INQUIETUDINE
Dario Chioli
Il poeta aveva mille cose da scrivere. Il suo spirito era troppo colmo, e i racconti, si sarebbe detto, potevano uscire uno dietro l'altro senza interruzione, senza che venisse meno l'ispirazione. Ma le pagine gli si rivoltavano: i suoi sogni troppo ben descritti saltavano via dalla carta e coronavano il suo animo di rimpianti e malinconie. Il poeta, irritato, li minacciò: Vi inchioderò sul tavolo, se non v'accontenterete di essere e rimanere parole.
Egli infatti doveva scrivere, non ricordare. Si era prefisso il gran traguardo di mettere per iscritto le sue interpretazioni sugli uomini, la sua visione del mondo. La speranza di rappresentare la commedia universale era troppo viva per permettergli distrazioni.
Non aveva vissuto tutte le cose che aveva pensato. Anzi, aveva assai più pensato che vissuto, e quei maledetti racconti balzavano su dalle righe a ricordarglielo con malignità, troppo contenti di rappresentarne la vita più che non la vita stessa. Ma il poeta era un gran satiro e, dopo essersi inquietato inutilmente per un bel po', si rese conto dell'ironia della cosa e prese a far sberleffi alle proprie parole. Esse allora, umiliate e piangenti, tornarono nel loro cantuccio. Il poeta, lasciato solo anche da loro, si sentì appunto solo, sennonché la faccia di Solitudine gli spuntò troppo in fretta da dietro le spalle e lo fece spaventare. Dopo aver mandato giù lo Spavento, trovò che il suo gusto amarognolo era tutto sommato assai divertente, e rise tanto che piangeva.
In quel momento arrivò la Persona Seria, che con faccia seria disse Ohibò e si fermò, come ad aspettare una spiegazione. Ma il satiro s'incupì immediatamente e non diede alcuna spiegazione. La Persona Seria stava sulle spine, e infine con voce un po' stridula e acidula gli domandò perché ridesse, come chi si ricordi all'improvviso di una cosa per lui così poco importante che se l'era perfino scordata. Ma messer poeta, siccome sapeva benissimo che invece ci stava pensando sin dal principio, e poiché era un malignaccio, rispose: Oh, non so neanche più, al che la Persona Seria arrotò e roteò i denti convulsa, cacciò verso altre mete la sua sete di conoscenza e se ne andò senz'affatto confessare a se stessa d'essere inviperita.
Il poeta si mise a ridere tranquillamente finché non ebbe esaurita la sua dose giornaliera, indi si rimise a scrivere caparbio. Ma le parole, che si erano oramai assuefatte al cantuccio dove erano andate in esilio, per ripicca si abbrancarono con tutte le sillabe al cantuccio medesimo, così che il cervello cominciò a mandare stridi penosi. Ma il poeta, che era un gran giocherellone, come già si è inteso, senza che le parole se ne accorgessero venne costruendo rapidamente un passaggio narrativo che gli permise di scrivere sulle parole stesse, esorcizzandole. Bisogna dire che esse furono dapprima alquanto infuriate ma poi, toccate nella loro vanità oratoria, si diedero da fare per ben figurare, giacché, dicevano, il poeta fa presto, lui, a scrivere: anche se scrive qualcosa di orribile la faccia dei lettori non la vede, ma noi, oltre a vederla per forza perché stiamo loro sotto il naso, ci ritroviamo anche tutte mal assortite, un'accozzaglia senza princìpi conduttori, sicché la nostra psiche ne risente.
È vero che di solito non si pensa che le parole abbiano una psiche, e neppure il poeta lo pensava, ma era proprio questo il trucco, perché se le parole si ritrovavano tra capo e collo una psiche nuova di zecca, mai sperimentata, dovevano pur fare qualcosa, e di conseguenza anche il cervello e la penna dovevano tirare fuori qualche novità. Così il poeta, ridendo in cuor suo tutto felice della trovata, mise in moto un meccanismo che non aveva nessun bisogno di oliare o ricaricare. E in effetti le parole, trovandosi quella cosa nuova che si chiamava psiche tutt'a un tratto sulle curve grafiche, si diedero da fare per riempirla affinché la smettesse di piangere con quel suo modo tutto muto di piangere.
A questo punto il poeta non sapeva se doveva ridere, ma arrivò la Persona Seria, e allora si mise a piangere. La Persona Seria con faccia seria disse Ohibò e si fermò, ma memore della sua precedente esperienza fece subito la sua domanda: Perché piangi? Al che il poeta, maligno, rispose: Perché la Persona Seria è morta.
La Persona Seria sbigottì e spalancò gli occhi. In verità era così sorpresa che non riuscì più neanche ad essere seria, e corse via disperata perché si era messa a ridere.
Il poeta sogghignò e riprese a scrivere. Cominciava a diventare malinconico quando la Persona Seria tornò per la terza volta, per chiedergli di spiegarle come faceva ad essere morta se era viva. Tre volte maligno, perché la malignità era rientrata con troppa foga riempiendo il posto lasciato di colpo libero dalla malinconia, il poeta rispose: Perché la Persona Seria ha smesso di essere seria.
La povera Persona Seria fu talmente affranta da questa rivelazione che la sua serietà si acuì a tal punto che si mise a piangere. Il poeta però si preoccupò subito di risollevarle l'animo giacché sapeva bene che le lacrime delle Persone Serie sono capaci di affogare intere famiglie in un colpo solo, e perciò disse: Del resto anche Messer Riso ha smesso di ridere.
La trovata ebbe successo. La Persona Seria, sconcertata, cessò di lamentarsi, troppo preoccupata di capire come si conciliasse questa nuova rivelazione con quell'altra, e anche perché segretamente sperava che finalmente il mondo fosse diventato un Mondo Serio. Aveva tutte le intenzioni d'interrogare ancora il poeta su questo punto ma egli, non sapendo come andare avanti, se la cavò assumendo a un tratto un'aria così spiritata da spaventare a morte la Persona Seria, costringendola alla fuga e mandando in fumo i suoi piani.
Sperando poi che si affogasse da sola, il poeta provvide a spedirle una lettera in cui le comunicava che in realtà Messer Riso rideva ancora mentre la Persona Seria aveva smesso per davvero di essere seria, e che se lui aveva fatto un po' di confusione era solo per la naturale pietà ispiratagli dal suo pianto. La Persona Seria lesse la missiva sei o sette volte, ma siccome era sola non pensò affatto di mettersi a piangere, sicché non affogò.
Irritato da questa buona novella, il poeta si barricò nella sua stanza e si rimise a scrivere, ma l'Inquietudine emerse e si impadronì di lui. La Persona Seria aveva infatti evocato il diavolo perché gli desse fastidio, e il diavolo aveva mandato sua figlia Inquietudine, che era più intelligente di lui e soprattutto più portata verso le sottigliezze geniali. Sennonché, dopo un po' che era inquieto, il poeta prese la penna e descrisse l'Inquietudine, sicché essa fu costretta a staccarsi da lui e a metterglisi di fronte.
Vista così, l'Inquietudine non era malaccio e, visto così, neppure il poeta era malaccio, così che i due subito s'innamorarono e a messer demonio s'arruffarono corna e capelli per la disperazione. Mai gli era accaduto che sua figlia si lasciasse sedurre da un uomo, gli si desse tutta con tanta determinazione. Inoltre dopo un po' Inquietudine smise di essere inquieta, e papà demonio cominciò a provarne una noia indicibile, tanto che infine la ripudiò e diseredò. Inquietudine fu un poco sbigottita, ma poi la cosa le piacque e fece a meno dell'inferno volentieri, giacché il poeta le dava assai maggiori soddisfazioni. Cominciò anzi a pensare che il suo ex-padre fosse un cattivo padre, perché non le aveva mai procurato quei dilettevolissimi passatempi che le procurava il poeta, e finì per crederlo così fermamente che si convertì del tutto al regno degli angeli. Da quel momento pare che il demonio rinunciasse a dar fastidi al poeta, per paura di perderci qualche altro collaboratore.
Inquietudine era una compagna gradevolissima, e la Persona Seria s'ingelosì furiosamente del poeta. Perciò un giorno aspettò che lui non fosse in casa, vi s'introdusse e aggredì e violentò Inquietudine. Questa peraltro, non essendo ancora a conoscenza delle leggi degli uomini, non se ne turbò affatto, anzi, ci prese gusto. Ma siccome la Persona Seria era per l'appunto una Persona Seria, non fu in grado di resistere a quel tanto di demoniaco che rimaneva in lei e, sommamente turbato, finì per girare il mondo come degno e serissimo servo dell'Ebreo Errante, poiché da allora in poi in poi si sentì del tutto inquieto.
Quando il poeta tornò e seppe dell'accaduto, si divertì tanto che volle divertire anche i lettori narrando il tutto, mentre Inquietudine, che non aveva capito granché di quel guazzabuglio, stette pensosa a contemplare il muro. Quando il poeta ebbe finito di scrivere, la prese da parte e fece l'amore con lei, e tutte le nubi che non erano nate evitarono di nascere.
Così proseguirono serenamente la propria vita. Inquietudine apprendeva a prendere in giro e per traverso le parole e il poeta cominciava a capire qualcosa di ciò che scriveva. Dopo un po' si conoscevano così bene che evitavano ogni litigio, tranne che fosse un litigio divertente. Costringevano la Fortuna a togliersi la benda e a correre da loro, e non si annoiavano mai.
Venne il giorno in cui il poeta dovette morire ed allora anche Inquietudine si spogliò della sua immortalità e gli si coricò al fianco. Mentre le Persone Serie correvano agitate su e giù, essi le prendevano in giro, ridendone come solo degli uomini si può ridere, specialmente se si tratta di Uomini Seri. Infine la palpebra del poeta fu gravata dagli anni e fece per chiudersi, e allora Inquietudine, lanciato un ultimo sberleffo alle Persone Serie che accorrevano da ogni parte, lo baciò con lunghi baci. Il poeta sorrise e morì, e con lui Inquietudine, e volteggiarono sopra i propri corpi rincorrendosi e ridendo ancora di tutte quelle Persone Serie che, compunte, proclamavano con aria afflitta ch'essi erano morti. Che scoperta! che cecità! esclamarono e, stanchi di quella riprovevole ed inutile serietà, se ne volarono via verso luoghi migliori.
[24.I.1976]
Se vuoi, invia un commento a: |