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LA CRISI DELLA LEADERSHIP USA

I FATTI - LE CAUSE - LE PROSPETTIVE

Clericus

 

Premessa

La crisi irachena sembra ormai avere imboccato definitivamente la via della soluzione militare unilaterale. Veramente, ho da tempo l’impressione che si sarebbe comunque arrivati a questo esito: l’invio di mezzi e uomini in Medio Oriente, il tono delle dichiarazioni angloamericane, lo stesso irrigidirsi della Francia sulla minaccia del diritto di veto in sede ONU lasciavano presagire abbastanza chiaramente che non vi sarebbe stato modo di fermare la corsa alla guerra. Eppure, non mi sarei aspettato un esito del genere, lo ammetto.

Si può ora tentare una interpretazione di ciò che è successo, anche se - come spesso accade - il futuro potrebbe modificare il quadro emerso in modo consistente.

 

La diplomazia americana

Una prima considerazione è che, sul piano strettamente diplomatico, gli Stati Uniti - in particolare, il Segretario di Stato, C. Powell - hanno subito un insuccesso diplomatico: la Francia è riuscita a bloccare la nuova risoluzione USA-UK-Spagna senza ricorrere al veto. Accusare la Francia e il suo presidente Chirac per questa sconfitta è pretestuoso: il fatto, puro e semplice, è che il governo americano non è riuscito a convincere i paesi incerti ad accettare la propria linea. La cosa è tanto più grave perché è giustamente interpretabile come una vittoria della diplomazia francese su quella americana. Si può pensare ciò che si vuole di Chirac e dell’opportunità della sua ostinazione nell’opporsi a una scelta per la guerra da parte del Consiglio di sicurezza, ma è chiaro che la sua conduzione della crisi si è - fino ad ora - dimostrata più abile ed efficace.

La cosa è ancora più sconcertante, se si tiene conto delle dichiarazioni pubbliche del portavoce della Casa Bianca, A. Fleischer, e prima di lui dello stesso Powell, sul raggiungimento della maggioranza necessaria in consiglio. È chiaro che gli USA avrebbero avuto comunque una “copertura” ONU se la maggioranza dei membri aventi diritto di voto li avessero approvati: un “no” francese o russo sarebbe stato inutile, non avrebbe fermato la guerra e sarebbe stato un voto di minoranza.

Ma è tutta la conduzione della crisi da parte americana, che lascia perplessi. Francamente non capisco la logica che hanno seguito.

Il governo americano ha impostato la sua strategia diplomatica su due binari intersecatisi: il disarmo dell’Iraq, e la rimozione di Saddam Husayn. Sul primo punto, hanno da loro la forza della ragione (ci sono chiare risoluzioni ONU in merito) e l’appoggio unanime di tutte le altre potenze (nessuno ha mai contestato il principio del disarmo dell’Iraq). Sul secondo, non potevano aspettarsi un appoggio incondizionato: non c’è nessuna base legale per la rimozione del regime iracheno. Piaccia o no, il governo di Saddam è riconosciuto dalla comunità internazionale. Eppure, fin dall’inizio della crisi alcuni esponenti dell’amministrazione hanno chiaramente indicato proprio nella sostituzione del regime di Saddam con un governo “amico” (che non c’è), o con una amministrazione militare americana, l’obiettivo della politica americana. In particolare, si è distinto in questa interpretazione il segretario alla Difesa Rumsfeld, costringendo Powell a precisare che il disarmo dell’Iraq poteva essere inteso come “cambiamento di regime”. Ma era chiaro ormai che il disarmo era solo più un pretesto.

Ancora più sconcertante è la posizione USA verso l’ONU. Nella crisi attuale, il Consiglio di sicurezza in un certo senso ha funzionato come un tribunale: doveva stabilire se il regime di Saddam avesse o no violato le precedenti risoluzioni, e quale provvedimenti prendere. Come si decide sui due punti in questione? La teoria è chiara: si decide in base alle risultanze delle ispezioni.

Sono queste ad avere il valore di “prove” di fronte alla comunità internazionale. L’ONU serve proprio a impedire che una sola potenza detti legge incondizionatamente. È un organismo superiore rispetto alla volontà dei singoli Paesi membri, nessuno escluso. Ma gli USA hanno sostenuto una posizione logicamente curiosissima: hanno dichiarato che, per far rispettare le risoluzioni dell’ONU, avrebbero proceduto anche senza il suo avallo. Cioè, contro la maggioranza degli stati membri abilitati a formulare un giudizio definitivo. Ma allora, quale valore hanno le risoluzioni ONU, se per farle rispettare si deve procedere senza o contro l’ONU? Di più: hanno criticato lo stesso operato degli ispettori. Allora, se di conseguenza l’ONU non ha credibilità, quale può essere quella delle sue risoluzioni? A questo si è mirato?

La guerra all’Iraq sarebbe stato un grande successo, se il governo USA fosse riuscito a coinvolgere nell’affare gli “alleati” europei - e magari i russi. Tale coinvolgimento sembrava assicurato minacciando gli “alleati” di lasciarli a bocca asciutta, se non avessero accettato di partecipare all’impresa. Visti i risultati, si può a ragione pensare che Bush e collaboratori abbiano sbagliato i calcoli.

Non solo: anche la preparazione politica americana del conflitto sembra assai carente. Gli errori di valutazione sembrano numerosi, in particolare - mi pare - sulla posizione russa, su quella turca, e sui risultati concreti dell’azione diplomatica francese. E sono abbastanza certo che non avessero previsto il netto “no” tedesco alla guerra. Questo avrebbe dovuto metterli sull’avviso. Peggio: i massimi responsabili della politica estera si sono messi a parlare di democrazia in Medio Oriente, e non solo in Iraq, con una faciloneria che rasenta l’autolesionismo. La situazione politica in Iraq sarà difficile; non sarebbe il caso di coinvolgere in qualche modo i Paesi arabi nell’impresa? Ora, se c’è qualcosa che non piace da quelle parti, soprattutto ai Sauditi, è proprio la democrazia. L’Iraq ha una maggioranza sciita, il clan al potere è sunnita, gli amici migliori sarebbero i Curdi: e gli esperti americani hanno pensato di coinvolgere la Turchia (odiatissima dai Curdi). Il 55% degli iracheni è sciita, e l’Iran lo è per più di due terzi, no? Si direbbe che convenga avvicinarsi al governo iraniano, tranquillizzarlo, fargli balenare la possibilità di un miglioramento delle relazioni con gli USA, cercare di coinvolgerlo in qualche modo nell’appoggiare un nuovo governo iracheno. Tanto più che in Iran il Presidente Khatami è un riformista, e una qualche forma di apertura da parte USA gli sarebbe assai utile. Cosa fa Bush? Iscrive l’Iran nell’”Asse del Male”. Che cosa vuole, che Khameney, Rafsanjani e seguaci del khomeinismo puro e duro rimangano al potere all’infinito? Perché questo regalo fatto agli estremisti del regime?

È chiaro che una strategia del genere sembra più efficace nel perdere alleati, che nell’acquistarli. E qui sorge il dubbio sul futuro della leadership americana nel mondo. È possibile che l’insuccesso diplomatico non sia affatto così grave, e può darsi appunto che sia conseguenza soprattutto di incompetenza, per non dire peggio. È troppo presto per parlare di “punto di svolta”. Ma è un fatto che tra Francia, Germania e Russia si è costituita un’intesa che - sorprendentemente - ha momentaneamente prevalso, e che comprende anche la Cina. Ed è un fatto che la popolarità americana nel mondo è scesa moltissimo, negli ultimi mesi. Le simpatie (e gli aiuti concreti) conseguenti all’attentato dell’11 settembre si sono trasformate in un antiamericanismo assai diffuso, persino esagerato.

Ci sono poi due questioni, che a quanto pare sfuggono ai commentatori. Una riguarda la sorte personale di Saddam: supponiamo che resti ucciso in guerra. Una bella notizia? No, un “eroe” arabo in più, un martire, un “Che Guevara” del fanatismo mediorientale. Bel risultato.

Altra questione: se gli Americani non hanno la maggioranza nel Consiglio di sicurezza (e nell’assemblea generale), come potranno ottenere il riconoscimento diplomatico di un nuovo governo - ammesso che riescano a formarne uno? Imbarazzante, direi.

Infine: la Federazione Russa non ha votato contro - ma non ne ha neppure avuto bisogno. Ma dopo, avrà ancora buoni rapporti con un governo come quello di Bush?

 

Le cause di un insuccesso

Quali sono le cause di questa insufficienza diplomatica? È solo incompetenza? Io credo che questa sia solo una interpretazione parziale.

Da alcuni anni, gli Stati Uniti sono incontestabilmente la massima potenza militare. Ciò ha trasformato il modo di vedere la situazione internazionale: il mondo visto dai vertici dell’unica superpotenza assume contorni assai strani, e la percezione della realtà si fa sfumata, imprecisa. In un mondo in cui non vi è opposizione militare credibile, apparentemente tutto diventa possibile. Gli ostacoli appaiono sempre superabili; perdono la loro concretezza. All’analisi razionale - che soppesa i pro e i contro di un’iniziativa - si sostituisce una certezza di successo; non ci si chiede più se mettere in atto o no un progetto; ci si chiede: perché non attuare il progetto? Si comincia, e ci si attende che gli altri vengano dietro. Non solo: il delirio di grandezza - perché ormai si tratta di quello - impedisce di vedere i propri errori. Stampa e TV si adeguano al clima surreale; il mondo assume le vesti di un’allucinazione, paragonabile a quella del Dittatore nel famoso film di Chaplin, quando gioca col mappamondo.

Lo scadimento delle capacità di analisi è rafforzato dai commenti dei mass media (sempre più propensi a esaltare l’affermazione individuale, il successo, la forza, la vittoria) e dal livello della cultura popolare, dall’illusione collettiva, dall’ignoranza sostanziale dell’opinione pubblica verso le cause e gli effetti di ciò che avviene, e dalla separazione che oggettivamente la condizione di potenza unica pone tra americani e non americani. Non solo: leader di altri Paesi subalterni, nel timore di perdere i favori della superpotenza, ripetono ossequienti formule di obbedienza, dando a quella l’illusione di avere con sé l’intero mondo. Quando la critica viene a mancare, anche la capacità di giudizio si affievolisce.

Ma vi sono anche altre ragioni: l’ascesa ai vertici del potere di cordate affaristiche, in questo caso legate all’industria petrolifera e a quella degli armamenti. I politici americani di alto rango non sono statisti nel senso vero e proprio del termine: il loro riferimento, l’ambiente nel quale si sono formati e affermati, è quello delle grandi corporations, degli affari, dei maneggi finanziari. La loro diplomazia è ridicola. Essi comprendono solo la logica del reciproco scambio di interessi, e il loro unico parametro è la disponibilità di risorse militari ed economiche. Tutto ciò che non rientra in questo ambito tecnico-affaristico sfugge alle loro analisi.

Come dicevo, è presto parlare di “punto di svolta”: ma il mondo “unipolare” ha generato una sorpresa, il costituirsi di una sorta di bipolarità disomogenea definibile come rapporto “USA - resto del mondo”. Per ora, tale “resto del mondo” è imperniato sull’asse franco-russo-tedesco. Vedremo se esso manterrà la sua coesione nel futuro - e la capacità di attrarre a sé altri Paesi - o se si è trattato solo di una crisi temporanea.

  

[17 marzo 2003]

  

 

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