, che aveva comunque un termine massimo di cinquant'anni.
Nel mondo dello spirito è lo stesso. Quando sono immerso nella materia, lontano dal giubileo interiore, i doni spirituali mi varranno di più, pertanto devo per forza essere più riconoscente.
In questa situazione, devo pertanto rivolgermi con assiduità ai maestri viventi, se ne trovo, ed agli insegnamenti della tradizione.
Se io stesso invece sono immerso nel giubileo interiore, quanto mi viene concesso in certo modo già lo vivevo, e per quanta gioia mi dia, si tratta in realtà di un riconoscimento del mio.
Nel giubileo interiore non si compra né si vende, ma solo liberamente si prende e si dà, il mio campo è lasciato a maggese, e tutto il prendere e dare miei e altrui appartengono ai processi di fecondazione attuati dal Cielo.
Ma fuori di tale tempo sacro esistono gli acquisti e le vendite, e merci di tanto maggior valore quanto più l'occhio era, al riceverle, lontano dal santuario dell'anima.
16 Secondo il crescere degli anni crescerà il suo prezzo, e secondo il diminuire degli anni diminuirà il suo prezzo, perché secondo il numero di raccolti egli sta vendendo a te.
Per questa ragione chi ottiene un dono spirituale mentre è lungi dal giubileo interiore, deve valutarne il prezzo, deve ben conoscere il valore del dono ricevuto.
Egli deve poter meditare sulla differenza tra quanto vive di solito e quanto il dono gli ha permesso di vivere.
E così pure, quando qualcosa dona, è bene che gli venga fatto conoscere il valore e la conseguenza di ciò che ha donato, perché impari in tal modo ciò che può ottenere per se stesso.
Quanto più invece uno è vicino a quel tempio sacro nel tempo che qui viene chiamato giubileo, tanto meno è necessario vantargli la propria riconoscenza.
Negli affari terreni quello che viene valutato è l'importo totale dei raccolti che l'acquirente può ricavare dal campo acquistato; negli affari celesti quello che si paga è invero quanto serve a neutralizzare i "raccolti terreni", ovvero i fantasmi interni che si oppongono alla perfezione del giubileo interiore, è insomma quanto neutralizza la fantasia di essere venditore o acquirente, permettendo di reintegrarsi in quella vera natura nella quale non può raffigurarsi mercato ma soltanto libero dono.
17 E non froderete ciascuno il proprio prossimo, e temerai il tuo dio, poiché Io [sono] YHWH vostro dio.
Si danneggia il fratello perché non si ha timore del proprio dio, e si ha timore perché "Io sono YHWH vostro dio" (ki anì YHWH elohekhèm). Ma cos'è questo timore, che impedisce di danneggiare il fratello? "Temete" è yaré'tha, e il timore è yir'à. E yir'à (YR'H) vale 216 quanto gevurà (GBWRH), la potenza di Dio. Chi ha timore, dunque, ha con esso anche potenza, e il potente non danneggia il debole.
Se poi il debole è suo fratello, ancor meno.
E se invece suo fratello è forte, anche più gioisce di potere con lui condividere la libertà e la forza. Per quale ragione mai lo danneggerebbe? Per quale fine meschino, ch'egli, fisso nella divina potenza, neppure può fingersi per ipotesi?
Se Io sono YHWH vostro dio, non può esserci debolezza, e senza debolezza non può essere fatto danno ad alcuno.
18 Ed applicherete le mie leggi ed i miei giudizi custodirete, e li applicherete e riposerete sopra la terra in sicurezza.
Se sono nel santuario interiore, quel che dico e faccio è libero da censura, pertanto il mio accordo coi decreti dell'Altissimo è totale. E in questo accordo, la profonda pace.
Eterno giubileo del Santo, in questo luogo del tempo fuori del tempo, ogni cosa concorre all'universale armonia.
Chi suona accordato non è soggetto ad altra legge. La sua musica stessa è la legge dell'Altissimo.
19 E produrrà la terra i suoi frutti, e mangerete a sazietà e riposerete in sicurezza su di essa.
La terra di questo mondo produce frutti spirituali durante il giubileo interiore. Il regno di questo mondo, malkhùth, in quanto fatto tutt'uno con la divina presenza, Shekhinà, è ora un mondo nuovo, è il "giardino della melagrana".
Rimmòn (RMWN), "melagrana" vale infatti 296 quanto ha-aretz (H'RTz), "terra", che è uno dei nomi di malkhùth. Il "giardino delle melagrane", pardés rimmonìm, (66) è dunque anche il paradiso delle quattro terre.
E queste terre che fruttificano e che costituiscono il pardés, altro non sono che i quattro sensi dell'intellezione mistica, le cui iniziali hanno in pardés (PRDS) il loro acronimo: peshàt, l'interpretazione letterale; rèmez, l'allusione; deràsh, l'interpretazione; sod, il mistero.
Chi è presente nel santo luogo fuori del tempo, pertanto, vede fruttificare in sé i doni dell'interpretazione, la quale come una melagrana contiene numerosi semi capaci di generare a loro volta innumerevoli frutti, ed è fatto capace di accarezzare il mistero con grande amore, viaggiando dolcemente dal mondo dei corpi fin dentro il santo dei santi, per quanto ciò gli venga assegnato dall'Altissimo.
20 E se direte: "Che mangeremo nel settimo anno, se non semineremo e non raccoglieremo i nostri prodotti?",
Bisogna guardarsi dal voler imporre gli schemi della propria ordinarietà come velo sulla percezione del mistero.
Chi fa così, mentre semina disperde.
Il settimo anno è Shabbàth, è la Regina del Sabato, la divina presenza. Le tue offerte a lei sono nulla se manca l'amore. E se c'è l'amore c'è tutto.
Nel settimo anno mangerò con lei, o non mangerò affatto.
Se vorrò trattenere ciò che ho fatto, lei non verrà.
Che mangerò allora, il settimo anno?
Un vento, un soffio di qualcosa che svanisce.
Solo sarà sazio chi ha scordato ogni semina.
Fatto lui stesso seme nelle mani della Shekhinà, ovunque andrà, il suo mondo interiore fruttificherà.
Infelice chi ha seminato, perché un altro raccoglierà.
Passerà lo sposo di lei, velerà ogni cosa.
O mi sederò alla tavola di gioia dello Shabbàth, o scenderò tra le ombre dei morti.
21 invierò allora la mia benedizione verso di voi nell'anno sesto, ed essa produrrà il prodotto per i tre anni.
Se vado cercando il santuario, alle mie opere sarà concesso di fruttare quel tanto che basta a raggiungere la meta.
Otterrò tre volte quel che ottengo di solito.
Il raccolto di tre anni.
Tre anni dell'anima verso il santuario del tempo: nèfesh, la vita, rùach, lo spirito, neshamà, l'intelletto. Ogni potenza dell'anima avrà la sua parte, nessuna mancherà del necessario alimento.
La mia vita mi sosterrà, il mio spirito s'infiammerà, il mio intelletto penetrerà le strade che gli si addicono.
Avrò quanto mi basta, se dal mondo profano raggiungerò la reggia dello Shabbàth.
Da questa ritornerò con occhi nuovi nel tempo, la Regina del Sabato porrà la sua benedizione (eth-birkhathì) sul mio capo.
22 E seminerete durante l'anno ottavo e mangerete dal raccolto vecchio fino all'anno nono, fino all'arrivo del suo raccolto mangerete il vecchio.
Tutto il vecchio verrà consumato.
Ogni personaggio, ogni fantasma che ho generato nella vita di prima svaniranno alla luce dello spirito, nutrendola con la propria arsione.
O felice speranza, con cui liberato dal passato attendo il futuro.
Liberato da un passato che reca con sé i tre tempi, attendendo un futuro che è eterno presente.
Nuovi raccolti, seminati da semi celesti, invece dei miei stanchi raccolti.
O dolce attesa, che l'amore completamente dissolva le vecchie radici inutili, le piante infestanti.
Il mio uomo vecchio fa da culla al nuovo.
Il giubileo ha sette immagini, sette anni sabbatici che preludono al suo apparire.
L'ultima immagine è preceduta da un ricco raccolto per decreto dell'Altissimo.
Così pure se perseveriamo potremo inoltrarci nel palazzo interiore.
Sei volte torneremo a cercarlo, fin sulla soglia, e non sapremo vederlo.
Ma la settima avremo con noi la gemma incantata del nostro abbandono, i nostri occhi saranno fatti più limpidi, e vedremo il traslucido palazzo.
L'ottavo anno entreremo nello splendore delle stanze interne.
Il nono ne torneremo, forse, per darne notizia.
23 E la terra non sarà venduta definitivamente, perché mia [è] la terra, perché stranieri e avventizi [siete] voi presso di me.
In questo mondo dunque nulla mi appartiene tranne quanto è parte della mia forma umana, ed anche questo solo transitoriamente.
Straniero e avventizio, folle sarei a credere mio ciò che senz'altro perderò alla fine dei miei giorni terreni.
Ben altra luce intravedo.
Quanto ho dato o preso, l'ho dato o preso, ma mia non era la sua luce. Ogni parola con cui ho illuminato il fratello, ogni parola con cui lui ha illuminato me, ci hanno illuminati ma non erano nostre.
Dietro tutte le luci, la fonte della luce.
Noi non abbiamo davvero dato nulla, nulla venduto.
Se avessimo potuto vendere, saremmo stati qualcosa.
Ma essere qualcosa di fronte a Dio è terribile.
Esserne ospiti, stranieri e avventizi, è magnifico.
L'ospite infatti non ha obblighi, ma l'oppositore deve affrontare le leggi della guerra.
L'oppositore è satàn, e gioca con l'Altissimo alla guerra.
Noi non venderemo ciò che non è nostro, e perciò non dovremo difenderlo, perché non ci saremo costituiti oppositori del suo proprietario.
Il Signore di tutte le cose ha prestato ai suoi ospiti ricchi palazzi e arredi, ma è cortesia che l'ospite rammenti che tutto ciò non gli appartiene.
Il meschino odia e patisce l'altrui generosità, ma il generoso gode di ciò che riceve e ama il donatore, e dona a sua volta in nome suo, e la loro gioia è comune.
Un vincolo che non si spezzerà.
24 E in ogni terra vostro possesso riscatto darete alla terra.
La mia forma umana deve lasciare spazio.
La libertà deve pervadere questo spazio.
Sono ospite, ma non solo io sono ospite.
Ogni forma del mondo è ospite di Dio, e pertanto è anche mio ospite.
L'ospitalità non ha fine, non deve aver fine mai.
Uno aprì le porte del palazzo, le spalancò per ricevere gli amici; ma chi è quell'amico che, entrato, le chiude impedendo agli altri di entrare?
Chi pensa così, chi vive così, non vedrà mai la porta del palazzo.
Dirà che non esiste.
Che non c'è nulla nel profondo dello spazio dell'anima.
Ma se un giorno lascerà la sua veste di schiavo, e volgerà il passo verso il mondo del dono, finalmente scorgerà il donatore.
Armonia sarà il suo stato ordinario.
La schiavitù del mio sarà cessata.
Perché lo svanire del mio è la vera ricchezza, lo svanire del mio è il vero gusto interiore.
La melagrana sarà gustata, la terra sarà riscattata.
Gustata la melagrana, la sua forza sarà liberata: si spargeranno i suoi semi sulla terra.
Riscattata la terra, la sua forza sarà liberata: chi fa grazia avrà grazia, il generoso otterrà generosità.
Poi, non più prigioniera di un ladro, la terra di questo mondo riposerà.
Tu riposerai in lei.
E il gusto del riposo è così dolce.
1) Cfr. il sopra riportato passo del Villani (Cronica, VIII, 36).
2) Cfr. Dante Alighieri, Paradiso, XXXI, 103-111, dove parla di San Bernardo:
Qual è colui che forse di Croazia
viene a veder la Veronica nostra,
che per l'antica fame non sen sazia,
ma dice nel pensier, fin che si mostra:
'Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,
or fu sì fatta la sembianza vostra?';
tal era io mirando la vivace
carità di colui che 'n questo mondo,
contemplando, gustò di quella pace.
3) Cfr. Dante Alighieri, Inferno, XVIII, 28-33, dove parla dell'accalcarsi dei ruffiani nella prima bolgia dell'ottavo cerchio:
come i Roman per l'essercito molto,
l'anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,
che da l'un lato tutti hanno la fronte
verso 'l castello e vanno a Santo Pietro;
da l'altra sponda vanno verso 'l monte.
4) Purgatorio, II, 31-42.
5) Purgatorio, XX, 85-93.
6) Inferno, XIX, 101.
7) Cfr. Villani, cit.
8) I due milioni di pellegrini potrebbero sembrare troppi, ma secondo il cronista astigiano Guglielmo Ventura, presente anch'egli a Roma, correva voce che fossero stati persino di più, e considerando che il pellegrinaggio era possibile per tutto l'anno santo e che la durata obbligata del soggiorno dei pellegrini a Roma era di quindici giorni, tale computo non è poi così assurdo, visto che il Villani dice che erano duecentomila "senza quegli ch'erano per gli cammini andando e tornando".
9) O Roma nobile, e signora del mondo, - Eccellentissima tra tutte le città,- Rossa del sangue rosato dei martiri, - E splendente dei bianchi gigli delle vergini, - Ti annunziamo la salvezza attraverso ogni vicissitudine, - E ti benediciamo: attraverso tutte le età salve!0
10) Di quanto li superasse non è chiaro, e abbiamo visto che Arturo Graf indica addirittura la cifra di due milioni.
11) Dizionario portatile della Bibbia. Tradotto dal Francese nell'Italiano idioma, ed arricchito di moltissime note, di nuovi articoli, e di varie carte topografiche dal P. D. Prospero dell'Aquila, Remondini, Venezia 1796, 4 tomi. L'originale francese era un'abbreviazione anonima del dizionario biblico di dom Augustin Calmet (1672-1757), famoso teologo ed esegeta benedettino. Il curatore italiano aggiunse voci di commento spesso assai più interessanti di quelle che commentava. Senza apportare cambiamenti di sostanza, ho però rimodernato in questo testo punteggiatura e trascrizione dei termini ebraici e corretto qualche errore, riportando nell'italiano di Mons. Antonio Martini le citazioni latine dalla Vulgata ed eliminandone una superflua e mal riprodotta, al fine di indurre una più immediata comprensione.
12) Tomo II, pp. 112-113, voce Jubilæum.
13) Dalla radice YBL.
14) Settimana.
15) Marzo-aprile.
16) Settembre-ottobre.
17) 1294-1303.
18) 1471-1484.
19) 1342-1352.
20) 1378-1389.
21) 1464-1471.
22) Tale scadenza fu da allora in poi rispettata, tranne che nel 1800, anno in cui Roma era occupata dai francesi, nel 1850, quando il giubileo non fu da Pio IX, esule a Gaeta, né indetto né celebrato, e nel 1875, cinque anni dopo la presa di Roma, quando fu dal medesimo papa indetto "in forma ridotta" ed inaugurato alla presenza del solo clero romano.
23) È tradizione dire che le indulgenze si lucrano, ma francamente simile espressione sa così tanto del mercimonio del passato da farci interiormente rabbrividire e comprendere le ragioni dello scisma di Lutero, che anche dal disgusto per simili mercati prese inizio. Infatti - come ci ricorda Claudio Rendina, op. cit., p. 502 - "Leone X fin dal 1514, com'è noto, per raccogliere i fondi occorrenti alla costruzione della nuova basilica Vaticana, aveva indetto una grande indulgenza predicata in tutta Europa; chiunque, in stato di grazia, avesse dato un'offerta avrebbe potuto lucrare un'indulgenza più o meno ampia, a seconda dell'oblazione, applicabile anche ai defunti. La speculazione sulle indulgenze coinvolse nella raccolta del denaro addirittura dei banchieri come il Fugger e particolarmente scandaloso fu il comportamento del domenicano Giovanni Tetzel; arrivava a promettere la salvezza immediata dei defunti dalle pene del Purgatorio, dietro il pagamento di un fiorino da un suo parente in vita!". E dice altresì Ernesto Buonaiuti, Lutero e la Riforma in Germania, Dall'Oglio, Milano 1959, p. 96: "quello che dovette far trasalire di sdegno Lutero, laggiù nella sua monastica cella di Wittenberg, non fu tanto una possibile inesattezza teologica della predicazione indulgenziale del vice-commissario per il privilegio magontino [Tetzel], bensì fu la sfacciata avidità di denaro che accompagnava la sua propaganda".
24) Va da sé che le confessioni protestanti non accettano la dottrina cattolica delle indulgenze. Buonaiuti, op. cit., p. 97, cita sulla questione un passo di Lutero: "Le indulgenze cancellano unicamente gli oneri della privata satisfazione. Onde c'è da temere che esse, molto spesso, congiurino ai danni dell'interiore penitenza. La quale unica rappresenta la genuina contrizione, la vera confessione, la autentica satisfazione dello spirito. Quando il penitente si duole purissimamente in se stesso di tutto quel che ha fatto, e quando realmente ci si rivolge a Dio e sinceramente si riconosce la propria colpa, e quando ci si getta col proprio cuore contrito nelle braccia di Dio, allora la vera penitenza è consumata".
25) A. Boulenger, La dottrina cattolica, 4 volumi, SEI, Torino, n. 417. L'imprimatur per l'ediz. italiana è del 1926.
26) Boulenger, op. cit., n. 420.
27) Nota del Boulenger: "I privilegi concessi in tempo di giubileo riguardano il penitente e il confessore. Il principale privilegio per il penitente è quello di potersi confessare da qualunque sacerdote approvato. I confessori poi hanno facoltà di assolvere quasi tutti i peccati e da quasi tutte le censure riservate al papa o ai vescovi, di commutare i voti fatti dai fedeli eccetto quello di castità e di entrare in religione".
28) Si ricordi che con la denominazione di Pentateuco si indicano i primi cinque libri della Bibbia, quelli attribuiti a Mosè e che per gli ebrei costituiscono la Torà in senso stretto. Tali cinque libri inoltre sono gli unici, insieme a Giosuè, ad essere accettati dai samaritani, di cui uno sparuto gruppetto di poche centinaia di persone sopravvive ancor oggi a Nablus ed in un sobborgo di Tel Aviv (cfr. Shemaryahu Talmon, I samaritani, ne "Le Scienze", n. 105, maggio 1977, pp. 106-117).
29) Traduzione della CEI. Si noti che l'ebraico shabbàth significa in primo luogo "riposo".
30) Tale nome, indicato in genere come Tetragramma o ha-Shem ("il Nome") e pronunciato dai filologi Yahuè, si trova la prima volta in Genesi 2, 4, e non viene mai pronunciato dagli ebrei, neppure leggendo la Bibbia, dove perlopiù si pronunzia in sostituzione il nome Adonày, "mio Signore". Secondo le testimonianze del Talmùd, anticamente veniva pronunciato da tutti, ma in seguito se ne restrinse sempre più l'uso fino ad inibirlo completamente, tant'è che la pronuncia esatta non è più nota con certezza (cfr. A. Cohen, Il Talmud, trad. Alfredo Toaff, Laterza, Bari, 1935, pp. 49-52).
31) Si noti ancora che Elohìm ( ' LHYM) - il nome di Dio in quanto creatore che appare già nel primo versetto del Genesi - nella mistica numerologica ebraica (gimàtriyya) ha valore 86, che per una operazione comune di permutazione (tzerùf ) corrisponde a 8+6 cioè a 14, che è il numero di yad, "mano", che a sua volta vale 1+4 cioè 5, numero delle sue cinque dita ovvero valore della H (anche la forma della H può del resto essere interpretata nella contemplazione mistica come la sovrapposizione della D sulla Y di yad).
32) Giobbe 9,2 (trad. CEI).
33) Trad. CEI.
34) Questo riferimento alla schiavitù può oggi anche scandalizzare come qualcosa che appartiene a un oscuro passato, tuttavia dovremmo rammentarci che questo è vero solo in parte, e che la tratta degli schiavi nel senso più letterale di questa espressione è tuttora praticata in certe zone del mondo. In altre, poi, intere fasce sociali sono, se non proprio in schiavitù, comunque in condizione di totale asservimento. Né si può dire che molto diversa dalla schiavitù sia, anche in Italia, la condizione di coloro che sono alla mercé degli usurai, i quali non hanno peraltro la consuetudine di rispettare alcun anno sabbatico.
35) Quanto risulta diverso qui il rispetto per il mondo animale e per la natura, rispetto allo sfruttamento intensivo moderno, completamente privo di ogni sensibilità e, direi, di ogni umanità. Bene si esprimeva su ciò Elena Quarelli (Socrate e le bestie, Racca, Cuneo 1958, p. 171): "Gli animali furono "consegnati" all'uomo, non dati in sua balìa. Noi possiamo disporne con saggezza e clemenza e anche del nostro dominio su di essi dobbiamo render conto a Dio".
36) Trad. CEI.
37) Come è tradotta, questa espressione: Del resto, non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi; perché il Signore certo ti benedirà, sembra contraddire 15,7 dove si dice: Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso. Più chiara è la Vulgata che traduce il primo passo: et omnino indigens et mendicus non erit inter vos, ut benedicat tibi Dominus Deus tuus, ed il secondo: Si unus de fratribus tuis... ad paupertatem venerit, ovvero (traduzione di Giovanni Giovannozzi, cit.): Ma non vi sia tra voi nessuno del tutto indigente e mendico, acciò ti benedica il Signore Dio tuo, e: Se verrà ridotto in povertà uno de' tuoi fratelli (cfr. Lev. 25, 25-35-39), dove meglio appare che l'assenza dell'indigenza non è tanto una previsione bensì un'ingiunzione, mentre previsione è che, nonostante l'ingiunzione, sempre di poveri ve ne saranno, come afferma 15, 11, citato anche da Matteo 26, 11.
38) Nicola Jaeger, Il diritto nella Bibbia. Giustizia individuale e sociale nell'Antico e nel Nuovo Testamento, Edizioni Pro Civitate Christiana, Assisi 1960, pp. 133-134.
39) Ibidem, p. 135.
40) Ibidem.
41) Martin Buber, Moses, 1945, trad. it. di Piera Di Segni: Mosè, Marietti, Casale Monferrato 1983, ried. Fabbri, Milano 1996, p. 176.
42) Note al Levitico, a cura di Menachem Emanuele Artom, in: Pentateuco e Haftaroth, testo ebraico con traduzione italiana e note, 1965, p. 209.
43) Rabbi Moshè ben Maimon, detto anche - con un acronimo - Rambam, nacque a Cordova nel 1134 e morì a Fustat, presso il Cairo, nel 1204. Fu uno dei massimi filosofi e studiosi ebraici.
44) Si può trovare la traduz. inglese dei capitoli 11 e 12 di questo testo sotto il titolo The Laws Concerning Mashiach nel sito Internet:
http://studentorgs.utexas.edu/cjso/Chabad/moshiach/rambam.html
45) Sefer ha-Temunah - Il Libro della Figura, in: Mistica ebraica, Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo, a cura di Giulio Busi ed Elena Loewenthal, Einaudi, Torino 1995, p. 259.
46) Ibidem, pp. 245-246.
47) Gershom G. Scholem, Ursprung und Anfänge der Kabbala, 1962, trad. it. Le origini della Kabbalà, Il Mulino, Bologna 1973, p. 573.
48) Cfr. Johann Maier, Die Kabbalah. Einführung - Klassische Texte - Erläuterungen, trad. it. di Romeo Fabbri: La Cabbala. Introduzione - Testi classici - Spiegazione, Dehoniane, Bologna 1996.
49) Ibidem, Yosef Giqatilla, p. 221, e Menachem Recanati, p. 390.
50) Ibidem, Menachem Recanati, p. 390.
51) Cfr. René Guénon, I misteri della lettera Nûn, in: Symboles fondamentaux de la Science sacrée, trad. it. Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1975, p.141.
52) Va da sé che gli ebrei mai non hanno potuto né possono, essendo tali, condividere quest'affermazione.
53) Dizionario portatile della Bibbia, cit., tomo II, p. 86.
54) 1 Corinti, 13, 12.
55) Insoddisfatto di tutte le traduzioni che ho visto, troppo poco fedeli al testo originale per gli scopi del mio commento, ho ritradotto dall'ebraico tutti i passi, il più letteralmente possibile.
56) Senza modificare la sostanza, la maggior parte dei traduttori traduce "settimane" invece che "sabati", esattamente come, in un calendario lunare, si può interpretare "novilunio" come "mese". Lutero invece traduce "sabati di anni" (shabbethòth shanìm) con Sabbatjahre, "anni sabbatici". Le due interpretazioni, pur legittime, sono come si vede inconciliabili, e pertanto ho preferito tradurre alla lettera, mantenendo la poliedricità semantica dell'originale.
57) Infatti tale parola è composta da M, che in quanto numero vale quaranta, D, che vale 4, e H (qui muta), che vale 5. Si ricordi che in ebraico tutte le ventidue lettere sono consonanti; le vocali vengono indicate, come gli accenti, mediante segni aggiuntivi che possono essere omessi, e di fatto lo sono quasi sempre salvo che nella Bibbia, dove peraltro non costituiscono parte integrante del testo sacro ma solo un criterio di lettura aggiuntovi dagli antichi commentatori detti masoreti (da masòreth o masòra, "tradizione").
58) Questo accostamento, non etimologico, perché "giubileo" viene da yovél, "ariete", è però suggerito sia dalla confusione che si è successivamente registrata in campo cristiano con il latino iubilum (cfr. anche il greco iobelaíos) sia dalla suggestione del "corno del giubilo", shofar teru`à, mediante cui s'annunziava l'inizio del giubileo, e che certo di molta gioia era causa per coloro che se ne sentivano annunciare la restituzione dei propri beni. C'è da dire che questo "corno del giubilo" essendo assente in tutte le traduzioni che ho visto, non è facile a chi non sa un po' d'ebraico divinarne l'esistenza. In realtà teru`à non necessariamente significa "giubilo" bensì può significare qualsiasi strepito rumoroso anche guerresco, tuttavia non indica certo contrizione; caso mai - come nel giudizio - terrore per l'ingiusto ed entusiasmo per il giusto. Le traduzioni da me viste tutto ciò non esplicitano affatto. La Vulgata traduce semplicemente buccina cioè "corno", Martin Lutero trasforma il corno in "trombone" (Posaune), la CEI traduce "tromba dell'acclamazione", la Riveduta traduce loud trumpet, "tromba altisonante", la versione dei Testimoni di Geova "corno d'alto tono", Giovanni Luzzi lascia solo "tromba", la traduzione di Menachem Emanuele Artom dà un incomprensibile "corno del suono" che echeggia malamente la sálpingos phonê, "suono della tromba", dei Settanta. Giovanni Giovannozzi, nell'edizione del Ricciotti condotta sulla Vulgata, trasformava il corno di questa moltiplicandolo in "trombe", la Bible de Jérusalem dà "le son de la trombe", Louis Segond "les sons éclatants de la trompette". Di quelle da me vedute, solo la versione di Luigi Moraldi nell'edizione curata dal Garofalo cerca di mantenere intero il senso e dice "la tromba della teru`à", il che però costringe in nota per trovare la spiegazione. Qui si dice che teru`à è termine tecnico, "designante non lo strumento (la tromba), ma il suono emesso e il rito corrispondente". Resta da capire perché non si traduca "corno", visto che di vero e proprio corno d'ariete si tratta (confrontando in Esodo i versetti 19, 13 e 19, 16, appare chiaramente che yovél e shofàr sono usati come sinonimi), mentre la tromba metallica era detta chatzotzerà.
59) Il testo masoretico interpreta al femminile, hi', correggendo il maschile hu' del testo, ma non ne vedo la necessità. Cfr. inoltre le note 62-63.
60) Essendo tale parola composta di M, che vale 40, e Y, che vale 10.
61) Il greco he pentekosté heméra indica infatti "la cinquantesima giornata", con il che, sia nella tradizione ebraica che in quella cristiana, s'intende la cinquantesima dopo la Pasqua. Gli ebrei vi celebrano la "festa delle settimane" (shavu`òth) e la rivelazione del decalogo a Mosè; i cristiani la discesa dello Spirito Santo sui discepoli di Gesù Cristo, riunitisi per la festa dopo la sua ascensione.
62) Anche qui il testo masoretico corregge nel femminile, hi' il maschile hu' del testo. Si può ben capire che pochissimo conviene tale correzione ad un esegeta cristiano, che in quel hu' ("lui") può vedere senza troppo sforzo un'allusione a Gesù Cristo, a cui ben s'addice l'emblema dell'ariete sacrificale e che altrettanto bene è ricollegabile al giubileo anche in ragione - come si è già visto - della corrispondenza tra le simbologie della lettera ebraica nun, del numero cinquanta (suo valore) e del pesce, emblema antichissimo di Gesù. Per un cristiano, in effetti, l'anno santo per eccellenza, il giubileo, è il tempo di Gesù Cristo, sia cioè quello in cui fu presente sulla terra, sia quello "della fine" in cui vi tornerà, sia la eternità del suo essere in quanto seconda Persona della Trinità, dimensione sovrannaturale a cui il cristiano si auspica di accedere nella morte.
63) Cfr. Louis Charbonneau-Lassay, Le Bestiaire du Christ, Desclée, De Brouwer & Cie. 1940, ried. Archè, Milano s.d., capitolo 17, n. V: "Come la maggior parte delle vittime offerte negli antichi sacrifici, l'ariete divenne presso i cristiani l'immagine del Cristo vittima; e tale simbolismo si mantenne anche durante il Medioevo, secondo la testimonianza di Rabano Mauro e dell'Anonimo di Clairvaux che vedono nell'ariete il Verbo fatto carne e immolato in sacrificio per la nostra redenzione.
Molto più anticamente, nella chiosa mistica del sacrificio di Avrahàm sul Moria, dove l'ariete fu sostituito al figlio del patriarca, si era presentato l'animale sacrificato al posto di Isacco come la figura del Cristo immolato al posto dell'umanità colpevole".
64) Le lettere di ha-satàn sono infatti H, che vale 5, Sin, che vale 300, Teth, che vale 9, e N, che vale 50.
65) In ebraico man, "manna", vale 90 quanto màyim, "succo". Quanto alla manna che secondo Esodo 16, 14-36 nutrì gli ebrei durante il soggiorno nel Sinai, è noto che quivi effettivamente un tipo di manna si raccoglie tra maggio e giugno, essudazione di una sorta di tamerice mannifera. Non è comunque facile identificarla con la manna biblica, che aveva caratteristiche non comuni. Quanto alla manna che è più nota in Italia, e che viene usata come blando lassativo, è ricavata mediante incisioni nel tronco dell'orno (altresì noto come ornello, orniello, avorniello, laburno, fraxinus ornus) e di altre specie di frassino.
66) Pardés rimmonìm s'intitola una famosa opera di Mosè Cordovero.
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