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LA FILOSOFIA COME MEDIATRICE DEL RAPPORTO TRA STORIA E RELIGIONE

Clericus

   

Sommario: 

Premessa - Necessità della Filosofia - Soggettività ed obiettività del giudizio - Qualche considerazione sulla Filosofia: prima parte - seconda parte - Il problema dell'obiettività: soluzioni logiche ed etiche - La Filosofia come valore - La comprensione è impersonalità - Indeterminazione del reale - Destino della Filosofia - Rapporto tra il pensiero discorsivo e il reale - Potenza della Filosofia - Punti di vista storici e a-storici - Il Dio Unico - alcune considerazioni - Ancora il Dio Unico - Validità di un punto di vista a-storico - Finis philosophiae

   

Premessa

ci vuole, in un’opera che si rispetti

   

Questo non è un lavoro accademico, specialistico, ma non ha neppure scopo divulgativo. Potrebbe essere definito una commistione di saggio e opera letteraria. È un percorso, non un sistema.

Il titolo ne rappresenta solo in parte il contenuto. In realtà, è una riflessione sul Pensiero e sull’Uno.

Nel precedente saggio sulla Religione e la Storia (*) il rapporto tra la religione e la storia è stato posto immediatamente, nel senso che gli strumenti dell’analisi, e le ipotesi che necessariamente regolano lo sviluppo di un discorso critico, erano in esso impliciti, o venivano posti e discussi - quando potevano essere oggetto di qualche obiezione fondamentale - all’interno del discorso stesso.

(*) Clericus - La religione e la storia. Problemi e ipotesi (maggio 2002)

Questo modo di procedere ha vantaggi, perché consente di proseguire più speditamente di quanto non si farebbe, se si dovesse anteporre al corpo centrale del testo un insieme di premesse terminologiche e metodologiche, e perché sistema gli strumenti dell’analisi proprio dove servono, evitando che restino inattivi per lunghi tratti dell’esposizione. Eppure, una introduzione generale ha essa pure un vantaggio: quella di esplicitare le ipotesi di base, che guidano il discorso, mostrandone la coerenza e l’orientamento. Questa scelta è obbligata nelle discipline matematiche, dato il carattere ipotetico-deduttivo del loro metodo. Il discorso critico può farne a meno, ma in tal caso dà spesso l’impressione di svolgersi in modo un po’ troppo libero, come se il pensiero dell’autore abbia trovato modo, di volta in volta, di sbrogliare certe difficoltà imbarazzanti escogitando di punto in bianco la soluzione. E infatti credo che molto spesso le cose procedano in questo modo: e sicuramente lo stesso avviene per le scienze esatte, dato che non si può certo pensare che i problemi e le relative soluzioni appaiano tutte insieme prima che il pensiero abbia dato corso a tutti i suoi sviluppi. Perciò, la prima soluzione è in un certo senso più autentica, in quanto ci offre non un sistema artificiosamente regolato secondo criteri imposti, ma lo stesso svolgersi reale del pensiero, con i suoi punti di crisi e i nodi centrali nell’ordine effettivo in cui sono stati posti. Ordine che non è sempre facile da cogliersi, quando non si tratta di deduzione, ma di associazione e affinità.

Il saggio precedente mi aveva lasciato in parte insoddisfatto, a causa della sua indefinitezza metodologica e della natura associativa e intuitiva di alcuni passaggi; e mi è sembrato necessario chiarire fino a che punto un processo mentale privo della guida di un metodo costante possa dirsi “obiettivo”. Ci sono sin troppe opinioni in giro, e non era il caso d’aggiungerne altre.

Ma proprio l’indagine sul pensiero “laterale”, congetturale, mi ha rivelato in modo più chiaro non solo la necessità delle associazioni logicamente non-necessarie (ché altrimenti neppure si comincia), ma la loro forza positiva.

Ciò che in un primo momento era parso imperfezione del discorso, connessione accidentale e indimostrabile, nella nuova prospettiva appariva come capacità creativa del pensiero, non produzione meramente personale, contingente, ma connessione che si pone da sé in virtù di operazioni che si fanno senza che noi ne siamo del tutto consapevoli, anzi forma del pensiero che può sondare l’indefinitezza del reale.

Sotto la pressione di certe forme culturali e della comunicazione (sofistiche e pubblicitarie) da un lato, e delle strutture tecnico-scientifiche dall’altro, si può finire col credere che il pensiero speculativo (non formalizzato e libero da interessi) sia debole. L’analisi della mediazione tra Storia e Religione mi ha convinto che in realtà è fortissimo.

   

Necessità della Filosofia

senza di essa non si procede

   

Da dove e come sorse veramente il Dio Unico?

Furono i recessi dell’incosciente, compresso dalle necessità del pensiero razionale, a fornire il materiale simbolico che, prendendo vendetta della ragione insorgente, le pose sopra un Principio inaccessibile? Fu la reazione a istanze materiali e sociali, manifestazione di una rivalsa contro l’ingiustizia, conflitto dell’uomo contro l’uomo?

O fu il pensiero speculativo stesso agli albori che, creando il labirinto dal quale mai più sarebbe uscito, arrestatosi di fronte alla visione spaventevole della perdita di sé nelle spirali dell’immensa costruzione, si ritrasse nella visione salvifica dell’Essere Uno, rifugio e certezza ultima?

O l’ampliarsi e il perfezionarsi dell’autocoscienza, portarono così in alto? O piuttosto la perdita definitiva di qualcosa che fu in origine, il desiderio di riappropriarsene - dato che il Dio Uno risiede nel Paradiso?

Fu la profezia, visione abbagliante e irresistibile, tanto più accecante nella tenebra del ritrarsi del sacro dal mondo?

O tutto ciò fu la sublimazione di mere questioni di potere, di lotte sociali, di interessi? Né Voltaire né Marx erano stupidi.

C’è solo un’obiezione che impedisce di accettare pienamente l’ultima conclusione: non si può costruire il Dio Unico con un decreto.

La risposta, se c’è, non la posson dare né l’antropologia, né la storia delle religioni, gli studi etnografici, la psicologia. Il materiale da esse prodotto è indispensabile per orientarsi. Ma solo la Filosofia intesa come libero pensiero speculativo può tentare la soluzione.

   

Soggettività e obiettività del giudizio

una questione spinosa

   

In che senso si può parlare di rapporto mediato tra storia e religione? Che i rapporti fra i singoli momenti del reale siano essi stessi reali, o mere costruzioni intellettuali, non importa molto: il fatto è che essi vengono colti e analizzati dal soggetto, e vi sarà pure qualche riferimento, qualche modalità, per non dire qualche metodo, che regola tali rapporti. Le relazioni possono sembrare immediate ed evidenti, e si può anche cercare di farle apparire tali; ma in realtà richiedono una mediazione, una serie di operazioni mentali che realizzi la sintesi in una costruzione teoretica compiuta. Non si creda di poter evitare questi problemi; qualsiasi discorsetto, anche assai semplice, nasconde un quadro teorico che può avere una lunga storia precedente. Evitarli significa semplicemente credere di averli risolti senza nemmeno esserseli posti.

L’analisi dei rapporti tra storia e religioni implica molte difficoltà. Bisogna operare delle scelte, spesso in base a indizi e teorie contraddittorie. Si può pensare che le religioni esprimano un contenuto sovrastorico, o che siano manifestazioni della psicologia, o riflesso di eventi materiali. Sembra che tutto si possa dire, e il contrario di tutto. E infatti tutto si è detto, e tutto è stato rimesso in discussione: basti considerare anche solo gli inizi della riflessione filosofica in Grecia.

Qui non intendo esprimere opinioni personali. Il punto di vista meramente soggettivo è inevitabilmente personale, e finisce col rivelare qualcosa del soggetto, non dell’oggetto del discorso. Ma è possibile parlare dell’argomento in termini obiettivi, ovvero neutri, impersonali? Per di più, della religione e della storia, la prima non facilmente definibile, non soggetta alla ragione discorsiva, e la seconda irriproducibile data la sua irreversibilità? La mia tesi è in positivo: l’obiettività è un centro di attrazione, un limite verso il quale può tendere il discorso, ma va intesa in un certo modo, che cercherò di chiarire. Il che non vuol dire essere scientifici, perché la logica che presiede a queste indagini non è propriamente quella delle scienze.

Le religioni implicano simboli, e le connessioni simboliche non sono certo di tipo scientifico: semmai, hanno qualcosa di onirico. In quanto alla storia, non risulta vi sia una formula che la determini. Per di più, i simboli operanti non sono “oggetti” che possano essere indagati dall’esterno. Possono essere oggettivati dall’indagine razionale, ma in tal caso non sono più simboli. È impossibile fare un’analisi razionale di queste cose senza dissolverne l’essenza. Qualsiasi analisi è necessariamente mediata da operazioni concettuali, e il risultato è in funzione di tali operazioni attive, senza le quali il risultato non c’è. È inutile andarlo a cercare nel “reale”: si spera che il reale sia razionale, e si procede.

In cosa consisterebbe l’obiettività? La risposta sembra essere bell’e pronta: anzitutto, non si deve discutere identificandosi nel solo punto di vista della religione, massime di nessuna in particolare, o di una ideologia, o di una particolare scuola di pensiero… il che è veramente un po’ troppo: è inevitabile assumere posizioni di principio, anche cercando di essere imparziali. In ogni caso, solo l’ingenuo può prendere sul serio una simile definizione: l’obiettività dipenderebbe dalle intenzioni del soggetto, dalla sua eticità: un bel fondamento di ciò che proprio dal soggetto non deve dipendere.

In realtà, difficilmente può esservi neutralità di giudizio se non si vuol essere neutrali. È difficile trovare un ago in un pagliaio, ma è del tutto impossibile se non si comincia neppure.

   

Qualche considerazione sulla Filosofia: prima parte

dove si accenna brevemente anche alla Storia

   

I rapporti tra storia e religione fanno parte della Filosofia a pieno titolo. E la Filosofia fin da Aristotele in Occidente pone la ragione a proprio fondamento. Durante il Medio Evo, e nei primi secoli dell’età moderna, era subordinata alla Teologia; ma, col declino di questa, assurse alla pretesa di porsi come sorgente della verità ultima, in particolare con Hegel. (*)

(*) Hegel è una figura centrale del pensiero razionale. Sotto molti aspetti, non può essere superato, nel senso che non vi sono posizioni più “avanzate”. Come, probabilmente, non si possono “superare” le religioni tradizionali, il Cristianesimo e l’Islàm. Per esempio, l’identificazione tra il reale e il razionale è una posizione ultima. È una posizione logica, che non implica il tempo: si può concordare, o si può regredire su posizioni meno avanzate. Non è una questione di verità o di attualità. Né è detto che la si debba interpretare secondo lo stesso Hegel, cioè attraverso la Dialettica. Se si concorda, si assume che il mondo sia completamente intelligibile, e può essere che esso diventi realmente trasparente alla mente, rivelando la sua struttura intrinseca. La Fisica teorica non avrebbe senso, se non fosse per questo principio. E nemmeno le analisi sui fondamenti della Matematica avrebbero avuto inizio, se non si fosse pensato che tali fondamenti fossero sondabili.

Se la massima espressione della volontà di costruire l’intero sviluppo del pensiero da principi logici e per principi logici è la filosofia hegeliana, la tensione verso l’assoluto logico, forma libera da ogni contenuto empirico, si sviluppa soprattutto nella Matematica, da Frege a Goedel attraverso Hilbert e il suo programma di dimostrare la coerenza dell’Aritmetica all’interno della stessa Aritmetica. Sulla stessa via si pone la ricerca di una teoria di Grande Unificazione, ovvero di un Universo auto-consistente (self-contained).

Che il limite estremo della conoscenza razionale non possa essere raggiunto, non ha importanza. Non c’è niente di più stupido che affermare a priori l’impossibilità di raggiungere un dato risultato, finché non si dimostri rigorosamente, all’interno dello stesso percorso, che tale risultato sia veramente inattingibile.

Certamente molti risultati, che apparvero possibili nel XIX secolo, non possono essere conseguiti: e vi sono prove certissime in proposito. Ed è verissimo che non fu realizzato proprio ciò che lo stesso Hegel voleva conseguire - cioè la deduzione del reale attraverso lo strumento logico, senza derivazione dal materiale empirico, insomma la piena realizzazione dell’Assoluto in Filosofia. Ma è un fatto che la Filosofia dopo Hegel regredisce. Vi sono filosofi notevoli dopo Hegel, e forse anche più profondi; ma non vi è, dopo di lui, alcuno che riesca a cogliere il reale nella sua unione col pensiero, in una visione totale, in una sintesi di logica e realtà. Salvo fino a un certo punto Marx, allievo e grande estimatore di Hegel. Dopo di lui, il pensiero si frammenta, gradualmente prima, poi sempre più rapidamente. Oggi non vi è una visione totale del mondo. Non vi è chi la possa realizzare. Può darsi che riemerga. Ma difficilmente sotto le forme della Filosofia.

Questa pretesa, che è uno dei cardini del mondo secolarizzato, esprime la prima fase della modernizzazione: fase nella quale la religione perde forza, ma ne conserva abbastanza da spingere le coscienze alla ricerca di altre spiegazioni totali della realtà. Il Romanticismo esprime questa esigenza di pienezza, e infatti spesso si risolve nella religione. Come lo esprime la filosofia, fino alla metà del XIX secolo. Ma ormai è troppo tardi; nella seconda fase, la visione complessiva si perde, il pensiero scientifico prevale, la forma tradizionale della filosofia non è più in grado di comprendere il mondo. Ma, per ragioni che bisognerà vedere, il suo campo non si esaurisce del tutto: non esiste una tripartizione temporale religione - filosofia - scienza. Questo è un mito. Che deriva dall’identificare nella Storia, anzi in un certo modo d’intenderla, un assoluto, quasi che tutto avvenisse al suo interno. Nulla dimostra che ciò che avviene nella Storia sia un prodotto della sola Storia, vale a dire che il processo storico sia autogenerato, o che la causalità storica sia immanente alla Storia stessa. I numeri hanno influito sulla Storia, ma non sono un prodotto della Storia. Né è un prodotto della sola Storia la “natura umana”, comunque la si intenda. In realtà, la tripartizione riflette semplicemente la struttura mentale, o piuttosto i suoi prodotti.

La coscienza individuale e collettiva è aperta a tutte le possibilità. È il mondo di queste possibilità che permette alla Storia di esplicarsi, di costituirsi in processo, affermando di volta in volta certe potenzialità e scartandone altre. Ma questo processo è uno sviluppo temporale; le sue forme non sono interne al processo non più di quanto il progetto di una casa sia nella casa stessa. La casa contiene il progetto, in un certo senso; ma il progetto fu posto prima della casa. E i progetti possibili sono infiniti, le case in numero finito. Identico il rapporto tra il processo storico - anzi qualsiasi processo - e le sue forme strutturali.

   

Qualche considerazione sulla Filosofia: seconda parte

nella quale si parla anche di logica

   

La forma logico-razionale della Filosofia costringe la libertà del soggetto entro certi limiti; il suo discorrere deve pure essere consequenziale e non banale. In compenso implica una costante tendenza a coagulare in sistemi, nei quali si pongono più o meno esplicitamente alcuni principi fondamentali, e dai quali si cerca di dedurre tutto il resto. Ne consegue che ogni analisi di qualsiasi cosa pone la cosa sotto la logica, le categorie e il lessico del filosofo, dato che la Filosofia non è impersonale come le scienze, ma è produzione in gran parte soggettiva, pur essendovi sempre qualcosa di universale, di eterno, di obiettivo in ogni posizione affermata e poi superata. In ogni sistema o corrente di pensiero il posto delle cose è predeterminato: sicché queste vengono a perdere la propria identità (il loro essere “in sé”, direbbe Hegel), per diventare momenti di una struttura, o di un processo che è la totalità delle cose e nel contempo il loro pieno significato. È inevitabile che sia così, la cosa in sé non è l’oggetto della Filosofia - e di nessuna indagine razionale che voglia scoprire il senso delle cose. Questa posizione si risolve nei diversi sensi che possiamo cogliere, secondo le diverse relazioni che consideriamo: è obiettivo che ciò avvenga, non necessariamente il modo in cui avviene. Non è certo nel singolo sviluppo proposto che si realizza l’obiettività, è nell’insieme delle diverse possibili sistemazioni e analisi.

Ma se si vuole cercare un fondamento meglio definito, è necessario usare strumenti più coercitivi, cioè quelli della logica (classica). Non è una soluzione ideale: la logica classica non si adatta molto bene alla Filosofia. È una forma astratta, non completamente applicabile a qualsiasi discorso non formalizzato; e la Filosofia può essere molto tecnica in quanto a terminologia e molto specializzata in quanto al lessico, ma non è compiutamente formalizzabile. Per esempio, la logica formale definisce una proposizione come una frase grammaticalmente corretta, dotata di significato univoco, vera o falsa. Non sono di questo genere tutte le frasi del parlare quotidiano e neppure tutte quelle della Filosofia. Sono possibili interpretazioni diverse, né tutti sono obbligati a concordare sul fatto che una certa affermazione abbia senso. L’“avere senso” può conseguire a scelte di fondo. “Dio ha creato il mondo” ha senso per il credente - se non altro potrebbe almeno significare che l’origine e il senso del mondo non sono comprensibili all’Uomo; e in tal senso il matematico Kronecker affermava che i numeri naturali sono opera di Dio (cioè originari, irriducibili a definizioni) mentre il resto della Matematica è opera dell’Uomo. Ma non ha senso da un punto di vista scientifico, né l’affermazione di Kronecker sarebbe sensata nell’insiemistica. Una affermazione può essere vera per un certo verso, falsa per un altro, dipendente come senso dal contesto… la logica delle proposizioni le tratta come unità atomiche. Il fatto è che quanto più uno strumento è analiticamente potente, tanto minore è la sua effettiva applicabilità.

Quanto segue utilizza la terminologia della logica. Se lo si interpreta in termini rigidi, si restringe il campo dell’applicabilità, ma aumenta la forza della conclusione. Se si operano ampliamenti del significato, in particolare per quanto riguarda il termine “proposizione” , avviene il contrario.

   

Il problema dell’obiettività: soluzioni logiche ed etiche

qui il pensiero arranca faticosamente

   

L’apparenza mostra che ogni giudizio è in qualche misura soggettivo, specie il pensiero critico; sono in qualche misura questioni personali la scelta dei termini, secondo quali significati impiegarli, quali ipotesi porre, quali fatti considerare, e come condurre l’argomentazione. Dove starebbe l’obiettività? Ma d’altronde: se la Filosofia non fosse altro che produzione soggettiva, affatto individuale, quale sarebbe la sua funzione? Il fatto stesso che esista, cioè che desti interesse, indica che vi debba pur essere qualcosa di impersonale, (*) di assolutamente valido, oltre al contingente del pensiero espresso. E anche l’esistenza stessa del linguaggio testimonia che vi debba essere qualcosa di obiettivo. Se così non fosse, non vi sarebbero idee, ma solo puro idiotismo.

(*) Assumo che obiettivo, neutro e impersonale siano sinonimi.

Quando non vi è certezza, si rimedia con opinioni e congetture. Intuitivamente, i due termini distinguono posizioni differenti come valore: l’opinione è qualcosa di personale, anche se largamente condivisibile, mentre la congettura denota piuttosto una possibilità, una eventualità, una situazione in sé determinata ma ignota. Tuttavia, non è esattamente in questi termini che possiamo porre la questione, perché la congettura, così intesa, esprime l’insufficienza della nostra conoscenza, che ci spinge a formulare ipotesi, salvo poi verificarle: questo concetto è adeguato alle scienze, certamente non al pensiero filosofico. La congettura scientifica opera in un quadro già ben definito, come logica e come linguaggio, e si può ammettere che un dato problema abbia una soluzione prima ancora di trovarla; non è questa la situazione della Filosofia, pensiero fluido che può sempre ripartire dall’inizio, e che deve ridurre a pensiero discorsivo, cioè a linguaggio, ciò che linguaggio non è.

Il pensiero filosofico è quindi solo opinione, e interessa come somma di produzioni soggettive o come aspetto di una data epoca storica ecc. oppure si può trovarvi qualcosa di più consistente?

Possiamo stabilire connessioni che non sono derivazioni nel senso proprio della logica formale contemporanea, e neppure di quella aristotelica. Di questo tipo sono le interpretazioni, cioè le traduzioni di un sistema di simboli o di rappresentazioni nel linguaggio di riferimento, i metalinguaggi ecc. Come esempio, l’interpretazione dei sogni. E sicuramente di questo tipo sono tutte le ipotesi formulabili sul rapporto tra storia e religione. In che senso e in quale misura tali connessioni sarebbero obiettive?

Si può formulare un abbozzo di soluzione, in termini logici.

Anche quando un’affermazione non possa essere dimostrata o non sia autoevidente o non sia una tautologia, e quindi sia potenzialmente soggettiva, può essere ridotta ad una forma obiettiva esprimendola come ipotesi. La neutralità di un giudizio non è la sua verità, in quanto al contenuto. Essa va piuttosto associata alla possibilità e il concetto di possibilità rimanda a quello di proposizione soddisfacibile. Ma una proposizione soddisfacibile, nel senso che può essere vera fino a prova contraria, è una congettura, e può essere un’ipotesi (formalmente, possono esserlo anche proposizioni non soddisfacibili) in un discorso le cui conclusioni saranno congetture. Elaborare congetture è perfettamente lecito, né vi è alcunché di personale o soggettivo nel formulare ipotesi, se non il fatto, assolutamente irrilevante, che ogni proposizione è necessariamente enunciata da qualcuno. La derivazione di una serie di conseguenze da una congettura - se condotta in modo logicamente corretto - è obiettiva, non ha importanza che la congettura sia vera. Quindi, qualunque esposizione ipotetica è neutra, nella misura in cui pone in rilievo connessioni obiettive. L’obiettività della Matematica è di questo tipo.

Perciò, qualunque discorso che si sviluppi deduttivamente da proposizioni soddisfacibili (nel senso che non può dimostrarsene positivamente la falsità) è obiettivo. Non interessa che l’ipotesi venga presentata esplicitamente come tale: lo è finché non si possiede la prova della sua inconsistenza.

Il vero problema è piuttosto che non sempre i ragionamenti, e in particolare le sintesi dei termini nel giudizio (proposizioni), sono sviluppabili deduttivamente: questi o sono empirici - e allora possono considerarsi obiettivi - o sono posti attraverso una connessione non necessaria. L’associazione libera è posta dal soggetto. Ma tale connessione è pur sempre una congettura, né può escludersi che sia vera almeno sotto qualche aspetto, il che non nuocerebbe alla sua obiettività. Si prenda la dialettica, per cui si ragiona in termini triadici: tesi, antitesi, sintesi. Formalmente, essa equivale a ipotizzare che vi sia un ordine ciclico tra un primo, un secondo e un terzo termine, che il secondo neghi il primo, e che il terzo sia negato a sua volta. Le connessioni così istituite potrebbero non essere necessarie in senso strettamente logico, anzi sono congetturali, e sono obiettive. Così come è congetturale il ruolo che, nella dialettica, si assegna a un concetto. Non vi è nulla di personale in queste costruzioni: sono teorie, anche se possono essere soggettivamente refutate o accolte, proprio in virtù del loro carattere fondamentalmente ipotetico. Deve essere chiaro che questo carattere non è stabilito da colui che ha formulato il sistema: è intrinseco, come è intrinseco, nella Matematica, che una proposizione sia o no un teorema.

Ma allora quale sarebbe la differenza dalla Matematica? In questo, che un sistema ipotetico-deduttivo può essere formalizzato, il che ne espelle senso e significato, riducendolo a sistema simbolico. In tale struttura semanticamente indefinita, sussistono solo i termini (simboli), e la loro derivazione logica secondo regole stabilite. Che i simboli denotino verità autoevidenti, congetture, o contraddizioni, non è contenuto nel sistema. Ma la filosofia opera coi significati, ed è inevitabile che i giudizi siano veri, falsi, o congetturali. È fondamentalmente indifferente che siano veri o solo congetturali. Inoltre, e qui sta la vera differenza rispetto alla Matematica, sono congetturali anche le connessioni logiche, cioè la coerenza stessa del discorso. La dialettica potrebbe essere un esempio, sia in Platone che in Hegel. Anzi, la vera potenza della Filosofia sta proprio in ciò, ché lo stesso svolgersi del pensiero è fondamentalmente congetturale. La verità non può essere colta dal pensiero attingendo all’interno (con esclusione, credo, delle sole tautologie); deve essere riconosciuta, rivolgendosi all’esterno. In questo sta la creatività del pensiero, di porre congetture sul piano della sintesi e di produrre immagini e fantasie, sul piano del contenuto.

Perciò, in un certo senso, il Filosofo è un artista, anche se ricerca la “verità”.

Il lettore attento non si sarà lasciato sfuggire il punto debole di una soluzione logica, anzi di ogni soluzione logica: il suo carattere formale. La logica combina le parole (ha carattere sintattico), ma non ha contenuto, e non definisce la causalità. Le scienze trovano soluzioni parziali ma progressive (le basi furono poste dai grandi fisici e matematici del XVII secolo, Galileo e Newton in particolare), la Filosofia non può riuscirvi. Infatti si esprime mediante la parola, e il discorso non predefinisce alcuna causalità, cioè nessuna connessione interna del reale. Il discorso può raffigurare stati di cose, come può essere pura invenzione.

   

La Filosofia come valore

in quanto nasce come istanza etica

   

Anche qui, si può tentare una soluzione, questa volta di tipo intenzionale: la Filosofia assume che il “reale” non sia conosciuto, e ne sonda la struttura, avvalendosi delle forme del discorso, ma deve ricostruire o riscoprire le relazioni tra i momenti del reale. La Filosofia, nel momento in cui assume che il reale non sia noto, respinge le interpretazioni mitiche e simboliche: le prime, perché concettualmente insoddisfacenti, le seconde, perché non discorsive, non completamente afferrabili con la parola. Ma respinge anche gran parte di se stessa, e può sempre ripartire dall’inizio.

Vi è una scelta, all’origine di ogni filosofia, come c’è nella scienza, e questa scelta implica la ricerca razionale, separandosi dal mito e dalla tradizione.

Le origini della Filosofia sono etiche. Questo è vero sia in Grecia che in Cina. I primi filosofi ebbero fama di sapienti; Pitagora definì se stesso “filosofo” in quanto cercatore della sapienza.

La scissione tra logica, fisica, metafisica ed etica risale ad Aristotele, che riconosce nella forma del ragionamento una condizione necessaria per ottenere la conoscenza. Con ciò, il pensiero razionale assume piena autonomia: Aristotele è uno scienziato, nel senso attuale del termine. In Platone, il discorso è ancora un mezzo espressivo: la conoscenza non può essere raggiunta attraverso il pensiero discorsivo. Si pensi alla maieutica di Socrate e al fatto che in greco “sapere” equivale a “vedere” , “avere visto” .

Il fondamento etico è ben visibile nelle fasi di ricostruzione del pensiero filosofico.

Fichte pone alla base della sua filosofia esigenze etiche. Lo stesso vale per Hegel, nonostante il tecnicismo e l’astrattezza del suo sistema. E anche per Marx, giacché la scelta rivoluzionaria è etica, anche se l’analisi marxista considera fondamentali l’economia e la struttura sociale.

In effetti, il ruolo attualmente preponderante assegnato all’opinione - per cui, al limite, chiunque può dire ciò che gli pare - rispecchia una sostanziale indifferenza nei confronti dell’etica, che è lasciata alle scelte individuali.

Non vi è in ciò nulla di obiettivo, se non il fatto di operare una ricerca. Chi esprime un’opinione non opera una ricerca, ma afferma il proprio ruolo. Ciò si vede molto bene quando si considerino espressioni come “la mia opinione” ecc., che attestano esplicitamente il carattere quasi di proprietà del rapporto tra il soggetto e il suo giudizio: l’opinione è un fatto sociale, privo in sé di valore cognitivo, una forma delle relazioni tra persone.

   

La comprensione è impersonalità

questo capitolo non ha sottotitolo

   

Infine, potrei porre un’ulteriore considerazione, ovviamente congetturale. La comunicazione richiede l’oggettività del linguaggio. Se il linguaggio fosse solo personale, non potrebbe comunicare alcunché, e perderebbe la sua funzione originaria, anzi la propria essenza. Ma dev’essere oggettivo anche ciò che esso denota, altrimenti nulla verrebbe comunicato. E cos’è il pensato, se non ciò che il linguaggio denota? Come il pensato di un altro può essere colto in forza della sua comunicabilità, così il pensiero che lo ha posto può essere compreso da un altro. Può, perché non si tratta di transizioni automatiche. Ma ciò che ho detto ci costringe ad una correzione: se il comunicabile è il comune, anche il comprensibile è comune, cioè fondamentalmente impersonale. È vero che la comprensione fallisce spesso, ed è plausibile che ciò accada perché nel pensiero vi è qualcosa di personale. Ma la forza di questa obiezione è nulla, se paragonata alla possibilità che io individui diversi si comprendano, e non solo sul piano razionale. In realtà, la stessa parola comprensione suggerisce la soluzione: comprehendere significa “afferrare”, fare presa “con”, realizzare un’unione con il “dato” o il “detto”.

Ma io credo che non si possa “afferrare” un bel niente, se si tratta del pensato. L’immagine deriva da un’analogia parziale; si afferra il concetto come ci si impadronisce di qualcosa. Ma io credo che il “pensato” non possa venire afferrato, quasi si trovi quale oggetto di fronte a noi, per il semplice motivo che oggetto non è. Il pensato è soggetto, una fase del soggetto, o il soggetto è un sentiero che si muove nel paesaggio del pensabile, toccando ora quest’immagine, ora quel costrutto. E neppure è detto che il pensato sia memoria. Non siamo registratori passivi del divenire. O da dove sorgerebbe la funzione onirica? Si consideri che noi sogniamo sempre, anche da svegli. Che la realtà sia colta nello stato di veglia, questa sì che è congettura, anzi opinione culturale neppure ben fondata. Il pensato è compreso perché è latente in noi. Si rifletta sulla maieutica di Socrate.

Vi è un rischio, in tutto ciò. Il sogno è illogico, paradossale, contraddittorio; e così l’universo del pensabile non contiene solo costrutti coerenti. Può formulare paradossi, produrre contraddizioni, generare situazioni autodistruttive. L’estrema difficoltà di cogliere la verità mediatamente non nasce dalla presunta “debolezza” del pensiero; al contrario, nasce dalla sua forza, che è la sua indefinitezza, il caos originario. La verità come risultato si costruisce per forza di levare.

   

Indeterminazione del reale

reale: da res, “cosa”

    

Ma vi è un altro aspetto, a mio avviso molto più significativo, sotto il quale la Filosofia, pur essendo essenzialmente ipotetica, può esser definita obiettiva, e ha il suo fondamento proprio nel carattere non vincolante del pensiero. Il pensiero non si svolge, è ovvio, secondo uno sviluppo necessario (può darsi che la sua produzione sia deterministica, ma non ne abbiamo alcuna consapevolezza).

Perché mai il pensiero non si svolge secondo un processo necessario? Dovrebbe essere più adeguato a cogliere il “reale”. E proprio qui è il punto: perché la sua efficacia sta nella sua attività autonoma rispetto al reale, cioè nella creatività. Un pensiero che si limiti a riprodurre le forme del reale non sarebbe in grado di costruire neppure un utensile, dato che gli utensili sono dei manufatti. Anzi, non sarebbe neppure in grado di fare delle previsioni, se non in modo strettamente induttivo, cioè per automatismi, ammesso e non concesso che un automa pensi. Perciò, il congetturale sempre presente nell’atto del pensiero è il suo punto di forza. Separare il reale dal congetturale - cioè convergere verso la verità - è compito del pensiero scientifico, che d’altronde non può operare se non selezionando delle congetture. E anche il pensiero filosofico si è svolto storicamente selezionando delle congetture: solo che anche la selezione è stata congetturale.

Ma allora, dove è la sua consistenza, solo nel mondo del possibile? Veramente non può darsi una risposta, perché questa è nello stesso reale. Se il reale è definito, c’è differenza tra ipotesi e verità, e la Filosofia è una forma provvisoria, la forma del pensiero che rimane chiuso nel possibile finché non si trova un’altra via d’uscita. Molti problemi, che furono oggetto della Filosofia, lo sono ora di qualche scienza. Ma non è detto che il reale sia definito o, anche se lo fosse, che sia trattabile, né che si manifesti allo stesso modo nei confronti di ogni io individuo.

Anzi, tutt’altro: concretamente, il reale è pluralità prima ancora che totalità. Altro è la sua unità originaria, che è realmente un postulato, altro il suo operare nella coscienza individuale. E allora, l’indefinitezza del pensiero creativo, non necessario e quindi congetturale, rispecchierebbe lo stesso reale, nella pluralità degli aspetti che il soggetto coglie. Sotto questo aspetto, sembrerebbe quasi che obiettività e soggettività convergano: le differenti posizioni, sistemi, teorie, riflettono coerentemente l’oggettiva pluralità del reale, l’impossibilità intrinseca (forse), estrinseca (sicuramente) di chiuderlo in una formulazione concettuale finita e definitiva. Il reale sarebbe razionalizzabile in infiniti modi, e sotto questo aspetto il pensiero congetturale ne coglie l’intima natura.

   

Destino della Filosofia

se riesce, muore.

   

Non è da stupirsi se a questo punto il povero lettore, che forse s’aspettava qualche soluzione bell’e pronta, trovandosi di fronte all’affermazione per cui tutto sommato le congetture sono più reali della verità, non si chieda se non sia il caso di smetterla con le sottigliezze verbali, e non sia meglio dar luogo alla autenticità, alla sincerità, alla spontaneità del soggetto. Non è che la verità debba riconoscersi nella genialità? E in effetti i Romantici, frastornati dall’insorgere dell’illuminismo che tutto rimetteva in discussione, e dal criticismo che appunto criticava ciò che gl’illuministi ancora avevano lasciato in piedi, finirono spesso con esiti siffatti.

Soluzioni del genere vanno bene per l’arte, e infatti la pongono alla sommità dell’attività creativa, insieme al sentimento; ma la Filosofia non è arte, in quanto è pensiero autoriflesso. Il pensiero è duplice: c’è l’atto originario e c’è il pensato. Il primo ritorna a sé attraverso il secondo, e a sua volta media tra i momenti di questo (le “rappresentazioni”). Le arti figurative operano su un materiale grezzo concreto e realizzano un sinolo tra l’atto creativo (non necessario) e la materia informe. Il poeta non agisce sul materiale fisico, bensì su immagini e suoni, ma non vi è sostanziale differenza; infatti si parla di arte in entrambi i casi. Il prodotto dell’attività artistica è ben separato dall’atto che lo pose, insomma l’arte oggettiva i suoi prodotti, sia pure a livelli diversi. Ma il pensiero non ha una materia veramente esterna su cui operare, producendo oggetti altri da sé; la sostanza la trae dal suo stesso contenuto, giacché lavora plasmando le sue stesse rappresentazioni e costruzioni. Quindi esso non è giustificato dalle sue produzioni, e deve cercare la sua legittimità dentro di sé, attraverso di sé e finendo in sé. Tale processo mai non s’arresta, e si autogiustifica come ricerca della verità, scambiando curiosamente la propria autolegittimazione con lo scopo. Raggiunto il quale, non ha più ragion d’essere. (*) Per questo la “verità” della Filosofia è così lontana, mentre dovrebb’essere vero ciò che è assolutamente evidente, luminoso. (**) Di nuovo, la parola greca per “sapere” è una guida sicura, non solo una conferma.

(*) Per quanto mi risulta, solo Hegel e Wittgenstein hanno affermato che la Filosofia era giunta ad una conclusione definitiva. I seguaci del primo, morto il Maestro, lasciarono libero campo a chi la pensava diversamente. Il secondo ebbe un ripensamento, e ricominciò a filosofare.

(**) C’è qualcosa in comune, tra la strada interminabile che conduce alla “verità”, e l’attesa indefinita del Regno messianico, del Paradiso, della palingenesi umana. Non so se siano mere somiglianze, o simboli in forme diverse della stessa intuizione, che ciò che in origine era ritorni alla fine, oltre la fine.

E allora il pensiero razionale (più esattamente, razionalizzato), che non può raggiungere la “verità” perché essa lo estinguerebbe, non volendone morire, deve ripiegare verso qualcosa che, pur non essendo la verità presunta, neppure è la pura soggettività, altrettanto presunta. È inutile girare intorno alla questione, la conclusione è evidente a questo punto: i due poli opposti sono essi stessi delle congetture, anzi sono le vere congetture, mentre reale è il punto di arresto dell’oscillazione, e può essere esso solo l’ipotesi.

Si rassegni pure il lettore, non c’è altro esito del pensiero discorsivo.

   

Rapporto tra il pensiero discorsivo e il reale

il pensiero pensa se stesso - se ci riesce

   

Deve essere chiaro che non c’è neppure rapporto diretto tra il pensiero discorsivo e il reale (*). Ci può essere tra la logica e il reale, ma il pensiero in atto non è la logica, né è detto che sia regolato da essa. La sua sostanza sono le rappresentazioni (che possono affiorare alla coscienza) e le funzioni che operano effettivamente sulle suddette rappresentazioni, legandole secondo modalità che il pensiero può solo ipotizzare ma non rappresentare, essendo esse la vera sorgente delle strutture mentali, precedenti lo stesso pensiero. Che questo sia autogenerato, in sé autosufficiente, è pura idiozia.

(*) Forse un simbolo impressionante di ciò che intendo è lo stesso Logos gnostico e del IV Vangelo, che alla lettera è “la Parola”, ma non quella del discorso, piuttosto quella originaria, inesprimibile, cioè lo stesso atto del pensiero creativo.

È impossibile ridurre questo simbolo alla forma discorsiva, perché ciò a cui allude è anteriore a qualsiasi discorrere. Ciò è detto chiaramente, all’inizio del Prologo del IV Vangelo.

E forse anche la profezia, che rivela la parola del Dio, simboleggia la stessa intuizione. Infatti, gli dèi o Dio sono il reale, e la parola divina non è parola umana. Anzi, si esprime in forma sconnessa, o sibillina, o per parabole. Tra il livello dell’umano discorrere e la sapienza divina vi è uno spazio incolmabile.

Né le rappresentazioni né le funzioni operanti precoscientemente sono elementi del discorso. (*) Questo denota, o meglio attraverso di esso si cerca di denotare, sia le rappresentazioni (semantica), sia le operazioni preconsce su di esse (sintassi); il denotare è però funzione del linguaggio e non coincide necessariamente con le associazioni che a vari livelli si producono precoscientemente. Infatti il linguaggio, nel quale si cerca di fissare il pensiero discorsivo, deve soddisfare delle esigenze pratiche di concisione e funzionalità: non è certo costruito per soddisfare la sete di verità o la voglia di scrivere. Il linguaggio è anzitutto comunicazione, e si regola spontaneamente secondo le esigenze di quella, non secondo quelle del “reale” o del “pensiero filosofico”. La sua autonomia dal pensiero reale (le immagini e le operazioni effettivamente compiute) non è solo un prodotto storico la cui genesi è, in parte, riconoscibile e ricostruibile, essa è invece fondamentale; ma è un’autonomia provvisoria, nel senso che lo stesso pensiero cerca incessantemente di porre il discorso sotto il proprio controllo, né il linguaggio lascia fare: anzi resiste, per la forza della tradizione, e in difesa della propria funzione originaria.

(*) Non voglio esibire prove. Mi limito a questa citazione:

“Che cos’è precisamente il “pensiero”?… quando una certa immagine ricorre in molte di queste successioni [in cui ciascun termine ne richiama un altro], allora - proprio attraverso questa iterazione - essa diventa un elemento ordinatore… diventa uno strumento, un concetto... Non è affatto necessario che un concetto sia connesso con un segno riproducibile e riconoscibile coi sensi (una parola)... Tutti i nostri pensieri hanno… natura di libero giuoco con i concetti... Per me non c’è dubbio che il nostro pensiero proceda in massima parte senza far uso di segni (parole), e anzi assai spesso inconsapevolmente” (Albert Einstein,  Autobiografia Scientifica, trad. di A. Gamba).

   

Potenza della Filosofia

tra la religione e la scienza

   

La Filosofia è attività creativa. Per certi versi, si pone tra Religione e Pensiero scientifico. È simile alla fase liquida della materia, nei confronti di quella solida e della gassosa. Queste difatti sono stabili: se non s’interviene dall’esterno permangono per un tempo indefinito, mentre quella non lo è. La fase liquida ha qualcosa d’ambedue le altre, l’incomprimibilità del solido e la mancanza di forma propria dell’aeriforme. Soprattutto, è instabile; non può esistere a pressioni troppo basse, e per lo più tende ad evaporare spontaneamente. Così è instabile e provvisoria la stessa Filosofia. Fu la pressione dei mutamenti sociali a farla sorgere, ché altrimenti saremmo ancora al mito e agli dèi antropomorfi, se non al Grande Coniglio (*) o qualche altro totem; e quando la sua consistenza vien meno, si dissolve nel pensiero scientifico, o si rapprende nelle forme della religione. Riducendosi sempre di più il suo campo - data l’invadenza delle discipline scientifiche, che ampliandosi e potenziandosi ne comprimono il raggio d’azione - procede secondo forme discorsive sempre più astruse, e sempre meno significative. Tuttavia, questa forma di pensiero non può del tutto esaurirsi, in quanto raffigura meglio delle altre l’incertezza del reale, e anche in virtù della sua posizione ambigua, che le consente di mediare tra altre istanze in sé meglio definite.

(*) Esiste. Presso i Micmac e i Passamaquoddy, tribù della nazione Algonchina, il Coniglio godeva di grande prestigio. Per i Maya, era l’animale domestico della Divinità della Luna.

Come solitamente si passa dalla fase solida a quella aeriforme attraverso la fase liquida, così la Filosofia è intermediaria tra la fissità della Religione (non è forse vero che una figura ieratica è un simbolo dell’ immobilità?) e la fluidità del sapere scientifico, sempre aperto a nuove soluzioni.

La forza della Filosofia è che può ripartire sempre dall’inizio, senza vanificare se stessa. Per la religione e la scienza vi sono punti fermi: il dogma e le teorie. Le scienze evolvono, ma incorporano molto del materiale precedente.

Ma la Filosofia procede negando le posizioni già raggiunte, riformulando di continuo se stessa. Il filosofo pone a se stesso il problema e, se è abbastanza abile nel plasmare il linguaggio e nello sviluppare costrutti, troverà la via della soluzione. È la Filosofia che giudica se stessa, in quanto solo il pensiero è giudice di se stesso. Per il semplice motivo che un giudizio è pensiero. È nella Filosofia che il pensiero esplica tutta la sua potenza.

   

Punti di vista storici e a-storici

illusione o errore?

   

Non si può parlare della religione senza considerarne le fasi storiche. Le religioni non furono, in un lontano passato, ciò che sono ora, né le religioni attuali esistono da sempre. La presenza costante del sacro nella Storia non implica l’invarianza della forma. Né il dogma sussiste concretamente dall’inizio dei tempi: esso è stato formulato storicamente, e non senza contrasti, né si può con assoluta certezza sostenerne la purezza dagl’interessi mondani; anzi, è più verosimile il contrario. E neppure le strutture gerarchiche sono rimaste immobili; l’autorità del Papa è mutata nel corso del tempo.

Tutto vero e molto persuasivo, ma prima di affrettarci alla conclusione per cui la religione riflette le circostanze storiche o addirittura non può essere colta se non come Storia, sarà meglio esaminare se vi sono obiezioni, e quale sia la loro forza.

Il lettore non dimentichi quanto detto sinora. Il pensiero è congetturale, e può escogitare molti, molti ostacoli anche sulla strada apparentemente più piana e sicura. Inoltre, non c’è un giudice esterno. Il giudizio sorge dall’interno del discorso. Non si può vedere la Storia dall’esterno. Tutto ciò che si dice della Storia e sulla Storia è nella Storia.

La prima (e grave) obiezione è che uno spirito religioso non vede, anzi non può vedere la religione come prodotto storico. È inutile rammentare che poche righe fa s’era detto che le religioni non possono essere considerate a prescindere da istanze storiche ecc.: per il semplice fatto che, se non si accoglie il punto di vista religioso, la religione non c’è. La visione religiosa del mondo presuppone l’eterno, non la Storia. È il contrario, dall’eternità originaria e trascendente nasce la Storia, cioè il mondo. Che cosa vorrebbe sostenere l’ipotetico contro-obiettore, che si deve analizzare una cosa negando la posizione che rende possibile la cosa? E allora, da dove viene la cosa? Non c’è, evidentemente, è illusoria. Il pensiero è congetturale, e accettiamo pure che la religione sia illusione: l’oppio dei popoli, l’instrumentum regni, l’ignoranza obbligatoria, la ciurmeria, la follia sono invero interpretazioni effettivamente proposte sia a proposito di una religione in particolare, sia della religione in generale. Né ne mancano i motivi.

Di più: questi giudizi così teneri sono formulati proprio dai seguaci di una religione contro quelli di un’altra religione. Ancora oltre: dai credenti di una particolare religione contro altri credenti della stessa, per via di qualche differenza. Le vere guerre di religione non sono quelle tra Islàm e Cristianesimo. Anzi, dubito che ve siano state, salvo forse le Crociate. E anche nel caso delle Crociate, non è forse vero che i “Latini” nella quarta, cioè nel 1204, assalirono Costantinopoli costituendovi l’Impero Latino in Oriente? La “guerra” di religione, cioè la strage voluta da Dio, è anzitutto contro gli eretici e gli scismatici. Ciò vale tanto per l’Islàm che per il Cristianesimo.

Se si ragiona in base all’etica, o almeno in base ad un’etica che non preveda il massacro, si può perfettamente accettare un punto di vista completamente negativo nei confronti di molte forme religiose. Se l’albero si giudica dai suoi frutti (*), ebbene non sembra essere di gran valore. Non solo: ma la vocazione alla distruzione dell’altrui credo non è il solo difetto di certe religioni, che rivendicano per sé attributi di perfezione e di umanità, nonché le chiavi di accesso al Paradiso. Non c’è solo il delirio di onnipotenza, la cecità e le malattie mentali interpretate come segno del divino. C’è anche l’imposizione dell’ignoranza obbligatoria, e non solo delle scienze, ma delle stesse fonti della tradizione religiosa. È inutile tirar fuori giustificazioni: è facile giustificare qualsiasi cosa, se si fa appello al pensiero. Il pensiero può tutto. È il Logos che crea il mondo.

(*) “Non est enim arbor bona, quae facit fructos malos; neque arbor mala, faciens fructum bonum. Unaquaeque enim arbor de fructu suo cognoscitur” - Luca 6,43 .

Attualmente c’è una certa indulgenza nei confronti delle religioni. Salvo incorrere in qualche incidente, come s’è visto. Non c’è da farsi illusioni: le religioni storiche sono simboli dell’Assoluto, e non c’è luogo fuori dall’Assoluto. Non è questione di cultura né di atteggiamento né di coscienza. È inutile credere che si possa plasmare definitivamente l’io individuo: non c’è una trasformazione irreversibile dell’io individuo. Ci sono trasformazioni storiche, ma sono solo mutazioni ambientali, non della coscienza collettiva nella sua potenziale indefinitezza. Questa può regredire, né c’è bisogno di una religione, s’è visto nel XX secolo.

Proprio in questo sta il punto; a che serve affermare l’illusorietà della religione, se questa ha in sé la forza che le viene dalla pretesa di attingere al trascendente? Dove sta l’illusione, nel particolare credo religioso? nelle rappresentazioni, nelle manifestazioni rituali, nei miracoli, nel dogma, e così via? Se questi elementi sono illusori, com’è che sono efficaci? Il pensiero sarà pure libero, e ammettiamo associazioni non dimostrabili proprio per poter parlare di religione: ché diversamente manco potrebbe iniziarsi il discorso. Ma non è il caso di esagerare. Ciò che è efficace non è illusione in nessun dizionario.

Dunque, c’è un problema. La religione è veramente tale, solo se si accetta un punto di vista religioso, cioè a-storico o, meglio, sovrastorico. Lasciamo stare il trascendente: razionalmente, è solo un’ipotesi. Basta il sovrastorico, che impegna di meno. Se no, è illusione. Ma le illusioni non hanno efficacia, quindi è illusorio che sia illusione. Cioè è reale. Può essere un errore reale, invero madornale, il più grave della Storia: e gli errori vi sono, e possono avere conseguenze concrete.

Non c’è via d’uscita: le religioni non sono forme che rimandano ad altro. Sono centri di attrazione assai efficaci. Possono essere errori? Sicuramente tutte meno una, dal punto di vista di molte religioni storiche.

Non è possibile, ovviamente, stabilire se lo sono o no. Qui il pensiero non riesce a decidere, in virtù della forza della logica. L’errore è tale solo all’interno di un sistema che separa vero e falso. Non c’è vero errore (paradossale? ma si chiede proprio di ragionare in questi termini, quando si giudica qualunque cosa come errore) in una logica che ammette vero e falso o né vero né falso. Perciò, la religione è errore solo per un sistema che abbia tutt’altri principi, ma in opposizione a quelli della religione. Non basta una verità a-religiosa, ce ne vuole una anti-religiosa. E ve ne sono anche - se pur sono delle verità, e hanno avuto seguito: anzi ce l’hanno.

Ma c’è una cosa, che non convince del tutto. Se la religione è un errore, nato con la Storia, nella Storia, a causa della Storia, allora la Storia fa errori. Anche qui, bisogna intendersi. Il punto di vista per cui la Storia è assoluto - lo storicismo - non dovrebbe ammettere errori della storia. L’errore, in questa prospettiva, non ha veramente luogo: come non ce l’ha in Hegel. Gli errori nascono da posizioni particolari, che non colgono l’insieme, vale a dire la concatenazione necessaria tra i suoi momenti: e dato che l’errore avviene nella Storia, esso ne è un momento, e ha una sua ragion d’essere. È un errore necessario, e ci vuol poco a passare dall’errore necessario ad una verità non riconosciuta. Capito? Torquemada in qualche modo aveva ragione, anzi impersonava una necessità storica… che dico? era la Ragione in quel particolare momento storico, l’Astuzia della Ragione direbbe Hegel, che, chissà perché, raggiunge i suoi scopi in modo un po’ tortuoso e misterioso.

D’altronde, se non nasce nella Storia, da dove nasce? Fuori dalla Storia? Allora, è originario: e di nuovo, non è vero errore. L’errore dovrebbe essere momento secondario, negazione di ciò che è.

Non c’è modo di definire la questione, fino a quando si ragiona in questi termini. E peraltro uno spirito religioso non passa certo il tempo a sterminare gli altri, anzi la riflessione sull’errore e sul male nasce proprio nel contesto religioso. Ed è un po’ difficile sostenere che il male nasce dalla Storia e nella Storia. Anzi, proprio da un punto di vista religioso fu il male a dare vero inizio al mondo.

   

Il Dio Unico

Perdio, c’è un errore.

   

Qui siamo giunti a un punto critico, che chiama a gran voce per una risposta. A che serve il pensiero speculativo, se non dà risposte?

Insomma, c’è o non c’è errore? Le religioni sono vere nel senso semplice, comune del termine, o ci si deve appellare ad una verità d’altra natura?

Potrei rispondere senza compromettermi che le religioni offrono vie di salvezza, né importa molto se siano vere; basta che lo appaiano. E ci potremmo accontentare, se non fosse che le religioni stesse ce lo impediscono (*).

(*) Vedi Matteo 23, vs. 13-15 e passim..

La verità è una, né altro si può dir d’essa, e molte sono le religioni. Ma la religione storica afferma di sé d’esser la Verità, e così abbiamo molte Verità, che necessariamente si negano l’un l’altra. Una sola religione può essere vera, o nessuna.

Si possono invero escogitare teologumeni e filosofemi senza fine, o per giustificare una forma religiosa, o per giustificarle tutte, riconoscendone l’opposizione reciproca. Il pensiero è onnipotente, nel senso che puoi farne quel che vuoi, o quasi. Ma sono le stesse religioni storiche, con la loro fissità, nella loro difesa della propria esclusiva rivelazione, a vanificare ogni giustificazione. È inutile affermare l’“unità trascendente” delle religioni, se queste non vogliono saperne.

Le religioni non sono il trascendente, testimoniano il trascendente; almeno, questa sarebbe la loro funzione. Non basta citare il trascendente perché i molti in conflitto siano uno in concordia. Né il trascendente è il reale: razionalmente, è solo un’ipotesi, per di più inafferrabile. Non si danno derivazioni, né logiche reali, da ciò che la ragione non può comprendere.

Le religioni riconoscono opposizioni e contraddizioni che il senso comune coglie; anzi, sono tentativi di darne un senso, se non una soluzione. Il Tao te ch’ing inizia con un paradosso, e subito dopo elenca una serie di opposti. Il Cristianesimo - il Cattolicesimo in particolare - è pieno di contraddizioni. Quella tra il libero arbitrio e la prescienza di Dio è solo una. Come lo è il Dio Uno e Trino. E la vergine madre di Dio, che ne contiene due in quattro parole? Molto più grave è quella tra la predicazione del Cristo e la storia della Chiesa.

Ma le contraddizioni, sono nel reale? La risposta è filosofica. In sé, la contraddizione è categoria logica; non puoi dimostrare che lo sia del reale, né si applica a tutte le attività della coscienza, meno ancora all’incosciente. Ma il pensiero comune riconosce moltissime coppie di opposti: vero o falso, giusto o ingiusto, vita o morte, giorno e notte… nella forma della dualità tra un polo positivo e uno negativo. Il pensiero cinese identifica la forma del rapporto tra opposti nella coppia Yang-Yin.

In sé, l’opposizione non è ancora contraddizione. Questa è la congiunzione degli opposti (logicamente, A et non-A); l’opposizione (tra due termini) rimanda al terzo escluso: A vel non-A. Perché vi sia contraddizione logica, gli opposti devono essere compresenti.

Questo ci indica la strada. Se il divino è riflesso in una moltitudine di dèi, ognuno di questi impersona un ruolo: e le opposizioni si risolvono simbolicamente nelle lotte degli dèi. Che pure nascono e declinano, finché se ne perde la memoria. Non c'è guerra di religione; c’è guerra tra dèi e nazioni. Ma, se il divino è riflesso nell’Uno, le opposizioni in esso coesistono, o ne derivano. L’Uno implica l’autocontraddizione fondamentale. La guerra è nella religione.

Ma allora, l’errore c’è ed è originario? L’errore c’è, ma non è originario, anche se realmente precede il costituirsi delle religioni monoteistiche; anzi proprio questo rafforza l’ipotesi che l’errore vi sia. Non solo, ma in duplice forma: in quanto autocontraddizione dell’Uno che contiene le opposizioni, e in quanto molteplicità delle religioni che si richiamano all’Uno. Il problema non è tanto la prima - che è del tutto innocua, anche se tosta - ma è piuttosto la seconda. Da dove nasce la seconda? Vi sono moltissime spiegazioni, e qui veramente il pensiero congetturale potrebbe scatenarsi in tutta la sua estensione. Ma ve n’è una, la cui forma è veramente interessante, e che chiarisce l’arcano da un punto di vista a-storico: ogni religione ha il suo Uno, come ha il suo profeta. L’Uno è - dal punto di vista della concettualizzazione che ne opera la coscienza - una categoria pseudosignificante, non completamente realizzata, ma è categoria, non oggetto concreto della comprensione cosciente. Il lettore consideri che l’unità è un concetto, non l’oggetto “unico”. L’oggetto è uno, ma “uno” non è oggetto, è predicato. E il predicato è tale perché appunto si predica di molti. Ci sono molti Uno. E ognuno di questi nega gli altri, attraverso l’assolutezza della propria profezia. Sono i profeti delle religioni monoteistiche ad escludere altre verità. Maometto è il sigillo dei profeti, né l’Islàm può riconoscere altre religioni sullo stesso piano; ne tollera di fatto alcune, pur con restrizioni, e solo quelle che attingono alla stessa sorgente, cioè allo stesso Uno dell’Islàm. L’Induismo ne è fuori. Quanto a Gesù... "Chi non è con me, è contro di me". (*)

(*) Matteo 12,30 e Luca 11,23.

   

Alcune considerazioni

sulla logica, sul Cattolicesimo, sulla ragione

   

Ciò può sembrare un vano esercizio di logica, attraverso il quale si perde il “senso” della religione ecc… o si può anche dire che non è possibile applicare alla religione la logica, giacché quella trascende le categorie razionali ecc… Ho già detto prima che la religione non ha nulla di trascendente in sé, essa rimanda al trascendente ma agisce nella coscienza, quindi la logica si applica ad essa come a qualsiasi prodotto della coscienza.

Bisogna andarci piano con lo scavalcare a grandi falcate le questioni logiche, specie se l’operazione è fatta a priori. Di solito, “illogico” è termine di significato negativo. Per trasformare il negativo in positivo, bisogna operare una rivoluzione mentale, una operazione radicale. E infatti il Cristianesimo, che radicale lo era eccome ai suoi inizi, afferma esplicitamente che la Sapienza di Dio non è la sapienza degli uomini. Il problema è che nella storia - cioè nella concretezza del divenire - agisce sicuramente la “sapienza” umana; quella divina è un’ipotesi. Pervasività del sacro e del divino nella storia non significa che una volontà esterna guidi il corso degli eventi; significa solo che sacro e divino, qualunque cosa siano, non sono sostanze prodotte dalla stessa storia.

Né le conseguenze di quanto accadde (e accade) come esito inevitabile delle religioni monoteistiche sono logiche o astratte. Fossero solo questioni metafisiche o gnoseologiche, non varrebbe la pena parlarne. E neppure son solo etiche. Sono materiali, e strutturano la realtà attuale del mondo. Non solo, c’è da aspettarsi che continuino ad agire per un tempo indefinito.

Da qualche tempo la virulenza delle religioni storiche è andata attenuandosi, passando dal Sacro Macello della Valtellina ad un confronto costruttivo. Per ridursi a questo stato, il Cattolicesimo ha dovuto passare attraverso il processo di secolarizzazione, che gli ha tolto gli artigli. E lo stesso Papa ha più volte espresso rincrescimento ed esplicita condanna di certi errori passati. La cosa non va sottovalutata, pur considerando che nel mondo globale le guerre di religione non s’hanno da fare, per motivi affatto profani.

C’è una tendenza a passare in secondo piano certe cose, tendenza che nasce certamente da preoccupazioni politiche, e che non è condivisibile. Che oggi non si vogliano, o semplicemente non siano possibili guerre di religione, non è merito delle religioni. Ma il punto non è solo questo. Riconoscere errori non vuol dire eliminarne gli effetti. Il Cattolicesimo è quello che è anche perché le sue strutture di potere hanno eliminato, per più di un millennio, le divergenze che in esso s’erano manifestate, cioè gli eretici. Che l’Unità della Chiesa consegua dall’Unità di Dio e del dogma è illusione, al massimo è un’ipotesi astratta. Che sia simbolo, per il credente, del Dio Uno, può accettarsi benissimo, come possono accettarsi benissimo, sul piano della religione, il Corpo Mistico di Cristo e il dogma; ma la Storia non è fatta solo di significati e simboli. La Chiesa e il Cattolicesimo attuali sono anche il prodotto delle azioni compiute in passato, e come forza materiale e come forza spirituale, giacché in questa religione la seconda non è disgiunta dalla prima almeno dai tempi di Costantino. E gran parte di queste azioni non sono accettabili nell’etica del mondo moderno.

Vi è un pericolo, nel proclamare la finitezza del pensiero, nell’insistere che c’è altro oltre al pensiero, e che vi è un limite alla ragione. Che l’essere dell’uomo non si riduca alla sola ragione, mi trova perfettamente concorde: e infatti, anche nello sviluppo dell’evoluzione biologica la ragione è l’ultima arrivata, potendosi a ragione affermare che la sua nascita è di poche decine di migliaia d’anni fa, mentre i primi organismi viventi risalgono un miliardo d’anni fa. Non solo, ma il Pensiero manifesta la sua potenza da poche centinaia d’anni soltanto: e in poche persone.

Ma non bisogna insistere sui limiti della ragione. Chi pensa non si possa dimostrare questo o quello, lascia la soluzione a qualcun altro, che gli dimostrerà questo, quello e molto altro ancora. Oppure, che trarrà vantaggio dall’ignoranza volontaria altrui, giacché il sapere si ottiene con la ragione. Le contraddizioni, le astruserie dogmatiche, il mistero possono esprimere ciò cui la ragione non giunge. Ma possono altresì nascondere cose di tutt’altro tipo, che genericamente si possono definire interessi e potere. Come il Dio Unico è utilissimo proprio per l’esercizio del potere. Non si crea il Dio Unico ope legis: e forse questa è la sola considerazione che ci obbliga a indagarne l’origine storica - ché questo v’è pure da considerare, Dio non è unico dall’origine dei tempi.

   

Ancora sul Dio Unico

sempre Lui

   

C’è sempre una formula che risolve il problema; l’errore è nella finitezza dell’Uomo, che non riconosce il suo principio, il male è non-essere, ecc…

Il pensiero ha costruito un labirinto, credendo, con l’Uno, di non perdersi in esso: credo fosse questo, l’impulso che mosse Parmenide. O è stato costruito contro il pensiero? Per intorbidare le acque, e affogare la ragione nell’oscurità necessaria del Dio inconoscibile? Pare che il pensiero tema se stesso; forse, in una certa epoca storica, per circostanze determinate, capitò proprio questo, che il pensiero riconoscesse l’impossibilità di una salvezza per se stesso. E si è andati avanti così, per più di dieci secoli. Le due cause contro la ragione, perché è troppo potente e va fermata, e perché non è abbastanza potente, probabilmente si sono alleate. E questo potrebbe spiegare molto sul significato reale delle religioni.

Ammesso d’aver trovato il Minotauro, si tratta di uscire dal labirinto. È vano cercare una soluzione nella massa immane delle conseguenze del Dio Unico onnipotente: e sarebbe bene che ce ne accorgessimo, senza perciò distruggere completamente la religione. (*)

(*) “Tuttavia accanto a queste obiezioni di carattere logico e ontologico al concetto di una onnipotenza divina, assoluta e illimitata, vi è anche un'obiezione di carattere teologico e genuinamente religioso. La onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta di Dio solo al prezzo di una totale non-comprensibilità di Dio, cioè dell'accezione di Dio come mistero assoluto. [...] Concedendo all'uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza [...] infatti la presenza del male implica una libertà con autonomo potere di decisione anche nei confronti del proprio creatore; e oggi i termini con cui deve misurarsi la teologia ebraica sono l'esistenza e il successo del male quale oggetto della volontà umana e non più le disgrazie e le tribolazioni che provengono dalla cieca causalità naturale (Auschwitz e non più Lisbona). Solo con la creazione dal Nulla possiamo avere l'unicità del principio divino in uno con la sua autolimitazione, che dà spazio all'esistenza e all'autonomia di un mondo” (Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, trad. it. di C. Angelino).

In realtà, il Dio Unico non è originario (*), come non lo è l’Essere: si consideri che il Cristianesimo fonde la profezia con la filosofia greca, o, meglio, una parte di essa. Né è detto che la fusione debba avvenire; nell’Induismo, il Brahman non è uno con gli dèi supremi, Vishnu e Shiva (lasciamo perdere le disquisizioni metafisiche: sono irrilevanti. Vi sono due grandi dèi, la fusione non è riuscita perfettamente. Né riesce completamente nel Cristianesimo).

(*) Ho accennato nel mio precedente saggio ad alcune possibili interpretazioni del Dio Unico, nel capitolo “Affermazione dell’io individuo e Divinità suprema” e - da altro punto di vista - nell’appendice.

Fondamentale, sovrastorica è l’esperienza del sacro o almeno la sua possibilità nelle varie culture, che testimonia la presenza del divino; non la forma del divino. Originaria è l’esperienza sciamanica, l’incorporazione di un dio o di uno spirito, la consapevolezza che il mondo è spirituale. Ci sono il bene e il male? Allora, ci sono spiriti benigni e maligni. La malattia è dovuta ad uno spirito cattivo. Si agisce sugli spiriti, magicamente, per conservare se stessi e il mondo. E l’efficacia magica del rito è potente nelle religioni più antiche, perdurando fin nel Cristianesimo.

Ma il Dio Unico è esclusivo (“geloso”, dice di sé Yahwé), né vuole essere condizionato (Yahwé proibisce maghi e indovini) e ascende inevitabilmente al ruolo di causa prima, insomma diviene onnipotente. A questo punto, la contraddizione esplode.

Il pensiero si autodistrugge, affermando che contraddizione è verità. Deve postulare che la soluzione è fuori di sé, nel trascendente. E qui si giunge al curioso esito per cui il pensiero pone a sé un limite, per porre le contraddizioni oltre al limite. Così non risolve, ma se ne libera. Il Dio Unico è necessariamente incomprensibile, deve essere inconoscibile. E ciò forza la conoscenza verso altri oggetti: la coscienza è disposta ad un sapere completamente secolare, che non ha più origine dall’alto, ma dal mondo. Che il sapere si secolarizzi storicamente, concretamente, non deriva certo da ciò; ci sono ben altre cause, molto più efficaci, né logiche né teologiche. Ma che il Dio inconoscibile apra la strada potenzialmente a tale tipo di sapere, e quindi alla propria dissoluzione come Potenza agente nel mondo, può essere benissimo accettato come congettura. Le forme del divino non sono ideologie astratte, vuote formule verbali. Esse predefiniscono la percezione delle cose, nella coscienza individuale e collettiva. E gli sviluppi della coscienza dipendono dalla percezione delle cose.

   

Validità di un punto di vista a-storico

religione e numeri

   

Ogni momento della Religione può manifestarsi in rappresentazioni definite e in tempi definiti, sotto lo stimolo di circostanze definite, ma è potenzialmente e attualmente presente e operante al di là di queste circostanze.

Si prenda ad esempio il culto della Vergine nel Cattolicesimo: esso manifesta una evidente continuità storica con culti analoghi, la cui origine si perde nella notte dei tempi. Ma chi vedesse in questa ierofania la sola derivazione storica da un culto precedente, o l’incorporazione di questo in una nuova religione, compirebbe un errore di valutazione assai grave. Del tutto paragonabile a quello commesso da chi credesse che un teorema della Matematica sia vero solo perché viene tramandato da una generazione all’altra.

Ed è opportuno evidenziare ora le analogie tra la Religione e la Matematica, invero numerose e interessanti. Entrambe si richiamano alla “verità” , ed entrambe sono in un certo senso a-storiche. Nel caso della Matematica, la cosa è evidente - a meno che non si voglia credere che i teoremi siano veri dal momento in cui sono dimostrati. Per la Religione, ipotizzerei, credo a ragione, che i suoi simboli abbiano radice nel potenziale immaginifico della coscienza: si faccia pure riferimento all’inconscio collettivo, se si vuole, o all’azione del trascendente sull’anima, è indifferente. Non stupisce che Pitagora abbia visto nel numero un principio divino (*) e che Galileo abbia visto nella Matematica il linguaggio che descrive l’Universo, asserendo esplicitamente che attraverso essa era possibile penetrare in profondità il pensiero di Dio, senza raggiungerne l’estensione. Entrambe sono forme autonome: il mondo non “contiene” i numeri, come non contiene Dio. Né Dio né la Matematica possono essere dedotti empiricamente.

(*) Non è che la Matematica dei Pitagorici fosse diversa da quella moderna nella sua essenza. Intesa come attività, cioè come operazione mentale, è la stessa. Cambia il valore; in realtà, è diversa la visione del mondo.

   

Finis philosophiae

et operae

   

Dalle spirali senza fine del pensiero filosofico, cioè speculativo e autosufficiente, non si esce con la Filosofia.

Non perché rifletta l’infinita soggettività del pensiero individuale, ma perché tale è la sua essenza.

Il labirinto del pensiero non è il mercato delle idee, il forum, il bazar del cretino.

Non vi è quindi modo di definire il rapporto tra la religione e la storia, cioè tra Dio e il mondo? Mai si chiarirà se fu il pensiero a porre un limite, o se questo è assoluto, è l’Assoluto?

La sua stessa potenza è il limite: è necessaria per porre il problema e delinearne lo sviluppo, ma non c’è soluzione definitiva. E infatti l’esito storico non è il pensiero speculativo puro, è quello scientifico, che congetturale è, ma all’inizio; esso termina concretamente, e giunge ad una verità.

E così il pensiero speculativo, creatore di se stesso, raggiunto il massimo sforzo di comprensione totale del reale con Hegel, ha cessato d’essere la forma ultima della ragione.

Altri e ben più urgenti sono i problemi attuali, e non saranno certo risolti dal pensiero puro. Ma se il suo aspetto di libera creazione, per movimento laterale e congetturale, è affatto inadeguato al conseguimento di una “verità”, almeno impedisce di cadere in errori madornali, se impiegato correttamente. L’errore si trova, per congetture: data un’affermazione, una posizione qualsiasi, si prova a svilupparne le conseguenze qualunque esse siano, o a vedere cosa segue negandola; si trova se qualcosa non va. Se il momento positivo del pensiero astratto è ormai al crepuscolo, quello negativo, critico, non si esaurirà, finché non si cessi di pensare del tutto.

   

[Giugno 2002]

   

 

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