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LA PRIMA ELEMENTARE
Dario Chioli
Avevo sei anni otto mesi quattro giorni allorché il primo ottobre 1962 feci la mia comparsa nel mondo dei Sapienti. Non ero granché spaventato, a quel che mi ricordo, e neppure entusiasta.
Imbottito di raccomandazioni, andai, accompagnato, incontro alla sorte comune di tutti i bimbi del nostro tempo, e a dire il vero non ricordo molto di quel primo giorno.
Mi ricordo bene in compenso l'insegnante che mi capitò, una brava e ciarliera donna famosa per i suoi urli da sergente inviperito, che da anni svolgeva le sue mansioni esclusivamente nella prima elementare. Ricordo che imponeva rispetto: non era infatti una qualsiasi donnetta dalla voce gentile, bensì un'imponente figura che, a volercisi noi piccoli paragonare, ci avrebbe lasciati interdetti e molto impermaliti.
Eravamo beninteso quasi tutti bambini del ceto medio, e il suo modo di insegnare era l'esatta continuazione del modo borghese medio di intendere l'esistenza, cosicché non posso dire che in quegli studi ci fossero molti stimoli.
Io ero timido e però il più bravo, cosa questa che compensava quell'altra, anche perché le mie manie di grandezza non erano affatto sgradite alla maestra che anzi se ne compiaceva, come nell'uso, in quanto mostravano quanto studioso e buono io fossi, non come quei ragazzacci che, con squisita pedagogia giusto degna dell'anno Tremila, mi lasciava talvolta a vigilare e reprimere, cosa che io facevo con molto diletto e molta applicazione, assolvendo bene all'incarico di scrivere sulla lavagna i nomi dei cattivi, per quanto in verità risolvessi quasi sempre alla fine per cancellarli prima che ritornasse la pedagoga, ciò che mi salvò dal divenire troppo antipatico.
Tuttavia questo contribuì senz'altro a isolarmi ulteriormente dal resto della classe, con la quale in verità non avevo che rapporti strettamente di studio. Ero timidissimo e mi sentivo superiore solo quanto allo studio, mentre soffrivo invece d'inferiorità nei rapporti di gioco, quando per esempio scalciavamo il pallone, allorché in verità, se pur ero alquanto inetto, bisogna dire che la tecnica degli altri valeva soprattutto in quanto interpolata da urli e da affermazioni di carattere fortemente fisico.
I miei compagni più vivaci avevano infatti perfettamente compreso lo spirito dei samurai: l'urlo disorienta il nemico, e il nemico spaventato è in fuga prima ancora di volger le gambe. Io che, pur essendo dei più vecchi, non ero per niente poderoso, non mi ponevo perlopiù neanche il problema: evitavo la collisione, cosicché finii per restare perennemente ai margini della vita ricreativa.
Ma mi rifacevo! Oh come mi rifacevo! Innanzi a me, gli altri facevano la figura dei cretini. Contavo leggevo scrivevo meglio e, poiché c'era una specie di Banca delle Buone Note, una sorta di attestati di merito distribuiti ogni settimana per questa o quell'altra virtù, ero sempre il più ricco. Inoltre, poiché ogni anno si distribuivano medaglie, sempre presi quella d'oro.
Tuttavia dal secondo anno in poi sorse un pericoloso concorrente che io, a dire il vero, in principio snobbai abbastanza, senza accorgermi che di anno in anno i suoi voti si facevano migliori dei miei, cosicché alla fine del ciclo elementare, poiché si premiavano i più bravi, io arrivai solo secondo.
Ma invero mi si truffò poiché, quanto a medaglie d'oro, io
ne avevo di più!
[8.V.1976]
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