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IL FORNITORE DI ANIME

Dario Chioli

 

C'era una volta un uomo che inventò un mestiere, un bel mestiere, quello di fornitore di anime. C'era tanta gente che non aveva un'anima, o se l'era dimenticata da qualche parte, va a sapere dove, ed era una cosa terribilmente seccante, poiché quelli che non hanno un'anima in genere tendono a romperla agli altri, che, poverini, fuggono fuggono ma sempre ne incontrano.

Ordunque il fornitore di anime giustamente pensò con tal mestiere divenire ricco e stimato e anche guadagnarsi il paradiso. Mise dunque su bottega e non dovette aspettare molto che arrivarono i primi disanimati. Lì per lì ci mise molto impegno, le loro sventure gli parvero degne d'infinita attenzione, e mattone su mattone gli costruiva l'anima, anche se era terribilmente difficile perché i disanimati tendevano a dissolvere in stagni di lacrime e lamenti tutti i mattoni, che in definitiva non erano che argilla. Perché anche i mattoni dell'anima non sono se non d'argilla, se pur molti s'aspettano siano di pietra di nebulosa o di qualche strana materia della Costellazione del Cane. E invece son solo terra anch'essi, come tutto l'uomo, e cose cioè consuete, senza miracoli, cose vere e anche cose false che lì per lì paiono vere, e cose però spesso belle, come i castelli di sabbia che danno un pezzo d'anima ai bambini, sempre però che non si gettino troppo in fretta onde di lamento per far arrendere il cuore nella distruzione del castello. E infatti di continuo, senza sosta, il fornitore d'anime con paletta e secchiello metteva le pareti le finestre i pilastri, e poi sempre lì a rabberciare, a frenare l'urto delle onde. Gli pareva quasi che i disanimati, che pur lo pagavano profumatamente, in realtà l'anima non la volessero. Come fossero eterni, e potessero sempre cercare. E il fornitore d'anime a dire loro che il bambino diventa vecchio, e a costringerli sull'altalena per ringiovanirli, ed essi col mal di stomaco le vertigini e il sentimento di un'adulta dignità a chiedergli filosofici concetti o pratiche sistemazioni sociali, quasi fosse un fornitore di bare.

Talvolta li bastonava, e molti perciò lo mandavano al diavolo e se ne tornavano all'inferno. Perché bisogna dire che il fornitore d'anime andò avanti in questo suo mestiere per molto tempo, guadagnò molto denaro, un qualche carisma e forse un simulacro di paradiso, ma non ebbe in realtà molto successo. I pochi successi, se ci furono, forse neppure li conobbe.

E pensare che aveva un'ampia riserva d'anime, anime di alberi, anime di falchi, anime di montagne, anime di laghi, di angeli, di ananassi, di radici di baobab, di vampiri ravveduti, di persecutori non più persecutori, tediatori non più tediatori, fornitori d'anima che se l'erano fornita in primis a loro stessi, filosofi classici, stelle, pietre nere, divinità di molte classi, e chi più ne ha più ne metta. E con tutte queste anime, finiva sempre che gli chiedevano l'anima gemella o comunque un'anima che in definitiva non li riguardava direttamente. E in effetti si sa che è meglio guardarla l'anima che non costruirsela.

C'erano mistici che l'anima volevano perderla, pur se non l'avevano, e non si capacitavano di come non potessero, e giù a chiedere al fornitore d'anime le più insulse concessioni. Qualche volta venivano dei pazzi che in cambio dell'anima volevano dargli il cervello, o dei monchi che volevano dargli il braccio, e i ciechi l'occhio. Ed erano tutti così terribilmente contratti, aggrovigliati, complessi e oscuri, che anche a volergli piazzare l'anima di forza, non si trovava un buco. E il fornitore d'anime si sentiva quasi insano, con quella sua paletta e il secchiello, a mettere sabbia sacra in questi setacci senza ritegno. Per fortuna i disanimati tanto più volentieri gli pagavano le perdite che non i guadagni, e così lui viveva.

È inutile dire che col tempo non ci mise più molto impegno, ma quel che veniva veniva, e se non veniva nulla ormai non si stupiva. E prendeva l'anima del falco, la dava in mano, proprio in mano, al disanimato, e il falco moriva e il disanimato restava senz'anima e però si sentiva falco per un giorno o due, e così dopo un giorno o due tornava tutto contento per avere un altro falco, o questa volta un'aquila, cui consumare l'anima. Ma ormai il fornitore d'anime, stufo dello spreco, non dava che simulacri, effigi senza vita, ed essi andavano via contenti lo stesso perché non vedevano il trucco, e se non si sentivano così vivi come l'altra volta potevano però, cianciando col prossimo, illudere di esserlo, e illudere gli altri è come illudere se stessi, quando non si ha un'anima, sicché erano tutti falchi e aquile. Strano a dirsi, nessuno voleva l'anima del baobab, forse perché il baobab sta fermo e zitto, assorbe il rumore, ed essi invece volevano esprimersi e spremersi come limoni, poiché chiamavano questo avere un'anima, ovvero vivere.

Di questo passo il fornitore di anime finì per sentirsi assai stanco. E gli venne un segreto dubbio, dapprima piccolo piccolo ma poi assai più grosso, se non avesse per caso, in tutto questo suo tentativo di costruire anime, smarrito la propria, quasi se ne fosse andata, offesa per essere stata trascurata, oppure fosse in realtà sempre stata lontana, e quella che lui considerava non fosse stata che la sua immagine nello specchio del cuore. E così fu ancora più stanco, e affranto, poiché muoveva passi nel vacuo, e tutto pareva nuvola e sogno, niente che fosse sodo e afferrabile. Tutto fuggiva con le maree dei disanimati, dei pazzi, dei ciechi, tutto gli gridava parole difformi, sogni su sogni, veli su veli, errori su errori, e ogni parola che gli uscisse di bocca non era che un altro nodo per il suo cuore, e ogni pensiero che nascesse non era che un incanto per i suoi occhi.

E allora egli s'incamminò per il silenzio, e le sue parole divennero simulacro di parole, i suoi pensieri simulacro di pensieri, i suoi passi simulacro di passi, e sotto il soffio di un segreto mantice una rossa fiamma si accese. E cambiò dunque mestiere e divenne, in luogo di fornitore, da allora in poi un distruttore di anime. E quello che gli si appressava si consumava e diveniva cenere, e coloro che lo consultavano, dopo poco se ne andavano timorosi e seccati, ché non più falchi ottenevano bensì gli artigli del falco, non aquile, ma la loro minaccia imperiosa. E se vi erano disanimati particolari che non si accorgevano subito del mutamento avvenuto, poi però erano quelli che più scappavano, toccati nel vivo dalla fiamma, se pur la loro ustione non sarebbe guarita mai. E accadde che taluni, che erano disanimati, nella fiamma conobbero un'immagine del proprio essere e partirono alla ricerca di esso. Altri invece si seppellirono in astuti nascondigli per poter dormire, e il sole per loro si nascose.

Il distruttore di anime camminava per i fatti suoi. A tutti pareva che parlasse di loro, ma egli invero non diceva nulla, era la fiamma accesa che suggeriva loro questo, la fiamma onde le cose accanto al fuoco trasmutano.

Vi era una strada per lui e per chi vi si conduceva, ma i molti che lo seguivano per i suoi bei simulacri si sperdevano sul ripido sentiero e crollavano affranti. Altri poi cadevano e le illusioni li prendevano.

Il distruttore d'anime talvolta danzava, correva come un bambino che la fiamma del gioco sostiene, e così si divertiva e costruiva castelli di sabbia sacra nei paesi del fuoco. E la sabbia ardente non bruciava le sue dita, ma il fuoco era per lui una donna, una donna che da molto inseguiva, una donna che fugge, una donna libera che danza nel rogo, una donna signora del nome della sua anima.

E questa donna sempre più lo ammaliava, finché trapassò in un paese verde e luminoso ove essa giaceva dormiente, e il sogno di fiamma più non fu, e la possedette e fu libero. Come al cessare d'una bufera, l'aria pura del sereno gli entrò nel cuore e quivi creò il mattino, e poté egli conoscere come nel mattino danzino a mezz'altezza i multiformi genii che son nomi dell'anima. Come essi pongano con le loro mani fatate un luogo che non sarebbe vero altrimenti, un trono paradossale, un'illimitata regione ove l'eternità medesima si sperde in meno chiare designazioni.

Volano intorno, i messaggeri del regno nascosto, e tra il messaggero e il regno corre una strada che è il vero paese. Colui che aveva costruito e distrutto e cercato materia per fare anime si fermò qui, tra sogno e sogno, e, in virtù del suo sguardo preciso, dove gli altri non vedevano che indistinte ombre, vide e saggiò la dura pietra della propria anima. Costruì il castello per sé e per la sua donna, e chi ora vi passa accanto non sente che l'eco di un sorriso. Forse si arrabbia e cerca chi gli rida dietro le spalle.

 

[13.III.1982]

 

 

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