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Sommario del sito

LOGICA ED ESPERIENZA

ovvero

AUTOANALISI DELLA MENTE

Clericus

 

Sommario: 

Introduzione. Parte metodologica: Considerazioni preliminari - Linguaggio e pensiero -
Simmetria e asimmetria: origine formale dell’illusione - Il processo di chiarificazione - Distruzione dell’illusione - La visione del processo mentale.
Le teorie della mente - posizioni e analisi
:  Sulla scientificità delle “teorie della mente”-
Il funzionalismo di Putnam - Penrose - Searle - Sociologia elementare e completa del “dibattito” -
CTM e connessionismo - La CTM di Fodor, in estrema sintesi - Il connessionismo.
Appendice
su alcuni processi logico-percettivi.

 
 
 

Introduzione

 

Questo lavoro rappresenta il seguito della prima parte, che aveva come sottotitolo la Forma e il suo Essere: infatti, il rapporto tra logica e vissuto individuale era spostato sul primo polo. Ma può essere considerato largamente indipendente dalla parte precedente, e il suo senso è comprensibile senza averla letta.

Comunque, ne riassumo brevemente posizioni e conclusioni.

1. Si deve discutere in base alla logica bivalente. Questo, per evitare di giocare sul significato di “vero” e “falso”, e per altre ragioni.

2. Ciò implica ipso facto delle difficoltà, e pone, o rafforza, la irriducibilità (inspiegabilità, non riducibilità alla logica) dell’esperienza.

3. Ogni concetto o teoria viene compreso all’interno dell’esperienza, ma

4. l’esperienza è tale solo se manifesta un ordinamento fondamentale, e questo rimanda alla nozione di struttura o forma logica.

5. Il soggetto riconosce se stesso e agisce secondo una autorappresentazione, che è una teoria.

6. La logica non è solo strumentale; l’estensione stessa delle sue applicazioni può essere interpretata affermando che è assoluta; quindi

7. è illusorio se ne possa fare a meno.

8. Ciò genera un conflitto latente con il vissuto immediato (irriducibilità dell’esperienza).

9. Si possono ipotizzare soluzioni diverse del conflitto, ma nessuna è del tutto soddisfacente.

Si tratta ora di discutere il problema più in concreto. Ma il “concreto” non può giungere subito, ammesso che sia veramente tale. La discussione su questi temi, se non si crede di aver risolto il problema, o più semplicemente se non si adotta una soluzione adattata al nostro modo di vedere le cose o alla propria esperienza individuale, presuppone una analisi metodologica molto lunga, faticosa, non intuitiva, apparentemente astratta. Bisogna rendersi conto che tale discussione è una autodiscussione; non è un discorso normale, orientato verso un oggetto esterno. Ho impostato la questione assumendo l’obiettività della logica in generale e che il linguaggio oggettivi i processi mentali. Ciò fa emergere la mente piuttosto che la totalità dell’esperienza. Ma è giusto che sia così, perché la mente rivela delle strutture; l’esperienza in generale, forse, no. La sua irriducibilità incombe su ogni analisi, la rende ipso facto sempre ipotetica. È tuttavia interessante osservare il gioco della mente che analizza se stessa, o così crede.

La prima parte è metodologica, la seconda esamina molto brevemente alcune “teorie della mente”; soprattutto, le commenta.

Se interessano solo queste, la parte metodologica può essere saltata. Ma le “teorie della mente” prese in esame non hanno molto interesse di per sé, dal mio punto di vista, né sono trattate in dettaglio; esse rivelano solo il gioco logico col quale la mente rincorre se stessa, attraverso l’analisi dei suoi stessi prodotti. Questa è propriamente la mente: non una teoria di se stessa, ma il processo infinito attraverso il quale si crede che rifletta se stessa e il mondo. E la stessa metodologia non è estranea al gioco. Dovrebbe deciderne le regole; in realtà, ne fa parte.

Comunque, ho distinto tra una parte metodologica e una su alcune teorie della mente (solo quelle attuali) . Ho poi aggiunto un’appendice, nella quale l’esperienza fa capolino. Questa si ricollega alla parte metodologica, e ne sviluppa certi problemi che ritengo assai importanti, ma non dal punto di vista delle “teorie della mente”.

Un problema assai serio è il linguaggio. Per utilizzarlo correttamente, bisogna conoscere ciò di cui si parla: e questo non è scontato. Un linguaggio è sempre associato ad una teoria. Non intendo presentare nessuna interpretazione in particolare; comunque, io distinguo tra coscienza e mente, e mentre ritengo accettabile e forse banalmente dimostrabile che la prima possa essere provvisoriamente rappresentata dal processo mentale come una sostanza quantitativamente e qualitativamente variabile, asserisco che la mente sia piuttosto un insieme di processi, cioè di eventi, di cui percepiamo per autoesplorazione i prodotti come rappresentazioni; e che quanto qui affermato sia esso stesso il risultato di un processo mentale, in questo caso il mio, che potrebbe essere identico o affine a quello di altre persone, come potrebbe essere diverso. Inoltre è assolutamente fondamentale distinguere tra la “mente” oggettivata cioè indagata “scientificamente” o “filosoficamente” e la mente autoesplorata. I processi mentali sono percepiti attraverso rappresentazioni e qualsiasi autoesplorazione è ipso facto un processo mentale che fornisce una autoimmagine. Qualsiasi cosa il soggetto veda o creda di vedere per introspezione è una rappresentazione prodotta da ciò che egli cerca di sondare, anzi dal sondaggio stesso: in questa situazione soggetto, sondaggio, risposta sono una unità (un evento mentale) il cui esito è una rappresentazione che fornisce una sua “verità”. Eppure, la struttura mentale (non la coscienza) è visibile solo per autoesplorazione. La sua funzione è esclusivamente sintattica e costruttiva e lavora per associazione e ricorsione sui suoi stessi prodotti: questa è la mia ipotesi di lavoro.

Nel seguito, però, intenderò “coscienza” in un senso meno definito, come totalità di ciò che percepiamo, con l’ipotesi sottintesa che essa contenga in sé un ordine, una struttura. Ciò è più vicino al linguaggio del senso comune.

 

 

Parte metodologica

nella quale si rivelano alcuni processi mentali

 

Considerazioni preliminari

 

Il discorso sulla coscienza è il più difficile che vi possa essere. Presuppone la coscienza, non una qualche “possibilità” di discorrerne. Più esattamente: presuppone la struttura mentale, la componente discorsiva e operativa del nostro essere. La coscienza, anzi, piuttosto l’autocoscienza, the consciousness, è il problema; ed è un problema perché è una autoteoria, la rappresentazione della sintesi di una immensa quantità di operazioni mentali, il postulato che pone il soggetto, con le sue derivazioni, come “entità” autoreferente e operante. Questa è una immensa autocostruzione. La sua esplorazione, diretta o indiretta, ipso facto ne modifica l’autoimmagine, né può rivelare direttamente l’Essere, se c’è, che la illumina, e fa sì che non sia solo una figura, uno schema, un mondo a sé invisibile.

Nei confronti di una teoria in generale, sono possibili diversi atteggiamenti. Si può ignorarla, si può fingere di ignorarla, si può modificarla, svilupparla, interpretarla, negarla, accettarla sic et simpliciter, considerarla un problema, e in tal caso cercare la soluzione in prima persona, o accettare le soluzioni degli altri. La maggior parte delle persone - credo: questa è solo opinione - vede il problema, e accetta una soluzione che gli viene proposta, o ne cerca una tra quelle formulate e credute tali. Non ha molta importanza come veda il problema, quale soluzione venga accettata, perché quella e non altre, e neppure che vi sia una soluzione. Né è veramente essenziale che il problema ci sia. Che un problema sia appunto tale, è questione di mera percezione. Essenziale è la teoria: di qui nasce tutto.

È assolutamente impossibile la visione sintetica di tutti i prodotti di questo postulato, cioè l’autocoscienza, che sembra  essere specifica dell’Uomo. In quanto alle “soluzioni” e alla stessa formulazione del problema, regna l’anarchia più assoluta. Qualsiasi soluzione è un abbaglio, dal punto di vista delle altre. Non solo: soluzioni assolutamente congeneri, differenti tra loro per particolari affatto insignificanti, sono state il pretesto per stragi di massa. O ne sono state la causa, cosa che io ritengo molto più probabile. È difficile che i prodotti immediati della teoria fondamentale siano pretesti. Ma oggi si tende a pensare così, per via della teoria del dialogo costruttivo (fine XX secolo) e della libertà di coscienza (XVI secolo), che vogliono far coesistere posizioni lontane. Quest’ultima è a sua volta una mera teoria, realizzata storicamente da un fatto accidentale, assolutamente imprevedibile, per cui un signorotto locale, in Germania, protesse un monaco agostiniano forse non del tutto in sé, che era rimasto sfavorevolmente colpito da un altro fatto assolutamente ovvio, e cioè la divergenza tra ciò che viene affermato e ciò che viene fatto. Le interpretazioni posteriori e gli ampliamenti del significato di questo evento sono appunto post factum, e non sarebbero possibili, senza di esso.

 

 

Linguaggio e pensiero

 

Vi sono diverse parole, con le quali si cerca di esprimere la teoria e di porre il problema. Si potrebbe credere che la questione nasca con le parole. Non è così; le parole sono conseguenza della teoria, si limitano a evidenziarla. Si può forse credere che una teoria non vi sia, se non c’è la sua formulazione. In tal caso, uno parlerebbe e poi penserebbe: e infatti, questa teoria sulla teoria, se viene formulata da una persona, ne testimonia ipso facto il processo mentale. In realtà, non c’è nulla di male in ciò: la costruzione non dico di una frase, ma di un intero discorso, può benissimo aver luogo automaticamente, anzi, avviene così, in larga misura. E può capitare benissimo che, dopo aver prodotto un lavoro consistente, o piuttosto verso la fine, ne appaia un senso complessivo che non corrisponde all’intenzione originaria, ma che può essere più autentico, proprio in quanto l’automatismo ha rivelato una connessione sensata che il pensiero cosciente non aveva realizzato. Ma non si può dedurre da ciò che il discorso preceda il significato. L’inversione è solo temporale, non logica.

Al più, ci si può illudere che pensiero e linguaggio siano simultanei e che l’uno sia condizione necessaria e sufficiente dell’altro. Può essere vero, forse, se si considera solo l’aspetto temporale; infatti non è possibile valutare bene, per introspezione, se vi sia un intervallo di tempo, perché il soggetto è catturato piuttosto dal senso di ciò che dice, e dall’intenzione di adeguare ad esso l’espressione. Non sempre vi riesce però, e già questo è un indizio. L’identificazione di pensiero e linguaggio, esplicita o implicita, è stata positivamente sostenuta, e anche da persone intelligenti, che sapevano, di solito, quel che affermavano, e che parlavano pensando. Tuttavia, è valida se applicata al pensiero razionale. Non tutto il “pensiero” è razionale, se per “pensiero” si intende ciò che ha senso ed emerge alla coscienza. Distinguere linguaggio e pensiero è come distinguere tra sintassi e semantica. La distinzione c’è: sono i logici ad averla riconosciuta e chiaramente formulata. Per chiarire la cosa, è meglio un esempio.

Tre persone sono in una stanza, come stato di cose. Ciascuna di esse ne è consapevole. Una di esse dice: “siamo in una stanza”. Questo è linguaggio. Il “senso” è ciò che viene espresso dal “linguaggio”, e cioè che ciascuna delle tre persone sa di essere nella stanza. Questo è pensiero, il contenuto effettivo, che media tra lo stato di cose e una formulazione dello stato di cose. Tale “senso” è presente senza la formulazione, e non dipende dalla particolare proposizione che lo esprime.

Si potrebbe contro-obiettare che, senza linguaggio inteso come funzione che identifica cose e stati di cose (funzione oggettivante e non solo comunicante), il senso compiuto non c’è, in quanto esso presuppone l’oggetto e la situazione. Ma questo significato di linguaggio è improprio. Una cosa è la funzione espressiva, altro è l’identificazione delle “cose” attraverso le immagini persistenti e ricorrenti che ce ne facciamo, cioè la costruzione dei concetti. Se così non fosse, il linguaggio sarebbe una regola privata: non ci sarebbe, perché nulla sarebbe comunicabile, se non vi fosse il “senso comune”.

Questo, per eliminare subito la fisima, per cui basterebbe fare i muti perché non vi siano questioni, o, peggio ancora, per evitare la curiosa credenza per cui l’”inesprimibile” abbia una particolare consistenza. “Inesprimibile” è affatto insignificante, ipso facto, perché il significare passa attraverso il mostrare e l’esprimere. La differenza tra questi due poi è nel modo, non nel senso. L’arcano sta nel fatto che la relazione tra formula e senso è asimmetrica: la prima è vuota se non c’è il secondo, mentre non è vero l’inverso. Le relazioni asimmetriche tra entità diverse sono spesso percepite come simmetriche; di qui, l’equivoco e tutti i giudizi, assolutamente inconsistenti, che ne potrebbero derivare.

Per quanto riguarda poi la teoria di base, l’idea di sé, è completamente folle credere seriamente che sia questione di parole. Tale teoria è una autorappresentazione, e io la chiamo “teoria” perché le teorie sono fatte di rappresentazioni. Il senso è nelle rappresentazioni, non nelle formule, e quindi le teorie non hanno radice in queste, ma in quelle. Le formule vengono usate perché le relazioni formali tra formule sono idealmente isomorfe a quelle tra le rispettive rappresentazioni, e quindi possono comunicare le rappresentazioni; meglio, evocarle.

Ma la teoria fondamentale non è “posta” dal soggetto; questo, spero, non è il caso di discuterlo. Essa “pone” il soggetto, con buona pace di Fichte, che attaccò frontalmente il problema parlando di Io e non-Io. Lasciamo stare l’Io. Non è un buon metodo, quello di postulare a parole un qualche principio individuante, e poi cercare di reinterpretare tutto secondo le conseguenze che si crede di dedurne: e non è affatto detto che vi sia un Essere o Creatore che dir si voglia; questa è una mera ipotesi, in senso strettamente logico, e di fatto respinta da qualsiasi teoria “scientifica”. Non solo: il dubbio si deve estendere a tutta la terminologia che soddisfa lo stesso schema individuante, cioè a termini come Coscienza, Intelligenza, Volontà, ecc, la cui mistica invade il campo del linguaggio e dell’analisi “filosofica”. Parole come Io, e in generale quelle che sostituiscono la minuscola iniziale con la maiuscola senza che ci sia un punto davanti, in lingua italiana, devono essere considerate con molta attenzione. Può essere che denotino qualcosa che si percepisce ma non si riesce a definire chiaramente, ma questo è un modo elegante per dire che il loro significato non è chiaro. Nella più caritatevole delle ipotesi, quando cioè non sono state inventate di sana pianta per stupire con la propria scienza un pubblico, a scopo di carriera, sono spesso “soluzioni” bell’e pronte, il cui fondamento, oltre al fatto puro e semplice dell’essere citate, è estremamente problematico. È più verosimile che siano il risultato di certi processi mentali, di cui sarebbe interessante sviluppare l’analisi in profondità. Le soluzioni di qualsiasi problema sono un fatto “creativo”: nascono talvolta da processi non necessari che, una volta chiarificati, rivelano un senso inaspettato, o la loro vacuità.

È tuttavia indispensabile riflettere su una obiezione non trascurabile contro la stessa consistenza della logica che qui si impiega. Si è supposto implicitamente che il “senso” di un discorso sia oggettivo: c’è o non c’è. La questione è più complessa: il “senso” è in una certa misura soggettivo in quanto in sé indefinito. Lo stesso senso comune è un prodotto storico, una posizione culturale. Ne potrebbe conseguire che quanto detto finora, in quanto assume il senso come definito, non regga.

In realtà, questa obiezione è solo una riformulazione della posizione fin qui seguita. Il problema non è che cosa sia sensato, cioè l’estensione e la precisione del concetto; la questione sta nella funzione reale del senso, cioè il suo ruolo mediatore tra linguaggio e stato di cose. La corrente può andare dallo stato di cose al discorso, o viceversa. Questo è il punto.

 

 

Simmetria e asimmetria - origine formale dell’illusione

 

Quanto segue è un punto di vista. L’autoindagine esperienziale, rivolta verso l’insieme dei processi mentali, non dovrebbe confermarlo in generale; questo perché un punto di vista logico viene compreso solo se è un particolare costrutto mentale effettivamente realizzato e rappresentato, altrimenti è solo uno dei possibili sviluppi del processo mentale, e l’autoesplorazione - che è guidata da un punto di vista - vede i prodotti di un processo da essa stessa stimolato, e, con maggiore difficoltà, qualcosa dello stesso processo, ma non ogni particolare costrutto. Questo stesso punto di vista pone la scissione, separando, mi sembra, il pensiero scientifico dalla metafisica e dal pensiero magico. Si tenga presente che i punti di vista della mente, cioè quelli sviluppati spontaneamente dalla propria mente, “realizzano”, cioè preformano la logica personale e possono condizionare la percezione della realtà, creando l’illusione che sia diversa da quella che è o indefinita. Ma non è assolutamente detto che il soggetto debba adottare un solo punto di vista. Di più: se è sufficientemente consapevole delle modalità di svolgimento degli eventi mentali (cioè se ha condotto una autoesplorazione), dovrebbe vedere chiaramente non solo tale possibilità, ma la sua utilità e forse - se la sua esplorazione è stata efficace - l’eventualità che le teorie… siano solo le rappresentazioni coordinate degli eventi mentali e forse nient’altro. Ma ciò va oltre il punto di vista qui adottato, e in un certo senso lo supera, pur senza distruggerlo. Si deve distinguere tra illogico ed extralogico.

È assolutamente necessario riconoscere un processo mentale importantissimo, perché il suo non riconoscimento crea oscurità. Si potrebbe chiamare magia della parola, ma non ha nulla di mistico. Vedremo poi se vi è un lessico più appropriato.

Tra i connettivi logici di uso comune (et, vel, aut, coimplicazione…), l’implicazione è l’unico asimmetrico. Ipso facto è la forma della causalità e quindi fondamentale in ogni derivazione logica di una tesi da un’ipotesi, che è una relazione asimmetrica tra queste.

Detti A e B due enti logici tali che A implica B, (se A è vero, lo è B, mentre nulla si può dire, se A è falso) ne deriva, per contrapposizione, che non B implica non A.

L’implicazione è una relazione asimmetrica, proprio come quella tra senso e parola prima individuata, per la quale la parola implica il senso, cioè la parola è A e il senso è B. Niente senso, quindi, niente parola, per contrapposizione: questa è la posizione corretta. Ma, a causa dell’autonomia della coscienza rispetto all’intelligenza (riconosciuta da alcuni studiosi), potrebbe darsi che una parola non abbia senso (secondo l’intelligenza), ma sia presente alla coscienza, anche per il semplice fatto che viene pronunciata, udita, trasmessa: se c’è la parola, c’è il senso. In particolare, la Parola ha Senso.

La questione non è solo un errore logico. Coerentemente con quanto prima stabilito, un costrutto logico in generale, quale può essere la presunta coimplicazione di parola (o frase, o discorso) e senso, dovrebbe riflettere un “senso” , un contenuto specifico. In termini rigorosi, senso e rappresentazione dovrebbero coincidere; ma, dato che possiamo riflettere sui processi mentali, essi stessi vengono “rappresentati” (oggettivazione) e ipso facto determinano un “senso”. In questo caso, piuttosto che ad uno “stato di cose” , questo rimanda ad una operazione mentale, ad una associazione realizzata, non distinta da uno “stato di cose”: insomma, una apparenza. Questo “senso” appare evidente ma è costruito inconsapevolmente. Quindi, è il derivato di un costrutto logico, non di una percezione iterata.

Una analisi di questo processo può, forse, basarsi sulle posizioni dello psicanalista e logico cileno Matte Blanco, che riconosce nell’uomo due modi di essere, eterogenico e dividente e omogeneo e dividibile, strutturati rispettivamente dalla logica asimmetrica e dalla logica simmetrica. Il primo è presente nel pensiero conscio, il secondo nell’inconscio. Quest’ultimo sarebbe quindi illogico, dato che sostituisce operatori simmetrici a quelli asimmetrici.

La posizione di Matte Blanco è estremamente interessante, in quanto descrive senza ambiguità ciò che è stato in qualche modo intuito, ma non adeguatamente tradotto in termini di logica. È la solita questione, per cui se ne vede solo l’aspetto strumentale e non quello formante, cioè il fatto che il costrutto logico descrive qualcosa che può essere realizzato: in questo caso, un “errore logico”, il non riconoscimento di una asimmetria.

Non solo; tale distinzione potrebbe anche definire la “ragione” o “pensiero razionale” nei confronti di un “pensiero associativo” in generale. È vero che le definizioni di certi termini sono problematiche, perché derivano da presunte introspezioni o da analisi che necessariamente si appoggiano a pregiudizi. Né il pensiero “razionale” effettivamente svolto è infallibile, come dimostra l’esistenza stessa dell’errore di ragionamento. Ed è anche difficile riconoscere che il pensiero deduttivo sia l’unico modello di pensiero “razionale”. È un fatto ormai acquisito, comunque, che la derivazione logica deve obbedire a un uso rigoroso dei connettivi: una dimostrazione segue regole precise. Può essere difficile dimostrare che una dimostrazione sia tale effettivamente, e infatti non esiste un metodo universale per ottenere ciò: ma cosa sia una “dimostrazione” in generale, è perfettamente definibile. La logica è chiusa, come sistema formale.

Se questo non c’è, allora lo crea: le parole costruiscono (o evocano?) un “senso” anche quando non ci sarebbe altrimenti (o che altrimenti non emergerebbe?) In “realtà” continua a non esserci, se lo intendiamo come andrebbe inteso, cioè secondo intelligenza (questa non è sufficiente per riconoscere certe cose?) come immagine di una percezione conseguente ad uno stato di cose. Ma noi vediamo lo stato di cose (la “realtà”) solo attraverso le percezioni: la percezione è lo stato di cose (o permette di andare oltre?), e il senso ci appare come immagine della percezione anche quando è indipendentemente dallo stato di cose (la “realtà”) (*). O la coscienza trascende cose e stati di cose perché è extralogica?

(*) Si faccia attenzione che non è possibile definire cosa sia la “realtà”. Questo termine designa una categoria logica, non un insieme definito di oggetti. Quindi, ogni “illusione” è tale relativamente alla “realtà”. Una definizione assoluta di realtà in termini logici è cioè impossibile. Una “realtà” particolare è riconosciuta come tale solo attraverso una contraddizione tra un’ipotesi e un fatto che la smentisce, o un desiderio e il suo non soddisfacimento. In un certo senso, è definita negativamente, per eliminazione delle illusioni, o, se si vuole, per correzione degli errori. Ma questo non significa neppure che il termine non abbia senso: semplicemente, non è possibile definirne a priori i confini. Il concetto di Popper, per cui la conoscenza scientifica procede per congetture e confutazioni, è una applicazione di questo rapporto, ed è a mio parere completamente condivisibile. Il fatto che tale conoscenza abbia effettivamente trasformato il mondo in modo oggettivo, sempre a mio parere, dimostra che la “realtà fondamentale” esiste, e non ha nulla a vedere con “stati di coscienza” e cose del genere. Ma si deve sempre tenere presente che, per il soggetto, la realtà è il suo stato di coscienza: quale stato, non può stabilirsi da questo punto di vista. La stessa logica conduce a un esito extralogico ma non illogico. Ciò non svuota la realtà: modifica le modalità percettive e questa appare diversa.

Quindi, il senso apparente pone una percezione anch’essa apparente, una illusione che è paragonabile ad un miraggio: anzi, pone le basi di un’intera esperienza, perché questa è inscindibile da ciò che si percepisce. Solo che la “causa” del miraggio ora non è una illusione ottica, è un senso immaginario, posto da una parola immaginaria, che però riflette una operazione eseguita inconsciamente.

Che le “parole immaginarie” esprimano qualcosa che non può essere identificato in nulla di preciso, è assolutamente ovvio, nel senso proprio che non esprimono assolutamente nulla di reale: la loro unica consistenza è la pura e semplice esistenza. La loro “forza” sta nella relazione tra senso (presunto), percezione e realtà, che il soggetto vede strettamente connessi: esso si muove, immediatamente, tra i prodotti di queste relazioni, e può riconoscerne il giuoco esteriore, se vuole: questa è l’intelligenza. Ma non è il contenuto immediato della coscienza (*) e non è il processo mentale. Questo è in sé autosussistente: la “logica” lo rende intelligente, stroncando nello stato di veglia la massima parte delle sue costruzioni. Queste operano comunque, e il loro insieme è il livello onirico.

(*) Questo può andare come analisi metodologica, ma è insufficiente sotto alcuni aspetti. Si veda l’appendice.

Ma se la coscienza si stacca dall’intelligenza proprio sfruttando il potenziale dei processi mentali, qual è il risultato? Un mondo illogico e quindi irreale o un mondo extralogico e non irreale ma extrareale? E quale potrebbe essere il risultato, se il potenziale della mente, liberatosi dalle forme fisse che hanno costruito il soggetto, e concentrando in sé tutta l’energia psichica, viene proiettato oltre lo stesso soggetto? Quale è l’immagine che rappresenta questo? I processi associativi sono forse una distesa di tentacoli che si diramano in tutte le direzioni; il soggetto (la costruzione voglio dire, non la coscienza) è una gigantesca cattedrale, fatta dalle operazioni mentali, che ne hanno fissato lo schema e che si eleva sopra una distesa fluida, ribollente; che cosa rappresenta la sintesi di tutto il processo mentale oltre il soggetto? Se questo è un grande edificio, non dovrebbe quella essere immaginata come una cupola, anzi no, una torre, una guglia, che si proietta verso l’alto, sfondando l’edificio e assorbendo la forza psichica dalla massa dell’attività mentale, in sé caotica e senza scopo ma carica di energia? Questa è una immagine, ma… se fosse realizzata come processo mentale? L’effetto non sarebbe forse terrificante, il Terrificante? (*) Specialmente se non fosse graduale? Potrebbe lo stesso soggetto riconoscere a posteriori ciò che è avvenuto? Come potrebbe comunicarlo?

(*) Bhairava, appellativo di Shiva.

I tre livelli logici qui ipotizzati, e cioè discorso, percezione, “stato di cose”, identificano due possibili sedi dell’errore: nel passaggio dalla percezione alla parola attraverso la rappresentazione, e dallo stato di cose o “realtà fondamentale” alla percezione. Il primo tipo è riconoscibile, per esempio, nelle tracce che lascia nel linguaggio e negli errori della memoria, e può essere identificato dall’interno del pensiero razionale. Il secondo ha la stessa forma logica, e la sua enorme forza sta nel fatto che non può essere riconosciuto a livello percettivo. La reversibilità tra percezione e stato di cose è insita nella percezione stessa, che ha in sé una impronta di autenticità; quindi, solo una analisi logica attraverso il pensiero scientifico può identificare questo errore. Fuori dalle scienze, il rapporto tra percezione e stato di cose è simmetrico, e il mondo appare magico. Perciò, l’“illusione” è tale, a questo livello, solo se si accetta consapevolmente il punto di vista scientifico, cioè se si collega il discorso allo stato di cose bypassando la mediazione delle percezioni e sostituendovi quella delle teorie ipotetico-deduttive. Per questo processo, il mondo diviene razionalmente intelligibile e le teorie possono sembrare assolute. Ma, a livello cosciente, non è illusione: è al contrario il principio preformante l’esperienza, efficace e quindi non illusorio, con riflessi sulla stessa struttura cognitiva e produzioni soggettive e collettive, che formano in una certa misura l’immagine del mondo propria di una cultura.

 

 

Il processo di chiarificazione

 

Il procedimento generale, per cui il senso viene separato dal non senso, può essere definito processo di chiarificazione. Non è un’operazione semplice. Né è detto che una persona sola basti. Certe chiarificazioni probabilmente non giungeranno mai a termine. Tali sono le scienze, in generale. Il “progresso scientifico” è solo un esempio di “chiarificazione”: esso distrugge alcune parole (per es. il flogisto), ne reinterpreta altre (per es. l’atomo) e ne pone di nuove (per es. le “superstringhe” - superstrings). Questo può essere un modello: distruzione, reinterpretazione, nuova creazione.

Non è detto che una “chiarificazione” debba essere scientifica, nel senso comune del termine. Vi sono “chiarificazioni” politiche, come teoria (il marxismo, per esempio) e come prassi (la Rivoluzione). Certe correnti culturali-filosofiche hanno posto la “chiarificazione” come scopo supremo: così l’Illuminismo, secondo quanto dice lo stesso nome. Anche Confucio chiarifica, secondo la formula: “ La prima cosa da farsi è il raddrizzamento dei nomi “ (*).

(*) Analecta, XIII , 3 ; citato da Fung Yu-lan, Storia della Filosofia Cinese , trad. dall’Inglese di M. Tassoni

E neppure è detto che la “chiarezza” debba ottenersi nelle forme del pensiero scientifico o filosofico, secondo il senso comune di questi termini. È senza dubbio da considerarsi un chiarificatore il Buddha, la cui analisi è degna della massima considerazione. Ma anche lo stesso Gesù rientra nella categoria, sia pure in un senso limitativo, in quanto procede all’interno di una tradizione consolidata; in questo caso, si dovrebbe parlare di “chiarificazione relativa”: la sua stessa fine terrena è una prova convincente. Infatti, quando la “chiarificazione” comincia a diventare “realizzazione” , anzi quando già solo si percepisce la possibilità che divenga prassi, si corre ai ripari, prima di finire veramente nella Geenna. Di più: la catastrofe attesta in modo convincente che c’è stata chiarificazione. In effetti, questa, se è fatta bene, cioè se l’aspetto demolitore è condotto logicamente, scientificamente, coerentemente, efficacemente, e soprattutto se l’operazione è radicale, vi sono necessariamente delle resistenze, delle reazioni, delle esecuzioni capitali, nel tentativo di ritornare al pacifico stato di cose precedente. Vedasi anche il caso di Socrate, ecc.

Comunque, non è il caso di esagerare; voglio solo far notare che la “chiarificazione” può essere intesa in modi diversi, con intenti e significati diversi, e soprattutto con profondità e conseguenze ben diverse; ma non si deve adottare un’ottica troppo “locale”; bisogna ragionare in generale, cercare le connessioni, stabilire rapporti sottili tra fasi diverse, epoche diverse, culture diverse. La realtà non è un insieme sconnesso di elementi giustapposti, vi si possono riconoscere figure ricorrenti. Non si capisce bene, se si vedono le cose separatamente; anzi, neppure si vedono queste. Solo in certi particolarissimi casi, il chiarimento operato da una persona singola è stato percepito collettivamente come significativo per tutti, e non senza contrasti.

D’altronde, attualmente, un serio “processo di chiarificazione” in toto è del tutto impensabile. Un chiarimento richiede un’oscurità riconoscibile, in modo che la verità, intesa come alètheia (non-oblìo), possa emergere per assoluto contrasto. Questa non è la situazione attuale. L’unica cosa visibile è un ammasso informe e gelatinoso di opinioni, rappresentazioni collettive indotte, sofismi semiveri e verità semisofistiche, teorie scientifiche il cui fondamento non è alla portata di tutti, mescolate a residui di ideologie e ai resti di quella che fu una grande religione monoteistica, e che ora, se si vuole, si può anche seguire, in modo più o meno soggettivo. Il Papa è infallibile per alcuni, per altri non lo è, per altri lo è e non lo è, dipende da quello che dice, per altri ancora la cosa non ha importanza alcuna. L’etica è opinione, la matematica lo sta diventando, il mondo è in parte reale, in parte virtuale, tanto vale immaginarselo come meglio piace o conviene.

Ovviamente, questa è una esagerazione degli aspetti disordinati (che ci sono); il disordine c’è, in generale, ma non è detto che riguardi le singole individualità: riguarda l’insieme, la mancanza di un tessuto connettivo, di una “forma” mentale comunemente definita. Quella che in origine doveva essere la libertà di coscienza in quanto conditio sine qua non della ricerca della verità, è diventata, negli ultimi sviluppi, la diversificazione delle possibili realizzazioni sul piano individuale e la frammentazione del sapere, in generale.

Capirci qualcosa, del problema della coscienza, è già difficile di per sé; per orientarsi, ci vorrebbe una guida sicura, un qualche punto fermo. Dico non il corretto punto di vista, che è solo un’ipotesi; qualunque soluzione scientifica pluridimostrata non sarà mai ritenuta sufficiente da tutti e, credo, a ragione; ci vorrebbe almeno un qualche punto di vista credibile, che riesca a reggere almeno alle obiezioni che potrebbe formulare un bambino non molto brillante. Sarà pessimismo, ma è estremamente difficile, a prescindere da atteggiamenti fideistici che la chiarificazione esclude a priori (per chi non l’avesse chiaro, “chiarificare” non significa “vedere chiaramente”; significa: “non si vede chiaro, e si deve rimediare”), prendere per buona qualsiasi posizione. Perciò, chi crede di vedere chiaramente è messo in discussione, sempre, da un procedimento chiarificante.

Il processo di chiarificazione, inoltre, implica un equilibrio difficile. Da un lato, nei casi estremi richiede una dose formidabile di presunzione: Gesù è il Figlio di Dio almeno, Socrate il più sapiente dei Greci, ecc; è vero che questi attributi sono generalmente riconoscimenti posteriori, affermatisi non senza contrasto; si veda anche il caso di Diogene (che cercava l’ “Uomo”), al quale, dopo morto, gli Ateniesi eressero un monumento, a forma di Cane. Ed è verissimo, soprattutto per il primo, che si tratta di “rivelazione”, che va molto oltre il semplice chiarire. Ma è innegabile che, se si vuole chiarire, si deve passare tutto sotto analisi: le persone modeste dubitano di sé, hanno paura di fare una doppia negazione, si spaventano per le conseguenze di un banale sillogismo e, se pur gli viene in mente qualcosa che si scosti un po’ da ciò che è stato loro detto da persone autorevoli, ricacciano indietro l’idea e si immergono di nuovo nella routine. Inoltre, si deve insistere, la cosa va presa sul serio. Non è come scrivere un romanzo; bisogna orientarsi nelle trappole del linguaggio, saper vedere le difficoltà del proprio procedere e non solo quelle altrui. Né è chiaro perché insorga. Socrate parlava di un daimon, Gesù faceva riferimento al Padre; il Buddha, invece, ancora più radicale, rifiuta una personificazione del punto di partenza. Ma la presunzione incontrollata porta all’autocompiacimento: l’opera distruttiva si trasforma in una nuova costruzione, la chiarificazione si estingue in un nuovo sistema, ancora più astruso, più terrificante, più oscuro. Tutti i sistemi speculativi, se non sono mere invenzioni di qualche servo del potere, nascono dall’esigenza di chiarimento e finiscono in una matassa di problemi irrisolti: quelli di prima e i nuovi.

 

 

Distruzione dell’illusione

 

Come dobbiamo applicare correttamente la chiarificazione, che è una indispensabile premessa metodologica, senza la quale si procede a partire da idee di dubbia consistenza? I positivisti logici la identificavano nella liquidazione della metafisica: ma ci possiamo arrivare anche in modo autonomo, riconoscendo alcuni “meccanismi” del linguaggio. Questi rivelano operazioni di cui non siamo ben consapevoli, perché usiamo il linguaggio senza pensarci su (presunta identificazione di pensiero e linguaggio). Dall’ essere conscio si passa alla coscienza e poi alla Coscienza; dal comportamento intelligente alla persona intelligente, all’intelligenza, all’Intelligenza; dall’autopercezione, al “fatto presunto” che siamo, all’essere, all’Essere; dalla forma proposizionale “io voglio x”, perfettamente lecita, alla volizione, volontà, Volontà. Da alcune percezioni iterate si costruisce una Visione del Mondo. Dal fatto banale che non sappiamo tutto, all’inconoscibile, l’Inconoscibile ecc. Non è il caso ora di sviluppare in dettaglio questi processi logico-percettivi, che costruiscono un’immagine del mondo sul cui fondamento è lecito avere almeno qualche dubbio. Basta riconoscere che sono fondamentali, e che la loro forma generale è identica. Il fatto è che questo tipo di operazioni si applica specialmente alla “coscienza” che è appunto un prodotto di tale costruzione; così per la “mente”, ecc.; questi termini hanno tutta l’aria di essere autoposizioni, costruzioni mentali autoriflesse, non facilmente riconoscibili in quanto un’analisi presuppone un apparato teorico e, nel caso in cui sia autoanalisi, l’apparato teorico è proprio quello.

È giusto chiedersi, a questo punto, perché non ce ne accorgiamo, e non ne deduciamo le conseguenze. L’ ”illusione del linguaggio” non è una spiegazione. Non c’è nessuna “illusione del linguaggio” ; c’è semplicemente l’illusione, e il linguaggio la riflette. Non è neppure del tutto sicuro che l’illusione sia realmente tale. Una illusione è tale come opposizione della realtà; queste non sono posizioni assolute, sono categorie logico-percettive. Non è affatto detto che la “realtà” in quanto percepita (esse est percipi) coincida con la “realtà” in quanto risultato di un processo costruttivo- selettivo, qual è quella delle scienze; anzi, tutto l’opposto.

Inoltre, accorgersi dell’illusione non vuol dire affatto trarne delle conseguenze. I giochi sono illusori, nel senso che ho attribuito alla parola “illusione”; ma nessuno smette di giocare solo perché ne vede l’irrealtà. Il fatto è che l’attività mentale mai si arresta, e non è in sé orientata verso un fine. Non escluderei che l’immagine induista della creazione come lila, appunto gioco, esprima simbolicamente questa situazione.

La distruzione dell’illusione non è riconducibile ad una sola tecnica. Le scienze ne utilizzano alcune ben collaudate, implicite nei procedimenti che esse applicano, e la cui consistenza è attestata dai risultati. Una di queste è semplicemente quella di fare a meno di Enti Supremi ecc. Un’altra è il rifiuto del principio di autorità. In quanto al “soggetto”, ebbene, nelle scienze naturali se ne parla il meno possibile. Non è detto però che questo metodo debba riuscire comunque; potrebbe non essere sufficiente. Oppure, costruire un risultato di un certo tipo: oggettivo, beninteso, e reale: altri metodi potrebbero condurre ad altri risultati, non so quanto reali. Le scienze si basano sulla persistenza del mondo, che ne rende possibile l’oggettivazione. Ma l’oggettivazione della “coscienza” non può riuscire effettivamente: andrebbe posta per via riflessa e non autoriflessa; l’occhio avrebbe bisogno di uno specchio. Si può forse aggirare il problema studiando il comportamento degli esseri senzienti, o analizzando le funzioni neurofisiologiche. Inoltre, la stessa “mente” è in parte sondabile, attraverso l’analisi dei suoi prodotti. Ma questo procedimento ha una difficoltà: un occhio “vede” , e quindi non è chiaro se i suoi prodotti altro non sono che “visioni”, sia pure oggettive, percepite come “reali”. Questa stessa idea dell’”occhio” è equivoca; infatti è già una teoria, che ne genera altre. Il fatto è che le “teorie” della mente (non quelle sulla mente) realizzano, se vengono rappresentate nella coscienza: non si riesce a riconoscere direttamente la differenza tra la “realtà fondamentale”, se c’è, e i prodotti della mente. Tale riconoscimento è possibile, se lo è, solo indirettamente, attraverso mediazioni non ponibili all’inizio di una indagine.

Né è detto che i risultati di tali “chiarificazioni” siano delle certezze. La “chiarificazione” è una tecnica, non una soluzione, e avviene in modo diverso a seconda delle epoche e delle persone. Il suo compito non è quello di produrre soluzioni; questo è ciò che ci si aspetta troppo in generale, che qualcuno trovi una “soluzione” (*).

(*) Questa è una vera fissazione del XX secolo. Le sue cause sono nelle trasformazioni sociali e culturali del secolo precedente, che hanno distrutto una identità collettiva preesistente in quanto antieconomica.

Il problema della coscienza è illuminante da questo punto di vista: qui, le “soluzioni” si sprecano. È comico il fatto stesso, che l’esistenza di un gran numero di “soluzioni” a questo proposito (non solo di quelle “scientifiche”; anzi che queste vi siano è estremamente dubbio, nella più favorevole delle ipotesi; qui si allude a tutto ciò che è stato detto in proposito, a tutte le rappresentazioni e narrazioni che ne sono state fatte, ecc. da parte di religioni e non, ideologie e non, sistemi filosofici e non, ecc.) dovrebbe sconsigliare il fatto di prenderne sul serio anche solo una, qualunque essa sia. L’inconsistenza delle rappresentazioni in proposito non richiede un grande sforzo. L’elaborazione teorica, si chiami modello computazionale o anima, può essere imponente, in quanto a sviluppi: ma questa non depone a favore della consistenza del punto di partenza.

 

 

La visione del processo mentale

 

La “mente” è indagata da ricercatori, che ne sondano l’attività in base a una precedente struttura teorica e in base al proprio processo mentale. Ma si devono considerare le possibilità dell’autoesplorazione.

Come essa avvenga, è un problema. Il soggetto non è distinto dalla struttura mentale. Ma ritiene di esplorarla dall’interno. Come è possibile? La risposta più logica è che l’autoesplorazione, se avviene, è un evento mentale, per cui il soggetto, in quanto centro dell’attenzione, intende orientarsi verso il processo mentale, non verso le rappresentazioni che esso produce, ma verso qualcosa che è coperto dalle rappresentazioni. L’intenzione del soggetto lo fa convergere inizialmente verso la sintassi delle rappresentazioni. Questo gli permette di riconoscere una logica del processo mentale, che non è la logica classica; questa è una regola negativa, che esclude certi processi. Questa logica descrive la struttura del mondo delle rappresentazioni e riflette la struttura mentale, la forma nella quale si fissano i prodotti dell’attività sottostante. Se il soggetto è interessato all’esplorazione dell’evento mentale, deve distogliersi dalle rappresentazioni, che lo catturano, e deve produrre un evento mentale sintattico, una frase per esempio, meglio un insieme di frasi, un discorso coerente, in modo che la sua attenzione converga verso la formazione delle frasi e la formulazione del pensiero; la cosa ideale è un discorso sulla struttura mentale. Le frasi gli si formano davanti, ma se scrive velocemente e non riflette su ciò che scrive, allora l’evento mentale gli si pone davanti, come un senso della frase che si costruisce durante la stessa frase. Normalmente, la frase costruita si presenta davanti allo scrittore dopo l’intuizione: questa è a livello onirico, e non è vista. Il soggetto è attirato dal significato della frase che si è prodotta, e si accorge che vi è qualcosa di automatico in quello che è successo, perché ciò che scrive non è identico a ciò che intendeva scrivere. Ipnotizzato dal senso della frase, non cerca l’automatismo: questo è il processo mentale, l’evento che ha prodotto la frase. Ma il processo deve dire cose sensate: connette le frasi insieme ai sensi delle parole e questa seconda connessione, che non è affatto una giustapposizione ma una sintesi cioè una unità originaria che può essere sviluppata in un ragionamento articolato, preforma la frase. Questa “sintesi” è l’immagine del processo mentale mentre esso si svolge e il senso della frase ne è il ricordo, che potrà essere rievocato, se viene fissata nella struttura mentale.

È più facile riconoscere questo nella Geometria. Il soggetto traccia una retta su un foglio di carta bianca, ma non intende tracciare una retta a caso: quindi “fissa” due punti non disegnati, o un punto e una direzione. Questa è una intuizione, l’immagine di una operazione mentale, che precede il tracciato della retta. Non è detto che debba immaginare la retta già disegnata, per disegnarla: deve guidare la mano, secondo un movimento coordinato da un’ idea. Questa idea non è l’immagine di un oggetto, è quella del movimento rettilineo della mano. Il tracciato fissa questa idea, e si forma una immagine mentale compiuta persistente, una figura geometrica. La Geometria fa parte della struttura mentale.

Qual è la risposta che il processo mentale dà all’esploratore, quando viene interrogato? Credo dipenda dalle idee pregresse e da come è condotta; comunque, io ho avuto questa: “Il processo mentale è puramente sintattico: fissa le proprie operazioni (invisibili) in rappresentazioni, e opera su di essere ricorsivamente; così ha costruito il soggetto. Ma l’autoesplorazione è essa stessa una operazione mentale e dà come risultato una autoimmagine della mente, e niente di più. Non c’è modo di sapere se è vera: la certezza, il dubbio, il rifiuto di questa conclusione sono essi stessi eventi mentali”. Il soggetto può rifiutare questo concetto ed aprirsi una strada, staccarsi dal processo, perché intuisce che questa onnipotenza della mente è appunto una autorappresentazione, un suo prodotto. Ma questo “staccarsi” non è esso stesso solo una nuova immagine, interna al processo? Non lo so.

Chiarite (spero) alcune questioni metodologiche di base; assunto che, se si vuol procedere, bisogna presumere a priori di saperlo fare; definito che attualmente la confusione delle idee è al massimo grado (almeno fino a qualche tempo fa, uno poteva credere all’anima perché non aveva sentito dire altro), vediamo anzitutto qual è il panorama offerto dalle teorie scientifiche. La loro sostanza è il linguaggio; i loro problemi sono le sue oscurità.

 

 

Le “teorie della mente” - posizioni e analisi.

dove l’arcano non si spiega

[Sono discussi: funzionalismo (Putnam), Penrose, Searle, CTM (Fodor), connessionismo (Churchland)]

 

Sulla scientificità delle “teorie della mente”, in generale.

 

Il lettore spera, dopo tutto ciò, che gli si forniscano informazioni sulle teorie “scientifiche”. Sarebbe bello, giungere alla concretezza del sapere, ma disgraziatamente le premesse metodologiche son ben lungi dall’essere esaurite. Che dico? Questo è un vago cenno, un riassunto di una premessa; qui, la metodologia - che è tanto importante, in qualsiasi analisi - è appena sfiorata. Il fatto è che bisogna chiarire, almeno grosso modo, che cosa potrebbe essere una teoria scientifica, quando si parla di coscienza, di processi mentali, ecc. Il lettore crede vi sia un linguaggio comune? C’è un accordo almeno sulle questioni fondamentali? Ci sarà pure un metodo accettato, no? Altrimenti, che genere di scienza è?

Povero lettore, qui non è nemmeno il caso di parlare di metodi comuni ecc. È perfin dubbio vi sia qualche “scienza”. (*) Per poterlo stabilire, bisognerebbe definire cos’è una qualche scienza. Infatti, la divergenza delle posizioni è tale, da far pensare che, in questo genere di cose, l’opinabile sia la regola. E non è una esagerazione, se certi filosofi della scienza, sociologi della scienza, osservatori scientifici affermano che si tratta di “convenzione”, “conversazione sociale”, relazioni tra persone distinte e bene educate, che esercitano dignitosamente la propria professione, dando lustro all’istituzione di cui fanno parte e, soprattutto, a chi la sostiene.

(*) Questo non vale per le indagini sull’attività cerebrale e per quelle sul comportamento. Anche l’epistemologia genetica fornisce dati attendibili. La Psicologia è in una posizione più ambigua; è difficile valutare definitivamente la Psicanalisi, per esempio. Questo vale per i modelli della mente e per tutto ciò che sulla mente è stato detto. In senso stretto, questi sono produzioni della Psicologia, e i loro autori generalmete sono classificati piuttosto come “filosofi della mente”; è anche vero però che la Psicologia si avvale di metodi scientifici essa stessa e utilizza materiali prodotti dalle varie scienze, la neurofisiologia in particolare. Perciò, io accetterei di considerare “scientifiche” tout court le sue produzioni, anche perché “scientifico” secondo Popper equivale a “confutabile”, e qui le confutazioni non mancano.

Comunque, le indagini “scientifiche” sulla questione hanno, a detta degli esperti, subito una svolta molto importante circa venti - venticinque anni fa; ciò non stupisce, dato che da quel momento le cose vanno sempre peggio. Comunque, allora è sorto un nuovo paradigma (si chiama così, secondo la terminologia introdotta da Kuhn), che aspira ad essere una rivoluzione scientifica; anzi, ha aspirato ad esserlo, perché, dopo aver furoreggiato quasi incontrastato soprattutto nelle Università americane, gli stessi suoi fautori sembrano avere una certa resipiscenza. Il fatto, puro e semplice, è che la corrente delle idee (cioè i flussi finanziari) si è orientata verso il modello computazionale, vale a dire verso la curiosa ipotesi per la quale la “mente” sarebbe un algoritmo, o un computer, o una cosa che non è un computer ma gli assomiglia, o assomiglia a un computer del futuro, o è una rete neurale, ecc. Insomma, si tratta di una moda scientifica.

Non tutta la scienza si orienta secondo questo schema: le correnti emerse dopo il comportamentismo - che postulava lo studio oggettivo, vale a dire non introspettivo, del comportamento appunto, in quanto fenomeno osservabile e riproducibile, e che è scientifico a tutti gli effetti - sono più di una.

Contro i seguaci del modello computazionale (Fodor e i Churchland, in particolare), si erge la figura di Searle, il quale sostiene addirittura che non ha senso assimilare la mente ad un computer. Per provare tale difficile asserto, egli inventa niente meno che l’argomento della stanza cinese, che sarà discusso in seguito. Ciò non impedisce che Searle stesso venga criticato da qualcuno, in base alla sussistenza di punti deboli nel suo ragionamento (cioè, non è che la sua posizione sia smentita da qualche fatto: questo è affatto normale in campo scientifico, anzi succede quasi sempre; semplicemente, non padroneggia adeguatamente la logica).

Altre posizioni, meno recenti.

Non esiste una sostanza mentale; i processi mentali sono prodotti o proprietà del cervello ma è impossibile studiarli con le neuroscienze. Quindi, dualismo di proprietà mente-corpo.

Questa “teoria” non è disprezzabile, anche se non è propriamente una teoria; è una affermazione di principio, giustificata generalmente dal differente livello qualitativo nel quale si collocano i processi biologici e quelli mentali. Essa asserisce in sostanza un rapporto causa-effetto dal cervello alla mente e non viceversa, ma psicologia e neurofisiologia debbono rimanere distinte

La teoria dell’identità mente-corpo: gli stati mentali (impressioni, sensazioni) sono eventi interni al sistema nervoso, interpretabili in termini di organizzazione e strutture di questo.

Insomma: sono le strutture del sostrato biologico a produrre il contenuto mentale. Non vi è mediazione, per es. dovuta alla “complessità” delle funzioni neurofisiologiche, o discontinuità.

 

 

Il funzionalismo di Putnam

 

Interessante il funzionalismo (Putnam e altri), che implica la realizzabilità dello stesso processo in diversi sostrati, fisici o biologici. La “mente” in quanto insieme di “processi”, da intendersi essenzialmente come catene o correlazioni di “stati” distinti, è da identificarsi in tali “processi”, non nel sistema nel quale avvengono. È una teoria ardita: portata alle estreme conseguenze, la mente sarebbe simulabile.

Il funzionalismo è riduzionista, ma si regge anche su analogie con il mondo dei computer. Il processo mentale è paragonato al software, e si ragiona per analogia in base al fatto che lo stesso software può funzionare su macchine diverse, purché queste soddisfino un insieme di requisiti minimi.(*)

(*) Hilary Putnam è un filosofo alquanto creativo e mobile nelle idee. Professore ad Harvard, è uno dei più autorevoli filosofi americani. La sua posizione è variata non poco, a partire da posizioni analitiche, passando attraverso il marxismo fino alla rivalutazione del pragmatismo. Per quanto riguarda il funzionalismo, ecco quanto ne dice ora in prima persona: “Il funzionalismo è riuscito a porre un altro piatto nel menu della filosofia della mente… Di negativo c’era che costituiva ancora una forma di riduzionismo… l’Intelligenza Artificiale è Ingegneria del Software, utile ma certo non intelligente. I computer simulano in maniera banale, oltre che antiquata, i processi di comprensione e di apprendimento” [da una recente intervista col matematico italiano Piergiorgio Odifreddi].

Di fatto, questo punto di vista è un derivato della trasferibilità degli algoritmi, cioè, in sostanza, della indipendenza delle matematiche dal processo mentale. È vero che la “forma logica” di un processo non dipende da chi o cosa esegue il processo. Vale solo per la sintassi, però, non anche per la semantica. Che la “mente” coincida quindi con un certo modo di manipolare simboli non è deducibile dal concetto di “processo”, in generale: anzitutto, un processo, senza ulteriori specifiche, è concetto assai vago, e non è affatto detto sia, per es., un algoritmo; in secondo luogo, bisogna vedere cosa sono i “simboli”: i processi computazionali non implicano affatto simboli, ma solo i bit, 1 e 0, e non riconoscono il significato delle “stringhe”; in particolare, è da vedere se non sia essenziale la natura dei simboli e come vengano prodotti.

Soprattutto, bisogna fare attenzione al significato della frase “manipolare simboli”. La “manipolazione” ci rimanda immediatamente all’immagine dell’attività manuale: e risulta incontrovertibilmente che l’homo faber precede l’homo sapiens. Non si devono associare le operazioni sulle immagini mentali con le “operazioni” di una macchina; “operazione” è concetto logico, non fisico, e la “manipolazione” è una operazione particolare, che non corrisponde molto bene alle successioni di stati fisici discreti che un computer realizza. Si direbbe piuttosto che la “manipolazione di simboli”, anzi la “dinamica delle rappresentazioni” , sia associata al manufatto, all’azione concreta sull’ambiente, e rifletta la motilità, il coordinamento finalizzato dei movimenti, che richiede un’immagine dello scopo, la visione di un futuro possibile. Nella mente, il risultato precede l’azione. Ciò non ha nulla a che vedere con i processi computazionali, nel modo più assoluto. Questi non sono azioni sull’ambiente, anche se si può costruire un robot; sono parti dell’ambiente, e la loro azione è una nostra interpretazione, anzi l’intenzione con la quale il robot è stato costruito. Il robot è puramente sequenziale. Non c’è né ci può essere nel suo programma una immagine del futuro. Un algoritmo separa l’input dall’output in modo irreversibile: non c’è, in un algoritmo, una stringa di input che coincida con quella di output, né le stesse istruzioni dell’algoritmo sono immagini dell’output. Ma i processi mentali non sono logicamente sequenziali: sono solo diacronici. Certe sequenze di immagini possono essere conseguenti, logicamente; ma la loro associazione è extralogica: può essere contraddittoria e solo associativa. Un computer e un robot, per quanto complessi, sono logica sequenziale realizzata. Non so fino a che punto questa distinzione sia chiara nel modello computazionale.

Infine, il ragionamento per analogia è estremamente pericoloso, e stupisce che lo si utilizzi così frequentemente. Il ragionamento corretto è quello deduttivo; l’analogia non è dimostrativa in sé, funziona solo se vi è una dimostrazione indipendente, e allora la sua funzione è solo illustrativa, è quella di un come se.

A prescindere dal particolare sviluppo dei ragionamenti, il funzionalismo può essere preso sul serio, fino a un certo punto, nel senso che identificare la “mente” e la stessa “coscienza” in una forma logica non è, a priori, sbagliato. Il lettore tenga presente che la mente, nella sua componente cognitiva, manifesta delle strutture, e riflette degli schemi. Può essere che questi siano permanenti nel sostrato, come può essere che essi vengano attivati nel sostrato, come possono essere entrambe le cose. Che poi tutta la coscienza possa essere esplorata mediante schemi, è da vedere. Sicuramente, la complessità ha qualcosa a che vedere con la questione della coscienza: il paragone con un algoritmo mi sembra limitativo, se preso alla lettera. Diverso è il discorso se si ipotizza un comportamento deterministico caotico, indotto e regolato da input essi stessi casuali, interni ed esterni, che converge, durante lo sviluppo dell’individuo, verso una fase più o meno stabile. Questo assurdo non è; solo, è molto difficile produrre un modello completo, dettagliato, in proposito. Forse anche per questo ci si orienta verso soluzioni di un certo tipo.

(*) Mi spiace per l’imprecisione del linguaggio, ma il significato dei termini mente e coscienza sembrano dipendere dalla teoria. Nei modelli computazionali, è la mente ciò di cui si vorrebbe parlare. Infatti, queste teorie sono essenzialmente modelli, o, meglio, richiamano paradigmi già sviluppati. Si dovrebbe prima definire il linguaggio, e poi vedere se il modello prodotto lo soddisfa. Ma qui si procede secondo il seguente criterio: prima si tracciano le curve, poi si cercano i punti che corrispondono.

 

 

Penrose

 

Anche R. Penrose (*) ha detto la sua opinione, in The Emperor’s New Mind (New York, 1989) e poi in Shadows of the Mind (Oxford, 1994). La sua posizione è più difficile, in quanto fondata sulla Matematica, e richiede una analisi non semplice. Qui posso darne solo un cenno assai fugace; la comprensione del suo punto di vista può aversi solo leggendolo direttamente.

(*) Roger Penrose è dal 1973 Professore di Matematica ad Oxford; ha dato contributi decisivi alla teoria dei “buchi neri” e ha dimostrato che, secondo la Relatività Generale, sotto condizioni ampiamente compatibili con le osservazioni attuali, l’Universo ha avuto origine da una singolarità (big bang). Negli ultimi anni, i suoi interessi si sono orientati verso il problema del rapporto mente-corpo, che propone di affrontare dal punto di vista della Fisica quantistica. Penrose riconosce tuttavia che, al momento, non è possibile formulare una teoria fisica della coscienza.

Il problema che Penrose cerca di affrontare è la “creatività” della mente, vale a dire, per esempio, la sua capacità di trovare la soluzione di un problema anche se non vi è un procedimento necessario che vi conduca.

In effetti, la dimostrazione di un teorema è una derivazione che dimostra incontrovertibilmente la tesi, e in quanto tale può essere eseguibile da un automa; ma la particolare dimostrazione non può essere trovata con un metodo universale: quindi, non siamo algoritmi. Questo ragionamento è formalmente ineccepibile, o almeno lo sarebbe, se non fosse che i “processi mentali” non sono affatto coscienti: quindi nulla esclude che gli algoritmi ci siano, anzi che vi siano solo quelli, solo che: primo, non sono “visibili”; secondo, non è detto siano schemi neurali permanenti, ma potrebbero essere processi attivati sul momento, cioè schemi di attivazione non persistenti e non strutture logiche statiche, come i programmi per i computer; infine, le catene deduttive potrebbero non essere combinazioni di simboli in sé definiti e atomici, come in ogni logica deduttiva formalizzata che si rispetti, ma blocchi completi o quasi, che ripetono qualche connessione già realizzata in passato, o memorizzata ecc, e che emergono sotto forma di intuizione appunto perché sono complessi che possono essere riconosciuti, a livello cosciente, dopo che si sono formati, a livello incosciente. Si tenga presente che quando si parla, non si organizzano le singole parole una a una: ciò è assolutamente impossibile. La frase, quando non è troppo complessa, o l’insieme coordinato delle proposizioni, è formulata in blocco, come sviluppo di un’intuizione. Vi è elasticità nel congiungere i blocchi e nel formulare il discorso. Di qui lo “stile” del discorso, che deriva dall’esercizio. Gli algoritmi non hanno una struttura del genere: essi sono una sintassi rigida e non hanno alcuna elasticità interna. Il loro determinismo è di tipo molto grossolano: non è quello della matematica del continuo, cioè dei processi fisici. Questo è nascosto nei teoremi del calcolo differenziale, non nella sequenza ordinata degli stati discreti che realizzano un algoritmo.

È strano che i sostenitori dei modelli computazionali non si avvedano delle effettive difficoltà di un modello algoritmico della “mente”. Le ipotesi di un modello del genere sono numerose: in particolare, l’algoritmo è eseguito da un automa deterministico a stati discreti. I processi neurobiologici sono processi fisici, e questi, fino a prova contraria, sono retti da equazioni differenziali che operano sul continuo, non sul discreto. Che si possa “discretizzare” il continuo, va bene; ma la “discretizzazione” è funzionale alla computazione, non è la struttura intrinseca della teoria fisica sottostante. E, infine, un algoritmo è stabile. La coscienza ha fluttuazioni ed è facilmente modificabile ingerendo certe sostanze. Questa osservazione è estremamente banale, ma distrugge la possibilità di identificare la mente in qualsiasi processo indipendente dal sostrato biologico. Ciò implica che il modello algoritmico è troppo restrittivo. La dipendenza degli stati di coscienza dall’azione di certe sostanze fa parte della “natura” della coscienza, in particolare della componente cognitiva, e questa non corrisponde all’ipotesi di indipendenza dal sostrato.

Torniamo a Penrose. Importante, nel suo procedimento, è il teorema di Goedel, per il quale, in estrema sintesi, non è possibile dimostrare, in generale, tutte le proposizioni costruibili entro l’Aritmetica (definita dagli assiomi di Peano, o da un sistema equivalente) con i mezzi dell’Aritmetica: non esiste quindi un metodo generale nell’aritmetica per decidere se una proposizione aritmetica sia o no un teorema. Ciò implicherebbe che la “mente” supera il potere della stessa Aritmetica, cioè non è un algoritmo. Possiamo infatti provare che qualcosa è vero, in assenza certa di una dimostrazione matematica (ho l’impressione che si possa farlo benissimo senza disturbare Goedel: ma evidentemente Penrose vuole una prova incontrovertibile all’interno della stessa Matematica). Perciò, la nostra capacità di conoscere e comprendere supera la Matematica, cioè il ragionamento deduttivo, che è automatizzabile. Siamo quindi capaci del ragionamento riflessivo (reflective reasoning), dato che possiamo riflettere sul reale significato della Matematica, trascendendo i limiti del sistema formale.

Non trovo obiezioni, salvo il fatto che, mi sembra, Penrose riscopre la differenza tra sintassi e semantica, di cui si era discusso prima, a proposito della relazione tra senso e parola. Che la semantica sia uno scoglio per ogni teoria algoritmica è ovvio, e infatti Fodor, che ne è perfettamente consapevole, propone a questo proposito una “soluzione” che vedremo. Può essere che Penrose non si ritenesse soddisfatto di un ragionamento basato solo su questa distinzione, e che abbia quindi fatto ricorso a Goedel per ottenere una deduzione più formale, puramente sintattica: è un fatto però che, se parla di “significati”, converge verso questa distinzione, cercando di derivarla dalla stessa incompletezza del sistema formale dell’Aritmetica.

Penrose procede oltre, osservando che l’attività neuronale può essere completamente definita matematicamente (verissimo, in quanto è un processo fisico) e quindi, proprio in quanto trascende il sistema formale della matematica stessa, la mente (mind) non può essere ridotta al cervello come sistema deterministico classico. Eventualmente, la comprensione reale della relazione mente-cervello richiederebbe una spiegazione in temini di Meccanica Quantistica e non-località.

Questa teoria, nonostante l’astrattezza del ragionamento, è interessante, più per le conclusioni (accettabili, non contraddittorie) che non per il modo in cui vi si arriva. È possibile che la Fisica quantistica abbia qualche ruolo nella formazione della mente, ma non credo sia questo il punto. Interpretare i processi mentali non necessari (“creativi”) come “superamento” della Matematica mi sembra artificioso. Intanto, anche la Fisica quantistica implica la Matematica. Che la “creatività”, intesa come produzione apparentemente “libera”, debba essere risolta nell’indeterminazione quantistica, mi pare un po’ esagerato. Non c’è nessuna prova che noi siamo “creativi” in questo senso. La “creatività” è azione non necessaria in quanto logicamente possibile, e il paragone di tale possibilità è, per noi, il materiale che affiora alla coscienza. La costrizione ci appare tale se è percepita, se ne siamo consapevoli. Ma dei “processi” che avvengono fuori e prima della nostra coscienza, noi non sappiamo nulla direttamente: potremmo benissimo essere degli automi, o, meglio, dei sistemi deterministici senza saperlo, da questo punto di vista. Un automa enormemente complesso non si autoriconosce come tale, se il suo campo di autoesplorazione copre solo una parte infinitesima di tutto il meccanismo; e, se si obietta che un automa ipso facto non può autopercepirsi come tale (il che condivido), a maggior ragione proprio per questo potrebbe essere che noi siamo tutti completamente determinati senza poterne essere consci.

 

 

Searle

 

Sentiamo ora Searle (*), prima di analizzare Fodor e i Churchland: questi sono sostenitori del modello computazionale, quello ne è un critico. Uno dei suoi argomenti più famosi è quello della stanza cinese. Vediamo.

(*) John Searle s’è formato a Oxford, alla scuola dei “filosofi del linguaggio ordinario”. Attualmente, è professore di filosofia del linguaggio e di filosofia della mente, all’Università di Berkeley, California. La teoria di Searle si fonda sul concetto di intenzionalità, ed è radicalmente opposta a qualsiasi formulazione in termini di modello computazionale. La sua opposizione a tale sviluppo si fonda, almeno in parte, sulla irriducibilità della semantica alla sintassi. Questo è il punto nevralgico di ogni discussione sull’argomento.

Secondo Searle, la coscienza è un fenomeno naturale e biologico che non rientra in nessuna delle tradizionali categorie del mentale e del mondo fisico. La difficoltà del problema deriverebbe dalla stessa tradizione filosofica, che ha contrapposto il “fisico” al “mentale”. Per comprendere la coscienza si deve capire come funziona, a livello biologico, il cervello, come esso causi i nostri stati mentali coscienti, e come questi agiscano nel cervello.

L’argomento della stanza cinese è una immagine che rappresenta, nelle intenzioni di Searle, la differenza essenziale tra un processo computazionale che voglia simulare l’Intelligenza Artificiale (strong A.I.) e una mente cosciente. Il computer “intelligente” non è, perché può operare solo mediante regole che non comprende: esso è simboleggiato da una persona che manipola simboli di una lingua che non conosce grazie a un insieme di istruzioni.

Una persona, che conosce solo l’inglese, si trova in una stanza; può ricevere da un cinese, che si trova all’esterno, delle domande formulate come sequenze sensate di ideogrammi cinesi (input) e può restituire, in risposta, delle altre sequenze sensate di ideogrammi (output). Non conoscendo il cinese, egli non può fornire consapevolmente risposte sensate a quesiti sensati. Ha però a disposizione una serie di istruzioni in inglese, in base alle quali ad ogni sequenza di ideogrammi può associare in modo pertinente un’altra sequenza. Egli può quindi fornire risposte sensate per un cinese senza comprendere né le domande, né le stesse risposte. Il comportamento della persona all’interno della stanza può sembrare intelligente, quanto ad adeguatezza delle risposte, ma non lo è, in quanto inconsapevole.

La prima osservazione che farei è che l’argomentazione di Searle sembra inconsistente: l’immagine della stanza prova che una persona può comportarsi esattamente come un computer non intelligente, qualora disponga di una relazione tra due insiemi di simboli grafici, proprio in quanto secondo lo stesso Searle “non intelligenza” = ignoranza dei significati. Allora una persona intelligente può simulare un automa e quindi il funzionamento di un computer non può riprodurre l’”intelligenza”: questo, di fatto, afferma Searle. La tesi potrebbe essere vera, ma non è sicuro consegua logicamente dalla premessa; se così fosse, negando il conseguente (un computer può essere “intelligente”), l’antecedente dovrebbe risultare falso (la persona nella stanza non è in grado di simulare un automa).

Che un operatore intelligente possa operare con dei segni ignorandone il significato, è assolutamente ovvio. Basta osservare il procedimento del calcolo aritmetico, per es. un’addizione: l’operatore umano manipola le cifre secondo regole mnemoniche; non esegue alcuna interpretazione mentre computa. Un essere “intelligente” nel senso di Searle può comportarsi in modo non “intelligente”. Ne segue che, se l’implicazione posta da Searle è vera, allora non sarà mai possibile costruire un automa “intelligente”, per contrapposizione. Ma se l’automa intelligente venisse costruito, l’argomentazione di Searle cadrebbe; finché non viene realizzato, essa è indecidibile. Per sapere se Searle ha torto, bisognerebbe costruire un computer intelligente; ma non si può sapere se il suo ragionamento (non la tesi, la dimostrazione) è formalmente corretto. Quindi, anche se la tesi fosse vera, non sarebbe deducibile dall’esempio della stanza cinese. Sembra che ciò sia implicito nella definizione di “intelligenza” da lui adottata: la sua tesi non consegue ad una dimostrazione, è solo una definizione illustrata da un’immagine.

Il problema è piuttosto se l’attività mentale sia di tipo computazionale. Secondo Searle, la mente cosciente opera su simboli che hanno un significato: e su questo sarei d’accordo. Un processo computazionale, in sé, non implica alcun senso; questo, se c’è, è una interpretazione esterna. Questo è ritenuto ovvio. Ma un’operazione su x y z eccetera non implica affatto che x y z abbiano un significato. Possono essere simboli vuoti. Inoltre, il “significato” è interpretabile come una relazione posta dalla stessa mente: la semantica è la relazione tra l’insieme dei segni e quello degli oggetti da essi denotati; è essa stessa descrivibile come una operazione, e, in quanto tale, non affermerei che abbia un carattere intrinsecamente non-computazionale.

Il fatto è che Searle vuol esprimere una differenza, che nessuna immagine e nessuna definizione discorsiva può contenere: quella tra consapevolezza e non consapevolezza. Tutti abbiamo una teoria, che sostanzialmente è quella fondamentale, per la quale il soggetto è cosciente, e sono coscienti gli esseri che egli giudica tali, mentre il resto del mondo non lo sarebbe; ma non c’è modo di dimostrare questa tesi, indipendentemente dalla teoria che la pone. La teoria fondamentale precede il soggetto, tutto qui; al massimo, è il soggetto. Tale assunzione non dipende in nessun modo dall’osservazione del comportamento. Questo può essere “intelligente” = adeguato alla situazione e in questo senso si può parlare di Intelligenza artificiale, cosa che consiglierei di fare, in questo senso solo, senza farsi tanti problemi metafisici, cioè teorici. Ma la coscienza non è questione di comportamento, almeno apparentemente, ma di auto-percezione, sempre apparentemente.

L’argomento di Searle è stato da taluno contestato come non corretto, logicamente. Dipende: dato che ci riteniamo coscienti, sarebbe un banale corollario di tale opinione; ma non dimostra nulla, se non ci identifichiamo in tale opinione. Di qui, il fatto che su di esso si dibatta da quando è stato formulato, credo circa quindici anni fa.

Vi è un altro punto estremamente importante, che emerge dall’esempio di Searle. Si tratta di intendersi sul significato della parola “comprendere” , “capire”. Qui c’è un’ambiguità di fondo, ben nota a chiunque pratichi l’insegnamento. Si suppone che qualcun altro capisca e si presume di poterlo stabilire, ma ciò avviene esclusivamente attraverso l’analisi del comportamento verbale o [vel] motorio fatta da un soggetto su un altro soggetto, in base al confronto di tale comportamento con alcuni parametri del senso comune. Come si vede, il “comprendere” è definito esteriormente attraverso operazioni complesse, il cui fondamento è accettato e non dimostrabile. Da dove deriva il fondamento? Dall’autoanalisi e dall’ipotesi implicita che l’autoanalisi di x coincida sostanzialmente con quella di y. Tutti questi sono assiomi. Presuppongono introspezione e un “tipo” umano.

Faccio solo osservare che la decisione sulla “comprensione” altrui sembra essere un comportamento stereotipo, definito da una tradizione didattica e da certi studi, la cui consistenza scientifica è sub judice. Uno stereotipo non è, secondo me, un algoritmo; ma un algoritmo può essere considerato un comportamento stereotipo.

L’altra strada, l’auto-osservazione, è molto dubbia: in nessun modo è oggettiva. Come facciamo a capire cosa significa capire? È evidente che la regressione è all’infinito, è inutile procedere. La comprensione è un assioma inerente l’analisi comportamentale, o, se si vuole, un termine indefinibile. Ciò non esclude che una persona si avveda di non capire. Ma ciò significa semplicemente che non stabilisce certe relazioni; la persona capisce che non ha capito. Quindi, neppure una definizione negativa riesce. Si conferma che: o la comprensione è una procedura, contro le intenzioni di Searle; oppure, è indefinibile, se non in termini di giudizio del soggetto. In entrambi i casi, la comprensione è esterna alla semantica.

A parte le analisi logiche, che in questi casi si risolvono in rompicapi inutili, dato che non vi sono pietre di paragone esterne, resta sconcertante come le posizioni possano essere così distanti, e come le argomentazioni possano essere tanto semplicistiche. Si va dalle deduzioni assai complesse e formalizzate, quindi poco note e di solito poco comprese, di Penrose, alle immagini di Searle, che dilagano nel dibattito filosofico. Non è che Searle abbia torto, nell’opporsi al modello computazionale; è che non può riuscirvi con una favola, e non se ne avvede. E nemmeno si capisce perché si discuta tanto.

 

 

Sociologia elementare e completa del “dibattito”

 

Il fatto è che il dibattito, filosofico o no, coinvolge un pubblico: non un pubblico ristretto di esperti. Questi ci sono, eccome, solo che delle loro teorie il pubblico, nel senso più esteso del termine, sa ben poco, anzi: non sa un bel niente, molto spesso. Il dibattito a vasto raggio interessa: coinvolge il pubblico (che si emoziona quando si discute dei massimi problemi) e i protagonisti (che sul dibattito costruiscono la loro fama presso il pubblico e quindi nel loro stesso ambiente). Ma le argomentazioni non possono essere troppo astruse, tecniche, formalizzate: soprattutto negli Stati Uniti, dove la separazione tra accademia e società è molto meno forte che in Europa. Quindi, sono necessarie delle uscite di livello modesto, che in compenso destano un interesse più vasto. La dialettica sostituisce la logica, e l’esempio lampante sostituisce la dialettica.

Che cosa vi sia, di veramente serio, in tutti i “dibattiti” filosofici o scientifici, è difficile da stabilire.

Interessi concreti e frammentazione della conoscenza creano situazioni poco chiare, e la credibilità stessa del “sapere scientifico”, da alcuni anni, è messa in discussione. Il concetto, per cui il punto di vista scientifico non giunge al grande pubblico e quindi questo vive immerso nell’oscurità, è corretto, salvo il fatto che non si vede perché vi debba pervenire. Il “punto di vista scientifico” è il risultato di una attività complessa e plurisecolare, e al grande pubblico non arriva ipso facto. Ciò che vi giunge è il dibattito, al quale le istituzioni culturali non si sottraggono affatto, se vi è l’occasione di un vantaggio almeno di immagine, specie negli Stati Uniti.

 

 

CTM e connessionismo

 

Vediamo ora le principali teorie computazionali. Ve ne sono due categorie: quelle che io definirei classiche; in particolare, Fodor e i Churchland. Ve ne sono altre, che fanno ricorso alle nozioni, recentemente introdotte e ahimè non chiarissime, di complessità, casualità, caos. Queste sono le più interessanti: ma si basano, o dovrebbero, sulla teoria algoritmica dell’informazione, sviluppata da Kolmogorov e, soprattutto, Chaitin. Questa è una teoria potentissima, ma vi sono dubbi sulla sua effettiva applicabilità. Non possono essere discusse seriamente in termini semplici.

 

 

La CTM di Fodor, in estrema sintesi

 

Fodor (*), dunque.

(*) Jerry Fodor, Ph.D. in Filosofia alla Princeton University; attualmente Professore presso la Facoltà di Filosofia del Center for Cognitive Science della Rutger University. Sue opere principali: The Language of Thought, The Modularity of Mind, Concepts. Attualmente, Fodor è critico sulle sue posizioni iniziali. Egli dichiara, a questo proposito, che la mente non funziona secondo gli schemi della teoria, da lui proposta, basata sul LOT [Language Of Thought]. Comunque, la sua prima teoria merita un cenno.

La mente è un manipolatore di simboli, le rappresentazioni mentali stringhe di simboli alla base del “Linguaggio della Mente”; brevemente, LOT. Quindi, pensare significa operare su queste stringhe in base a una sintassi, che genera nuove stringhe. Il centro della Teoria Computazionale della Mente (CTM) sta nell’assunto che i simboli sono portatori di significato: quindi, le operazioni sintattiche sui simboli generano la semantica. La struttura della mente è quindi di tipo operazionale, una realizzazione della logica formale.

Commentiamo brevemente. Che i “simboli” di Fodor siano essi stessi nello stesso tempo operandi e prodotti di operazioni, è perfettamente ammissibile e logicamente consistente. La stessa logica formale riconosce che un modello di un sistema formale può essere qualsiasi insieme di simboli anche vuoti isomorfo a quello che contiene il sistema formale, vale a dire una relazione di compenetrazione più forte ancora di quella posta da Fodor. Basterebbe ammettere l’esistenza di due livelli, uno per le operazioni sui simboli o rappresentazioni, l’altro per le operazioni che costruiscono i simboli stessi, per risolvere il tutto in termini operatoriali. Su questo sono pienamente d’accordo; resta da vedere se la “spiegazione” è esaustiva, o se tralascia qualcosa di essenziale.

Il punto debole della CTM di Fodor è che il modello della manipolazione è quello della macchina di Turing, il prototipo di tutti gli automi discreti finiti. Questo modello è deterministico in un senso molto stretto: il determinismo è nel programma della macchina. Questo determinismo è più forte di quello fisico. Esso è interno a un sistema locale, cioè è definito a prescindere dall’esistenza di qualcosa d’altro oltre all’automa. Non è il determinismo del mondo fisico: questo è espresso nelle costanti delle leggi di conservazione o nelle leggi di invarianza e di simmetria, e non è locale, in linea di principio; è globale. Ora, un individuo ha un corpo, e l’attività mentale, si direbbe banalmente, in qualche misura è in funzione del corpo. Non si deve necesariamente intendere che sia da questo determinata; ma si deve ammettere che è condizionata almeno nella misura in cui è, in parte, finalizzata alla conservazione del corpo stesso. Perciò, una parte almeno della “struttura operazionale” della mente presuppone l’interazione con l’ambiente: la pressione degli eventi esterni implica lo sviluppo di un comportamento adeguato. Tale adeguamento non sembra avere molto in comune con un programma: questo va cercato semmai nel genoma (che è informazione codificata), non necessariamente nella struttura mentale.

La critica che Fodor stesso ha mosso alle proprie concezioni di partenza è che la mente ha carattere olistico più che modulare; io direi, più semplicemente, che pone associazioni coerenti e finalisticamente utili, che non possono essere qualificate come sequenze deterministiche. La produzione di tali associazioni va cercata nei processi neurofisiologici, che implicano effettivamente correlazioni estremamente complesse tra i vari settori del sistema nervoso centrale; e può essere benissimo che il carattere olistico della mente, da Fodor ultimamente riconosciuto, rifletta le interazioni interne allo stesso sistema nervoso centrale.

Faccio osservare che la pressione dell’ambiente sull’organismo biologico, che deve essere una delle cause efficienti della “struttura mentale”, non può essa stessa essere equiparata ad un qualsiasi processo meccanico, tantomeno ad un algoritmo. Infatti, la selezione naturale non ha generato un solo tipo di essere vivente: vi sono milioni di specie, e la “coscienza”, qualunque cosa sia e ammesso che sia qualcosa, è solo un esito tra i tanti. Ignorare ciò significa camminare sull’orbita lunare, e oltre. Non c’è nessun discorso sul “senso dell’esistenza” che elimini questa constatazione. Un meccanismo, date certe premesse, sviluppa certe altre conseguenze. Ma l’adattamento all’ambiente ha prodotto un’enorme varietà di esiti, attraverso processi divergenti di interazione tra l’ambiente stesso - variabile nel lungo periodo - e gli organismi. Quindi, dietro la “mente” o “coscienza” vi è una particolare storia, cioè una storia possibile, ma non necessaria. Se la mente è prodotto di un processo possibile, in qualche modo incorpora tale possibilità. È vero che tale possibilità è coperta dalla irreversibilità del processo, che porta ad una varietà di tipi definiti. È anche vero che essa è già incorporata nei differenti esiti, cioè nella varietà delle specie. Ma la varietà delle specie rappresenta lo spettro delle soluzioni sereotipe: ogni individuo di ogni specie ha in sé un programma comportamentale, che pone risposte fisse a stimoli prefissati. L’insorgere della mente sembra però andare contro la specializzazione estrema, che implica, come ultima conseguenza, un comportamento affatto stereotipo, che assomiglia ad un algoritmo. La cosa più ragionevole è che la “mente” rappresenti piuttosto la possibilità di definire risposte differenziate alla varietà degli stimoli ambientali. La sua capacità di immaginazione, che si è sviluppata molto oltre il suo fine originario, sembra doversi esplicare mediante associazioni libere, piuttosto che attraverso processi vincolanti. Essa quindi recupera, in ogni singolo individuo, ciò che la speciazione aveva distribuito tra le varie specie: l’indeterminazione della risposta, la possibilità di porre in atto uno spettro indefinito di risposte adeguate e di operare motu proprio sul mondo.

Queste considerazioni non escludono affatto il concetto di una struttura mentale, o di un determinismo sottostante. Quest’ultimo è molto più probabile di quanto non sembri. Solo, non va identificato necessariamente nei processi computazionali.

 

 

Connessionismo

 

Concludiamo con i Churchland. (*)

(*) Patricia Churchland è professore(ssa) di Filosofia all’Università di S. Diego, California, dal 1984; specialista in filosofia dela scienza, neuroscienze, filosofia della mente, etica medica e comportamentale. Il suo punto di vista è che la comprensione della mente presuppone quella del funzionamento del cervello.

Paul Churchland, Ph. D. all’Università di Pittsburgh, insegna dal 1984 a S.Diego, California. La sua tesi centrale è la necessità di superare la psicologia del senso comune che descrive il comportamento in termini di opinioni e desideri del soggetto, in favore di una interpretazione basata sul funzionamento effettivo del cervello. Le tesi dei coniugi Churchland convergono sostanzialmente, e le considero una sola.

La loro posizione è più complessa delle altre teorie computazionali: essa include una premessa metodologica.

Secondo Paul Churchland, non vi sono osservazioni senza teorie [per esempio, un dato lessico determina la direzione lungo cui si orienterà l’analisi]; il dato empirico non è assoluto, in quanto riflette un insieme di pregiudizi; le teorie determinano ciò che osserviamo. Per esempio, lo stesso “senso comune” consiste di intuizioni, non di dati, e di fatto è modificabile; soprattutto, anche i giudizi fondati sull’introspezione derivano da teorie, sono teorie.

La correzione del senso comune implica la costruzione progressiva di un linguaggio più adeguato, non definito a priori, e neppure si deve partire da un paradigma consolidato derivato da altre scienze; la modellizzazione deve essere plastica, soggetta cioè ad adattamento e revisione, in modo da poter rappresentare al meglio il processo effettivo che ha luogo nel sistema nervoso centrale. A questo scopo, la miglior rappresentazione è quella della rete neurale. Questa è a tutti gli effetti un modello computazionale, cioè in ultima analisi un algoritmo, ma di tipo molto diverso, in quanto a complessità e modo di funzionamento, del software di un computer.

Tale revisione del “senso comune” applica il cosiddetto Materialismo eliminativo; nella sintesi di Patricia Churchland:

Molti aspetti delle idee tradizionali sul comportamento non sono adeguate alla sua reale eziologia; quindi le categorie psicologiche vanno riformulate, come è stato fatto in Fisica ecc.

Per esempio, i concetti di memoria, ragionamento, credenza vanno sottoposti a revisione; resta da vedere se categorie come “desiderio” ecc. hanno un sostegno nella realtà neurobiologica.

I descrittori di alto livello [cioè il lessico del “senso comune”] vanno quindi riesaminati in relazione alla effettiva attività del cervello, e sono passibili di revisione anche le più fondate intuizioni sulle funzioni della mente e del cervello.

Patricia Churchland definisce il programma dell’indagine nei seguenti termini.

1. un approccio globale al problema mente - cervello non è possibile, date le conoscenze attuali; esso va risolto per passi, mediante la risoluzione dei microproblemi in cui è suddividibile [approccio modulare].

2. Non sappiamo come le capacità complesse [superiori] siano attribuibili al funzionamento neuronale.

3. Non solo non comprendiamo la coscienza, ma nemmeno i processi che producono gli atti motori.

4. La consapevolezza è intrinsecamente più misteriosa del comportamento motorio.

5. Si deve assumere che le capacità della mente umana siano in realtà quelle del cervello; quindi è necessaria la comprensione dei meccanismi neurobiologici (riduzionismo) e non basta il profilo comportamentale; si devono capire i componenti di base e come essi costituiscono un sistema.

6. La ricerca va fatta su più livelli contemporaneamente, dal molecolare attraverso le reti, i sistemi e le aree cerebrali, fino al comportamento.

9. Certe proprietà del sistema nervoso sono proprietà di rete.

10. Il materialismo è molto probabilmente vero [non esiste cioè alcuna sostanza mentale o autonomia funzionale della mente rispetto all’organizzazione del sistema nervoso centrale].

11. È importante l’analisi del collegamento tra la perdita di funzioni specifiche e lesioni cerebrali.

12 .È possibile, dall’analisi delle conseguenze delle lesioni, escludere che certe parti del cervello siano la sede della consapevolezza [consciousness].

13. In breve, ci troviamo davanti un problema di non facile soluzione: trovare fenomeni psicologici che (a) siano stati approfonditamente studiati dalla psicologia sperimentale, (b) siano circoscritti da dati riguardanti lesioni in pazienti umani e in animali, (c) siano connessi con regioni cerebrali che siano state adeguatamente esaminate dalla neuroanatomia e neurofisiologia e (d) per le quali conosciamo bene le connessioni con altre regioni del cervello.

L’ipotesi di lavoro è che, se una persona è consapevole di uno stimolo, il suo cervello sarà per alcuni aspetti diverso rispetto alla condizione in cui essa è sveglia e attenta, ma inconsapevole dello stimolo.

La differenza fondamentale dalla CTM di Fodor è la sostituzione di un approccio “verticale” e modulare, basato fondamentalmente su un meccanismo invariante, simile a una catena deduttiva, con un modello nel quale un insieme di nodi (neuroni), interagendo attraverso una rete di connessioni, definisce uno schema autoregolabile in funzione degli stimoli esterni e interni, cioè una struttura algoritmica in grado di modellare plasticamente il proprio funzionamento (apprendimento e adattamento). Le strutture di tipo proposizionale-linguistiche (LOT) postulate da Fodor vengono sostituite da un modello olistico (connessionismo), basato su pattern di attivazione di tipo neurale, cioè sull’auto-organizzazione della rete. Ciò spiega molto bene l’impossibilità di localizzare esattamente la consapevolezza in una specifica area cerebrale (*).

(*) È ben noto che Cartesio pretendeva di identificarla nella ghiandola pineale.

La mente diviene quindi una immagine dell’organizzazione della stessa rete neuronale, e si passa da un problema del tipo “come è possibile il riferimento a un oggetto” a “come la rete rappresenta il mondo”. La rappresentazione del mondo è un prodotto evolutivo, e le basi delle attività cognitive umane non risiedono nel linguaggio, ma sviluppano forme elementari di percezione e comportamento animale.

Il connessionismo è una teoria computazionale, ma la sua metodologia (in linea di principio ineccepibile) e il concetto di rete neurale autoregolabile determinano un enorme salto di qualità, rispetto a ogni altro modello congenere. È da vedere, comunque, se la discretizzazione del funzionamento del sistema nervoso centrale sia sufficiente: questo sembra descrivibile in termini di impulsi elettrochimici e reazioni chimiche, che hanno sede nella rete neuronale, ma non sono completamente determinate dalla sua topologia (cioè, dallo schema delle connessioni). Per esempio, l’effetto delle droghe non modifica in generale la struttura geometrica delle connessioni, ma attiva o inibisce certe reazioni chimiche. Il problema di tutti i modelli computazionali è che essi non sono sufficienti a generare i processi chimici e fisici: il processo fisico, in un computer, ha una associazione forte, anzi totale, con l’esecuzione di una procedura, in quanto i bit corrispondono biunivocamente allo stato fisico dei suoi transistor ; questa associazione, nella rete neurale, intesa come insieme di neuroni, assoni, dendriti e relative sinapsi, non è così stretta. Una sinapsi può essere eccitata o inibita p. es. da sostanze stupefacenti, che interferiscono con le reazioni chimiche che realizzano la trasmissione interneuronica del segnale: di fatto, ciò modifica drasticamente la funzionalità di tutto il sistema.

 

 

Appendice

su alcuni processi logico-percettivi individuati in precedenza.

 

L’analisi del rapporto tra parola, senso e stato di cose ha evidenziato una frattura tra la direzione asimmetrica del rapporto “corretto”, cioè dalle cose e stati di cose ai segni che li denotano, attraverso la mediazione di percezioni e rappresentazioni, e la possibilità effettiva che l’inversione venga effettuata. Si è discussa la forma logica del problema, e una analisi formale tipo quella di Matte Blanco potrebbe essere, sotto questo aspetto, soddisfacente. La simmetrizzazione del rapporto, anzi la sua inversione, è stata categorizzata come “illusione”: il che richiede una “realtà fondamentale”, sede degli stati di cose, come postulato logico.

Uno sviluppo di questa inversione logica e percettiva è la costruzione di una serie di passaggi da condizioni e situazioni chiaramente percepite (per es., “si vuole qualcosa”) a un oggetto, in questo caso, una “volontà” come categoria universale e soprattutto come “oggetto reale”, entità che può condurre in ultimo grado alla Volontà. La questione è se questi passaggi possono essere risolti sic et simpliciter come errori o processi logicamente non necessari, o se vi sia qualche altra interpretazione, in termini più “concreti”: insomma, se la causa formale sia anche quella efficiente, o se questa vada cercata altrove, ammesso che vi sia.

In termini generici, si può intendere la questione in termini di corrispondenza tra figure logiche e causalità, o, se si vuole, tra forma dei processi reali e forma del ragionamento. La questione non è se i singoli ragionamenti riflettano le singole catene di eventi, presi singolarmente: è se si debbano distinguere, in generale, le strutture logico-discorsive e i processi reali, o se uno solo dei due poli sia consistente, e l’altro rifletta il primo.

Sembrerebbe, idealmente, che il ragionamento e in generale ogni forma logica debba riflettere la causalità intrinseca del reale. Questa è l’interpretazione più ragionevole, quella strumentale, per cui la logica serve per orientarci nel mondo. Ma la logica non è affatto strumentale: è una ars combinatoria che non ha affatto una origine empirica. A questo punto, sembrerebbe invece che il rapporto sia quello inverso. La logica strumentale è un sottosistema, individuabile, credo, solo in base alla sua efficacia: questa, riconosciuta in alcune strutture e non in altre, ne determina i limiti. Ma l’efficacia può essere comportamento adeguato (intelligente) al reale o azione sul reale, innovazione spontanea del soggetto. E l’azione sul reale vuol dire indipendenza dal reale, almeno fino a un certo punto.

Le funzioni cognitive, che rappresentano il reale, sono affini a quelle che coordinano l’azione sul reale. Queste seconde però sono meno rigide delle precedenti, dovendo includere la libertà d’azione (iniziativa) del soggetto, e questi non ne vede, se non attraverso riflessione o analisi indiretta, la differenza. Perché? Una spiegazione apparente potrebbe essere che in realtà il “pensiero” è anzitutto associativo (simmetrico) e diventa asimmetrico (sequenziale, deduttivo, orientato dalle premesse alle conseguenze) per la selezione operata dalle pressioni ambientali. Funziona, da un punto di vista formale. Ma storicamente il comportamento intelligente (consequenziale, distinzione tra causa ed effetto) dovrebbe precedere quello simmetrico, in sé non intelligente. E allora?

In effetti, fondamentalmente il comportamento intelligente, negli animali e forse anche nell’uomo, è in gran parte automatico. Esso si manifesta originariamente come istinto, non come evidenza, rappresentazione e riflessione cosciente. Probabilmente, l’estensione raggiunta dalla capacità di rappresentazione (cioè di memorizzare cose, stati di cose e soprattutto catene significative di eventi), cioè di richiamare immagini e soprattutto immagini correlate, che forse originariamente amplifica e integra il potere del comportamento istintivo, puramente reattivo, da un certo punto in poi pone nuove relazioni tra il materiale mentale, che non rispecchiano affatto le catene associative derivate dalla rappresentazione di catene di eventi realmente accaduti. Queste “nuove relazioni” potrebbero anche essere, in origine, errori di memorizzazione, o, meglio, variazioni e ricomposizioni dello stesso materiale memorizzato, dovute alla instabilità della stessa memoria. Alla “immagine del mondo” come copia del mondo si sovrappone una attività poietica che diviene predominante e che non separa, in sé, le catene consequenziali “intelligenti” da quelle simmetriche, illusorie. Questa, almeno, è una possibile spiegazione.

Il movimento ascendente, che da un insieme ricorrente di percezioni porta agli Enti (le “essenze divine”, avrebbero detto i neoplatonici), e che genera il pensiero contemplativo, potrebbe essere interpretato in termini puramente logici, se si amplifica al massimo il potere della stessa logica, cioè se questa riassume completamente il pensiero, come inversione della catena deduttiva che dalla realtà (insieme degli stati di cose) conduce alla sua rappresentazione cosciente. Ma si possono dare, e si dànno di fatto, altre “spiegazioni”, extralogiche. Per esempio, legate alla profondità della sensibilità, sensitività, moti affettivi e pulsioni, produzioni oniriche. Oppure gli Enti esistono, e anzi il mondo e gli io individui ne sono i frammenti, o le immagini. Non è il caso di discuterne; ma il movimento dalla “parola”, vista in autonomia, all’ “ente” e all’Ente, non avviene solo nel modo descritto.

Il potere evocatore del nome, anzi del Nome, è ben attestato in molte forme culturali; il primo comandamento ne è, pare, un riflesso. La parola magica, la formula magica, non descrive il reale, lo pone addirittura; almeno, così si può credere, e così si è creduto e si crede tuttora. La magia della parola è universalmente attestata e praticata, in forme molto diversificate ma simili, che sembrano originate da una radice comune.

Il mantra, per esempio. In che modo la parola diventa magica, cioè efficace? Difficile la risposta, se la si condidera solo sotto l’aspetto logico: che è quello prevalente nel mondo occidentale, il quale affoga nell’ipertrofia del discorso e dell’informazione. Che la parola sia solo questo, è evidentemente da escludere. Che abbia funzione oggettivante, è sicuro. Ma la funzione magica? È riconducibile a quella oggettivante? Ne dubito. Questa è ancora una funzione logica, che serve per riconoscere meglio l’ambiente e identificarne i dettagli, perfezionandone la percezione. Non “pone” alcunché, al più amplifica e precisa il lessico e potenzia il linguaggio.

Forse, la spiegazione, se c’è, va cercata nella parola come suono. È ben noto che una data successione di suoni (non una qualsiasi) può produrre degli effetti, che saranno estetici nel caso dell’ascoltatore occidentale (musica, canto… ) ma che possono andare ben oltre l’estetica così intesa. Gli effetti del suono, o meglio del ritmo, forse possono essere richiamati dalla parola. Questa mette in comunicazione con il “mondo spirituale” nel senso magico del termine, o almeno pone una “presenza”, evoca una presenza sulla cui realtà effettiva si dànno giudizi diversi a seconda del contesto culturale. Ma la diversità del giudizio, dove ha veramente sede? È nell’esperienza, l’origine, e ne viene la teoria, o viceversa la teoria crea l’esperienza? La relazione suono-parola indica una terza strada: la risposta sta in ciò che viene evocato. L’evocazione è possibile solo se si crede veramente che si possa evocare qualcosa o qualcuno, e questa credenza è una teoria; se non è accettata, ciò che viene evocato è classificato come illusione o allucinazione, e ogni ulteriore sviluppo è impedito.

D’altronde, questa interpretazione corrisponde, sembra, all’esperienza sciamanica del sacro. In questa situazione, la differenza tra teoria ed esperienza non viene percepita. Non è che non ci sia; il suo non riconoscimento dipende dalla qualità della percezione, quindi dal contesto culturale e sociale del soggetto, e da fattori forse non identificabili, che potremmo definire in termini di sensibilità, vocazione, stato di grazia, ecc., cioè attraverso parole che pongono un senso apparente. Qui veramente emerge l’irriducibilità dell’esperienza. La distinzione tra teoria ed esperienza può venire rappresentata e percepita come luce od oscurità, simmetricamente, determinando visioni del mondo e dell’essere assolutamente estranee ma che possono essere compresenti nello stesso individuo. In assenza del pensiero scientifico, la “realtà” comprende il mondo spirituale, inteso come presenza dello “spirito” nelle cose. La logica formale del “primitivo” non sarebbe diversa da quella odierna: ciò è perfettamente ragionevole, dato che riflette certe strutture fondamentali. Cambia però l’aspetto percettivo, e le “spiegazioni” sono quindi ben diverse. Il pensiero magico è la scienza primitiva. Seguiranno storicamente la sapienza, la filosofia in senso etimologico, la professione intellettuale e la scienza nel senso moderno del termine. Ma questi passaggi non distruggono completamente le fasi precedenti: semplicemente, le comprimono, emarginandole o reinterpretandole in quanto funzioni sociali, senza però eliminarle del tutto. Ne conseguono strane commistioni, come la teologia, la metafisica ecc. la cui stessa esistenza è, forse, proprio una prova della persistenza di un sostrato ineliminabile, genericamente definibile come “sacro”.

 

[Luglio 2002]

   

 

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