DELIRIO
Dario Chioli
Scoprire a un tratto di essere vivi. Che dire? Come si può parlarne? Mentre procedi verso la morte dello spirito, pieno di delusione, di rabbia, la tua coscienza satura infine esplode, dando luogo al canto.
Tutto si fa come una luce immensa e lieve, e pervaso ne è il mondo, e tutto, proprio tutto è sparito, tranne che per pochi tratti a cui neppure si può pensare ancora. Tutto è altro, e la vita nostra e noi stessi altra natura, e avvertiamo una nostra propria grandezza. E poi silenzio: cadiamo dai piedistalli, e che rimane?
Nulla, e quel nulla fa da guida alla gioia imperscrutabile e gentile, al centro delle speranze, dove sotto il proprio velo ogni cosa appare tanto più vera. Spenti i dolori, calme le gioie, di nebbia fatti gli uomini, la stessa nebbia è il supremo, onnipervadente, onnilucente splendore.
E poi si volgono gli occhi del cuore nel cuore del mondo e la luce svanisce, e regnano silenzio e crepuscolo, e si ride e si piange, e il pianto è vento, nero amarissimo vento, e il liquore della disperazione colma la bocca, e l'anima si muove e danza per fuggire, e la fuga conduce così lontano che non si pensava. Ed ecco non ci si mosse da riva in verità, e le vele che si spiegarono al vento che erano?
Favole, come i nostri morti sepolti nell'oblio, favole eppure in qualche modo realtà che rimangono. Ma non stanno saldi questi sogni, sono fantasie appunto, cose che potrebbero volare via senza ch'io alzi il capo a vederle. E io in verità non so, quale strana creazione sia questa che pure cerco, questo nulla che ha come ali di paglia, e lo bruci e non vola e sta fisso quaggiù.
Dov'è? Lo cerco ma non esiste in alcun luogo. Chi è dunque che parla, che vaneggia, che alza canti troppo vivi? Oltre il nascere, il vivere, il morire, dov'è il segreto, l'essenza dell'uomo, della donna?
O donna morte, mia amata! Bambino ancora ti cantavo, e pregavo, e non sapevo che tu eri un sogno, e che il sogno stesso non è che un guardare ad occhi aperti il mondo. Vola per l'aria il filtro dei maghi perenni, e quanto sollevano il cuore le loro infinite parole!
O donna morte, mia amata! Dea delle Stelle e lume del sogno, dimmi: il Carro e l'Orsa corrono su sicuri verso la Libra e lo Zodiaco e le Costellazioni polari, ma noi che dobbiamo fare? Cosa, a chi credere?
Di là da tutto questo, tu dici, andrebbe la sapienza, se amici ci fossero i guardiani dei cavi nascondigli del cielo, gli spiriti del tempo, o se nota ci fosse la terra dimenticata, una parola questa così bella, come la strana comparsa di un muto che fa a pezzi con lenti gesti l'universo, o del divino fantasma che ha le nostre sembianze e sta, privo di amici e ricordi, nel sepolcro in vece nostra, quel sosia strano che per lunghi anni fece il costruttore di sogni ed ora invece, che noi medesimi ne sappiamo l'arte, giace nel sogno. E come talvolta vorremmo non saperla, per lui morto eterno non saperla, e lasciare che torni.
O donna amata, mia morte! Non vuoi con me giocare con le palle dorate dei templi, o le lucenti carte del destino, il giambo veloce delle parole, il giullare ermafrodito dei potenti pensieri, il mio disaccordo remoto, il cuore segreto che diede origine al dolore, gli angeli volanti degli abissi, incapaci di vivere sulla terra, i vulcani e il singhiozzo loro divertente, e le morti degli uomini, sogni che dileguano?
Fanciulla, le tue parole, volando per le verdi strade del verde mondo, come non costruirebbero per me un piccolo sogno loro proprio, un cervello increato, un'illusione divenuta realtà, distruttrice della distruzione, mentitrice verso la menzogna?
Vivere è come un solo vasto fiore, i petali suoi sono le mani nostre, lo stelo è invece un grande vaso, anzi la nobile coppa da cui, frequente, beve la Vittoria, la mia amata Vittoria, la mia morte. Ma quel bere di molti filtri fatto, di tutte le cose disperse, ove trovarlo?
Vivere a un tratto il tutto come fango, oppure un vento, o sete che svanisce quand'è nel grembo della morte o in sogno. Tritone, vecchio satiro, trema il tuo cuore, scosso dall'ironia! Vivere devi in altre sfere nuove, nobile stirpe di pensieri ignobili, nascere e sorbire dalla vita il suo latte, e in tal modo scoprirla nella sua grandezza.
Le scure nubi son disperse dalla gioia, i colli verdi s'imbiancano della neve della saggezza, noi siamo uomini vivi.
I nodi peggiori e i più vaghi si sfanno, ché non v'è nodo per legare i vivi, improblematiche gesta le loro, e a noi medesimi, generosi, la loro corona di vita, il dono di conoscenza, regalmente concessero per renderci loro eguali.
[29.I.1976]
Se vuoi, invia un commento a: |