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LA CRISI IRACHENA: IL PRESENTE E I POSSIBILI SVILUPPI.

Clericus

 

L’attuale crisi irachena imperversa sui mass media. È mia opinione che gli strumenti di informazione di massa creino una confusione tale, da rendere estremamente difficile ricavarne un quadro sensato e coerente.

Assumerei, come fondamento dell’indagine, alcuni capisaldi essenziali.

-         prevalenza, nelle scelte da parte di un centro di potere (in questo caso, i governi), dell’interesse economico;

-         distinzione rigida tra analisi consequenziale, assolutamente indipendente da considerazioni etiche, e sistemi di valori;

-         prevalenza dell’analisi consequenziale rispetto al giudizio di valore;

-         ruolo prevalente dei rapporti effettivi di forza nelle scelte decisionali;

-         ruolo del diritto internazionale nella definizione delle scelte;

-         ruolo preminente, nelle scelte operate da grandi potenze, di due fattori:

a)      fattori interni (gruppi di pressione, situazione economica, immaginario collettivo),

b)      fattori esterni di medio-lungo periodo (prevedibile evoluzione della situazione politica mondiale).

 

Le crisi: breve analisi della genesi di una “crisi”

Il termine “crisi” è entrato a pieno diritto nel linguaggio politico agli inizi del XX secolo, con la “crisi marocchina” se non erro, o forse un po’ prima, e denota uno stato di grave tensione nei rapporti tra potenze, che può sfociare in conflitto armato allorché le cause della crisi non siano state, in qualche modo, risolte. I metodi tradizionali sono due: l’accordo tra le parti – spesso mediato da una conferenza a livello internazionale – o la guerra. La guerra preventiva, in particolare, è un metodo (di dubbia efficacia) per risolvere una situazione di grave tensione, e la minaccia di guerra preventiva è il fattore principale di scatenamento di una crisi. Le discussioni intorno alla liceità o meno della guerra preventiva sono di scarso interesse in sé, ma la presa di posizione contro o a favore della medesima esprime una posizione politica ed uno strumento di pressione o di giustificazione agente a livello dell’immaginario collettivo di non trascurabile efficacia. Per esempio, la posizione del governo tedesco Schroeder-Fischer assume questioni di principio come giustificazione della propria opposizione all’impiego della forza militare. In effetti, per alcuni meccanismi psicologici ben noti, lo stratega (o, piuttosto, il politico) che decide per o contro la guerra deve dare una giustificazione più o meno credibile; tale tipo di attività si sovrappone ai meccanismi reali della crisi in modo inestricabile, travalicando le cancellerie e la scienza militare e invadendo i mass-media: di qui, la difficoltà di separare, nel mare dei commenti, ciò che ha senso (la dinamica reale) dall’immaginario (i valori emotivi coinvolti e le notizie false).

 

Premesse storiche recenti della crisi attuale

Purtroppo, è necessaria qualche breve premessa di ordine generale. Nel distinguere tre reale e immaginario, si fa della filosofia, coscientemente o no; in questo caso, filosofia della storia, nel suo divenire. In pratica, tale considerazione è inessenziale: gli eventi si susseguono nel tempo, e il loro manifestarsi concreto è più reale di ogni idea che possiamo farci del reale. Ma ciò che avviene si produce attraverso delle scelte, e queste riflettono, in generale, delle motivazioni. Le analisi sono inevitabili, a meno di decidere per via di impulsi: ma difficilmente chi decide solo su impulso arriva da qualche parte. Perciò, la “filosofia”, sia pure nella veste dell’analisi politica strategica economica eccetera, c’è già: è inutile farsi troppi problemi di principio. La questione non è l’intelligibilità in astratto di ciò che avviene, è se l’analisi svolta porta o no al risultato concreto.

Nel caso molto modesto di un’analisi a tavolino, il risultato concreto è dipanare la matassa, selezionando i fattori efficaci della crisi. E qui, si possono operare scelte diverse; personalmente, distinguerei tra: fattori di lunga-lunghissima durata, fattori recenti, opzioni strategiche.

Cominciamo dai primi.

Il processo di globalizzazione, a differenza di quanto qualcuno potrebbe credere (dato il neologismo: ma non si può certo credere che un fenomeno nasca con la parola che lo designa), è iniziato da lungo tempo, ed è lo sfondo della crisi.

La globalizzazione, o, meglio, l’espansione politica-economica delle potenze europee e poi degli Stati Uniti nel resto del mondo, ebbe inizio, nel vicino oriente, con Napoleone che, in qualità di generalissimo della Repubblica Francese, menò i suoi eserciti in Egitto e Siria sullo spegnersi del XVIII secolo. L’impresa non riuscì molto bene (ai Francesi), a causa della opposizione o, se si vuole, concorrenza armata degli Inglesi che, come tutti sappiamo, guidarono il declino dell’Impero Ottomano e infine insediarono nelle pianure del Tigri e dell’Eufrate un regime “amico”, dopo la I guerra mondiale. Ma le gravi spese dell’Impero, la relativa lontananza dalla madre patria, le vicende della II guerra mondiale e infine il bipolarismo USA-URSS decisero per la liquidazione dei grandi imperi d’oltremare; d’altronde, l’Iraq non fu mai una colonia inglese e nemmeno un “protettorato” nel senso stretto del termine. Insomma, l’Iraq mantenne una certa autonomia nei confronti delle potenze “imperialistiche” anche prima del colpo di stato di Kassem (1958), che aprì la strada del potere al Ba’ath, il “partito socialista” arabo.

Non ha molta importanza esplorare le complicazioni successive e la storia dell’Iraq da quando Saddam Husayn ascese al potere. Né interessa granché la psicologia del raìs. Costui ha qualcosa di Stalin, ma gli mancano i mezzi per poter essere pericoloso o anche solo temibile, dal punto di vista militare, in un conflitto aperto, per gli Stati Uniti. Il regime iracheno è un tipico regime arabo, simile a quello siriano e non dissimile da quello algerino. Come tutti i regimi arabi, si dichiara anti-israeliano e sostiene la causa palestinese con pervicacia e ostinazione, ricavandone meriti sul piano dell’immaginario collettivo locale, ma ponendosi in una posizione difficile nei confronti dei protettori di Israele, gli Americani appunto. 

Che una guerra nel Golfo debba scoppiare per eliminare un dittatore sanguinario, è tale sciocchezza che non merita discussione. Gli Stati Uniti hanno sostenuto o comunque non ostacolato regimi criminali  come quello di Videla in Argentina o di Pinochet in Cile, e comunque non si fanno guerre per motivi umanitari; ci vuole un movente più serio, come qualche interesse commerciale, o la necessità di stabilire basi nei luoghi strategicamente interessanti. Ciò non toglie comunque che lo stile di governo di Saddam, anche e soprattutto nella politica estera, manifesti una evidente leggerezza, se non una vera e propria improvvisazione, giustificabile solo o con l’incapacità di valutare correttamente gli sviluppi, o con la certezza che in ogni caso il proprio potere sarebbe rimasto intatto. Proprio quest’ultimo punto merita qualche riflessione. Se la guerra contro l’Iran, iniziata nel 1980, fu solo un errore di valutazione della capacità di reazione dell’avversario, mentre la premessa di base – cioè il non-intervento delle grandi potenze, o  l’intervento diplomatico favorevole qualora le cose avessero preso una brutta piega – era sostanzialmente corretta, come dovremmo valutare l’invasione del Kuwait e la conseguente guerra del Golfo? Veramente Saddam non s’aspettava una reazione americana? Ma anche in questo caso, gli fu lasciato molto tempo per ritirarsi in buon ordine, senza dover subire alcuna ritorsione militare; dunque, perché Saddam insistette rimettendoci buona parte del potenziale militare e ogni credibilità sul piano politico-diplomatico? Sicuramente, si sentiva sicuro di poter restare al potere; e su questo, come dimostrarono gli eventi successivi, non si sbagliò, perché in effetti né gli Americani né i vicini avevano interesse nel determinare il crollo del regime. Un governo sunnita in un paese con forti componenti sciite e curde, doveva sembrare necessario per mantenere la “stabilità” nella regione.

Perché dunque gli Stati Uniti sono passati da un atteggiamento di tolleranza, in nome – presumibilmente – della conservazione dello status quo locale, ad una aperta politica di destabilizzazione?

 

La guerra preventiva

Le motivazioni sono complesse, e più di una. Cominciamo con quella che probabilmente verrà presentata come il motivo fondamentale: la pericolosità del regime di Saddam. Tale motivazione può esser presa sul serio, qualora si supponga che realmente il regime iracheno abbia avuto o abbia contatti con gruppi terroristici (la solita al-Qa`ida, che ormai compare necessariamente come ispiratrice di ogni attentato di matrice integralista islamica), al punto da fornirgli materiale in grado di arrecare danni ingenti agli Stati Uniti o ad altri Paesi occidentali. Per la verità, non è affatto necessario che tali legami esistano veramente; se il regime fosse in possesso di “armi di sterminio di massa”, la possibilità di un uso non convenzionale di tali “armi” da parte di un paese può essere un buon pretesto per un attacco militare decisivo. Non so però se sia il motivo reale della crisi, e in effetti sembra essere più un pretesto o comunque un fattore affatto secondario. D’altronde, la teoria della guerra preventiva contro un pericolo potenziale è difficilmente applicabile. Non è che le guerre preventive siano un’eccezione: molti conflitti hanno avuto quel carattere. La guerra dei Sette Anni fu, da parte di Federico II, un’azione militare preventiva. L’attacco di Hitler all’Unione Sovietica, quello del Giappone alla Russia (1904) e poi agli Stati Uniti (1941) ebbero questo carattere. Ma si trattò di iniziative nelle quali l’attaccante era in una situazione difficile, e avrebbe potuto essere sopraffatto se non avesse lanciato un primo, devastante attacco. Ma l’Iraq non è assolutamente paragonabile agli Stati Uniti. La possibilità di una collaborazione tra Iraq e terrorismo islamico non è del tutto da escludere, e, qualora avesse sviluppi, si potrebbe pensare che il regime iracheno assumerebbe un potere contrattuale derivante dalla sua capacità di nuocere, simile a quello del dittatore nord-coreano Kim Jong Il, che effettivamente può trattare con gli Stati Uniti sulla base della sua capacità di risposta militare. Che Saddam abbia sviluppato progetti in tal senso non può essere escluso, visti i precedenti. Può essere che gli Stati Uniti non siano disposti a concedere all’Iraq ciò che hanno di fatto concesso alla Corea del Nord, e la cosa è ragionevole se si considera che dietro all’Iraq non c’è nessuna Cina. Ma, qualunque sia la motivazione originaria, il significato del conflitto non potrà essere solo quello della rimozione di un pericolo potenziale. Tale significato va inserito nel contesto degli eventi che ebbero origine negli anni ’70, dopo la ritirata degli USA dal Vietnam (1975).

 

La Potenza Unica si espande necessariamente

Il processo di lunghissima durata alla base della crisi irachena è fondamentalmente la progressiva concentrazione del potere militare in un solo Paese, accompagnato da una crescente concentrazione della ricchezza nelle mani di una élite sempre più ristretta. Entrambi i processi si sono pienamente sviluppati solo nel XX secolo, ma le loro premesse lontane possono essere cercate fin nel XVII e – credo – anche prima. Esse hanno determinato una evidente asimmetria nei rapporti internazionali, e in effetti il terrorismo altro non è che una forma di guerra “asimmetrica”, nella quale la parte militarmente più debole sul piano convenzionale fa uso di strumenti non-convenzionali. La mancanza di una controparte credibile della superpotenza implica che gli sviluppi di ogni situazione dipendano fondamentalmente da questa unica potenza; ciò blocca la politica e la diplomazia, favorendo il sorgere di situazioni abnormi e il compiersi di azioni imprevedibili. Non solo: il vuoto lasciato dalle ex-potenze viene riempito dalla presenza dell’unica potenza, che si espande senza incontrare resistenze significative. Questo fenomeno ha un carattere quasi fisico: in effetti, dalla fine dell’Unione Sovietica in poi, gli Americani, lungi dal ritirarsi, hanno stabilito basi in Europa Orientale e in Asia Centrale. Il momento favorevole spinge in una sola direzione: sorge una nuova strategia, tendente a rendere irreversibile la posizione di forza; ciò produce piccole guerre facilmente vinte contro dittatori locali, che sono ora utilissimi allo scopo, e ogni successo sposta la linea d’azione un po’ avanti. Le questioni del Kossovo e dell’Iraq hanno poco a che vedere con l’umanità, molto con questo processo di espansione necessaria. Se nell’era delle due grandi potenze Saddam era un fattore di equilibrio, se non un dittatore da corteggiare e armare, ora può diventare un pretesto, un elemento utilizzabile per una destabilizzazione e successiva “ristabilizzazione” su nuove basi, più favorevoli all’unica potenza. È difficile stabilire se i fatti dell’11 settembre siano stati determinanti in tal senso. I legami tra Saddam e il terrorismo islamico sono assai dubbi, e comunque il regime del Ba’ath non è certo islamico integralista; ma la presenza americana in Afghanistan e, in una certa misura, nell’Uzbekistan, sarebbe rinsaldata se vi fossero più punti d’appoggio nel Vicino Oriente. Certo questi non mancano; per esempio, la Turchia, l’Oman, il Qatar sono alleati degli Americani, ma un nuovo regime in Iraq, più direttamente dipendente dagli Stati Uniti, servirebbe assai meglio allo scopo. Non solo: una forte presenza nell’Iraq – finanziata dallo stesso petrolio iracheno – implicherebbe una forte pressione sull’Arabia Saudita – dove gli integralisti godono di troppe simpatie – e soprattutto sull’Iran, il cui regime non è affatto monolitico e forse neppure popolare, e il cui ritorno nella sfera americana fornirebbe agli Stati Uniti la vera base per il consolidamento nell’Asia centrale.

 

Questioni collegate

Dunque, l’espansione della potenza unica suscita reazioni di tipo nuovo (“guerra asimmetrica”) e impone la “guerra preventiva” per eliminare pericoli anche solo potenziali e procedere oltre; il processo si autoalimenta, e sposta in avanti la linea della presenza militare. Ma l’espansione è un fenomeno, per così dire, fisiologico, cioè una conseguenza inevitabile di premesse di fatto, o è un progetto, una scelta deliberata e quindi reversibile o comunque evitabile? Qui siamo di nuovo nel campo della filosofia: ciò che accade consegue dalle decisioni degli uomini che hanno il potere di decidere, o invece le azioni degli uomini riflettono una logica, una ragione sottostante che sfugge ad ogni controllo? Dato che mai si potrà dare una risposta definitiva, vediamo, dopo aver analizzato il processo di espansione come una successione fisiologica di eventi, quale può essere il “progetto” globale che può aver guidato, consapevolmente o meno, gli uomini che decidono.

Perché mai una potenza unica si deve espandere? Anzitutto, per rimanere tale. E quindi, verso chi e che cosa si muove? Si direbbe: procede in modo da rendere la propria unicità irreversibile. È possibile? Forse sì. E quale sarebbe l’obiettivo o, se vogliamo, la controparte della sua strategia? Le possibili grandi potenze del futuro, e le ex grandi potenze che potrebbero cercare di ricostruire la propria posizione di predominio.

Dirò subito che si può tranquillamente escludere l’Europa da questa lista. Anzitutto, l’Europa non è né Stato, né Nazione. È una associazione di libero scambio dai contorni variabili nel tempo. Le rivalità interne ne limitano la dimensione politica: la dichiarazione di sostegno alla linea americana da parte di alcuni paesi testimonia in modo inequivocabile che un’Europa politica non esiste. Semmai, si può parlare di Francia e Germania; ma la Germania è ormai una ex potenza in modo irreversibile. La Germania era importante, anzi essenziale, negli anni ’70, quando la sua economia era trainante e l’Armata Rossa era ben presente nell’Europa Orientale. I paesi dell’Europa Orientale oggi sono garantiti dagli Stati Uniti, nei confronti di un ritorno della Russia, non certo dalla Germania. In ogni caso, una ipotetica Europa politicamente omogenea potrebbe avere un peso sostanziale solo se disponesse di un adeguato deterrente militare: cosa che implicherebbe spese militari tali da rendere ogni velleità in proposito assolutamente utopica.

Quindi, non direi che tra gli obiettivi primari di Bush e della sua amministrazione vi sia l’Europa. Certo, la frattura interna al vecchio continente non dispiacerà al governo americano, ma non è affatto detto che tale frattura fosse un obiettivo della politica americana, per il semplice fatto che esisteva già prima della crisi attuale come conseguenza dell’insieme dei rapporti tra Paesi europei e Stati Uniti. La prospettiva della guerra l’ha solo resa più evidente.

Peraltro, la posizione della Francia – che ha un potere contrattuale effettivo in quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza, potenza nucleare e riferimento di molti Paesi del terzo mondo, e che non ha mai rinunciato al suo rango di grande potenza autonoma – sembra essere piuttosto quella di chi contratta il prezzo del proprio assenso all’operazione militare. Lo stesso potrebbe valere per la Russia, che come nemico può nuocere molto di più della Francia, ma che non può schierarsi troppo apertamente contro gli Stati Uniti. L’opposizione “di principio” è una scelta del governo tedesco, e non influisce in modo determinante sul corso della crisi. In realtà, sembra che la crisi irachena sia piuttosto la scena di una complessa trattativa a tre, che dovrà ristabilire le zone di influenza e il rispettivo grado gerarchico in tutta l’area del Vicino Oriente. È difficile prevedere quale sarà lo svolgimento dei fatti, e che cosa Francia e Russia otterranno effettivamente; la mia impressione è che guadagneranno poco, dato che gli Stati Uniti possono procedere da soli. In questo caso, potrebbe formarsi effettivamente un asse franco-russo-tedesco che, allargato in prospettiva alla Cina, farebbe da contraltare alla potenza unica. Ma questo futuro è puramente ipotetico; piuttosto, varrebbe la pena soffermarsi sul concetto di politica di contenimento come possibile progetto nel quale inquadrare la crisi attuale.

 

La politica di contenimento della Cina e dell’India

“The containment of China must be linked to a policy of support for India”
Amos Perlmutter, su “The Washington Times”, 1° maggio 2001

Se qualche nuova grande potenza sorgerà in un futuro visibile, questa sarà necessariamente la Cina o l’India, o entrambe.

La Cina sembra la più accreditata. Ma ha un punto debole: il suo regime. La sua forma di governo è potenzialmente instabile; un arresto della sua espansione economica sarebbe destabilizzante, e potrebbe avere esiti politici assai sgradevoli, quali un irrigidimento del regime verso l’Occidente. Che il governo resti stabile o meno, la Cina è, per gli Stati Uniti, un competitor più che un partner, ed è quindi inevitabile che gli strateghi americani considerino il suo contenimento come un obiettivo necessario. Ora, qualsiasi rafforzamento degli Stati Uniti nel continente asiatico funge da contenimento nei confronti della Cina. Non è affatto detto che il Presidente Bush e i suoi collaboratori muovano contro l’Iraq in quanto primo passo in direzione della Cina, ma è inevitabile che la maggior presenza americana in Asia rafforzi comunque gli Stati Uniti nei confronti della Cina.

Le relazioni USA-Cina hanno subito, dopo la II guerra mondiale, oscillazioni di grande ampiezza: dallo scontro militare diretto (Corea 1950-53) o quasi (Vietnam) ad una politica di sostanziale alleanza contro l’egemonismo sovietico (anni ’80). Dopo la fine dell’URSS, la politica americana – soprattutto durante la presidenza Clinton – è stata definita per lo più come constructive engagement, che potremmo tradurre come “coinvolgimento costruttivo”; ma è opinione diffusa che, sotto la spinta della Destra repubblicana, il presidente Bush propenda per un ritorno alla strategia di contenimento, sia pure sotto forme più “morbide” e diplomatiche del passato; in effetti, le vendite di armi a Taiwan sono bilanciate da visite reciproche dal tono cordiale, e da un comune interesse allo sviluppo di proficue relazioni commerciali e alla stabilità del Pacifico. Peraltro, l’effettivo peso della Cina sul piano militare non è, al momento, tale da costituire una minaccia strategica per gli USA; l’espansione della potenza cinese avviene prevalentemente sul piano dello sviluppo economico interno e dei rapporti economici e finanziari con gli altri paesi dell’estremo oriente. Proprio questa espansione potrebbe tuttavia costituire una seria minaccia per gli USA: infatti, sia pure molto gradualmente, la Cina continentale acquista un potere latente di interdizione nei confronti degli Stati Uniti, in quanto il desiderio o meglio la necessità dei Paesi che si affacciano sul Pacifico di collaborare economicamente con la Repubblica Popolare spinge i rispettivi governi a moderare la politica americana nella regione. Insomma, un ritorno degli USA ad una politica più aggressiva nei confronti della Cina troverà resistenze sempre maggiori col passare del tempo.

Peraltro, bisogna intendersi sul concetto di “politica di contenimento”. In senso stretto, il termine sottintende una scelta strategica di fondo: non è chiaro fino a che punto l’amministrazione Bush intenda procedere su questa via. Gli impegni pro Taiwan e soprattutto le vendite di armi possono far parte di una strategia commerciale, piuttosto che di un vera e propria scelta strategica di lungo periodo.

Non solo, ma anche sul potenziamento militare della Cina vi sono pareri discordi negli Stati Uniti. Se a Tokyo e a Washington prevale il punto di vista per cui la Cina è destinata nel medio-lungo termine a diventare la massima potenza militare in Asia, non mancano analisi in senso contrario: p.es. Luttwak (*) ha fatto osservare recentemente che il rafforzamento sul piano militare della Repubblica Popolare avviene ad un ritmo piuttosto lento e che in ogni caso è necessario per i cinesi ricorrere a forniture russe: e proprio la Russia non ha alcun interesse ad una Cina militarmente troppo forte.

In ogni caso, se veramente la politica americana dovesse orientarsi verso il “contenimento” della Cina, dovranno essere stabiliti migliori e più saldi rapporti con l’India. Qui la questione è complessa: la stessa India è una potenza in espansione e, per di più, in conflitto quasi aperto con il Pakistan per il Kashmir. Dunque, l’avvicinamento degli USA all’India peggiorerebbe i già difficili rapporti coi Paesi islamici in generale.

Qual è il legame con la crisi irachena? Se, come tutto fa prevedere, l’Iraq venisse occupato per un tempo più o meno lungo (non è da escludersi a tempo indeterminato), e se si rafforzasse di conseguenza la presa americana nell’Asia Centrale, verrebbero a mutare sia i rapporti Usa-mondo islamico, sia i rapporti USA-India. Può darsi che, per mantenere la presa sui Paesi arabi, gli USA debbano far proprie certe rivendicazioni del mondo islamico, e ciò raffredderebbe ulteriormente i rapporti con l’India. Viceversa, un avvicinamento USA-India  spingerebbe il Pakistan verso la Cina: un esito da evitarsi. Sul piano politico, il futuro a medio termine non sembra facile da gestire per il governo americano, che deve mantenere un certo equilibrio rispetto alle nuove potenze.  

  


(*) Edward N. Luttwak, attualmente membro del National Security Study Group of the U.S. Department of Defense, è uno dei più ascoltati esperti di strategia; ha collaborato come consulente col Dipartimento di Stato USA e con altri organi del governo americano. Ha pubblicato numerose opere, anche di analisi storica; a questo proposito, citerei La Grande Strategia dell’Impero Romano, pubblicata anche in Italiano, lucida analisi dei fattori economico-militari che portarono alla caduta dell’Impero d’Occidente.

  

[8 febbraio 2003]

 

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