IL BICCHIERE GIALLO
Dario Chioli
I.
Bevo l'ultimo sorso. Nella penombra del crepuscolo fisso gli occhi nel vetro giallo del bicchiere. Un'ombra di luce filtrata chissà da dove lo illumina d'una luce sciolta, sfuggente. La mia mente per un istante è catturata, e d'improvviso i miei occhi sono umidi di commozione: la luce è perduta nel caos e nel nulla, ma un miracolo può sempre liberarla dalle scorze, dure e violente, della dispersione. Un'ombra di luce ci può avvincere, una luce dall'ombra ci può salvare.
Il vino sembra fare uno strano effetto; eppure non sono affatto ubriaco. Il giallo del bicchiere si sta come diffondendo nella camera, sovrapponendosi alla mia percezione consueta e qua e là assumendo a poco a poco toni di colore diverso.
Intanto va addensandosi innanzi a me una gran teoria di forme, da principio assai sottili, poi più evidenti, quindi ancora indistinte, caotiche e tuttavia pronte come ad esplodere nella concretezza del presente.
II.
Ho dei dubbi su questa cosa che sto vedendo. In superficie temo d'essere pazzo, ma nel profondo non lo credo. Ho invece paura che sia tutto vero.
Vedo un vecchio cascinale, ma non so che posto sia. Giro attorno alla costruzione principale, c'è un pergolato, con sulla destra un vecchio pozzo in disuso; il muschio e gli arbusti se ne sono quasi completamente impadroniti. Arriva un ragazzo, barcollando come fosse ebbro. Si ferma davanti al pozzo, si guarda intorno e guarda verso il cielo. Venere vespertina è apparsa, il ragazzo la vede ed emette un gemito. Lacrime scendono dal suo viso. Sembra soffrire d'amore. La sua mano stringe come una forma di vuoto, si prostra e invoca qualcuno, e sembra che preghi. Quando infine si rialza, apre con le mani un varco tra gli arbusti e con tutta la sua forza spinge la lastra che copre il pozzo. Riesce a spostarla e si ferma un attimo ansimante, dopodiché si sporge sull'orlo e scruta l'interno del pozzo. Esita un po', poi allunga un braccio e, dopo qualche tentativo, trae su una forma lunga e stretta. La scuote e srotola qualcosa, sembra un drappo; lo guarda con timore e reverenza, poi volge lo sguardo a Venere ed alza in alto il drappo. Un vento forte scuote lo stendardo, che reca una stella nel centro.
Io vorrei cessare di vedere ma non posso. Anche se chiudo gli occhi vedo lo stesso, forse persino meglio.
Avviatosi per un sentiero, il ragazzo giunge ad un crocicchio. Sembra atteso, un gruppo di persone lo saluta, un vecchio e una donna lo abbracciano.
Si prostrano verso occidente ed alzano un canto, triste e voluttuoso, nel crepuscolo.
E di nuovo il vento sembra rispondere, ed allora essi si mettono in cammino.
Spero che non vedano che io li vedo. Spero che nessuno mi veda, nessuno mi parli.
Un vecchio contadino sta fumando la sua pipa davanti a casa, quando arrivano e lo chiamano. Esita un attimo, ma infine acconsente e si avvicina, ed essi gli parlano. Non sento le loro parole, ma vedo che li ascolta con interesse; poi però pare resistere a qualcosa. Barcollando, come se improvvisamente non stesse più bene, torna a sedersi dove stava prima, ma è affannato, si guarda intorno smarrito. Quando gli altri se ne sono andati, posso vederlo come se gli fossi accanto: è morto, i suoi tratti sono sereni ma incredibilmente stanchi, come di chi abbia sopportato un grande travaglio interiore.
Non posso smettere di guardare questo che succede, anche se mi sembra una follia. Non so che cosa stia accadendo; so soltanto che, se anche mi troncassero il capo, vedrei di certo con le mani o con il ventre; e potrebbe piuttosto sparire il mio corpo che non la mia visione.
Vorrei fermare quegli uomini, trattenere quel ragazzo con la bandiera, che vanno sulle tracce d'un canto di crepuscolo, di un voluttuoso dolore che pare affascinarli.
Ora mi appaiono come se fossero un po' più lontani; seguo le loro tracce. A poco a poco molti si uniscono ad essi. Non sembrano riceverne gioia, bensì un'ebbrezza senza limiti. Vedo qualcuno che vi resiste, ma prende a struggersi in un così grande dolore che infine dimentica o se stesso o la vita. Solo pochi, veramente pazzi o veramente savi, sono riusciti a nascondersi per tempo, e così non li hanno visti, non li hanno sentiti. Qualche altro li saluta con un cenno d'intesa ed essi non insistono che li segua: è dei loro da tanto tempo, è lì per confermarli nel loro sentiero, per offrire vino alla loro ebbrezza.
Avanzano sull'umanità. Chi li incontra scopre che i suoi pensieri non sono nulla, una forza mai sentita sconvolge i sensi, un fuoco brucia il cuore.
III.
Seguo i loro passi. Gente che nessuno ha mai veduto prima, gente strana, di altri luoghi del mondo - o forse gente che ha mutato aspetto - ha invaso le vie di transito più importanti. Grandi folle si sono aggiunte lungo la strada. I sentieri sono tutti un brulichio di viandanti. Un fuoco sembra impadronirsi delle loro membra, mentre una pace di nebbia e brina ha offuscato la loro mente. Hanno soggiaciuto a un potere ignoto, sudditi intimoriti di un capo sconosciuto. Perché tutti, tutti aspettano il capo, il grande padrone di tutti. Tutti sono, o dicono di essere, sicuri di trovarlo, e che spiegherà a ciascuno la ragione segreta del suo incamminarsi, l'oggetto nascosto della voluttà che l'ha incantato.
Nessuno sa davvero chi è il padrone. Lo vedo dai loro visi, da come cantano, da come affettano sicurezza. Sanno che non possono dir nulla su ciò. Non gli è permesso. Del resto hanno rinunciato da tempo a comprendere. Alcuni, come il ragazzo, non hanno ancora avuto tempo, e ancora cercano la luce nel caos.
IV.
Ora voglio veramente fuggire da questa visione. Ho visto un essere che non voglio più vedere. È troppo bello. È difforme nella sua bellezza dal comune degli uomini. La nostra carne non è così bella, la nostra carne è sangue e seme, mestruo e ferite, malattia e morte, collera e pace. Costui non ha carne, ha solo bellezza; la sua carne è diamante, il suo sguardo voluttà. Egli è la stella. La stella è il suo essere. La stella è il potere della sua unicità. Quando appare, anche i vecchi si prostrano innanzi a lui; donne e uomini, ignoranti e dotti si gettano ai suoi piedi, vogliono esserne amati. La voluttà esce da lui, li prende tutti, ma lui, pur mentre pare darsi loro, pur mentre li riveste e li riempie di oblio e seduzione, non li vede. Ho anche visto che talora li guarda come un addestratore guarda i propri cani. Ma ora non li sta guardando affatto. Ora lui guarda me.
V.
Dal vetro giallo del bicchiere lui guarda me. Mi guarda con semplice, chiarissimo odio. Come odia una stella. Scorgo nei suoi occhi il fuoco dello sterminio che, divenuto sua propria natura, conduce con sé, e il fumo dei mille stermini che lo hanno condotto ed imposto. Una stella che s'era allontanata è riapparsa, esaltata nel suo dominio. Emozioni senza fine reca dentro di sé. Magie e segreti, arti ed estasi strane sono i suoi doni, che concede volentieri, quali catene ben accette agli esseri che le ricevono. Impareggiabilmente ricco, fuor di sé non ha considerazione per alcuno. Ma mi odia, perché io scorgo la sua morte. Vedo incombere su di lui un mistero più profondo del suo.
VI.
Esce da lui un comando di distruzione che ha potestà su questo mio povero corpo stanco. Lame verdi mi strappano il cuore. Ma la visione perdura. Nessuno ha più potere su di me, e mi alzo da quel che era il mio corpo con un balzo di sollievo, avvertendo in tutto il mio essere la consapevolezza della libertà.
Di fronte a me s'apre una porta di ferro. Avanzo con decisione e senza esitare penetro nell'abisso ch'essa mi rivela. Per un attimo però voglio guardare e mi volgo: il futuro intravisto sta divenendo presente, accanto al pozzo il ragazzo piange di emozione, offuscato e accarezzato dai fantasmi incantati dei suoi sensi, ed ignorando che la sua vicenda è già stata vissuta nella mia visione.
So che i Veridici salveranno gli offuscati. So che trasformeranno le luci perdute perché illuminino, nuove stelle, la perpetua notte delle forme. Il ragazzo imparerà a discernere le tenebre, quando vedrà la luce.
Vive Dieu Saint Amour!
Ciò che l'ebbrezza greve del mondo m'impedì di credere appieno, quel che mi pareva così troppo limpido, così in contrasto con le sorti deplorevoli della mia vicenda e della storia umana, quel che raccontarono i poeti d'un tempo e gli uomini giunti in prossimità della morte, è ora così presente.
Vive Dieu Saint Amour!
VII.
Esseri antichi salgono su bianchi cavalli. Immagini che distruggono vengono indossate. Circoli di forme presto verranno lanciati verso la dimora abbandonata del mondo. L'immensità dell'invisibile si sovrapporrà alla fantasmagoria immaginaria delle potenze perdute. Ed infine sarà estratta la residua luce dalla diaspora delle stelle e la morte perderà la sua signoria. Verrà restaurato il Tempio devastato del mondo.
O amici miei, finalmente svelati, sortiti dalla camera del cuore, fratelli di luce del mio essere, vi ama in me la verità stessa. Per quella via incamminiamoci, che conduce alla vita i nostri simili. Il falco delle tenebre nella sua esausta bellezza trasale. Mentre il mondo, stanco, gli soggiace, la paura di non essere lo fa tuttavia vacillare; sente, e non sa come, la sua unicità posta in dubbio, la sua libertà irrisa.
Non ha speranze. Le forme, tutte le forme hanno fine. Terminano nell'infinito.
Mentre chiudo la porta di ferro, escono contro di lui nel Tempio del mondo terreno le prime schiere.
Vive Dieu Saint Amour!
[1992]
Nota.
Vive Dieu Saint Amour! («Viva Dio Sant’Amore!») era il grido di guerra dei Templari.
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