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DIALOGO TRA STELLE

Dario Chioli

 

ERMETE. Dimmi, amica, rinasceranno gli dèi? Vedi, ieri una gran folla ci attorniava, esseri luminosi che non vedevano la tenebra. Ora solo più dormienti e morti sono rimasti. Che dici, quanti tramonti e quante aurore dovremo ancora attendere, perché ritornino a conoscere che noi siamo stelle? Quand'è che finalmente questa notte cesserà e il mondo riacquisterà la sua anima, e si scioglieranno le impurità che serrano gli occhi e le parole degli uomini?

AFRODITE. Ancora non vuoi riconoscere come tutto si sia ormai inoltrato nei territori del vento, e vorresti ancora che si sfuggisse al fuoco; eppure sai che è impossibile, perché da lontano ormai corre l'incendio, inarrestabile è la sua rincorsa, e le terre nere andranno bruciate, il prezzo della loro vita si chiama morte. Ti chiedi perché nessuno ci riconosca, ma sai bene che non è più possibile, che se anche è più grande il numero dei fantasmi, per i più è diventato difficile vederli, son troppo diafani per i loro sguardi spessi e miopi, e così del nostro mondo non vedono nulla, ed egualmente non sentono i nostri canti e le nostre parole. Rassegnati dunque, le cose corrono e non possiamo mutarle, le potenze della confusione vantano se stesse e non possiamo schiacciarle, perché non invadono il nostro mondo. Perché se esse ci combattessero noi vinceremmo. Ma non sanno della nostra esistenza, neppur ci immaginano, per esse le galassie sono mucchi di pietre e ceneri morte. Se qualcuno di loro volesse ucciderci, certo non potrebbe, e improvvisamente apprenderebbe quanto è vuoto il suo vivere; ma sanno nasconderci nascondendosi e dunque, veli che non ci toccano, perché e come dovremmo distruggerli? Interrompere un male per generarne altri, solo questo ci è dato, un'inutile agitazione dentro le acque infette. Ma possiamo ancora essere di giovamento agli ultimi vivi, accogliendoli con dolcezza e comprensione. Non ti amareggiare: i cicli della storia sono pur fatti della libertà dei suoi protagonisti, e più grande di tutto è la giustizia.

ERMETE. Io mi amareggio soprattutto per coloro che credono alla potenza di queste impotenti finzioni, per coloro ai quali potere e saggezza paiono mostrarsi tutt'uno con le forze della distruzione e del suicidio, per coloro che, imprigionati in vili catene, languiscono e non sanno come vivere, come guardare, e per il troppo disgusto soffrono acerbamente e non comprendono. Si protendono verso i messaggi degli antichi popoli, ma poi non sanno e non possono vedere in qual modo applicarli al momento presente; e subito i loro maledetti compagni li circondano e li convincono che tutto questo mondo di stelle e dèi non è che un sogno, così che li fanno ritrarre nel loro brutale sopravvivere. In realtà, amica, quanto spesso abbiamo constatato l'assurda incapacità di costruire, di essere, di dirigersi alla meta, in persone che pure erano nobili, di ricchi intenti. Essi, altra volta, avrebbero forse potuto vincere, ma non ora, e certo perderanno e nessuno capirà il loro dolore e la loro distruzione. Uomini non forti, ma pure buoni e vivi, sono ovunque schiacciati, e noi non possiamo far altro che guardare, aiutando solo chi già un poco, da solo, si estragga dalla melma. Ma dove sono gli dèi forti, potenti d'un tempo, quando melodie risonavano, sacrifici su altari parlavano un ricco linguaggio, memorie umane narravano ancora di avventure difficili ma vere, del calice regale e delle corone di stelle?

AFRODITE. Tu parli del tempo in cui noi stessi eravamo tra gli uomini, sedevamo nelle loro case e cantavamo per essi le nostre canzoni. Ma poi essi ci dimenticarono e divenimmo leggende: che può mai fare una leggenda? Del resto già sapevamo, fin dall'inizio, come sarebbe stato, come tutto a poco a poco muoia. Non cantavamo forse un giorno della Fenice che solo dalle proprie ceneri rinasce? E non può esistere, neppure avere un nome, un essere che realmente sia vittima di un'ingiustizia; ma ora gli uomini, scordatisi dei mondi di là dalla terra, scambiano gli effetti per unità a se stanti, senza volerne scorgere le cause, anzi, ripudiandole come morte favole che più vivere non possono né, dicono, mai lo poterono. Affermano che i loro avi si illudevano e così essi, ormai figli di nessuno, con puerili pretese di nobiltà, si avviano, in ragione di ciò che più non sanno, verso oscure regioni dove domina la contesa. Credendosene padroni, distruggono il mondo in cui vivono, e questo lo chiamano potenza e scienza. Ma tutto ciò fu previsto, e a noi non spetta se non dare aiuto a quelli che ancora sapranno risollevare la propria stirpe fino a dove non esistono più stirpi umane, affinché possano assistere la Fenice nel suo rogo, attendere la sua magnifica risurrezione ed essere i padri per le genti che verranno.

ERMETE. Ma poi tutto, tutto cesserà di nuovo? Nuovamente stirpi cadranno, innocenti e colpevoli morranno, deboli saranno schiacciati e forti stroncati?

AFRODITE. Noi saremo lontani, dove sono ora i nostri avi d'un tempo, nella regione di là da questi giorni e queste notti. Per noi nessun tempo sarà più, nessun ciclo, nessuna regione. Il rogo sarà per noi il dischiudersi delle Porte del cielo. Quanto tempo - ricordi? - abbiamo atteso, certi d'essere vivi ma pure ancora sull'uscio, sottomessi alla visione della storia, del mulino del tempo che si volge perenne. Ma infine anche noi partiremo, e saranno i nostri successori a proteggere il mondo, a condurlo verso i suoi dèi. Così si compirà per noi il racconto e penetreremo nel seno della grande giustizia che si cela dietro tutte le maschere e le illusioni terrestri, infernali e celesti.

ERMETE. Neanche ai tre mondi essi credono più.

AFRODITE. No, ti sbagli. Nell'inferno ci vivono, ma non lo sanno, e per questo suppongono di non crederci. Quanto al cielo, è così lontano da loro! E la terra l'han confusa con gli inferi. Non è dunque che non credano, è che non vedono ciò a cui debbano credere. Ma se essi potessero, per un solo istante, vedere il cielo, certo crederebbero, e come potrebbe essere diversamente? Però non vedono, e solo il fuoco della fine gli svelerà qualcosa, e allora non dovranno più tornare. Ma fino a quel momento non possono che illudersi, perché hanno dimenticato. Quei pochi che imparano, quanto è difficile per loro! Perciò sta scritto che i lavoranti dell'ultima ora prendano il medesimo salario di quelli che han lavorato per tutto il giorno: proprio in ragione della loro difficile solitudine. Questo è il tempo in cui si guadagna di più, ma a patto di rischiare di più. Quelli poi che non rischiano, neppure sono, non esistono altrimenti che come ombre, occhi anonimi di una folla, pensiero collettivo di una mente putrescente che tutto ciò che è vivo lo espelle. E così quelli che ora sono espulsi, le pietre rigettate dai costruttori, questi saranno gli ultimi fratelli a nascere, e i più impetuosi assistenti al rogo conclusivo. Essi porteranno le fiaccole per accogliere la grande luce bianca quando emergerà dal mare. Essa li sommergerà come un manto di neve, mentre ovunque le cose si spegneranno, lasciando ad essa tutto ciò che di luminoso imprigionavano ancora. Alla grande notte succederà il giorno e le cose di prima non saranno più, ma sarà tutto nuovo. Allora, io e te sull'ampia strada ci incammineremo, e in breve tempo saremo e non saremo più, stelle nel cielo e ricordi nella memoria degli esseri. Per essi le cose ricominceranno, ma per noi non ci sarà più né inizio né fine.

ERMETE. Tutto ciò molte volte fu detto, ma pochi ascoltarono.

AFRODITE. Tuttavia non è per questo meno vero.

 

[20.VIII.1979]

  

  

Nota.

Dei lavoranti dell’ultima ora si parla in Matteo, 19.

Della pietra rigettata dai costruttori si parla nel Salmo 118, 22, in Matteo 21, 42 e in Atti 4, 11.

  

  

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