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ALCUNE QUESTIONI SULLA NATURA DEL PENSIERO SCIENTIFICO

Clericus

 

Sommario: 

Premesse generali
Natura non facit saltus, ma la scienza sì
Le rivoluzioni scientifiche (e non solo)
Obiezioni e controobiezioni
Il ruolo della “sintesi”
Insufficienza delle indagini e delle “soluzioni” storicamente proposte
Conoscenza matematica e conoscenza empirica
Il ruolo della coerenza
Sul significato della “conoscenza scientifica”
La questione delle origini
Insufficienza delle definizioni di “scienza”
Economia di pensiero e comprimibilità dell’informazione
Prevedibilità dei fenomeni
Conclusione

 
 

Premesse generali

Questo saggio non è destinato principalmente agli specialisti che indagano sul carattere della “scienza” e che ne investigano il processo di formazione, cioè gli epistemologi. È scritto piuttosto per chi, avendo tempo e voglia di riflettere sull’oggetto della parola “scienza” e non avendo una preparazione specifica in merito, possa trarre un vantaggio dall’analisi di alcuni temi che si sono presentati nello sviluppo di questa forma di indagine. Ma non è neppure un sommario di epistemologia; può essere letto con qualche profitto da chi abbia la preparazione e la forma mentis di un bravo diplomato del Liceo Scientifico, e che abbia un’idea, p.es., del contenuto della filosofia di Kant, dell’approccio di Mach, e del problema della demarcazione in Popper.

Infine, ho ridotto al minimum minimorum citazioni e riferimenti ad autori, anche di grandissima importanza, in quanto questo saggio sviluppa una logica essenzialmente interna, che nelle sue grandi linee può essere compresa senza la conoscenza specifica di opere specializzate.

 

Natura non facit saltus, ma la scienza sì

Lo sviluppo della scienza (e della matematica, che si svolge in parallelo a quello) è, secondo lo schema tradizionale generalmente accettato fino ad ora, caratterizzato dai seguenti momenti: *

* Questa ricostruzione estremamente sommaria non è universalmente condivisa; vedasi ad es. le critiche di George Gheverghese Joseph, in The Crest of the Peacock: The Non-European Roots of Mathematics, trad. it. C’era una volta un numero - la vera storia della matematica, ed. il Saggiatore.

1. le sue fasi iniziali avvengono nella Grecia classica, in corrispondenza dell’affermarsi della pólis; questo processo, pur ammettendo che in qualche misura - peraltro difficilmente accertabile - sia stato indotto o influenzato da contatti con le civiltà dell’Oriente, sarebbe avvenuto in modo autonomo seguendo una propria linea di sviluppo;

2. Raggiunto un massimo di sviluppo nel tardo ellenismo, inizia in Occidente un regresso che perdura sino al Rinascimento, durante il quale apporti dal mondo arabo e da Costantinopoli, fondendosi con le tradizioni platonica e aristotelica, consentono di porre le basi per un nuovo rilancio in grande stile. Durante questa fase si pongono i fondamenti dell’algebra e della prospettiva, e si costituiscono o si affermano le sedi nelle quali si produrrà il dibattito scientifico, cioè le Università;

3. Nel corso del XVII secolo, avviene in Occidente qualcosa di mai visto prima e che non ha luogo in altre culture, e cioè la nascita della scienza galileiano-newtoniana, cioè la sintesi della conoscenza logico-matematica e fisico-fenomenica.

4. Il processo iniziato nel ‘600 (in realtà, un po’ prima; ma la consistenza del fenomeno diviene evidente intorno alla metà del secolo) prosegue, portando alla formulazione di complesse teorie formalizzate il cui successo pone un problema: in che cosa il pensiero scientifico si distingue da ciò che scienza non è? Ma questa formulazione non è sempre espressa chiaramente, perché il “pensiero scientifico” forse non “nasce” in un solo momento preciso; o, meglio, si potrebbe affermare che “nascono” le singole fasi in cui esso si articola storicamente, come p.es. la fisica classica, nel senso che, ad un certo punto, si manifesta una discontinuità irreversibile nel processo di elaborazione delle idee: qualcuno dice qualcosa che non è stato ancora detto o ripropone con forza qualcosa di già detto, ma dimenticato, riportandolo all’attenzione del mondo - salvo che...non sempre ci si accorge subito che è effettivamente sorto qualcosa di nuovo.

 

Le rivoluzioni scientifiche (e non solo)

In realtà, la discontinuità - insomma, la novità - viene notata, dato che non vi è dubbio che i contemporanei - almeno, quelli che avevano occhi per vedere - capirono la novità insita p.es. nel contenuto della rivoluzione copernicana, ed è fuori discussione che l’impatto della meccanica quantistica nella comunità dei fisici del primo ‘900 può essere considerato un vero trauma, forse ancora più violento di quello copernicano. Dunque, vi è consapevolezza del “nuovo” quando questo appare; almeno così sembrerebbe da quanto appena detto, ma a ben guardare, le cose non stanno esattamente così; sarebbe più corretto ipotizzare che viene chiaramente percepito l’insorgere di una novità, ma la reale portata di tale novità emerge lentamente e attraverso un processo spesso confuso, tortuoso, intricato di equivoci: e ciò perché la novità implica, attraverso le sue conseguenze che inizialmente sono appena intraviste, la ricostruzione della forma mentis o, se si preferisce, l’affermazione di un nuovo modo di collegare i termini del discorso scientifico.

A questo proposito, mi si permetta una digressione. Non può sfuggire - e difatti non è sfuggito - che un simile processo, una volta giunto ad un certo grado di sviluppo, ha molto in comune con le rivoluzioni politiche. La “novità” - cioè, il “non ancora visto” era, a giudicare dalle stesse interpretazioni dei contemporanei, ben presente nel 1789; ma in che cosa consistesse questa novità, possiamo, con non poca indeterminazione, stabilirlo solo dopo, molto dopo l’insorgere della discontinuità.

Non solo, ma la “discontinuità” nel campo storico, insomma la rivoluzione mantiene molto di ciò che era prima: al punto che, completatosi il processo, ci si può chiedere se veramente c’è stata negazione di ciò che era, o piuttosto riaffermazione del momento precedente attraverso il confronto con la sua negazione. Non si creda che la dialettica di Hegel nasca da chissà quali elucubrazioni solipsistiche: il tecnicismo attraverso cui il pensiero viene esposto, la lontananza dall’epoca nel quale il pensiero è stato formulato, la complessità dell’informazione e dell’esperienza che stanno alla base della formulazione di un sistema ne rendono pressoché impossibile la completa ricostruzione e comprensione: bisogna limitarsi a interpretare il pensiero passato. Tale dialettica è, molto verosimilmente, intimamente connessa alla riflessione sul ritorno al momento precedente: un ritorno che però incorpora il nuovo - l’antitesi al vecchio ordine di cose e idee - e che quindi è sintesi, riconferma-superamento al contempo.

Questo schema, però, non è perfettamente applicabile allo svolgersi del pensiero scientifico. Il “nuovo” infatti qui si manifesta anzitutto in quanto al contenuto, mentre è la forma che viene in realtà messa in discussione; solo che ciò avviene - se avviene - in un secondo momento. Nella rivoluzione politica è la forma (la costituzione politica e il governo) che viene attaccata per prima; il contenuto (Marx direbbe: la “struttura”) mantiene un certo grado di autonomia, e la sua inerzia - cioè, il fatto che i suoi tempi di evoluzione sono lenti rispetto a quelli della forma) fa sì che la forma debba, in una certa misura, recedere. La forma non può oltrepassare troppo il contenuto, ma deve adeguarsi come un abito ad un corpo. Questo porta ad una forma del processo di tipo hegeliano: utile, nella storia dei fenomeni politici.

Ma il processo di formazione del pensiero scientifico rivela una sottile divergenza rispetto a questo schema storico: nelle crisi, il primo momento è l’emergere di una nuova tesi, a cui si giunge ragionando secondo uno schema preesistente che guida il ricercatore il quale, rimanendo coerente al paradigma, propone una novità o come alternativa a / superamento di una posizione già consolidata perché si accorge che negandola non emergono contraddizioni, e quindi la novità non è impossibile, o perché le conclusioni imposte dalla coerenza al paradigma sono contraddittorie con i risultati delle osservazioni o portano a contraddizioni interne al paradigma.

Un esempio del primo genere sono le Geometrie non-Euclidee. Lo schema formale sottostante è sempre il ragionamento ipotetico-deduttivo secondo cui si ordina la stessa Geometria Euclidea; la novità - cioè la formulazione di geometrie che negano o non contengono il V postulato * - non porta a contraddizioni, dunque le nuove geometrie sono possibili.

* “Se, in un piano, una retta, intersecando due altre rette, forma con esse, da una medesima parte, angoli interni la cui somma è minore di due angoli retti, allora queste due rette, se indefinitamente prolungate, finiscono con l'incontrarsi da quella parte”.

Ma la novità, pur affermandosi all’interno di un modo di ragionare consolidato, modifica in modo irreversibile lo stato di cose precedente. Il nuovo contenuto, affermatosi entro i limiti di una forma consolidata, produce il superamento di questi limiti. Dopo le geometrie non-euclidee non è più possibile ragionare come prima, perché cambia aspetto la percezione della “verità” in Geometria: tale “verità” non può più essere posta nell’intuizione, nell’evidenza. Gli assiomi non sono più evidenti di per sé e quindi veri; possono divenire convenzionali (Poincaré, inizio XX secolo)* e quindi, in una certa misura, arbitrari: la loro scelta è una questione di convenienza. Cambia la teoria della verità; lo spazio non è più pensabile come assoluto, ma può essere visto in relazione alla distribuzione della materia; nel ragionamento matematico si sviluppa l’aspetto formale, e diminuisce il ruolo del significato; emerge prepotentemente il concetto di sintassi e dell’autoconsistenza sintattica come vincolo principale, se non unico, alla base della “validità” di una teoria matematica, dalla “verità” si passa alla “coerenza” ecc. ecc.

* Jules-Henri Poincaré (1854-1912), insigne matematico francese, autore di fondamentali opere di matematica, meccanica celeste ecc. Sostenne che le proprietà dello spazio fisico possono essere descritte indifferentemente mediante la geometria euclidea o le geometrie non-euclidee, per cui non avrebbe alcun senso chiedersi quale geometria sia quella “vera”. La scelta tra le possibili alternative sarebbe dunque dettata esclusivamente da ragioni di opportunità, p.es. di semplicità. Benché questa tesi sia stata contraddetta dalla relatività generale (per la quale lo spazio fisico tridimensionale non può essere descritto da una geometria “piatta” come quella euclidea), il concetto fondamentale - cioè il non avere senso assoluto considerare “vera” una geometria a scapito delle altre, ma utilizzarle come strumenti adatti alla descrizione dello spazio fisico - si è progressivamente affermato, sino a diventare la posizione oggi corrente. La posizione di Poincaré è stata spesso designata come convenzionalismo.

Insomma: il primo momento non incorpora la sua antitesi; quest’ultima è un effettivo superamento dello stato precedente.

Questo carattere di superamento inglobante i momenti precedenti è ben visibile nella struttura formativa delle teorie fisiche a partire dal ‘600 in poi. In particolare, la relatività generale include la teoria della gravitazione di Newton, la QED * integra la meccanica quantistica e l’elettromagnetismo classico, ecc...

* Quantum ElectroDynamics = Elettrodinamica Quantistica. Una teoria molto potente, che permette di interpretare con grande precisione tutti i fenomeni elettromagnetici noti, dovuta in gran parte all’opera del fisico americano Richard P. Feynman (1918-1988)

Quindi, la portata rivoluzionaria della novità non si manifesta sempre al primo impatto. Non sempre il primo urto scardina lo schema formale sottostante; spesso si tenta di conciliare il nuovo col vecchio schema (l’operazione può riuscire, in effetti) e solo dopo un qualche tempo emerge, sulle prime confusamente, poi più chiaramente, che questo non regge più, e si devono accettare nuovi schemi di ragionamento. Il passaggio dalla fisica classica a quella quantistica è il caso più eclatante.

 

Obiezioni e controobiezioni

A questa interpretazione del modo di pensare scientifico si può obiettare, a ragione, che la “novità” deve corrispondere però a un mutato quadro concettuale che ne consente la formulazione: una tesi che contraddica quanto ritenuto “vero” fino a un certo momento non può nascere dal nulla, in generale; la causa del rivolgimento dovrebbe essere cercata in mutate condizioni del modo di pensare, che sono già avvenute, o stanno avvenendo, quando la “novità” si manifesta. Insomma, il mutamento del paradigma deve in qualche modo precedere il manifestarsi della discontinuità, e questa è la traccia di quello.

La prima cosa da considerare, a questo riguardo, è che si deve porre attenzione al significato del termine mutamento di paradigma. Noi possiamo parlarne solo nella misura in cui tale mutamento o revisione del modo di pensare si manifesta, e la manifestazione del mutamento può essere solo in qualcosa che viene detto in un certo momento preciso e in riferimento a qualcosa di preciso, i.e. una tesi nuova. Che la discontinuità avvenga in conseguenza di mutate condizioni sullo sfondo, sia nel modo di pensare sia nella realtà concreta, possiamo ammetterlo senza difficoltà. Ma non è affatto certo né dimostrabile che una tesi nuova debba necessariamente essere il prodotto di rielaborazioni precedenti. Ciò presuppone un determinismo sottostante la cui realtà non è, a mio avviso, verificabile in tutti i casi. Che lo sviluppo di qualsiasi processo sia un continuum in cui ogni momento sia determinato da uno o più momenti precedenti se non dalla totalità di tali momenti, è pura supposizione: assolutamente legittima e ragionevole, anzi necessaria se si vuol capire qualcosa di alcunché (se il capire consiste nell’operare collegamenti); ma nulla esclude che lo sfondo sociale e culturale (o qualsiasi motivazione) sia solo condizionante o stimolante o addirittura solo selettivo nei confronti di qualsiasi discontinuità manifestatasi. E non si può logicamente escludere l’indipendenza di una discontinuità dalla totalità delle circostanze. Non si può cioè escludere che una discontinuità sia tale in modo assoluto, e non solo in relazione al suo essere contrapposta o comunque non integrabile nello schema generalmente accettato fino al momento del suo manifestarsi.

Ora, tra le due posizioni estreme - il nuovo è tale assolutamente; aut il nuovo non è veramente tale, lo è solo in senso parziale e relativo, in riferimento a certi parametri - sono possibili e auspicabili posizioni intermedie, per cui la “rivoluzione scientifica” - come quella politica - non nasce istantaneamente, ma è preceduta da un processo di preparazione. Questo è vero, ma attenzione, perché il processo di preparazione può con piena ragione esser definito tale solo se la rivoluzione ha avuto luogo effettivamente. E che una rivoluzione scientifica sia tale è determinabile solo attraverso le sue conseguenze sul modo di pensare,* il che implica che ogni descrizione per quanto accurata di un processo di preparazione, date le conseguenze nella forma mentis implicate dalla rivoluzione scientifica, è in una certa misura un prodotto della stessa rivoluzione scientifica. In realtà, ogni punto di partenza nel tempo è, sul piano logico-semantico, una ricostruzione operata in un tempo successivo e in questa ricostruzione appare in una certa misura il materiale costruito successivamente nel tempo; ma è come dire che il punto di partenza della visione del formarsi del processo si trova verso la fine dello svolgersi del processo stesso.** In realtà, il centro della ricostruzione è proprio la novità: postulare che la modifica o caduta di un paradigma è antecedente alla novità è a mio avviso corretto e talvolta necessario, ma il carattere di discontinuità del “nuovo” deve essere conservato. Altrimenti, si avrebbe la spiegazione della crisi, ma non si avrebbe la crisi. Una situazione paradossale.

* Questo deve valere per qualsiasi rivoluzione, anche religiosa.

** A questo proposito, vedasi Hegel.

 

Il ruolo della “sintesi”

Benché tutto sommato marginali, le idee di Kant sulla matematica meritano tuttavia attenzione, non tanto per le tesi espresse, ma per il metodo di discussione impiegato.

Come è noto, nella Critica della Ragion Pura l’indagine kantiana verte sulla possibilità di fondare la metafisica come scienza; ma può essere considerata, entro certi limiti, una teoria generale che esplora i fondamenti della scienza stessa. Il suo metodo è relativamente originale: parte dall’analisi della ragione, non potendosi trovare, nel mondo empirico, alcuna base sicura per fondare la necessità e l’universalità di nessuna legge scientifica. In un certo senso, il fondamento delle scienze sta nello strumento stesso dell’indagine: la “ragione”, appunto. La quale ragione può costruire la conoscenza solo attraverso giudizi sintetici, dato che in quelli analitici il predicato è già contenuto nel soggetto; e questa è una apertura verso un concetto sintattico della conoscenza: questa produce giudizi, e i giudizi sono l’unificazione di elementi separati.

Dunque, seguendo Kant, sarebbe giusto attendersi che i giudizi matematici siano giudizi sintetici a priori.* Questa affermazione è apparentemente sorprendente, perché la dimostrazione matematica appare come un meccanismo che costringe il matematico a riconoscere la verità della tesi: il che vuol dire che, sotto certi aspetti, la tesi di un teorema è implicita nell’insieme delle ipotesi. Ciò richiama il giudizio analitico, nel quale il predicato è contenuto nel soggetto. In effetti lo stesso Kant evidenzia l’apparente incongruenza (“poiché... le deduzioni dei matematici procedono tutte secondo il principio di contraddizione...così si credeva che anche i principi fossero conosciuti in virtù dello stesso principio...e in ciò si sbagliavano, perché una proposizione sintetica può sempre essere conosciuta secondo il principio di contraddizione, ma solo a condizione che si presupponga un’altra proposizione sintetica dalla quale possa essere dedotta...).**

* Il concetto kantiano di “sintesi” va inteso nel senso che anche quelle proposizioni matematiche, che a prima vista sembrano delle identità (es. 7 + 5 = 12) e quindi per niente “sintetiche”, devono invece essere considerate tali in quanto il risultato, benché calcolabile con un metodo universale e identico alla somma dei due numeri, non è immediatamente presente all’operatore: cosa che è più evidente - dice K. - quando il numero di cifre è grande. Cioè: la conoscenza del risultato non è immediata, ma richiede l’intuizione o dei passaggi, e non è quindi “contenuta” nel concetto della somma di due numeri dati.

** Critica della Ragion Pura, Introduzione, Sezione V par.1. Ho usato la traduzione di Giovanni Gentile.

In realtà, vi sarebbe un secondo aspetto, diverso da quello analizzato da Kant, sotto il quale la matematica (e di conseguenza tutte le discipline scientifiche) può essere considerata il prodotto di “sintesi”, intesa però in un senso generalizzato, e sta proprio nella produzione delle dimostrazioni. Infatti, mentre la tesi di un teorema è conseguenza logica delle ipotesi, ogni particolare dimostrazione di un teorema non è in generale determinabile con un procedimento universale. Non esiste un metodo universale praticabile per determinare la dimostrazione di un qualsiasi teorema in un numero predefinito di passaggi, anche se è possibile ottenere la dimostrazione di alcuni teoremi mediante opportuni algoritmi.* Il che, tradotto nella Fisica, implica che non esiste alcun metodo universale per determinare univocamente una teoria che possa spiegare un insieme arbitrario di fenomeni: cosa che comunque non impedisce affatto che a tali risultati si possa giungere, sia pure attraverso tentativi e ripetuti fallimenti.

* A tutto rigore, un teorema è definito come una “formula ben formata”, cioè costruita rispettando certe regole di formazione, tale che sia l’ultima di una dimostrazione; però il concetto di teorema non è sempre effettivo, nel senso che può non esistere, per certi sistemi formali, un procedimento effettivo (cioè meccanico) in grado di stabilire se una qualsiasi formula “ben formata” del sistema sia o no un teorema. In questo caso, la dimostrazione - se c’è - non può essere determinata mediante un metodo universale; è una creazione del matematico, per cui ho utilizzato ancora il termine “sintesi”, anche se non nel senso kantiano.

Il fatto che la matematica e la fisica esistano non dipende quindi solo dall’esistenza di dimostrazioni. Non dipende neppure dall’esistenza di un metodo generale di costruzione delle dimostrazioni / teorie. Dipende invece dalla possibilità di costruire sequenze simboliche - non importa come - e di verificarne la coerenza: intrinseca nel caso della Matematica, con l’insieme dei risultati sperimentali nelle scienze, e in Fisica in particolare.

 

Insufficienza delle indagini e delle “soluzioni” storicamente proposte

A mio avviso, il ruolo della sintesi - non propriamente secondo l’accezione kantiana, ma intesa come processo di formazione delle connessioni simboliche, cioè del pensiero razionale - non è stato adeguatamente considerato nell’epistemologia moderna, diciamo da Mach in poi. Né Popper, né Kuhn, né Wittgenstein e i positivisti logici hanno posto questo problema in primo piano: essi hanno cercato di definire un concetto generale della “scienza” e del “significato” o “senso” compatibile con l’immagine che ne avevano, cioè operando essi stessi delle sintesi che verosimilmente non soddisfacevano neppure i canoni che arbitrariamente avevano prefissato - anche se i loro sforzi non sono stati inutili.

Il fatto è che, detto banalmente, non c’è costruzione della scienza se non c’è qualche idea nuova, e a questo punto potremmo convenire che non vi è descrizione soddisfacente della “scienza” se non si esplora come si costruiscono le novità, cioè come avviene la sintesi. È evidente che non esiste un algoritmo che produca tutte le sintesi, anche se molte sintesi possono essere prodotte mediante algoritmi; in un certo modo anche la deduzione è un processo di sintesi, tuttavia la costruzione di un algoritmo o richiede un altro algoritmo - e allora abbiamo un recesso all’infinito, dato che non abbiamo nessun algoritmo massimo capace di elaborare tutti gli altri algoritmi possibili - o, appunto, qualcosa che non è algoritmo, cioè una costruzione non derivabile da altro, ma in sé auto-sussistente. Ma come è possibile? La risposta è semplice: le regole cui le sintesi debbono soddisfare sono del tutto insufficienti a produrle, cioè la risposta è nella non-esistenza dell’algoritmo massimo (o, se si vuole, di una teoria ultima a priori). Ma - si dirà - questo preclude la possibilità di una soluzione definitiva al “problema della scienza”, cioè all’impossibilità di fissare l’epistemologia in un risultato finale.

Ma chi ha mai detto che vi sia una soluzione?

Tuttavia, è possibile indicare qui sommariamente alcuni caratteri costituitivi delle sintesi. Innanzitutto, la deduzione di una teoria a partire da osservazioni già interpretate e da un quadro concettuale-formale predefinito. Sottolineo che non importa che nella deduzione si trovino elementi non-empirici ed estranei allo stesso quadro concettuale di sfondo; la deduzione non è un meccanismo ergo qualcosa del genere ci deve essere - vedasi la costruzione della gravitazione universale di Newton; essa deve soddisfare le regole di inferenza ma è evidente che non può inferirsi la stessa deduzione. Altri meccanismi:

- la negazione di una qualche ipotesi, specie se generalmente accettata: è chiaro che nulla ci permette di inferire a partire dal quadro concettuale precedente tale negazione, anche se l’insufficienza del predetto quadro è una motivazione sufficiente per la sua negazione;

- l’ispirazione che può derivare da infinite occasioni: immagini che si producono spontaneamente, colloqui avuti con altre persone, e perché no, fraintendimenti e reinterpretazioni di quanto già detto...

- la creazione dal nulla di una nuova idea: perfettamente compatibile con il concetto sopra esposto di sintesi. Sul piano logico, una sintesi non ha bisogno di una causa per prodursi.

Infine, un punto debole di quasi tutta l’epistemologia moderna è la poca analisi degli esperimenti. È impossibile definire i caratteri della scienza moderna se si parte da definizioni generali e si costruiscono sistemi ipotetico-deduttivi.

 

Conoscenza matematica e conoscenza empirica

L’indagine sui fondamenti della conoscenza scientifica vanta una vasta letteratura. In un certo senso, già nell’antichità classica furono elaborate le fondamenta dell’epistemologia, attraverso lo sviluppo della logica e della geometria; ma la scienza antica non riuscì a procedere oltre a un certo segno, vuoi per ragioni strutturali, vuoi per la mancata saldatura tra il pensiero geometrico e l’indagine fisica.

Bisogna rendersi conto di quanto l’immagine scientifica del mondo dipenda dallo sviluppo matematico. È vero che buona parte di ciò che noi indichiamo con “scienza” non dipende direttamente da strumenti matematici: ma il mondo fisico, così come viene oggi concepito, è semplicemente impensabile senza la matematica.

Questo pone alcuni problemi. Benché si possa, a mio avviso, sostenere che tra la geometria degli antichi pitagorici e l’attuale formulazione del pensiero matematico vi sia una sostanziale continuità, vi sono tuttavia indizi che il carattere specifico della matematica, in generale, non sia stato in passato inteso come attualmente. In particolare, è il ruolo della dimostrazione che sembra nettamente dividere le matematiche attuali da quelle antiche fino a circa la metà del XIX secolo.

Una dimostrazione deve avere carattere oggettivo. Portare alle estreme conseguenze questo principio implica alcune condizioni: essa non deve dipendere essenzialmente dall’interpretazione che viene data ai singoli termini e deve soddisfare certe regole di derivazione, che sono fondamentalmente regole di concatenazione delle proposizioni. Queste regole devono essere espresse in funzione di un certo numero di connettivi e devono collegare proposizioni. Insomma, la dimostrazione è oggi concepita come una sintassi che, date certe premesse, conduce necessariamente a certe conseguenze.

La dimostrazione geometrica classica non soddisfa esattamente questi requisiti. La sua necessità e universalità non venivano giustificate da una sintassi operante su formule ben formate, perché implica operazioni su figure. È vero che ogni figura può essere identificata da un insieme di proprietà che svolgono il ruolo di premesse sufficienti a garantire la correttezza logica del procedimento deduttivo: e infatti, la geometria euclidea è logicamente corretta. Ma queste proprietà non sono esplicitate in una forma proposizionale; restano implicite nella costruzione geometrica. Questa svolge il ruolo della sintassi, anzi è essa stessa una sintassi, solo che non opera su un numero finito di simboli astratti, ma su un modello ideale. Ciò pone in primo piano la rappresentazione e induce a pensare che le dimostrazioni siano necessariamente legate all’universalità di tali rappresentazioni, che peraltro non sono mai identificate in una particolare figura o oggetto concreto, perché fungono da campioni ideali di un insieme di oggetti. Tali rappresentazioni fanno da ponte tra la figura disegnata e l’idea sottostante e inducono a pensare che la verità sia raggiungibile solo attraverso la capacità di intuire i rapporti tra le idee. Questo modo di pensare probabilmente non è caratteristico solo dei neoplatonici o dei neopitagorici, ma probabilmente anche di Aristotele * e sopravvive, credo, fino ad oggi.

* Il fatto è che la logica di Aristotele non si adatta affatto al ragionamento matematico. Questo non ha, generalmente, carattere sillogistico, cioè non è riducibile a operazioni di inclusione/esclusione, appartenenza di un elemento ad un insieme ecc. che possono raffigurare lo schema sillogistico. Può essere che Aristotele non abbia sviluppato una logica matematica perché il pensiero greco non giunge ad elaborare il concetto di una sintassi come garante della necessità logica, autosufficiente nel condurre alla verità?

A questo proposito, si consideri il ben noto passo del Menone, nel quale Socrate, porgendo una serie opportuna di domande a un servitore privo di qualsiasi “conoscenza matematica”, conduce l’interlocutore alla tesi di un teorema: secondo Platone, questo esempio di maieutica dimostrerebbe che la “conoscenza” acquisita deriverebbe da un ricordo. Questo ragionamento - che Platone presenta come quasi ovvio - richiede che, in qualche modo, la dimostrazione matematica non fosse considerata di per sé del tutto sufficiente a provare la tesi di un teorema? Ma in cosa dovrebbe consistere l’insufficienza presunta della dimostrazione? La risposta migliore è che il punto di vista greco (molto vicino peraltro a quello del senso comune) è fondato su un concetto della “verità” come adesione ad una realtà che, pur non potendo essere percepita (perché le figure geometriche non sono in sé oggetti sensibili) viene intuita, e in questa intuizione, e non nei passaggi logici, starebbe la “verità”. La “dimostrazione” quindi sarebbe semplicemente il processo che guida l’intuizione, anzi è lo stesso manifestarsi dell’intuizione; ma poiché nella matematica questa non può fondarsi sull’esperienza (in quanto i Greci riconoscono il suo fondamento non-empirico), il suo contenuto deve trovarsi su un piano “altro” dal sensibile. Si potrebbe quindi asserire che la dimostrazione è sufficiente per giungere alla tesi, ma che il fondamento della “verità” di ogni tesi o proposizione geometrica non sia nella dimostrazione, ma nella corrispondenza - che può essere solo intuita - tra l’enunciato della tesi e un “ente ideale”. Questo punto di vista non è in completa opposizione a quello contemporaneo; solo che, in quest’ultimo, il rapporto tra, da una parte, il sistema formale (gli assiomi della Geometria, ma non quelli di Euclide, bensì p.es. quelli di Hilbert) e le dimostrazioni che manipolano i suoi termini e, dall’altra parte, il modello del sistema (cioè, il piano euclideo e la totalità delle figure geometriche) deve essere invertito: la “verità” delle proposizioni della geometria è tutta contenuta nell’insieme degli assiomi ed è conservata applicando le regole di inferenza, e gli assiomi sono “veri” perché il loro modello è una loro possibile interpretazione - esattamente come l’aritmetica è una interpretazione degli assiomi di Peano - e quindi ogni proposizione che contraddica le proprietà del modello contraddirebbe pure gli assiomi. Poiché ogni sistema coerente di assiomi ammette almeno un modello, ogni sistema di assiomi è vero in un modello, e la verità è ricondotta alla non-contraddittorietà del sistema, che è una proprietà sintattica, in quanto esprimibile mediante connettivi logici e simboli astratti. Il “mistero” semmai è perché l’inferenza conservi la verità. La risposta è estremamente semplice: perché le regole di inferenza sono state costruite proprio a questo scopo, e questo si ottiene evitando le contraddizioni essendo super-ovviamente il falso uguale al contraddittorio del vero...evitando la contraddizione eviti di giungere al falso partendo dal vero.

Comunque sia, questo modo di intendere la dimostrazione separa in modo netto l’osservazione empirica e la logica matematica. La verità matematica appare autosufficiente e indipendente dai fenomeni; essa si irrigidisce in una struttura il cui fondamento non è il mondo fisico, ma un mondo ideale, che è possibile intuire attraverso la geometria.

Perciò la “nascita” del pensiero scientifico moderno deve superare questa distanza tra il mondo fenomenico e quello ideale dei matematici. Questo fu ottenuto estendendo il ragionamento matematico alla “filosofia naturale” (si pensi p.es. alle definizioni e agli assiomi del moto di Newton, e all’assetto deduttivo che impresse alla meccanica), che da allora ha assunto il carattere della “scienza moderna”. Già Galilei pone con chiarezza la questione, quando afferma esplicitamente che la struttura dell’Universo è di tipo matematico e insiste sulla necessità di osservare come avvengono i fenomeni (mediante misure), prima ancora di indagarne le cause. Nel pensiero di Newton, la contrapposizione tra geometria e realtà fenomenica è chiaramente evidenziata, quando si confronta lo spazio assoluto, vero, matematico, con lo spazio empirico, relativo, nel quale i fenomeni avvengono e al quale i fenomeni vanno riferiti, e la sintesi tra i due concetti è realizzata mediante l’esperienza del secchio d’acqua rotante; il cielo delle stelle fisse diviene la migliore scelta possibile come riferimento dei moti. Questa sintesi, tuttavia, non tocca ancora la nozione tradizionale della verità matematica; lo spazio resta lo sfondo nel quale avvengono i fenomeni, incondizionato dalla presenza della materia.

 

Il ruolo della coerenza

Essenziale è in matematica il vincolo della coerenza interna. Nel caso delle scienze fisiche, il vincolo è nella coerenza tra la struttura simbolica (teoria) e i risultati degli esperimenti. Tuttavia. gli esperimenti non forniscono dati puri, dato che le informazioni sono il risultato di complesse procedure sperimentali e debbono generalmente essere interpretati alla luce di teorie più consolidate. Ciò impedisce di separare nettamente un presunto dato empirico puro da una teoria. Ogni risultato interpretato implica una teoria senza la quale non è possibile né costruire un apparato sperimentale (strumento di misura) né fornirne una interpretazione. Dunque, lo sviluppo delle teorie sul mondo fisico sembra ottenere due effetti:

1. Il mondo fisico è svuotato di una sua presunta “sostanza”; la “materia” tende a divenire un contenuto di informazione trattabile solo attraverso teorie consolidate;

2. Tale informazione non è però, evidentemente, generata dalla teoria che viene sottoposta a verifica. Benché non interpretabile e non ottenibile senza teorie, il contenuto dell’informazione è da esse indipendente: quindi si può ipotizzare un meccanismo di selezione, che porta a respingere quelle teorie che sono con esso incompatibili.

Questo schema (che nel punto 2 richiama la ben nota posizione di Popper)* non descrive completamente lo svolgersi della ricerca scientifica. La contraddizione tra un risultato sperimentale e una teoria non è affatto sempre chiara ed evidente; soprattutto non è, in generale, chiaro quale particolare punto di una teoria deve essere eliminato. E nemmeno è detto che una teoria venga gettata alle ortiche solo perché “qualcosa non va”. Se si fosse proceduto rigorosamente secondo questo criterio, forse oggi non vi sarebbe nessuna teoria. Esso è piuttosto la descrizione più semplice possibile di come la coerenza di una teoria fisica possa essere prodotta. In realtà, non è affatto detto, e non è neppure necessario, che si trovi un procedimento generale che garantisca tale coerenza: il che implica che non esiste una vera e propria definizione di scienza in termini di metodo. Neppure la ben nota demarcazione di Popper è sufficiente allo scopo, anche se ha il merito di esprimere il vincolo di coerenza in termini estremamente semplici. La scienza non è definibile in termini di metodo, e forse nemmeno di certezza - a meno che, con certezza, non si intenda la coerenza nella forma prima enunciata.

* “Ogni teoria che non può essere confutata da alcun evento concepibile, non è scientifica...ogni controllo generico di una teoria è un tentativo di falsificarla, o di confutarla...Il criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità, confutabilità o controllabilità”. Da La Scienza: Congetture e Confutazioni, cap. I.

In breve, una teoria è scientifica se fa previsioni che possano essere smentite con osservazioni o esperimenti.

Ma, a questo punto, il problema del fondamento della scienza in generale, come può essere posto? Se non esiste una procedura universale di generazione delle teorie, e neppure una regola stabile di controllo delle medesime, quale è il fondamento della scienza? La risposta potrebbe essere: nessuno, se si cerca una fondazione “esterna” alla scienza stessa, un a priori che ne garantisca la certezza. O potrebbe essere: il fondamento è nel risultato stesso della scienza, o, meglio, nella pura e semplice constatazione a posteriori che la scienza produce risultati.

 

Sul significato della “conoscenza scientifica”

Questo punto di vista, di tipo pragmatico, può sembrare sconcertante, in quanto non pare rispondere alla classica domanda: come è possibile la conoscenza?* Quasi che, non potendosi rispondere alla domanda, non possa esservi l’oggetto - cioè la conoscenza. Come dire, non sapendo come si pensa, si conclude che non si pensi affatto. A questo punto, sarebbe meglio chiedersi se la domanda ha senso, e sarebbe bene definire in cosa consista la conoscenza.

* Le argomentazioni di questo paragrafo si applicano alla conoscenza scientifica. Non escludo a priori che possano estendersi ad altre forme di conoscenza e anzi che possano essere utilizzate per una definizione aprioristica del concetto di conoscenza, in generale, ma non è mia intenzione sostenere o anche solo appoggiare una tesi siffatta.

Il problema è che troppo spesso la conoscenza è identificata in un contenuto semanticamente definito. Il linguaggio è fatto in un certo modo; si dice “si conosce qualcosa” come se la conoscenza fosse un’azione transitiva, cioè dotata di oggetto. La prospettiva cambia se si considera la conoscenza un modo con cui gli oggetti pensati vengono ordinati. La conoscenza matematica è di questo tipo: al limite, si potrebbe, credo a ragione, asserire che non ha e non è un contenuto, ma un modo di ragionare. Ma, ingenuamente, si dirà: il ragionamento deve pure applicarsi a qualcosa. La risposta è no, perché il ragionamento ha il fondamento in un certo modo di combinare gli oggetti, non negli oggetti. Quindi il ragionamento può operare sugli oggetti (attraverso i termini del lessico di cui si avvale) come può operare su termini che non denotano nessun oggetto, né individuo né classe, particolare. Di più: bisogna ancora vedere se non sia il contrario, vale a dire gli oggetti non siano, almeno in certi casi, i prodotti del ragionamento.

Non che questo punto di vista non abbia difficoltà: le ha anzi, perché portandolo alle estreme conseguenze dovremmo eliminare completamente il significato, e il ragionare sarebbe solo un atto fine a se stesso. Ma non è affatto necessario portarsi su questo estremo. È sufficiente assumere l’aspetto formale della conoscenza oltre a quello semantico ed esplorarne le possibili implicazioni.

Dunque, la conoscenza a questo punto assume due principi: l’informazione e i suoi modi di ordinamento. La sistematizzazione ipotetico-deduttiva della geometria elementare è un esempio classico. La funzione primaria dell’inferenza non è quella di produrre conoscenza, è quella di ordinarla. Abbiamo già visto che l’inferenza (la dimostrazione deduttiva nel senso matematico del termine) conserva la verità, ma non può produrla; ergo essa è una forma di ordinamento della struttura, ma la struttura non può essere prodotta dall’inferenza: o preesiste (platonismo) o è generata da processi non-inferenziali (la conoscenza è sintetica; costruttivismo).

È inutile arrovellarsi se, tra l’idealismo platonizzante o l’empirismo, si possano produrre prove decisive per operare una scelta. Se la conoscenza è essenzialmente un modo di organizzare l’informazione, la radice della questione è la possibilità di organizzarla, e la “spiegazione” più semplice è che l’informazione abbia in sé la propria organizzabilità.

 

La questione delle origini

Questo risponde ad un’altra domanda, apparentemente insidiosa: se una scienza può essere giudicata come tale solo a posteriori, come è che inizia? Come dire: se la scienza è un edificio di parti ben formate e ben sistemate, in modo da poter sussistere salvo terremoti di incredibile intensità, come è che la si è costruita senza un progetto iniziale? Dove è il punto di partenza? Il fatto puro e semplice è che questa analogia - come tutte le analogie - trae in errore, se è portata alle estreme conseguenze. Una analogia non è un ragionamento deduttivo formalmente corretto e non conserva la verità: va presa per una esemplificazione, un modello che permette di cogliere sinteticamente un ragionamento complesso. Non esistette nessun progetto iniziale e la scienza non cominciò solo perché ad un certo punto “qualcuno si mise a pensare in modo diverso”. Le discontinuità si manifestano dopo che l’edificio è già stato costruito, e possono manifestarsi appunto perché è stato costruito. Non solo: l’edificio non è mai stato costruito a partire da un istante determinato. “Nella filosofia ci siamo già”, diceva Hegel, e analogamente, in un certo senso, potrebbe essere lecito ipotizzare che nella “scienza” ci siamo sempre stati, proprio perché la conoscenza non è questione di un contenuto.* La conoscenza ha il suo fondamento in una potenzialità la cui sede non è in nessun sapere particolare e che in quanto tale non ha alcun inizio nel tempo.

* Questa tesi non deve affatto sorprendere, e non è recente. “La conoscenza non sta nelle (singole) conoscenze” è detto nel Teeteto, e si potrebbe riflettere sulla consistenza di una proposizione del tipo “conoscere cosa sia la conoscenza”.

Ciò non toglie che ciò che noi indichiamo usualmente con “pensiero scientifico” abbia avuto un inizio nel tempo; e tanto meno che il nostro modo di pensare (ammesso che vi sia una unità di fondo) non sia affatto identico a quello del Neolitico.* In effetti, si possono riconoscere due importanti fratture almeno, nel modo di pensare: quella del XVII secolo, con l’applicazione sistematica della matematica alla fisica; e il sorgere della scienza greca, accompagnate dal declino della teologia medioevale e del mito, rispettivamente. Ma la prima divenne tale per via delle conseguenze del suo verificarsi; o, per meglio dire, essa si produsse inizialmente all’interno di paradigmi consolidati: né Galilei né Newton ragionavano secondo una logica diversa dai contemporanei. E che dire della seconda? È un’ipotesi, tra l’altro smentita dagl’interessati, dato che i Greci asserivano che la geometria venisse dall’Egitto. In realtà, è molto improbabile che ipotesi particolari o singole scoperte possano essere poste all’inizio del processo, come premesse sine qua non di sviluppi ulteriori, come se la scienza abbia bisogno di ipotesi senza la cui formulazione non possa sorgere. Sarebbe come aver trovato una formula della “scienza” prima di possedere la scienza. Un progetto è tale perché contiene la struttura del risultato (io architetto so come sarà fatta la casa prima di averla costruita) ma non posso sapere quale sarà lo sviluppo della scienza. Se fosse così, saremmo scienziati sin dall’origine dei tempi.

* Veramente, questa proposizione non ha carattere immediatamente fattuale. È solo un giudizio, cui si può giungere osservando che il modo di pensare degli antichi fosse diverso da quello dei moderni. Peccato che, ragionando fino alle estreme conseguenze, si troverebbe che non esisterebbe una unità del concetto di “pensiero”. Con questo non voglio stupire il lettore con proposizioni paradossali; è solo che noi organizziamo il nostro pensare su pregiudizi - ovvero su punti fermi - la cui verità incontra dei limiti.

È un po’ quel che succede quando si asserisce che vi sono logiche diverse. Se fosse così, in base a quale di queste logiche si arriverebbe a tale conclusione? Proprio perché vi sono logiche diverse, dovrebbe essercene qualcuna nella quale la conclusione sarebbe proprio quella opposta.

È molto più probabile che le mutate condizioni storiche e sociali abbiano esercitato una nuova e diversa pressione, che ha inibito certe cose e favorito altre: come dire che, nell’indefinito caos di tutte le potenzialità, la particolare situazione che venne a crearsi, nella Ionia del VI sec. a.C., stimolò certi esiti, a discapito di altri. Ma il pensiero scientifico è una modalità insita nella struttura stessa di ciò che va scoprendo: se non fosse così, non si avrebbe scienza, ma libera creazione, fantasia chiusa in sé. Quindi non può nascere prima del risultato; nasce col risultato, anzi viene riconosciuto come tale dopo, forse molto tempo dopo, quando il risultato è così acquisito da far sembrare assurdo ogni punto di vista con esso incompatibile, e che sarà ormai identificato come errore.*

* Questo destino capita anche ai sommi scienziati. Newton fu severamente criticato da Ernst Mach, il quale ebbe a ridire che egli non si sarebbe attenuto al “fattuale” (“non fingo hypotheseos...”). Einstein verosimilmente si sbagliò nei confronti della meccanica quantistica. Per non parlare di Aristotele, della cui fisica nulla sta più in piedi. O dell’idea per cui la geometria euclidea fosse l’unica possibile. E non si tratta di errori limitati a qualche problema specifico, ma su questioni assolutamente fondamentali, al punto che per capire i punti di vista ormai classificati come errori bisogna, in certi casi, operare uno sforzo, per tentare di ricostruire una logica ormai abbandonata. Non sosterrei quindi l’idea di un inizio netto e preciso del pensiero scientifico nei confronti del mito, e tanto meno quella di una presunta rivoluzione metodologica originaria, perché la sua relazione col mito sembra avere molto in comune con quella tra fasi successive dello stesso pensiero scientifico.

 

Insufficienza delle definizioni di “scienza”

In questo paragrafo non seguirò una esposizione sistematica e una logica rigorosamente conseguente. La sistematizzazione va bene quando si possiede la soluzione di un problema, ma vi sono fondati dubbi se il problema in discussione abbia soluzioni.

Si domanda. La fisica aristotelica è scienza fisica?

Risposta. , se si accetta che la scienza abbia come oggetto proprio il “mondo fenomenico”; no, se si considera che... non è vera scienza, dal momento che le nozioni e le spiegazioni di Aristotele sono false. Può una scienza avere un contenuto falso? Possibilissimo, se adottiamo un criterio di demarcazione alla Popper, ma 1. non siamo obbligati a farlo - perché ogni criterio è convenzionale; 2. se la scienza procede attraverso confutazioni, il materiale confutato non è più scienza, altrimenti la scienza non procede. La costruzione del pensiero scientifico è irreversibile. Qualsiasi definizione siffatta implica la storicizzazione del contenuto del concetto; ma se cambia il contenuto, fino a negare le posizioni precedenti, allora anche il concetto cambia, e quindi non vi può essere una definizione statica della conoscenza scientifica.

Con tutto ciò, il criterio di Popper, nella sua semplicità, non può essere rigettato. Di per sé, esso giustifica sia il contenuto variabile della scienza sia l’elemento costante fondamentale - la coerenza con l’osservazione, ponendo giustamente l’accento sul processo ideale di formazione, senza essere una vera e propria “definizione”. Esso è una guida per distinguere tra congetture che possono essere controllate (e quindi confutate) e congetture che non lo sono. Inoltre, anche se una determinata congettura non fosse immediatamente confutabile, può essere che lo siano le sue conseguenze. È vero però che di solito si ha a che fare non tanto con singole proposizioni, ma con sistemi teorici complessi, e in una teoria sono presenti p.es. equazioni fondamentali (come quella di Schrödinger), parametri (come la costante di Planck), principi generali (come quello di relatività generale) che nell’insieme non sono semplici congetture. Tuttavia, il criterio di Popper esprime efficacemente il concetto della coerenza tra teoria e osservazione, e stabilisce il carattere ipotetico di qualsiasi sapere scientifico. Che poi una ipotesi contraddetta dall’esperienza sia scientifica o meno, dopo che è stata contraddetta, è questione che non può porsi realisticamente nella forma secca di una scelta tra il e il no. Questo va bene, se si considera la scienza come la ricerca della verità, o di una verità ultima alla fine di un processo di esplorazione indeterminato. Ma non sembra essere questo il carattere attuale della scienza (di nuovo, la difficoltà di una definizione valida in ogni epoca storica). Una logica selettiva troppo rigida non è in realtà applicabile al pensiero scientifico. Per es., l’elettromagnetismo classico è confutabile e confutato (il modello classico dell’atomo è instabile, già dal punto di vista della fisica classica), ma sarebbe assurdo non servirsene nei problemi in cui è capace di fornire previsioni corrette. Le teorie scientifiche vengono effettivamente giudicate in base al loro potere esplicativo e predittivo, cioè dall’uso che si può farne.

Una possibile soluzione potrebbe essere: da un certo punto in poi, le posizioni precedenti non vengono veramente negate, ma superate, nel senso che una parte del contenuto precedente viene in qualche modo inclusa negli sviluppi successivi. Giusto, ma questo “contenuto costante” non è sicuramente definibile in nessun preciso momento storico. Come faccio a sapere hic et nunc che cosa del “sapere scientifico” attuale sarà conservato tra cinquecento anni? Al limite: che cosa garantisce assolutamente che una parte del contenuto della scienza rimanga costante in ogni epoca? Risposta plausibile: nulla, perché non c’è una procedura fissa in ogni tempo e luogo che mi permetta, ora, di svolgere questa operazione. A meno che, di nuovo, non siamo scienziati fin dall’origine dei tempi.

Proviamo ad accettare il (sempre in riferimento al quesito posto all’inizio del paragrafo). Allora, la “scienza” sarebbe definita dal suo oggetto, cioè dal “mondo fenomenico”. Ma cosa è il mondo fenomenico? Vedo già l’ipotetico interlocutore sorridere beato: ma è l’insieme dei fenomeni, è ovvio. Così ovvio che si parla dell’oggetto della scienza senza in realtà sapere di che si parla, perché in termini scientifici il mondo fenomenico è conosciuto attraverso la scienza cioè è essenzialmente informazione e se non c’è scienza non c’è informazione, dato che la scienza serve a produrla, mediante analisi teoriche ed esperimenti. È vero che il fenomeno è percezione, ma la scienza non è percezione. La scienza tratta di informazione che si costruisce mediante la stessa scienza. Non c’è oggetto stabile di fronte alla scienza. La scienza non studia un insieme di dati precedenti se stessa.

Si domanda, a questo proposito. Che cosa è il mondo fenomenico? Non nel senso immediato di ricerca di una definizione nominale tipo “esso è...” dove i puntini simboleggiano una proposizione; ma nel senso di una delimitazione ovvero di un criterio universale che permetta di identificare l’estensione del concetto senza ambiguità. Intendo dire: un concetto ben definito ha una estensione anch’essa ben definita, vale a dire debbo poter sapere almeno in linea di principio se un certo oggetto appartiene o no all’insieme degli oggetti designati da quel concetto. Ma l’insieme dei fenomeni, appunto in virtù del concetto di fenomeno, non può avere un’estensione definita. “Fenomeno” è ciò che si manifesta, e non designa alcun oggetto e nessun insieme di oggetti in particolare. Qualsiasi oggetto o concatenazione di fatti o situazione che venga percepito è fenomeno, nella misura in cui è percepito. Questa definizione non conduce a nessuna estensione stabile, ha lo stesso significato di un gesto vago. Da un punto di vista sperimentale, “fenomeno” è ciò che appare durante l’esperimento, e senza l’esperimento non c’è. Se la scienza studia i fenomeni, allora studia ciò che essa stessa produce, e se non produce, allora non può studiare i prodotti della propria attività. Quindi non ci sarebbe lo studio del fenomeno e non ci sarebbe la “scienza”.

Ma, si dirà, la scienza cominciò con lo studio dei fenomeni che essa stessa non produce. Va bene, ci sono i fenomeni naturali “spontanei” i.e. fulmini, terremoti, ecc., ma allora “all’inizio” non c’è veramente esperimento, perché l’esperimento non è un fenomeno naturale spontaneo.

La “scienza” dunque deve precedere l’esperimento nel tempo; la conoscenza scientifica non può cominciare con l’esperimento.

Poiché l’informazione originaria era appunto il mondo dei fenomeni spontanei, e questo non ha inizio nel tempo della storia umana, di nuovo troviamo che, se la scienza fosse ciò che ha per oggetto il mondo fenomenico, essa potrebbe non avere origine nel tempo; e se ha origine nel tempo, allora non ha per oggetto solo il mondo fenomenico.

Oppure, in alternativa: non si potrebbe parlare oggi di “scienza” in relazione alle conoscenze, più o meno sistematiche, precedenti l’osservazione sperimentale. Si deve ammettere un nucleo di conoscenze costruito a partire da poche, semplici osservazioni, spesso non corrette, definite un tempo come “scienza” e la “scienza” (quella vera) sarebbe sorta nel momento in cui “qualcuno” si sarebbe deciso, bontà sua, a spiegarci come si deve procedere... partendo dai fatti noti attraverso gli esperimenti, dato che a nessuno era venuto in mente, prima, che si dovessero fare esperimenti.

Quando parliamo di qualcosa, parliamo di cosa che in qualche modo ci è presente: un ricordo, una sensazione vissuta, ecc.; se non lo facciamo, il nostro discorrere non ha senso. Il senso di un elemento del linguaggio non è contenuto nel linguaggio; se così fosse, il linguaggio non avrebbe senso (questo non significa che ogni combinazione di simboli astratti sia inutile. L’applicazione - se c’è - determina un possibile “senso” di tutto l’insieme. Le teorie scientifiche e la matematica rientrano, evidentemente, nella categoria dei sistemi formali “utili” dotati cioè di scopo ovvero di risultati, e quindi in qualche modo sensati).

Quando si parla del “mondo” o dell’ “universo” o della “realtà”, se si parla sensatamente, si deve quindi far riferimento a un’immagine mentale, a un’idea, o più genericamente a un insieme di credenze più o meno comuni o convenzionali - per es. che il mondo è uno ecc.; anzi, è possibile che si segua una convenzione linguistica che può aver senso in casi particolari (p. es. ha senso dire “si deve tener conto della realtà” o parlare di “universo secondo la relatività generale”) ma tale “immagine mentale” oggettivamente indefinibile non è evidentemente un oggetto in qualche modo esterno al soggetto conoscente. Non è possibile, all’interno del linguaggio, cogliere il senso oggettivo di nessun termine; vale a dire, indipendente dall’esperienza e dalle rappresentazioni del soggetto. Tutto ciò che può, paradossalmente, essere considerato come oggettivo sono regole formali in sé prive di contenuto, proprio perché esse non descrivono rappresentazioni, ma modi di collegare i termini del discorso, quando portano a un risultato conforme alle aspettative.*

* Questo genere di considerazioni può aiutare a capire, almeno in parte, la querelle del XX secolo sulla meccanica quantistica. I critici della nuova teoria, sostenendo il punto di vista “classico”, asserivano che la meccanica quantistica non avrebbe potuto fornire una descrizione completa di un sistema fisico; ma tale “sistema fisico” è, sotto ogni riguardo, un termine convenzionale, un riassunto di ciò che la meccanica classica forniva come significato di quel termine. Per poter ragionare in termini classici (deterministici), bisogna ammettere un certo modello, nel quale ogni sistema fisico è, in ogni istante, caratterizzato da certe proprietà perfettamente definite (posizione impulso energia ecc.), ma per procedere in fisica è necessario estrarre informazione dall’oggetto: dunque l’oggetto reale dell’indagine fisica è questa informazione, non il “sistema fisico”, che io posso pensare come indipendente e autodeterminato se isolato dal resto dell’universo, ma che non potrei assolutamente studiare se questa immagine corrispondesse a realtà: perché non posso studiare un sistema isolato. Bisogna interagire con esso, e quindi non può essere isolato. Allo stesso modo, il “mondo fisico” è l’informazione estratta dal “mondo fisico”, solo che il primo ci è presente come somma di risultati sperimentali, il secondo è solo un termine del discorso, un sostrato ipotetico, modellizzato a seconda della teoria con la quale l’informazione viene analizzata e interpretata. E un modello è rappresentazione.

La “scienza” è precisamente un oggetto di questo tipo: un’idea tanto più indeterminata quanto più è variabile il suo oggetto; ma il suo oggetto - il “mondo fisico” - proprio in virtù di quanto detto prima, non è identificabile se non in un insieme di rappresentazioni organizzate secondo regole formali in un certo lessico - e quindi non esiste indipendentemente dalla ricerca scientifica. L’idea che il “mondo fisico” sia auto-consistente e in sé definito è solo un’idea: è lecito formularla, e può essere - come è di fatto - la base ideologica ovvero giustificazione comportamentale per condurre la ricerca scientifica; è a sua volta giustificabile in quanto la sua applicazione produce sempre nuovi risultati; in questo senso, essa muove verso una “verità ultima”; ma non corrisponde ad un oggetto indipendente da chi la formula, bensì descrive piuttosto un atteggiamento comune, meglio: è la formula più semplice che descrive un certo comportamento collettivo. In un certo senso vale il paragone con la ricerca del Graal. Paradossalmente, il Graal non c’è; c’è la ricerca del Graal.

La riuscita del pensiero scientifico quindi non è conseguenza dell’uso di un linguaggio adeguato, definibile a priori. Al contrario, il linguaggio è adeguato a posteriori, in quanto strumento che funziona.

In effetti, l’oggetto della scienza non è propriamente il “mondo fenomenico”, ma i modelli che di questo sostrato indefinito e variabile essa stessa propone. Se non c’è un modello, un quadro concettuale, l’insieme dei fenomeni appare caotico, incomprensibile. La sua unità, presunta o reale, corrisponde alla misura, peraltro non predefinibile, secondo cui questi modelli si sovrappongono. Ma la “scienza dei primitivi” non è già essa stessa un modello di un ipotetico mondo fenomenico originario, cioè assolutamente senza esperimenti?

La difficoltà di precisare la soluzione di certi problemi può far giustamente supporre che manchi qualcosa, cioè una definizione rigorosa di scienza.

Il fatto è che una definizione rigorosa - cioè che distingua bene ciò che cade sotto il concetto e ciò che non vi cade - deve produrre un oggetto con caratteristiche di stabilità: o di contenuto (non c’è), o di metodo. C’è un metodo universale? Risposta: ci sono metodi particolari, ma è estremamente dubbio vi sia un metodo universale. Veramente sembrerebbe che di universale vi possa essere solo il vincolo della coerenza tra l’informazione e la struttura simbolica (teoria) che la descrive. Ma non è propriamente un metodo; è solo una conditio sine qua non e non viene sempre rispettata, perché la contraddizione può essere accettata se la teoria riesce a spiegare alcune cose, ma non tutto... alla fine, ogni teoria viene mantenuta in vita se è utile in qualche modo, e in ogni caso sopravvive finché non si trova di meglio. Di nuovo, il criterio pragmatico. La separazione tra conoscenza e non-conoscenza è a posteriori. Non c’è una definizione utile. Dobbiamo ritornare al carattere della conoscenza scientifica come modo di ordinare l’informazione individuato nel paragrafo ad essa dedicato.

 

Economia di pensiero e comprimibilità dell’informazione

Si era detto, prima: “se la conoscenza è essenzialmente un modo di organizzare l’informazione, la radice della questione è la possibilità di organizzarla, e la “spiegazione” più semplice è che l’informazione abbia in sé la propria organizzabilità.”

Ma possiamo in qualche modo definire la sede e la natura di questa potenzialità? L’ultima cosa da fare è proprio quella che invece è stata fatta per prima: e cioè spostarla nel “trascendente”, il più grande suicidio mentale che si potesse escogitare. Limitiamoci quindi alle proposte sensate * che sono state formulate a questo proposito.

* Per “sensato” qui intendo ciò che può essere controllato logicamente ed empiricamente mediante un numero finito di passaggi, usando un lessico il cui significato è, per quanto possibile, comune a quanti si interessano di queste problematiche.

Le idee di Kant possono e debbono ancor oggi essere prese in considerazione, ma sono state formulate trascurando alcuni elementi essenziali, senza i quali non è possibile procedere molto oltre. In particolare, le conoscenze sulla matematica dei suoi contemporanei non consentivano di elaborare un quadro sufficientemente chiaro di come l’informazione venga effettivamente trattata. Probabilmente, è meglio focalizzare l’attenzione sull’epistemologia di Ernst Mach, che ha lasciato tracce profonde e che, opportunamente riformulata, è tuttora attuale.

Il concetto, pragmatico ma non puramente empirico, per cui la scienza è fondata sull’economia di pensiero ha un riscontro innegabile nella formazione della conoscenza scientifica, e potrebbe anche essere che tale principio sia l’unico discriminante. Infatti il principio di Popper è solo un criterio di coerenza e non è sufficiente a delimitare il concetto di “scienza”. Qualsiasi costrutto coerente con la realtà fenomenica potrebbe essere “scienza”. Ma la conoscenza scientifica manifesta una chiara tendenza a comprimere l’informazione: e questo aspetto, per quanto a mio avviso banalmente riconoscibile, non è stato considerato con sufficiente attenzione prima che Mach lo formulasse chiaramente. Non solo: tale compressione non deve implicare una reale “perdita dell’informazione”.

Ma questo dopo; diciamo che il pensiero scientifico riassume in termini finiti una enorme varietà di fenomeni che senza di esso apparirebbero scollegati e di natura affatto omogenea. Ciò implica la intelligibilità del mondo fenomenico oggettivo (fisico). Questa non sta in qualche facoltà conoscitiva o in qualche aspetto dello spirito ecc.; questi sono elementi magici, e non spiegano nulla; anzi, creano altri problemi. Il mondo fisico è intelligibile perché l’informazione è comprimibile in un numero finito di simboli, ma (e questo è essenziale) questa compressione è in grado di fornire previsioni controllabili: cioè non è un semplice riassunto del mondo fenomenico (una “mappa del territorio”) ma una costruzione simbolica autoconsistente capace, se interpretata, di fornire previsioni verificabili (o confutabili, seguendo Popper).

 

Prevedibilità dei fenomeni

Questo aspetto - la prevedibilità delle conseguenze delle teorie scientifiche, fisico-chimiche in particolare - rivela la struttura profonda del mondo fenomenico. Tale struttura non è tanto il particolare risultato di un insieme di ricerche, ma nel fatto che si pervenga a risultati.

La prevedibilità del mondo fenomenico si esplica a più livelli: il primo, banale, a livello di semplice induzione (un presunto processo cognitivo cui si diede molta importanza nelle fasi precedenti del pensiero epistemologico, e che comunque fornisce il materiale grezzo dell’esplorazione scientifica), per cui si constata che certi fenomeni sono ricorrenti; il secondo, a livello di modelli consolidati (p.es. sappiamo che, se vogliamo produrre una certa reazione chimica, dobbiamo procedere in un certo modo); il terzo, consiste nel fare previsioni confermabili dall’esperienza di oggetti o fenomeni mai visti prima (es. il laser, la scoperta delle particelle W± e Z0...). Nei primi due casi, la prevedibilità è legata in qualche modo alla ripetibilità del fenomeno; nel terzo, alla struttura intrinseca di una teoria. Dunque, dobbiamo ammettere, come interpretazione più semplice, che la struttura di una teoria (cioè un complesso simbolico organizzato) coincida almeno in parte con la struttura dell’informazione già estratta dal mondo fenomenico. Una tesi, a questo punto plausibile, è che l’intelligibilità del mondo fenomenico sia dovuta ad una identità di strutture.

 

Conclusione

Una identità di strutture non può avere la sua sede nel soggetto conoscente o in qualche suo strumento concettuale, ma deve derivare da qualcosa di intrinseco nello stesso contenuto di informazione. Questa considerazione permette di reinterpretare l’ipotesi di Mach dell’ “economia di pensiero” come possibilità di condensare l’informazione stessa in numero di simboli minore rispetto all’estensione originaria (cioè, l’insieme di tutte le possibili osservazioni sperimentali) in modo che qualsiasi osservazione sperimentale già eseguita e alcune osservazioni future possano essere predette in base alla struttura simbolica (le teorie). È molto probabile che questo punto di vista - cioè la comprimibilità intrinseca senza perdita significativa di informazione della stessa informazione - si affermi come “soluzione” del problema della conoscenza scientifica.

A questo proposito, non si possono trascurare le conseguenze delle indagini di Kolmogorov * e Chaitin,** in particolare, che hanno contribuito in modo essenziale alla formulazione della teoria dell’informazione (I.T.). Fondamentale è il concetto di complessità dell’informazione (codificata p.es. in stringhe binarie), definibile a partire dalla lunghezza dell’algoritmo di lunghezza minima sufficiente a generare la “stringa” data. Se si accetta che l’Universo dei fenomeni sia contenuto di informazione - cioè, se è in qualche modo codificabile - allora le teorie fisiche hanno il ruolo di, o permettono di, produrre algoritmi di compressione che riducono il contenuto di informazione ad un insieme molto più ristretto di termini, con i quali è possibile, idealmente, descrivere l’informazione contenuta nell’Universo. Realisticamente, il contenuto di informazione di partenza va identificato nell’insieme dei fenomeni noti, ma ciò implica sostanzialmente che l’Universo sia intrinsecamente ordinabile - almeno in parte.***

* Andrej N. Kolmogorov (1903-1987), insigne matematico russo, pose su solide basi matematiche il calcolo delle probabilità. Diede fondamentali contributi alle teorie dei processi stocastici, dei sistemi, degli algoritmi ecc.

** Gregory J. Chaitin (n. 1947), matematico americano, fondatore della teoria algoritmica dell’informazione.

*** Secondo la formulazione di Leibniz: “Dio ha scelto ciò che è massima semplicità nelle ipotesi e massima ricchezza nei fenomeni” e “Ma quando una regola è estremamente complessa, ciò che si conforma ad essa viene interpretato come caso”. A conferma che certe idee, che possono sembrare nuove, furono enunciate molto tempo prima, e in una forma tutto sommato “moderna”, e che la filosofia è in gran parte riformulazione di ciò che è già stato detto, riadattandolo al variare del linguaggio.

L’aspetto più interessante di questo modo di vedere il problema è che la potenza delle teorie fisiche avrebbe il suo fondamento nella stessa struttura dell’informazione, quasi che dal caos solo apparente del mondo fenomenico nasca un ordine già incluso nell’informazione. Ciò non implica affatto che le teorie derivino esse stesse dall’informazione; in linea di principio, gli algoritmi di riduzione non sono costruibili a partire dall’informazione. In questa sarebbe contenuta solo la riducibilità ad una “stringa” (= insieme di termini) di estensione molto inferiore. L’economia di pensiero è, in realtà, economia di informazione.

 

[Agosto 2004]

   

 

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