LA CITTÀ DEI BRUTTI
Dario Chioli
Vivevo nella Città dei Brutti. La chiamo così adesso, naturalmente, perché prima non mi sembrava tale, anzi, vivendoci me ne facevo una ragione ed apprezzavo tutto ciò che vi si trovava.
Dalla Città dei Brutti non si usciva mai se non con un permesso speciale, che veniva concesso solo ai più brutti di tutti. Uscivano, facevano l’indispensabile e tornavano di fretta, perché fuori di lì, nel Mondo Bello, non si trovavano affatto bene. Dopo che un po’ di volte erano usciti e tornati di fretta, a volte li eleggevano Capi della Città, essendo ormai sicuri che non se ne sarebbero andati mai. Divenuti capi, diffondevano poi facilmente le loro opinioni, di modo che in città tutti pensavano che, se anche fuor d’essa c’era qualcosa, non valeva comunque la pena uscirne.
Non ci si poteva muovere liberamente; non era espressamente vietato ma non era nell’uso. In genere uno sceglieva un perimetro molto definito intorno a casa sua e si aggirava lì. Se si stancava cambiava casa e zona; ma non succedeva spesso. Per quelli più inquieti s’erano inventate segrete assemblee: si scendeva nel grembo della Madre Terra e ci si dava a cerimoniali e rituali che facevano sentire importanti i partecipanti. Quando ne uscivano, il loro sguardo era più severo, sembravano più sicuri di sé, e i non iniziati se ne innamoravano a volte follemente.
Per quanto mi riguarda io non ero molto a mio agio, mi sentivo goffo, non mi piaceva come mi guardavano, i miei pensieri non collimavano con quelli altrui, guardandomi allo specchio mi sembravo brutto, perché ero diverso dagli altri.
Spesso giravo col naso per aria, e mi prendevano in giro per questo. Allora cercavo zone senza passanti e guardavo il cielo, le nuvole, le stelle, il sole. Mi feci così una reputazione di svitato, e ci credevo io stesso.
Un giorno però mi passò a fianco una donna: intravidi che era stranissima, ma avevo il sole contro e non feci in tempo a guardarla bene; solo intesi con difficoltà quel che diceva. E diceva, pensate un po’, che non ero affatto brutto, che ero anzi molto bello. Mi riebbi dalla sorpresa di una tale affermazione solo dopo un attimo, ma in quell’attimo lei era sparita. Mi diedi allora a cercarla affannosamente in giro, ma non c’era. Ogni tanto mi pareva di vederne l’ombra, di sentirne il passo, d’udire un riso che mi sembrava dover esser suo, ma invece nulla, e in quella ricerca m’avvidi d’essermi addentrato in parti della città che mi erano perfettamente ignote. Sconsolato, mi sedetti su un muretto e guardai verso il cielo in un muto richiamo. Alzando così lo sguardo, m’imbattei in una scritta posta in alto, a due metri e mezzo circa da terra, che diceva:
SE VUOI USCIRE DALLA CITTÀ DEI BRUTTI
SEGUI QUESTA FRECCIA -->
Non capii subito che significasse quella scritta. "Città dei Brutti" era per me un termine ignoto. Però mi risonava nel cuore l’affermazione di quella strana apparizione, che io ero bello, e per conseguenza mi parve che quella scritta mi riguardasse, e riguardasse lei. E allora seguii l’indicazione.
Feci qualche passo, guardando spesso in alto per vedere se c’erano altre scritte, e a un tratto ne scorsi una:
SE VUOI DAVVERO USCIRE DALLA CITTÀ DEI BRUTTI
GUARDA SEMPRE IN ALTO, NON ABBASSARE MAI LO SGUARDO
E SEGUI QUESTA FRECCIA -->
A questo punto questo strano gioco mi aveva avvinto e feci quel che mi veniva richiesto, sicché ad un tratto, mentre di continuo tenevo il naso su per aria, venni ad inciampare in un qualche gradino, e caddi rovinosamente per terra. Per terra è però solo un modo di dire, perché una botola s’aprì sotto il mio peso ed io caddi sopra un mucchio di foglie secche in una specie di sotterraneo.
Quando mi riebbi dallo spavento, mi guardai attorno e mi accorsi che c’era una fonte di luce. La cercai e vidi al fondo d’un cunicolo lo splendore del sole che tramontava.
Uscii e respirai a pieni polmoni un’aria così pura che quasi mi fece male. Di fronte a me uno stretto sentiero s’inoltrava tra gli alberi di un bosco.
Presi a percorrerlo, e la speranza di quella donna mi avvinceva il cuore; per lei m’ero inoltrato dove nessun altro aveva osato, avevo lasciato l’abitudine per la follia; non poteva dunque infine non mostrarsi. A poco a poco comunque i misteri del bosco mi incantarono. Gli uccelli prolungavano il mio sguardo nel loro volo. Lo stormire delle fronde allargava il respiro del mio petto. I profumi delle erbe aromatiche nutrivano il mio pensiero. E tanto fu l’incantamento, che mi sedetti e piansi di gioia e nostalgia.
In quel mentre sentii fischiettare ed un ragazzo comparve da una diramazione del sentiero. Ci salutammo e sentii molta amicizia per lui. Capii che gli piacevo, che si sentiva solidale con i miei occhi ancora offuscati dal pianto. Ci accordammo per proseguire insieme.
Più camminavamo più il mio compagno mi risultava simpatico. Aveva delle provviste, le divideva volentieri con me, ed ogni tanto cantava canzoni che facevano vibrare il mio cuore, che parlavano alla mia mente di cose che già sapevo ma non avevo mai riconosciuto.
E quel sentiero procedeva senza fine. E pareva che non vi fosse altra via da seguire.
Un giorno però ne incrociammo un altro, e per quella via venne un uomo dall’aria stanca, che ci avvertì che non si trovava mai nulla in quelle contrade, solo seccatori che non ti lasciavano in pace, e la strada si dilungava indefinitamente. Conosceva bene la situazione: era una strada circolare che sempre tornava su se stessa, e non c’era fine. Noi lo guardammo con incredulità, volevamo altre spiegazioni, ma lui non voleva parlare a nessuno, per lui eravamo solo altri seccatori, e se ne andò. Lo seguimmo con gli occhi, e vedemmo che non guardava mai intorno a sé, solo contava e ricontava, numerava e rinumerava le pietre del suo cammino circolare, e sempre continuava a far riferimento a quelle che così aveva contato e numerato. Il nostro sentiero, che intersecava il suo, fatto di pietre non da lui numerate, neanche l’aveva visto. Aveva tracciato due linee di demarcazione entro le quali le pietre dell’incrocio erano tutte numerate in quanto corrispondevano al tracciato del suo sentiero circolare, ma le altre non esistevano per lui.
Con una certa compassione per la follia di quel pazzo, proseguimmo inoltrandoci per il bosco. Camminammo camminammo, fino ad essere stanchi, poi ci sdraiammo e chiudemmo gli occhi. Nel sogno vidi come un gran vento rapisse a un aquilotto la sua madre aquila. Mi svegliai allora pieno d’agitazione, e cercai il mio compagno; ma lui era sparito. Molto mi dispiacque e molto mi arrovellai per capirne la ragione, ma non giunsi a nessuna conclusione.
Allora proseguii, per giorni e giorni, solo. Ma i pensieri e le parole e le canzoni del mio compagno ancora risonavano in me, e altri pensieri, altre parole, altre canzoni nacquero.
E infine giunsi alla fine della strada.
La fine della strada dava su un precipizio oltre cui si stendeva un deserto di sabbia. Credetti d’essermi sbagliato, di non aver veduta una diramazione del sentiero, e feci per tornare indietro. Ma proprio in quel momento cadde giù dal monte un’enorme frana, impedendomi il ritorno. Stupefatto, mi guardai intorno: ero su uno sperone di roccia e non potevo né procedere né tornare. E giù nel precipizio mi pareva di scorgere le ossa di molti che forse prima di me erano caduti giù, in un disperato tentativo di discendere.
Cercai dentro di me una ragione di tutto ciò, che non mi sembrava credibile potesse essere accaduto per caso. M’interrogai se non avrei preferito restare nella Città dei Brutti, ma il pensiero mi fece inorridire. Mi chiesi se allora non sarebbe stato meglio prendere la strada circolare del folle, ma il pensiero mi nauseava. Ed infine mi chiesi cosa sarebbe successo se sempre avessi potuto andare avanti insieme al mio compagno, ma m’accorsi che sarebbe stato impossibile, che il compagno mi aveva fatto molti doni e se n’era andato al momento giusto, e che la strada non poteva procedere indefinitamente perché nel vasto mondo degli uomini prima o poi comunque le cose tornano su se stesse, ed allora il desiderio della morte prende gli uomini.
Osservai quel che avevo intorno su quello sperone di roccia. Non c’era speranza, no, non c’era alcuna speranza che un essere umano potesse davvero nutrire. Guardai giù dal precipizio con compassione le ossa dei miei predecessori; neppure esse mi dicevano nulla, in realtà. E però mi accorsi che una cosa avevo dimenticata, ed era una cosa importante.
Mi accorsi che m’ero dimenticata l’origine del mio cammino, colei che m’aveva distolto dal vecchio portandomi sul nuovo sentiero. E non appena me ne resi conto, un dissennato amore m’invase, un canto sgorgò dalle mie labbra, e l’amor mio l’udì e m’apparve, e mi sopraffece con un incantamento che mi trasformò.
Nulla di mio rimase: non più città, non più sentiero, non più sperone di roccia. Non più precipizio, non più speranza, ma solo quell’amore le cui parole ed amplessi giacciono profondamente nascosti nel segreto della Città dei Brutti, attendendo che un amante li porti con sé fino al luogo dove possono svelarsi.
[15.IV.1996]
Se vuoi, invia un commento a: |