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Andreina Acquarone

LA MIA CITTÀ,

RICORDI E PERSONAGGI DI TORINO

Andreina Acquarone

Andreina Acquarone

   

Sommario

LA MIA CITTÀ RICORDI DEL TEMPO DI GUERRA

LE ZITELLE

RITRATTI DI PROSTITUTE

   

La mia città

   

Torino, 14 aprile 1997

Qui sono vissuta e qui vorrei morire

Io sono nata a Savona e, per quanto ne so, pure la mia famiglia d'origine è ligure.

Torino è per così dire la mia città d'adozione, anche se io la considero come mia.

A Torino infatti sono stata portata all'età di tre anni circa. Qui ho trovato tutto quello che non avevo mai avuto: una famiglia, degli affetti, una casa. Qui sono cresciuta, mi sono sposata, ho avuto i miei figli e sono diventata nonna. Qui sono vissuta e qui vorrei morire.

Borgo San Paolo e il campo di papaveri

Dai tre ai sei anni abitai in Borgo San Paolo in una casa popolare di corso Racconigi. Di fronte si ergeva la parrocchia dedicata a san Pellegrino, se ben ricordo, e lì vicino c'era una società bocciofila, con tanti alberi, dove andai qualche volta con mio padre, che amava giocare a bocce. Era un posto qualsiasi, ma fu quello il punto d'incontro fra coloro che divennero i miei genitori adottivi e me, qui avvenne il nostro collegamento, e per questo ho voluto ricordarlo.

A quei tempi la città non era così estesa come oggi, a poca distanza si potevano incontrare prati e campi coltivati. Mamma qualche volta mi ci conduceva.

Ricordo specialmente un campo di grano con tanti papaveri rossi che colpivano la mia fantasia di bambina.

Porta Palazzo

A sei anni andai ad abitare nei pressi di Porta Palazzo, nella zona storica della città.

Porta Palazzo era allora, oltre che un mercato ortofrutticolo, anche un luogo dove passare le domeniche senza spendere una lira.

D'estate vi erano le bancarelle delle angurie, belle polpose e rosse, dove vendevano anche il cocco tagliato a spicchi.

In autunno c'erano le bancarelle dell'uva. I venditori chiamavano i clienti a gran voce, decantando la propria merce.

Alla domenica mattina papà mi portava sempre a sentire i cantastorie che si esibivano sulla piazza del mercato. In circolo le persone stavano ad ascoltare. Cantavano bene, accompagnandosi con la chitarra o il mandolino, oppure con il violino, e a me piaceva sentirli. Dato poi che papà spesso si fermava proprio lì per parlare con qualche amico o conoscente e io mi stancavo a stare ferma in piedi, allora mi sedevo sulla sua scarpa. Era un po' scomodo, ma era sempre meglio di niente.

A volte vi erano anche i saltimbanchi, o gli imbonitori, che vendevano non ricordo che cosa. Vi era di tutto, spesso anche le giostre e i balli a palchetto, dove alla sera si riunivano tanti giovani e anche non giovani per fare, come si suol dire, "quattro salti".

Durante il Carnevale c'erano i venditori di zucchero filato, le bancarelle del "Torrone Gallo".

Ricordo una certa Paolina, che con un pentolone d'olio bollente faceva le frittelle, delle quali ero molto golosa.

Dove nei giorni feriali c'era il mercato dei contadini, alla domenica si vendevano cani, gattini e uccelletti di vario genere.

Il mercato vero e proprio era ed è ancora sullo spiazzo scoperto, ed è il più conveniente della città. Di fronte c'erano, e ci sono ancora, le bancarelle dei fiori, delle scarpe e dell'abbigliamento, come pure il mercato coperto della carne, del formaggio, del pesce.

Ricordo che vi era anche chi riparava gli ombrelli, o gli orologi, e che spesso i venditori si scambiavano battute più o meno spiritose, frizzi a volte salaci.

Si potevano incontrare le cartomanti e le chiromanti sedute su uno sgabello, con davanti un tavolinetto. Per poche lire predicevano tutto ciò che si voleva sentire.

C'erano pure i piccoli imbroglioncelli che facevano il gioco delle tre carte, appoggiandosi sopra un ombrello aperto e pronti a scappare appena vedevano un vigile, perché questo gioco non si poteva fare, essendo un vero e proprio imbroglio ai danni degli ingenui. Mio padre, che non era ingenuo per niente ed era molto osservatore, aveva scoperto che costoro, sempre in cinque o sei, si alternavano fingendosi clienti e come tali naturalmente vincendo sempre, così gettando l'amo a danno degli sprovveduti, per carpire le loro poche lire.

Tutt'intorno alla piazza vi era ogni sorta di botteghe. I primi cinesi giunti a Torino vendevano solo cravatte, girando tutto il giorno con le spalle e le braccia colme di cravatte, e gridando, poiché non sapevano pronunciare la erre:

Una bella clavatta pel due lile!

A Porta Palazzo arrivavano tanti tram, che portavano in tutte le parti della città. Era un posto pieno di vita e di colore, dove la gente, oltre che comprare, poteva scambiare quattro chiacchiere, magari qualche pettegolezzo, e dove ci si divertiva. Per coloro che ne avevano voglia era un mondo tutto da scoprire. Era l'arteria pulsante della città vecchia, dove vivevano sì i poveri, ma anche gli operai, gli artigiani e i commercianti, perché allora la gente abitava vicino al posto di lavoro; quasi nessuno infatti aveva l'automobile, si usavano piuttosto le biciclette.

Il "Balon"

Un po' discosto c'era il Balon, un altro mercato dove i più diseredati potevano comprare mobili vecchi, scarpe usate, abiti smessi. Vi si trovava di tutto, cose utili e inutili, ogni sorta di arnesi, ferramenta, stufe.

Oggi ci vanno le persone a caccia di antichità, ed hanno ampia scelta, ce n'è per tutti i gusti e per tutte le tasche, ma un tempo no, il Balon era solo dei poveri.

Da piazza San Giovanni a via Po

Da Porta Palazzo si poteva accedere in piazza San Giovanni, oggi deturpata da un casamento adibito ad uffici. In quell'epoca invece la dominava il Duomo dall'artistica cupola, anche se nel suo interno regnava un gelido silenzio dove io non riuscivo a pregare.

Accanto al Duomo ecco il Palazzo Reale. Allora regnava ancora re Vittorio Emanuele III, e davanti al palazzo e agli angoli della cancellata vi erano le garitte con le guardie.

Nel mezzo di piazza Castello, altra arteria della città, troneggiava Palazzo Madama. Non c'era ancora il monumento dedicato ad Armando Diaz; dall'altro lato del palazzo c'era la statua dei Cavalieri d'Italia.

All'angolo di via Palazzo di Città, la chiesa di San Lorenzo, poi la Prefettura. Da piazza Castello si dipartiva via Roma, che è ora la via più elegante di Torino, poi ecco via Po con i suoi portici, l'università, i suoi palazzi signorili, allora ben tenuti.

Via Po è per me ancora oggi la via più torinese che esista, fa parte della Torino di "Addio giovinezza", dove gli studenti andavano e venivano ogni giorno con le "caterinette", cioè con le sartine che lavoravano nei vari atelier della città, sempre eleganti e di modi educati, tra le quali anche "il principino", ovvero il principe Umberto di Savoia figlio del re, trovava le sue, chiamiamole così, "distrazioni". Il principe non era bello nel vero senso della parola, ma la sua aura principesca lo faceva sembrare il Principe Azzurro delle fiabe, e a Torino era molto popolare, specialmente tra le ragazze. Io ero allora troppo piccola per ricordare direttamente queste cose, ma ne sentii parlare spesso in seguito dai vecchi torinesi.

I torinesi

Torino era a quei tempi chiamata la "piccola Parigi", per la sua eleganza discreta e raffinata.

Discreti erano pure i torinesi, gente che lavora, produce e non sa chiedere aiuto ad alcuno.

Quando iniziò l'immigrazione, Torino fu definita fredda e provinciale, ma i torinesi non sono così, il loro cuore è come quello di tutti gli altri, soltanto non si scopre, il dolore viene contenuto, senza essere per questo meno profondo.

Con le loro industrie i torinesi hanno creato lavoro per tanta gente, dando ad essa, seppure con poca espansività, asilo ed ospitalità. Furono definiti "bogianen", ma invero quando si mossero fecero delle grandi cose, dapprima cacciando i francesi dalla loro città e poi - tutti sembrano essersene dimenticati - facendo l'Italia, sia pure con l'aiuto di lombardi, toscani, emiliani, veneti.

I torinesi e i piemontesi sono come i loro monti, che li circondano da ogni parte, fieri, forti. Sanno dare con due mani, anche se non avvolgono coloro che aiutano in un caldo abbraccio pieno di parole e sorrisi, cosa che del resto spesso non è genuina ma è soltanto un modo per farsi notare, per mettersi in mostra a poco prezzo.

Torino è stata chiamata la "regal Torino", titolo che le spetta in quanto è cinta tutt'intorno dalla splendida corona delle Alpi e dai dolci declivi della sua incantevole collina, con gemme come Superga, il Colle della Maddalena, il Monte dei Cappuccini.

Gli autentici torinesi sono oggi poche migliaia. Quando li incontro li riconosco subito, per il modo di fare discreto, distaccato e nostalgico.

Le strade e i palazzi nella vecchia Torino erano come i suoi abitanti: severi, ordinati, senza stonature. Le strade erano diritte, i viali alberati non erano adibiti a parcheggio, ma ricchi d'aiuole, con le panchine verdi ben tenute. Tutto era pulito, e i bambini potevano giocarci tranquillamente. I grandi platani, gli ippocastani erano sempre potati, i giardini curati, sarchiati, vere oasi della città. C'era pulizia dappertutto, anche nei quartieri più poveri. Quando qualcuno bagnava i fiori lasciandoli sgocciolare dalle finestre o dai balconi, oppure qualcuno batteva i tappeti fuori orario, il vigile dava la multa, oppure ammoniva, e lo stesso succedeva quando qualcuno calpestava le aiuole, o saliva in piedi sulle panchine sporcandole. Questa la città come la ricordo e come vorrei che fosse ancora.

Il Valentino e i Murazzi

Il Parco del Valentino lungo il Po, ai piedi della collina, era un vero paradiso verde dove ognuno poteva andare in qualsiasi ora, sia di giorno che di notte, senza tema di fare brutti incontri. Tutt'al più si poteva incontrare qualche ubriaco molesto, o qualche giovanotto un po' sboccato e insistente.

Lo stesso si poteva dire dei Murazzi.

Le prostitute

Poche erano le prostitute per le strade, e quelle poche non davano scandalo, erano anch'esse discrete, svolgevano il loro lavoro in silenzio. Vi erano del resto le case di tolleranza, dove la maggior parte di esse erano protette e al riparo dalle intemperie, e venivano tenute sotto controllo dal punto di vista igienico e sanitario. Oggi tali case sono fuorilegge ma, dal momento che questo è il mestiere più vecchio del mondo, che non si è mai riusciti ad eliminare, penso che sarebbe forse meglio ripristinarle, per la sicurezza di tutti e per togliere dalla vista dei bambini tanti esempi tutt'altro che educativi.

La Consolata

Questo santuario rispecchia più di ogni altro la natura dei torinesi: sfarzoso, ricco, ma raccolto e discreto, con le varie cappellette situate nelle sue navate, un po' oscure, dove ognuno può raccogliersi in preghiera, piangere senza essere notato. Solo l'altare maggiore, dove spicca la preziosa immagine della Vergine, è irradiato da una luce più viva.

In una di queste cappelle vi sono due magnifiche statue, erette in memoria delle pie regine Maria Adelaide e Maria Teresa. Bellissime, le trine che ne ricoprono le spalle paiono veramente di pizzo, per come sono lavorate.

Più in basso rispetto al piano principale della chiesa c'è la cappella della Madonna delle Grazie, raccolta e un po' buia, in cui si celebrano i matrimoni. Su una delle scale che vi portano vi è il sepolcro di san Giuseppe Cafasso, una semplice cassa di legno, con tante foto e quadretti per grazia ricevuta. A questo santo è dedicato anche un grande altare.

Come considero Torino la mia città, così considero la Consolata la mia chiesa, dove mi è sempre piaciuto stare e pregare assaporando la pace che vi regna. Vi sono contenute anche tante opere d'arte che io non so ben descrivere, ma non è per esse che la gente accorre da tutte le parti della città.

"La Consolà" è il cuore di Torino e della sua gente. Un tempo, quando il 20 giugno ricorreva la sua festa, tutte le facciate delle case e dei negozi si coprivano di lumini accesi, di lampadine colorate a forma di stella, oppure di scritte inneggianti alla Madonna. Le vie adiacenti alla chiesa erano piene di gente di ogni età e condizione. I torinesi venivano per nove giorni - tanto durava, come dice il nome, la novena - a recitare il rosario e ad ascoltare delle bellissime prediche.

Alla vigilia, la chiesa si illuminava tutta di luci dai colori smorzati, che donavano alla facciata e alla cupola del santuario un fascino tutto loro.

La processione in onore della Consolata passava attraverso il centro storico, e tutte le strade erano sbarrate da vigili e agenti affinché la processione potesse svolgersi tranquillamente. Molto spesso anch'io partecipavo a questo lungo corteo, tra due ali di folla inneggianti alla Consolata. E questa festa è uno dei più bei ricordi della mia infanzia.

Il sagrato della chiesa e le vie adiacenti erano affollati di mendicanti che chiedevano l'elemosina. Vi era chi vendeva le candele o le immaginette sacre o oggettini ricordo.

Anche la festa dell'Ausiliatrice era bella, ma non era altrettanto suggestiva. La festa della Consolata era proprio nel cuore di tutti i torinesi.

Alla Consolata furono anche attribuiti nel tempo innumerevoli miracoli. A testimonianza di essi esiste, aperta al pubblico, una galleria con tutti gli ex voto e i quadretti per grazia ricevuta esposti in lunghe file che arrivano fino al soffitto.

I santi piemontesi

Vorrei spendere qualche parola per i santi del Piemonte come, tra tanti altri, san Giovanni Bosco, san Giuseppe Benedetto Cottolengo, san Giuseppe Cafasso, anch'essi rappresentanti fedeli del costume piemontese, in quanto non passarono la vita pregando nei chiostri o predicando soltanto belle parole, ma crearono vere opere umanitarie come gli istituti salesiani per la gioventù, diffusi poi in tutto il mondo, o la Piccola Casa della Divina Provvidenza, detta comunemente il Cottolengo, che accoglie ancora oggi migliaia di malati, vecchi, gente sola e soprattutto adulti e bambini affetti da terribili infermità.

Questi santi si sono prodigati di persona senza mai desistere, hanno saputo conquistare la fiducia di coloro che potevano aiutarli con l'esempio e la forza del loro spirito veramente cristiano. San Giuseppe Cafasso per esempio fu chiamato "il santo degli impiccati" perché con la sua presenza e il suo aiuto morale stava vicino nel momento della morte a coloro che venivano impiccati per i loro misfatti sul Rondò dla forca, che è il piazzale dove s'incontrano corso Regina Margherita, corso Valdocco, via Cigna e corso Principe Eugenio, e dove oggi appunto si erge la statua dedicata al Cafasso.

I profumi

I ricordi mi si affollano alla mente a mano a mano che scrivo, e uno tra questi posso senza timore di sbagliare definirlo un ricordo profumato.

Io rammento infatti molto bene i profumi, anche se spesso mi danno fastidio, avendo per essi una forma di allergia.

Ora, quando da via delle Orfane si entrava in via Maria Adelaide per andare sulla piazzetta antistante la Consolata, si veniva investiti da un acuto aroma di caffè tostato, proveniente da una torrefazione sita proprio lì.

Qualche metro più in là, sulla piazzetta, ad angolo con il vicolo della Consolata, vi era una botteghina dove ti facevano su misura i modelli in carta o telina, e subito davanti ad essa vi era - e vi è ancora - un'antica erboristeria, che anch'essa emanava un forte profumo, di erbe e di spezie.

Più in là, dopo un negozietto di oggetti sacri, ecco un altro aroma, quello squisito della cioccolata in tazza proveniente da un "caffè" (così i torinesi d'allora chiamavano il bar) che si distingueva per questa specialità. Io non potevo permettermi di andarci spesso, perché era un po' caro, ma qualche volta lo feci e posso assicurare che una cioccolata così non l'ho mai assaggiata da nessun'altra parte.

Subito dopo, c'era uno spazioso dehors con panchine e tavole rustiche che consentivano ai fedeli un po' stanchi di gustare qualcosa all'ombra fresca di un pergolato.

Questi locali erano tutti siti in una bella e vecchia casa dalle finestre ogivali, che all'epoca era in parte abitata da una comunità di suore.

Tutti questi aromi erano allora nell'insieme un complemento alla Consolata, e non posso pensare a questa senza ricordare quelli.

Il cuore umano

Forse si può pensare che tutto ciò fosse un po' provinciale, ma se anche era così, era comunque suggestivo, pieno di calore, come tutto ciò che ci tocca il cuore.

E il cuore umano è un mistero. Ricordo che mio papà, che non ho mai visto pregare, che detestava preti e suore, che usava parole irriverenti, ogni domenica andava tuttavia alla Consolata e, a braccia conserte, in piedi, se ne stava lì una quindicina di minuti al massimo senza muoversi, senza dire parola - o forse pregava mentalmente, non so - e che il suo ultimo gesto, quando morì, fu il segno della Croce.

E che dire di me stessa, che da tantissimi anni non vado più in chiesa, che ho tanti dubbi ai quali non so rispondere? Può darsi che il cuore sappia ciò che la ragione non sa spiegare?

Se è così, allora capisco il motivo per cui quando penso a la Consolà mi sento scaldare il cuore, e provo nostalgia per i momenti di raccoglimento e di preghiera che vi ho vissuto.

 

Torino, 21 aprile 1997

Figure scomparse

C'erano dei personaggi che facevano parte della vita quotidiana della vecchia Torino dei miei ricordi, personaggi semplici di cui nessuno parla mai, che nessuno ricorda più, ma che a quei tempi si rendevano molto utili, offrendo magari i loro servigi per poche lire fin nel cortile di casa.

"Ël civich"

Inizierò dal più "importante": "ël civich dla zòna", cioè "il vigile di zona". I vigili naturalmente ci sono anche oggi, ma nessuno li conosce bene personalmente. Invece allora il vigile conosceva tutti e tutti conoscevano lui.

Era voce comune che chi non amava troppo il lavoro andasse a fare il civich. Si può non essere d'accordo con tale valutazione, ma certo si può perlomeno affermare che taluni, quando riescono ad indossare una qualsiasi uniforme, si sentono importanti e di conseguenza si comportano come se lo fossero realmente.

La gente, anche per tale ragione, non è in genere molto in sintonia con i tutori dell'ordine, ma con il civich cercavano tutti di andarci d'accordo per motivi, diciamolo pure, un po' interessati.

Ad esempio in quell'epoca vi era una portinaia in ogni casa, pagata dal proprietario e non dagli inquilini come ora. Questa, oltre a far funzione di custode, doveva occuparsi della pulizia della casa, delle scale, degli androni, dei cortili e così via. Doveva inoltre tenere sempre in ordine il registro riguardante tutti i singoli inquilini, con tutti i dati anagrafici. Per quanto fosse obbligatorio, non sempre tutte queste portinaie erano in grado di farlo correttamente, ed allora ecco che il civich poteva venire loro in aiuto per evitare grane con la Questura. Forniva informazioni utili e talvolta chiudeva un occhio su eventuali piccole irregolarità.

Quando i civich passavano per consegnare dei documenti, di solito si offriva loro un caffè e si scambiavano quattro chiacchiere. Inoltre il civich era sempre un piemontese con cui si poteva parlare in dialetto; era insomma di casa.

Egli aveva l'incarico di far regnare l'ordine nella sua zona, ed era per questo un uomo "importante" e come tale lo si doveva trattare. Quando il civich passava "per caso" davanti a qualche negozio, si fermava, osservando che tutto funzionasse bene, e così il commerciante lo invitava nel suo negozio e gli offriva qualcosa, magari un barattolo di qualche nuova marmellata "perché l'assaggiasse", o qualcosa del genere.

Al mercato il civich stava attento che il peso funzionasse bene, oppure che il permesso di vendita fosse aggiornato, e allora l'ambulante non troppo ligio al codice gli offriva un cartoccio di bella frutta ben scelta e matura, dell'insalatina o altra verdura bella fresca, e di conseguenza l'occhio del civich si chiudeva ovvero guardava da un'altra parte. Sta di fatto che tornava a casa con la spesa fatta gratuitamente nella sua borsa di pelle, e l'indomani cambiava giro ricominciando tutto da capo.

A onor del vero non è che tutti i commercianti si comportassero così; la maggior parte cercava di attenersi alle norme di legge. Mio marito ad esempio ha sempre pensato che preferiva pagare una multa se era meritata piuttosto che mantenere il vigile vita natural durante, anche per una questione di principio.

Però tutti si tenevano buono il civich, magari facendogli uno sconto e servendolo bene, per non inimicarselo ma anche perché a volte erano utili.

Il civich doveva però dimostrare che sapeva far funzionare bene il proprio quartiere, per non essere magari trasferito altrove oppure per ottenere una promozione, ed allora ogni tanto appioppava qualche multa, per una qualsiasi ragione, anche di poco conto, a malcapitati che, guarda caso, non erano mai i suoi fornitori abituali. Per lui il quartiere era insomma un piccolo regno, vi si sentiva un re. La gente lo sapeva benissimo e con la psicologia spicciola ma non per questo inefficace del popolano glielo lasciava credere.

I cantanti di strada

Dopo il tutore della legge, un po' incolore, voglio ora presentare un personaggio più "artistico": il cantante di strada.

Di solito erano in due, uno che suonava e l'altro che cantava; a volte invece era una famiglia intera, con i bambini.

Passavano spesso. Entravano nei cortili e improvvisavano piccoli concertini, cantando le canzoni in voga ma anche quelle del passato. Avevano sempre belle voci.

Mi ricordo molto bene un tale con i baffetti, che pareva un gitano, suonava il violino molto bene ed era conosciuto da tutti perché abitava nella zona.

La gente usciva sui balconi per ascoltare queste musichette e alla fine gettava giù qualche monetina.

Vivevano così, cantando e suonando e recando un po' di allegria. Mi piacerebbe che ci fossero ancora; fra tanto grigiore, un po' di colore non guasterebbe.

Il merciaio ambulante

Il merciaio ambulante era sempre un uomo, che portava appesa al collo una cassetta nella quale erano esposti filo, aghi, bottoni, elastico e fettuccia. Era comodo, bastava scendere in cortile per comprare quello di cui avevi bisogno. Per farsi sentire gridava sempre:

Gansa e frisa e boton da camisa!

"Ël magnin"

Il "magnin" era lo stagnino, che aggiustava le pentole bucate e riattaccava i manici delle casseruole. A quei tempi l'acciaio inossidabile era sconosciuto, si usavano solo la terracotta oppure l'alluminio, e quest'ultimo ogni tanto si bucava. Le massaie, sempre poco provviste di denaro, non andavano a comprare pentole o padelle nuove ma si limitavano a fare aggiustare quelle vecchie.

Conoscevo bene un magnin. Viveva in un solaio, riuscendo pure a mantenere un figlio pelandrone. Questo poveraccio veniva da qualche vallata del Canavese, e ricordo di lui che quando aveva dei disturbi intestinali beveva dell'aceto (e normalmente anche molto vino).

"Jë strassé"

Gli "strassé" erano gli straccivendoli, che però il più delle volte erano donne, che con un sacco di iuta sulle spalle e un peso a stadera andavano da un cortile all'altro per comprare ogni sorta di stracci, carta, rottame e all'occasione mobili vecchi, insomma di tutto un po'. Erano utili perché sgombravano la casa da tutto ciò che non serviva più. Pagavano poco e a seconda della merce, ma comunque le massaie in tal modo racimolavano qualche soldo.

Lasciavano un carretto sulla strada, dove rovesciavano il contenuto dei loro sacchi, e quando il carretto era pieno queste poverette se lo tiravano a braccia fino al proprio magazzino, per poi rivendere tutta quella roba a chi poteva utilizzarla.

Era una vita faticosa. Conoscevo una di queste donne, si chiamava Giuseppina, era nera di capelli e di carnagione. Il suo viso era già vecchio anche se vecchia non era, e vestiva sempre un grembiulone nero. Abitava in una soffitta di corso Regina e aveva due figli, che doveva mantenere da sola perché suo marito era ricoverato in manicomio. Riuscì tuttavia a tirare avanti, lei e i suoi bambini.

La rividi molti anni dopo. Non lavorava più, ma doveva avere dei risparmi, perché veniva a comprare da noi la carne e pagava senza problemi. A volte si fermava a fare due chiacchiere. I figli erano sposati, e a me parve una donna serena.

"Ël marghé"

Il "marghé" era il lattaio, che veniva ogni giorno a portare il latte a domicilio con, caricati sulla bicicletta, due contenitori di alluminio col coperchio e alcuni mestoli di forma cilindrica, che erano poi dei misurini da un quarto di litro, mezzo litro e un litro.

A volte veniva di lontano. L'uomo che veniva da noi per esempio arrivava fin da corso Belgio, e da lì alla zona di Porta Palazzo vi era un bel pezzo di strada, tanto più considerando quei due pesanti bidoni pieni di latte. Quest'uomo era bello rubicondo d'aspetto, simpatico, ma soprattutto aveva fama di non annacquare troppo il latte, per la qual cosa aveva molti clienti.

Il latte allora non era pastorizzato; bisognava farlo bollire, per conservarlo almeno un giorno.

"Ël matarassé"

Il materassaio svolgeva anche lui il suo lavoro nel domicilio dei clienti, anzi, per essere più precisi, nel cortile.

I materassi di lana o di crine vegetale venivano rifatti ogni due o tre anni. Le donne li disfacevano, lavavano le fodere, e poi il materassaio li rifaceva.

Mamma cercava sempre quelli che, invece di cardare la lana con la cardatrice, battevano la lana con due bacchette e la facevano saltare su un grande traliccio bucato perché la polvere andasse di sotto. Diceva che così la lana si rovinava di meno perché non si spezzava.

Era un lavoro sporco, a volte i materassai trovavano cimici e pulci e sempre, naturalmente, molta polvere.

Un tempo non esistevano gli insetticidi, la gente viveva in spazi ristretti e con poca possibilità di lavarsi spesso come ora. Certamente vi erano persone che con buona volontà riuscivano a mantenere le case e le proprie persone pulite, ma ce ne voleva davvero tanta di buona volontà. Mamma Rosa era una di queste donne che, nonostante tutti i disagi, sapeva tenere pulita ogni cosa.

"Ël giassé"

Il "giassé" era colui che portava il ghiaccio a casa per rifornire chi aveva la fortuna di possedere una ghiacciaia per tenere in fresco gli alimenti.

Noi non avevamo la ghiacciaia, ma mamma qualche volta comprava un pezzo di ghiaccio per fare una "ghiacciata", cioè una granita: avvolgeva il ghiaccio in un pezzo di tela pulito, lo pestava con un martello e lo condiva con limone e zucchero oppure con un po' di menta, dopodiché lo si mangiava. Sempre in tale occasione a papà veniva un terribile mal di testa, ma inevitabilmente mangiava lo stesso l'invitante "ghiacciata", che era la sola a procurare un po' di refrigerio nelle calde giornate estive.

Grasso di marmotta e pastiglie d'Orbassano

Vi erano anche coloro che vendevano il grasso di marmotta, e perfino di tigre, per far passare i reumatismi. io però temo che le "marmotte" e le "tigri" fossero poveri e vecchi animali di tutt'altro genere. Però la gente comprava con fiducia e chissà, magari ne ritraeva anche un beneficio.

Mamma acquistava invece delle sgradevolissime "pastiglie d'Orbassano" che, diceva, facevano bene a chi soffriva di vermi intestinali, come me quand'ero piccola, ma io le odiavo.

"Ël gelaté"

Il gelataio, con il suo triciclo e il suo contenitore dipinto di bianco, era la mia passione. Era una figura allegra. Vestito di bianco, era sempre circondato di bambini, e i suoi gelati erano una vera ghiottoneria, almeno per me, e riuscivo sempre a farmi dare qualche soldino da papà per comprarmi un gelato al cioccolato o alla crema.

Certo ora, con tutte le norme igieniche moderne, non potrebbe più lavorare nello stesso modo. Le cialde per esempio le teneva in un cestino allo scoperto, ma nessuno allora ci badava, e per la verità non mi risulta che qualcuno sia mai stato intossicato.

Farinata e castagnaccio

Allora la pizza non era conosciuta; si cominciò a conoscerla ed apprezzarla solo con l'arrivo degli immigrati dal meridione. Erano invece in auge la farinata e il castagnaccio.

Vicino a casa c'era una rosticceria che mandava in giro un uomo che con la solita bicicletta si portava appresso due teglie con coperchio, appoggiate su una base di metallo contenente della brace per mantenere in caldo le teglie. Dentro di esse vi erano la farinata e il castagnaccio, che venivano tagliati a fette e venduti ai passanti che avevano desiderio di mangiarli. Tanto a me che ai miei piaceva molto la farinata, ma mio padre preferiva andare a comprarla direttamente nel negozio appena sfornata dal forno a legna, l'unico che allora si usasse.

Con l'avvento della pizza, la farinata passò in secondo piano e anche questa figura scomparve dalla scena.

I cortei funebri e le "verdoline"

Dei cortei funebri ricordo prima di tutto i carri che si usavano per il trasporto delle salme. Neri, tirati da cavalli neri, tristi e lugubri oltre ogni dire.

Ve n'erano di vario tipo, a seconda della disponibilità economica.

I più poveri erano soltanto neri, con una croce argentata dipinta ai lati del carro. Poi ecco quelli un po' più decorati, sempre in argento. Mentre i primi servivano per coloro che non potevano pagare proprio nulla, i secondi erano i più economici. Ecco poi il carro decorato in oro con fregi vari, più o meno ricco, e poi, in ultimo, il più sfarzoso, con quattro cavalli anch'essi bardati in nero e oro.

Il corteo partiva dalla casa del morto e, anche qui, con un solo prete oppure tre secondo la spesa. Caricato il morto, il corteo veniva aperto dalle "verdoline" se era povero, o da altre se era più ricco.

Le "verdoline" erano orfane, trovatelle che vivevano in collegio. Di varia età, indossavano vestiti orribili che le rendevano assai goffe, di grosso cotone dal colore olivastro a righe bianche, senza alcuna forma né grazia. Non si capiva se erano belle o brutte, slanciate o grasse. Il loro viso era inespressivo, indifferente al dolore dei familiari dei defunti ma anche a tutto ciò che le circondava.

Ho sentito recentemente per televisione un'intervista dove qualcuno diceva che il partecipare a questi funerali era per queste ragazze una sorta di svago, perché permetteva loro di uscire dal collegio. Io non riesco a concepire che possa essere uno svago il partecipare a una sepoltura, semmai poteva essere un diversivo.

Allora ero giovane e anche se provavo un po' di pena per loro, non ci pensavo più di tanto. Ora però ripenso con compassione a quei freddi, ordinatissimi e tristi collegi dove vivevano, senza famiglia, senza affetti, dove passavano i giorni nella preghiera e nel lavoro. Infatti in quegli istituti dei poveri insegnavano a queste povere figliole a lavorare, per prepararle alla vita che le aspettava quando, alla maggiore età, sarebbero uscite per sempre dal collegio.

Sono certa che durante le loro uscite, il loro sguardo doveva spesso posarsi su quei bambini che in compagnia di mamma o papà andavano a spasso o a scuola, o sulle ragazzine che, giovani come loro, se ne stavano con vestiti vivaci insieme alle loro amiche, e dovevano certo riflettere come esse non avevano mai avuto, né forse mai avrebbero avuto, nulla di tutto questo. E probabilmente speravano di trovare un giorno anch'esse un fidanzato con cui sposarsi per avere finalmente una casa, un amore, una famiglia.

Nei cortei più ricchi le "verdoline" venivano sostituite da altre ragazze di istituti più eleganti. Anche la funzione religiosa era più sfarzosa, con la Messa cantata e il catafalco coperto da un drappo nero e dorato.

Allora la differenza di classe era molto più evidente di adesso e la Chiesa non faceva eccezione: chi pagava di più aveva di più. La benedizione alla salma non veniva negata a nessuno, neppure ai più poveri, ma poi il prete in quel caso era sempre frettoloso, non vedeva l'ora di andarsene.

I tram

I primi tram erano tram a cavallo, ma io all'epoca non ero ancora nata. Ricordo però i vecchi tram anteguerra. Erano verdi, si saliva di davanti e si scendeva di dietro. Oltre il manovratore, che guidava in piedi, c'era pure il bigliettaio, che passava tra la gente per dare il biglietto. Tutti pagavano, perché si doveva per forza passare vicino al bigliettaio, che stava molto attento.

Sia la parte anteriore che quella posteriore erano provviste di scalette per scendere e salire, ma erano senza porte. La parte centrale era invece chiusa fra due porte a vetro interne. I sedili erano di legno ed erano scarsi, perché il tram allora era piccolo. Maniglie penzolanti dall'alto servivano a tenersi in equilibrio.

Spesso i giovani, quando il tram era pieno, viaggiavano sul predellino esterno del veicolo. L'ho fatto spesso anch'io. Certo allora il tram andava piuttosto piano, e per le strade non c'era traffico. Rare erano le auto, numerose erano soltanto le biciclette. I semafori non c'erano ancora, ma circolavano i vigili.

Chi abitava nelle vie dove passavano i tram era molto disturbato dal loro sferragliare, ma in confronto ai rumori d'oggi era ancora un paradiso.

I tram servivano anche ai venditori del mercato per il trasporto di frutta e verdura. Al mattino prestissimo questi tram scaricavano la merce, fermandosi su apposite rotaie dove la loro fermata non dava fastidio. Questi tram si distinguevano dagli altri per il colore grigio ed erano lateralmente tutti scoperti.

La città, è vero, non era vasta come ora, ma i tram erano gli unici mezzi per spostarsi. Devo tuttavia dire che funzionavano meglio di oggi, ed erano numerosi. A Porta Palazzo c'era il capolinea del 16 e del 7, e passavano il 9, il 10, il 14, il 15, il 17, il 22. Il 16 aveva un solo capolinea, appunto a Porta Palazzo, e con un solo giro, pagando un solo biglietto, potevi fare il giro dei viali e del Valentino. Il tram 17 portava a Sassi, e io e papà ci andammo spesso, perché allora c'erano tanti prati dove poter raccogliere le margherite e fare merenda seduti sull'erba.

 

Ricordi del tempo di guerra

 

Torino, 23 aprile 1997

I bombardamenti

Nel 1939 la Germania nazista era già entrata in guerra, e anche qui da noi si cominciava a parlarne.

Era il tempo in cui gli studenti in corteo gridavano:

Non vogliamo il burro, vogliamo i cannoni!

Già si facevano prove, nel caso che dovessimo essere bombardati. Suonavano le sirene per l'allarme e la gente doveva correre a rifugiarsi nelle cantine fino al cessato allarme. Tutte queste prove erano piuttosto aleatorie, nessuno si rendeva conto di ciò che fosse veramente un'incursione aerea.

Il giorno 10 giugno del 1940 alle ore 18 dalle radio accese si levò la voce di Mussolini, che proclamò la nostra entrata in guerra come alleati dei tedeschi. Avevo allora 12 anni, e mi ricordo bene che le strade si riempirono di gente tutta eccitata che commentava l'avvenimento.

A me, come a tutti i giovani dell'epoca, parve che l'entrata in guerra fosse un'eccitante avventura, nemmeno sospettavo quello che ci attendeva.

Forse coloro che avevano perduto nell'altra guerra qualche familiare e coloro che vi avevano partecipato non la pensavano così, ma neppure loro avrebbero potuto prevedere le conseguenze del conflitto.

Quella stessa notte fummo tutti svegliati dalle sirene d'allarme, ma nessuno si mosse dal proprio letto, tutti pensavano che fosse la solita prova.

A un certo punto papà si rese conto che non era affatto una prova. Ci alzammo e andammo fuori, per vedere cosa stava succedendo. Scoppi e rombi di aerei si sentivano dappertutto. Poi si sentirono le mitragliatrici, poste non so dove, che tentavano di sparare agli aerei. Fu quasi una beffa, perché le mitragliatrici si misero a sparare quando tutto era già avvenuto.

Tutta la gente si affollò per la strada, arrivando da ogni parte. Dal corso Regina Margherita arrivavano urla e grida, ed allora ci apparve una visione allucinante. Una folla di uomini mezzo vestiti, di donne e bambini in camicia da notte stava arrivando correndo, urlando che avevano fatto saltare in aria la centrale del gas.

Papà, per fortuna sempre attento e ragionatore, disse che se fosse veramente saltato in aria il gas, a quell'ora saremmo saltati in aria anche noi. Per me, bambina, fu un momento di grande eccitazione, di novità, ma mamma tremava dalla paura.

Dopo poco sapemmo che avevano bombardato via Priocca, che era crollata una casa e vi erano state delle vittime.

Nessuno aveva previsto che i francesi ci avrebbero bombardato proprio la prima notte dalla proclamazione della guerra.

Non ho mai dimenticato quella notte, e in seguito capii la gravità del pericolo che avevamo corso. Se avessero voluto, quella notte i francesi avrebbero distrutto mezza città.

Da quella notte in poi, quando suonava l'allarme, si correva in una cantina ch'era stata adibita all'uso, con panche per sedersi ed illuminata. Successivamente andammo in un edificio pubblico, in una casa proprio accanto alla nostra, sotto la quale vi erano tre o quattro piani di infernotti, cioè di locali sotterranei.

Centinaia di persone venivano a rifugiarsi lì. Tuttavia capisco oggi che solo il fato ci ha salvato, perché se una bomba fosse caduta su quella casa ci avrebbe sepolti tutti senza via di scampo.

Mamma, come tutti del resto, teneva sempre pronta una grande borsa di tela con qualche indumento, qualche capo di biancheria, il suo poco oro, il danaro e le tessere annonarie. Andavamo a dormire mezzo vestiti per poter scappare più in fretta in caso di necessità.

Ricordo molto bene una donna di nome Placida, che abitava nella nostra casa. Costei, molto paurosa e soprattutto molto chiassosa, si metteva ad andare avanti e indietro in modo concitato invocando salvezza dalla Madonna, e col rosario fra le mani diceva di continuo ad alta voce:

Santa Liberata liberaci e salvaci!

Questo suo comportamento irritava tutti, e ci impauriva più del necessario. Era tuttavia anche comica, e nessuno comunque riusciva a farla stare zitta.

Io e mamma stavamo sempre insieme. Papà invece andava in un altro piano perché, diceva, "se succede qualcosa, qualcuno forse può salvarsi se stiamo separati". Mamma non la pensava così, e nemmeno io. Noi avremmo preferito stare insieme e dividere la sorte comune, ma ognuno ha le sue idee.

Il bombardamento più grande che si sia mai abbattuto su Torino fu quello del 13 luglio 1943. In quell'occasione morì la sorella di mamma, sepolta sotto la propria casa. Quella notte morì molta gente, e per molti fu atroce, perché furono sepolti vivi sotto le macerie, feriti, senz'acqua e senza che qualcuno potesse aiutarli.

Mi ricordo che, qualche giorno dopo il bombardamento, io andai a vedere una casa di corso Regina 110, dalla quale stavano estraendo i cadaveri. Faceva molto caldo, sulla sommità delle macerie vi erano file di bare e tutt'intorno una puzza insopportabile. Me ne andai il più in fretta possibile, ma fu questa una di quelle scene che non ho mai potuto scordare.

Oltre alla casa di corso Regina 110, ricordo quelle di via Pisa 18 e corso Regio Parco 29, anch'esse distrutte in quella notte. Anche lì delle persone erano rimaste sepolte vive. Mi ricordo di queste case perché erano abbastanza vicine a noi, ma ve ne furono pure altre, con tante vittime.

Da quel tragico 13 luglio io ebbi paura, per me non era più un'avventura. Gli aerei da bombardamento americani, le terrorizzanti "fortezze volanti", contribuivano con il loro rombo cupo e terrificante ad impaurire ancor di più, ed anche questo rumore è restato per sempre nel mio ricordo.

Ci furono molte altre incursioni su Torino; nessuna comunque fu peggiore di quella. Anche la Consolata era stata colpita, per fortuna non gravemente. Una bomba cadde pure su una casa accanto al nostro rifugio ma per fortuna non esplose. Andai a vederla, sembrava un grosso maiale.

Su Porta Palazzo caddero bombe incendiarie. Per fortuna presero fuoco solo le tettoie del mercato e non le case. Era uno spettacolo vedere tutte quelle fiamme che si alzavano verso il cielo.

La repubblica di Salò

Ci fu poi la caduta di Mussolini. L'8 settembre del '43 ci fu l'armistizio firmato dal generale Badoglio, e l'esercito al nord si sfaldò, i soldati tentarono di tornare alle loro case ma molti, come ad esempio mio marito, furono fatti prigionieri dai tedeschi e deportati in Germania.

Poi il partito fascista fu ricostituito al nord, e nacque così la famigerata ed effimera "repubblica di Salò".

A Torino si fece un'infausta nomea la caserma di via Asti. Vi venivano infatti imprigionati e torturati tutti coloro che avversavano il fascismo.

Quel periodo fu proprio brutto. Non ricordo con esattezza le date dei vari avvenimenti, ricordo però che i tedeschi ci avevano invaso e ci consideravano dei traditori. I giovani che ancora non avevano fatto il servizio militare venivano rastrellati dalle pattuglie tedesche e deportati. Ricordo giovani del mio rione che spesso fuggivano sui tetti perché erano stati avvertiti che i tedeschi erano in zona. La gente aiutava questi giovani, che infine però dovettero lasciare casa e lavoro e scappare in montagna con i partigiani.

Gli aderenti alla "repubblica di Salò", che venivano chiamati "repubblichini", d'accordo con i tedeschi, che d'altronde li tenevano ormai sotto il loro comando, commisero molte brutalità, terrorizzando tutti i cittadini, che li temevano tanto quanto temevano i tedeschi.

E li ricordo molto bene questi soldati e ufficiali teutonici, che sfilavano sui carri armati per le vie di Torino, tutti alti, biondi, bella gente per la verità, ma con un atteggiamento di superiorità, guardandoci con disdegno, quasi con scherno. Si sentivano una razza superiore.

Allora nessuno sapeva dei campi di concentramento, dei forni crematori e di tutte quelle perversità che avevano commesso. Moltissimi deportati non tornarono più e tanti altri tornarono malati, con il cuore a pezzi per tutto ciò che avevano subito e visto, specialmente gli internati politici e gli ebrei, di cui tutti conosciamo il calvario.

La liberazione

Il 25 aprile del '45 i tedeschi dovettero ritirarsi, e Mussolini venne ucciso dai partigiani, che scesero dalle montagne ed entrarono a Torino e in altre città del nord.

Ricordo che sfilarono per la città tutti sporchi, con il viso bruciato dal sole, con i fucili e i mitra a tracolla, ed anche un po' ebbri per tutti i bicchieri che erano stati loro offerti. Io avevo allora 17 anni e, mi spiace dirlo, a me parvero dei banditi.

Fu quello un altro brutto periodo perché, come avevano fatto i repubblichini prima, bastava dire di uno che era fascista perché questo venisse fucilato. Vidi con i miei occhi in corso Beccaria una donna fucilata proprio sopra i binari del tram, che avrà avuto almeno settant'anni, e ne vidi un'altra in corso Regina, anche lei non più giovane. Taluni che avevano del rancore verso qualcuno lo denunciavano come fascista: anche questo mi capitò di sentirlo con le mie orecchie.

Poi, pian piano, l'ordine fu ristabilito. Gli Alleati, che già occupavano il sud, si congiunsero a noi. Dopo tanti orrori la guerra era finita, e spero con tutta l'anima di non doverla mai più rivivere.

Prima e dopo

Voglio però aggiungere ancora due cose.

Ho conosciuto tanti fascisti, e la maggior parte di loro erano brave persone. Di essi solo una parte si macchiò di gravi colpe, come d'altronde è successo sotto tutte le dittature, di qualunque ispirazione fossero.

La seconda cosa è questa. Quei ragazzi che gridavano Non vogliamo il burro, vogliamo i cannoni, furono gli stessi che, andati volontari, poi piangevano di paura e di disperazione. Questo mi fu riferito da mio marito, che fu soldato per sette anni, tre dei quali passati in un campo di concentramento tedesco. Questi giovani partirono credendo di diventare degli eroi, ma di fronte alla crudeltà della guerra altro non si dimostrarono che dei poveri ragazzini impauriti e dolenti. I veri eroi infatti sono pochi e perlopiù non vengono riconosciuti come tali, perché il vero eroismo sempre si accompagna alla modestia, all'umiltà ed al silenzio.

Ancora una cosa. Durante l'era fascista, molta gente che fascista non era dovette iscriversi al partito per poter lavorare e mantenere la propria famiglia. La maggior parte della gente viveva infatti alla giornata, adeguandosi ai tempi per poter sopravvivere.

D'altra parte io avevo due amiche, che entrambe facevano parte di una famiglia numerosa ed avevano un padre che si proclamava socialista o comunista, non ricordo bene. Questi loro padri erano sempre nascosti qua e là e, in quanto non fascisti, passavano le giornate senza lavorare; le bettole e le osterie erano il loro mondo. Le mogli e i figli pertanto vivevano in una miseria nera, talvolta alleviata soltanto dai parenti o dalla parrocchia. E tale loro miseria era così grande che la sorella più grande di una di queste mie amiche, la quale per aiutare la famiglia - e naturalmente anche il padre - già lavorava portando a casa poche lire, infine si sposò con un uomo che non amava, ma che le aveva promesso di aiutare i suoi.

Quando la guerra finì, questi due padri circolavano col fazzoletto rosso al collo come se fossero degli eroi. Tuttavia, benché gente di questo tipo venisse agevolata e aiutata per via del passato antifascista, le cose non cambiarono affatto. No, questi due eroici padri continuarono a trascorrere le loro giornate all'osteria, lasciando che la moglie e i figli come al solito si aggiustassero.

Ho visto anche alcuni che durante il fascismo andavano in giro tutti tronfi, in divisa, fieri di essere fascisti, ma che dopo la liberazione, appena tutto si fu calmato, andavano in giro col fazzoletto rosso, altrettanto fieri come quando portavano la camicia nera.

Ancora un caso. Dove abitavo io viveva una coppia anziana che aveva tre figli già adulti. Due di questi vivevano truffando e rubando, e passavano periodicamente da una prigione all'altra. Uno di loro fu preso dai fascisti in una retata e impiccato con tanti altri. Ora esistono un ceppo ed una via intitolati al suo nome: fu considerato un martire. Questa lapide si trova vicino a casa mia ed ogni volta che la vedo mi rammento quest'uomo, che per tutta la sua vita fu soltanto un ladro.

Vidi anche, quando tutto si calmò, persone che prima non avevano di che vivere ma che dopo essere stati tra i partigiani poterono mettere su negozi e vivere bene. Anche la borsa nera arricchì una quantità di gente, che speculò sui propri simili. Di tutta questa gente potrei fornire i nomi, ma non lo farò perché ormai non serve a nulla e perché se ancora ne vive qualcuno sarà ormai molto vecchio. Di gente del genere ne ha conosciuta molta pure mio marito, ed era tale indipendentemente dal colore politico.

Se infatti la guerra, la politica ebbero degli eroi, assai più spesso servirono di scudo a coloro che nella vita non avevano altri valori che loro stessi, il loro egoismo e la loro vanità. Le persone malvagie, senza ideali, durante la guerra trovano il terreno adatto per sfogare la propria ferocia, o manifestare la propria empietà. Di tali bruti è purtroppo pieno il mondo.

 

Le zitelle

 

Torino, dic.1996 - gen.1997

Si sente spesso parlare delle "zitelle" in modo spregiativo, ingiusto e crudele. Le donne che hanno avuto un marito, una famiglia propria e dei figli spesso si comportano come se fosse un loro merito, una conseguenza dei loro pregi, e non s'interrogano affatto sulla solitudine, sulle volontarie e involontarie rinunce altrui.

Eppure, della molta gente che ho avuto modo di conoscere durante tutti gli anni che ho trascorso in negozio, posso affermare che sono proprio alcune zitelle che ricordo con maggiore simpatia.

Voglio ricordarne qualcuna. Prima tra tutte per me verrebbe tòta Lia, ma di lei ho già parlato altrove più volte e quindi qui parlerò solo delle altre.

La "signorina del fratello"

Io e mio marito Albino la definimmo così perché viveva con il fratello e ne parlava sovente. Per lei era l'unica persona della sua vita, l'unico affetto.

Vestita in modo dimesso, sempre uguale, non parlava molto. Veniva a comprare da noi sempre di sabato alla stessa ora, e comprava ogni volta lo stesso pezzo di carne.

Fu cliente di mio marito ancora da prima che io lo sposassi, cioè per circa quarant'anni..

Era veneta d'origine, ma abitava a Torino da una vita. Persona estremamente gentile, non si lamentava mai, per lei andava sempre bene tutto (quando in un negozio si hanno clienti simili, molti se ne approfittano, ma si dovrebbe invece fare di tutto per contentarle, è un'ignominia imbrogliarle solo perché non osano lamentarsi).

Ho voluto ricordarla per la ragione seguente. A un cero punto per alcuni mesi non si fece più vedere, pensammo persino che fosse morta. Poi un giorno ricomparve, tutta pallida e abbattuta, e mi spiegò che era stata operata per un cancro al seno. Mi fece anche vedere le bruciature prodotte dalle applicazioni che le avevano fatto, evidentemente in modo sbagliato. Mi disse che aveva sofferto molto di più per esse che per l'operazione Poi aggiunse qualcosa che non ho mai dimenticato, cioè che se non fosse stato per il fratello non si sarebbe mai operata, avrebbe preferito morire perché, disse, "tanto io non sono mai vissuta". Parole tremende, che rivelarono la sua solitudine e il suo dolore per non avere avuto niente per cui valesse la pena di vivere e combattere la malattia, a parte il senso del dovere verso il fratello, al quale aveva sempre badato. Quando io e mio marito ci ritirammo e andammo in pensione era ancora viva, ma ormai penso proprio di no.

Tòta Mano

Faceva la sarta e viveva con due sorelle. Era fisicamente molto particolare, piccola, con i capelli - che io ricordo sempre bianchi - raccolti morbidamente in una crocchia sulla nuca, un po' ondulati. Vestiva sempre di nero e, secondo l'uso del primo novecento, portava una goletta bianca intorno al collo e delle scarpe alte al di sopra delle caviglie allacciate su un lato con una fila di bottoncini. Unica concessione alla moda era la lunghezza della gonna, non fino alla caviglia ma fino al polpaccio. Aveva un visetto sempre molto pallido, dai lineamenti delicati, anche se non lo si poteva definire bello nel vero senso della parola.

A me veniva sempre di paragonarla alla nonnetta delle favole.

Anche lei era nostra cliente da tantissimi anni, era sempre gentile e non si lamentava mai.

Non posso aggiungere molto su di lei, sennonché anch'ella mi disse un giorno, non ricordo esattamente in che occasione, parole simili a quelle della "signorina del fratello": "Non m'importa di morire, io non sono mai stata giovane e non ho mai vissuto".

Erano due persone fisicamente così diverse, non si conoscevano, eppure avevano in comune - che tristezza! - la stessa volontà di morire, in quanto pensavano di non avere mai vissuto.

Non ne ricordo il nome

Di un'altra vecchia cliente non ricordo il nome. Semplice nei modi, parlava volentieri. Dedicava tutto il suo tempo, facendole un po' da madre, ad una sorella sposata più giovane di lei con cui viveva la quale, viziata dal marito e da lei, usava ed abusava della sua disponibilità.

A un certo punto si ammalò, ma nonostante ciò, per l'egoismo della sorella, dovette continuare ad uscire e fare la spesa.

Infine morì, e la sorella minore, ormai un po' svanita, sembrava un'anima in pena. Aveva avuto un buon marito, era stata felice, ma non era stata capace di rendere partecipe della propria felicità la sorella maggiore, che le aveva dedicato l'intera vita.

Tòta Nunziata

Piccola, bruttina, con un grosso naso e un po' curva, viveva da sola in una soffitta, suo unico affetto un bel gattone, che quando lei morì fu ucciso con un'iniezione per sua espressa volontà, in quanto pensava che nessuno gli avrebbe voluto altrettanto bene.

Questa donnina era chiamata poco caritatevolmente "la madre dei gatti" perché, per incarico di una signora della Protezione animali, andava sempre in giro a portare da mangiare a tutti i gatti randagi del quartiere.

Tòta Nunziata non si curava solo dei gatti, era una persona estremamente disponibile verso chiunque avesse bisogno.

Soffriva di enfisema polmonare ed anche di cuore e spesso, quando passava davanti al nostro negozio, veniva a sedersi un momento per riprendere fiato, e si vedeva che non poteva parlare, ansimava penosamente.

Non conosco nulla della sua vita, ma so che era buona con tutti. Quando morì, andai per la prima volta a casa sua e partecipai ai suoi funerali. Capii allora che la gente, benché la chiamasse "la madre dei gatti", aveva però capito quanto fosse buona, perché io non avevo mai visto un funerale così semplice ma con tanta gente veramente dispiaciuta come in occasione della morte di questa povera, buona ed umile donna.

Nella mia vita ho del resto sempre riscontrato che la bontà e l'altruismo si trovano quasi sempre fra le persone povere e semplici, che altro non hanno da offrire se non la propria persona, la propria presenza ed il proprio buon cuore, e che non chiedono niente in cambio, forse solo un po' d'amore.

Le sorelle Dominici

La più anziana doveva essere sempre stata bella perché lo era ancora da vecchia. Alta, snella, con un bel viso ancora fresco, era sempre ben vestita, con il cappellino.

La sorella minore era decisamente brutta, e goffa di figura. Anche lei sempre ben vestita, era impiegata al municipio. Veniva sempre lei a fare la spesa e per la verità non mi era molto simpatica.

Poi andò in pensione e traslocò. Parecchio tempo dopo la rividi insieme alla sorella, che aveva allora già più di novant'anni. Vennero a comprare e si misero a chiacchierare come non avevano mai fatto, e devo riconoscere che allora mi parvero proprio simpatiche.

La più brutta si era sciolta, sicché ogni tanto capitava lì da noi in negozio proprio per scambiare quattro chiacchiere. Un giorno mi disse con grande sincerità che lei si sarebbe sposata volentieri, ma che nessuno glielo aveva mai chiesto. Mi stupì molto questa sua franchezza; non mi era mai capitato di sentir ammettere questa cosa così semplicemente.

 

Ritratti di prostitute

 

Torino, dic.1996 - gen.1997

Ne conobbi molte, perché il nostro negozio era nel centro storico di Torino, dove molte di esse vivevano ed esercitavano il "mestiere". Infatti questo era per loro un lavoro come un altro, e come tale ne parlavano.

Anche in questa categoria di persone esistono quelle, per così dire, "dei quartieri alti", ma quelle che ho conosciuto io erano proprio "dei quartieri più bassi".

In maggioranza erano venete, seguite a ruota dalle meridionali e infine dalle piemontesi. Le venete erano in genere le più sguaiate, quasi tutte alcolizzate. Le meridionali erano invece le più diffidenti, e quasi tutte analfabete. Le piemontesi infine erano le più riservate, come è del resto proprio del carattere subalpino.

Un giorno, una prostituta napoletana che, insolitamente, si esprimeva molto bene mi disse che tutte le prostitute svolgevano quel lavoro perché a loro piaceva farlo, e che non bisognava credere fosse per altri motivi. Non escludeva neppure se stessa; infatti mi disse che suo padre era un colonnello, assai severo, e che per questo lei era andata via di casa e s'era messa a fare quel mestiere. In effetti, dal suo modo di parlare si capiva che doveva aver ricevuto una buona istruzione.

Per l'esperienza che mi sono fatta vivendo per tanti anni a contatto con loro, in quanto erano in gran parte nostre clienti, e anche buone clienti per la verità, ebbene penso che sia vero che nella gran maggioranza queste donne sono portate per temperamento a vivere una vita simile. Non però tutte; alcune vi sono state obbligate dalla miseria, da esperienze dure e dai loro compagni.

Talune furono uccise, come Carmen, come Vittoria.

Vittoria

Vittoria venne uccisa per gelosia dal suo compagno. Questi, che era vecchio e l'aveva presa con sé, non voleva che lei continuasse a prostituirsi. Queste donne però difficilmente smettono di farlo, è troppo radicato in loro e permette lauti guadagni. Esse peraltro non sanno quasi mai risparmiare, e perciò finiscono sempre la loro esistenza in un ricovero, in manicomio, al sanatorio, o, come Vittoria, uccise da qualcuno per qualche motivo.

Flora

Era una lesbica, che manteneva un'altra prostituta di nome Nives, della quale pare fosse molto gelosa. Era brutta, aveva voce e lineamenti mascolini. Parlava sempre in italiano ed era cortese ed educata.

Veniva chiamata "la maestra" perché, per dirla in modo molto colorito, sapeva far risorgere anche un morto.

Morì per qualche malattia, come la sua amica.

Nives

"Nives" vuol dire "candore", ma Nives di candido aveva solo il nome. Era una veneta grande e grossa, sdentata, con una sigaretta perennemente all'angolo della bocca. Usciva ed entrava ininterrottamente da un bar all'altro. Era ignorante e sguaiata, ma non credo fosse cattiva. Era sposata con un ubriacone e aveva tre figli, uno dei quali era stato tanti anni ricoverato in manicomio.

Una cosa singolare era che aveva una figlia suora al Cottolengo, e lì grazie ad essa veniva ricoverata quando era malata.

Qualche anno fa mio maritò la rincontrò, e lei gli raccontò che era ormai ricoverata per sempre al Cottolengo vicino a sua figlia.

In fondo si può dire che, in confronto a tante altre sue colleghe, ebbe abbastanza fortuna.

Lulù

Era un'altra veneta, non più giovane, sempre pulitissima e ordinata nella persona, ma con un viso talmente dipinto da parere finto.

Questa Lulù era sposata con un tale, che naturalmente la sfruttava, ma che lei chiamava "il suo nini".

A volte era divertente. Il dialetto veneto già di per sé è molto pittoresco, e quando poi lei raccontava aneddoti di cose che le erano capitate faceva proprio sorridere.

Schivava ogni situazione scabrosa. Quando vedeva la polizia, o qualcuno che litigava, si rifugiava da qualche parte per non mettersi nei pasticci.

Concetta

Era veneta anche lei, alta e grossa come una botte. Si era ritirata perché, per motivi di salute, non poteva più esercitare. Stava insieme a un tale con parecchi figli e andava a vendere insalata a Porta Palazzo.

Un giorno mio marito le disse per scherzo che io ero gelosa di lei ed essa gli credette, tanto che quando vedeva me in negozio lei non entrava, aspettando che io non ci fossi. Io e Albino ci divertivamo molto per questo.

Concetta criticava spesso le sue ex-compagne. Non c'è infatti nessuno più severo verso le prostitute, ho notato, delle ex-prostitute.

"Gioana"

"Gioana", cioè Giovanna, anche lei veneta, era purtroppo giunta al limite di ogni decenza, era sempre ubriaca, sboccata, faceva pipì lungo la strada. Infine, un giorno, seppi che era morta.

Graziella

La sua storia è la più significativa perché porta in evidenza la povertà, l'ignoranza e l'incapacità di scrollarsi di dosso la violenza e la costrizione, che regnavano - e purtroppo regnano talvolta ancor oggi - nel profondo sud dal quale proveniva Graziella.

Costei era piccola, mal fatta, grassa, con un viso dai lineamenti volgari e labbra grosse quasi da mulatta.

Si era sposata a tredici anni dopo la classica fuga d'amore in uso nel sud. Aveva due maschi e una femmina e il marito era un vero delinquente.

La condusse a Torino con sé, mise i figli in collegio e la fece lavorare come domestica in un albergo dove si affittavano camere ad ore alle prostitute che vi portavano i propri clienti.

La conobbi per questo, perché quest'albergo era vicino a noi e Graziella veniva a fare la spesa per queste donne. Lavorava come un mulo, avanti e indietro per le scale, a pulire continuamente queste stanze.

Non ricordo quanto durò questa situazione, ma infine il marito, violento e cattivo, la costrinse a prostituirsi. Probabilmente questa era già la sua intenzione quando la portò a Torino.

Graziella divenne una mia cliente, e conobbi anche i due figli maschi, che erano ricoverati nell'istituto di piazza Benefica. Ogni tanto venivano a casa, e uscivano a far spese con la madre, sempre vestiti con l'uniforme del collegio. Erano due ragazzi poco intelligenti, forse non pienamente sviluppati di cervello.

Graziella, a quel che si raccontava, aveva molti clienti, specialmente carabinieri. Guadagnava parecchio e così il marito poteva vivere bene facendo il protettore.

La picchiava e un giorno cercò di accoltellarla; allora lei si ribellò e lo denunciò e lui fu condannato a sei anni di reclusione.

In quei sei anni Graziella riuscì a fare degli investimenti, comprando qualche alloggio. Si ammalò anche più di una volta, ma appena fuori dall'ospedale ricominciava la sua vita.

Qualche volta mi raccontava dei suoi mali e, devo dire la verità, mi faceva pena. Non era cattiva, era solo una povera disgraziata.

Quando seppe che il marito sarebbe uscito di prigione, cominciò a vivere nel terrore che l'uccidesse perché l'aveva denunciato.

I figli ormai grandi erano usciti dal collegio e vivevano con lei.

Il marito tornò ma non l'uccise; la riprese sotto di sé e continuò a farsi mantenere.

Costui era proprio un criminale. Cominciò a portare con sé il figlio maggiore, di circa diciott'anni, per insegnargli il mestiere di protettore. Una notte però il padre - non ne ricordo il motivo - ordinò al figlio di strangolare una prostituta, dicendogli che se era veramente un uomo l'avrebbe fatto. Il ragazzo ubbidì e la strangolò.

Questo fatto fu pubblicato su tutti i giornali. Graziella spese tutto ciò che aveva per salvare il figlio, che era stato succube del padre, e difatti questi fu condannato all'ergastolo per istigazione al delitto, circonvenzione d'incapace e varie altre imputazioni, mentre il figlio fu riconosciuto incapace d'intendere e volere e se la cavò con due o tre anni di manicomio.

Quando uscì si sposò con una ragazza che faceva l'infermiera e che era molto brutta, ma insomma, lui non poteva pretendere molto, e si mise a lavorare insieme al fratello come operatore ecologico.

Veniva anche lui a comprare da me e quando lo vedevo, pur sapendo che non era tutta colpa sua, non potevo fare a meno di guardare le sue mani e di pensare che avevano stretto il collo di una donna fino a soffocarla. Comunque non era cattivo, come neanche il fratello; erano stati solo vittime di un padre che si potrebbe ben definire "un mostro" senza tema di sbagliare.

Graziella continuò la sua vita, ma senza l'incubo di quell'uomo. Prese però il vizio di andare a giocare al casinò e si ridusse in miseria.

Lauretta

Lauretta era una bambina di cinque o sei anni, figlia di una prostituta e di un operaio. Non so se quando la conobbi la madre esercitava ancora perché, come seppi in seguito, era molto malata di cirrosi epatica, in quanto beveva molto. Anche se io non l'ho mai vista ubriaca, il suo alito puzzava sempre di liquore.

Però questa donna trattava sua figlia in un modo veramente esemplare.

Lauretta era graziosa, molto bene educata, sempre pulitissima e ben vestita. Veniva in negozio con i genitori e si vedeva molto bene che era serena e felice. Veniva sempre a sedersi sulle mie ginocchia. Avevamo fatto amicizia, la mamma parlava volentieri e comprava sempre la carne più tenera per la sua Lauretta, si vedeva che l'amava veramente. Il marito era anche lui un brav'uomo, che lavorava alla FIAT.

Furono nostri clienti per un bel po' di tempo, poi non li vidi più. Seppi poi che morirono tutti e due nel giro di un anno, lei per cirrosi lui per tubercolosi.

Lauretta andò a stare con una nonna, che io vidi una volta sola e mi diede l'impressione di essere anche lei una vecchia prostituta dall'espressione dura e cattiva.

Non vidi più Lauretta per parecchi anni, poi un giorno fui avvicinata da una ragazzina vestita in modo strano, che camminava gesticolando. Si fece riconoscere, ed era proprio Lauretta, che si era ricordata di me, perché io non l'avrei mai riconosciuta.

Ebbi molto piacere a rivederla, ma lei cominciò a farmi dei discorsi senza alcun filo logico che non riuscii a capire, poi se ne andò.

Tornò qualche altra volta e si comportò sempre così, non riuscivo a cavarne nulla, anche negli altri negozi si comportava così, e poi non la rividi mai più. Seppi in seguito che anche lei faceva la prostituta.

Povera Lauretta, forse se fosse vissuta con sua madre questo non sarebbe accaduto. Temo che non abbia resistito a lungo, se già così giovane era fuori di testa. La ricordo spesso con malinconia; anche lei, come i figli di Graziella, era una vittima di quel mondo senza pietà.

"Riccioli d'oro"

Mi sovvengo anche di questa piccolina di cui non ricordo il nome.

Di circa tre anni, aveva capelli dorati e ricciuti, due occhi azzurri come il cielo, un visetto dai tratti delicati. Se sapessi dipingere un angioletto, lo farei simile a lei.

Era figlia di una prostituta, che l'aveva affidata ad una donna mia cliente che di nome faceva "Ginetta" ma che pesava 140 chili.

La prima volta che vidi "Riccioli d'oro", le rivolsi qualche complimento, come si fa di solito con i bambini, e lei spontaneamente venne a sedersi sulle mie ginocchia. Io l'abbracciai e mi resi conto che non era pulita, e mi fece pena, povera piccolina, era come un cucciolo in cerca di carezze. La coccolai un poco, poi Ginetta con il suo vocione senza dolcezza la chiamò per andare via, la bimba sussultò e si strinse di più a me. Poi si staccò e uscì con questa donna, che forse non era cattiva, ma che con i suoi modi bruschi e la sua mole probabilmente la spaventava un po'.

Costei doveva essere stata da giovane una prostituta, poi per guadagnare qualcosa teneva questa bimba. Suo marito era un ubriacone, vivevano in qualche soffitta del quartiere e lei stessa era sempre maleodorante.

La piccola, da quel primo giorno, prese l'abitudine di venirmi in braccio e io la coccolavo un po', credo ne avesse veramente bisogno, era ancora così piccola.

Poi un giorno non venne più e Ginetta mi disse che era stata adottata da un'altra prostituta, che si era trasferita in Africa ed aveva messo su un bordello.

Ora, le prostitute che si mettevano a fare le "madame" erano sempre le più dure e le più cattive, se no non avrebbero potuto fare quel genere di lavoro. Era voce comune che allevassero bambine per poi instradarle sulla via della prostituzione, e temo che anche "Riccioli d'oro" sia stata un'altra innocente vittima di costoro. Ricorderò sempre tanto lei che Lauretta.

I bambini di queste donne nei primi anni della loro vita venivano affidati a balie, a parenti o a istituti, ma in seguito vivevano sulla strada, ed era pressoché inevitabile che scegliessero la vita dei protettori, dei ladri e così via.

Solo Lauretta si sarebbe salvata se fossero vissuti i suoi genitori, ma è l'unica volta che nella mia esperienza, ho visto una madre di quella provenienza comportarsi così. Per lei la sua Lauretta era tutto, ma purtroppo la sorte le fu matrigna.

Ernestina

Ho scoperto a volte in queste donne dei tratti insoliti. Per esempio una volta una certa Ernestina, anche lei nostra ottima cliente, mi stupì. A costei piacevano i bambini, quando ne incontrava qualcuno in negozio rivolgeva sempre loro dei complimenti. Ricordo che una donna disse alla sua bambina di ringraziare Ernestina che le aveva dato una caramella. La bimba si avvicinò e ringraziò con un sorriso. Ernestina le posò un bacio sui capelli. Quando la bimba uscì, mi spiegò che lei non baciava mai i bimbi sulle manine come si fa spesso, perché poi loro mettevano le mani in bocca, e che invece baciandoli sui capelli non c'era questo pericolo.

Ernestina era già anziana, era sofistica e ombrosa, tuttavia anche lei poteva mostrare una tale delicatezza.

Piera

Piera portava sempre qualche cioccolatino a mia figlia Silvana, quando questa da piccola veniva in negozio. Era generosa; una volta andò a comprare qualche indumento intimo in un negozio e, vedendo che alla commessa piaceva e che però non poteva permettersi di comprarlo, glielo offrì.

Si sposò già anziana con un giornalaio e andò a vivere in un paesino. Non so però se smise di lavorare oppure no.

Anita

La chiamavano "la spagnola" e in effetti ne aveva il nome e l'aspetto. Era alta, formosa ma ben fatta, bruna con begli occhi neri. Parlava molto bene l'italiano e a volte penso che non fosse spagnola affatto, perché la sua voce non denunciava nessuna inflessione estera o dialettale.

Era molto gentile ed educata e, se non avessi saputo che era anch'essa una prostituta, non l'avrei immaginato. Di solito infatti le donne che fanno questo mestiere ce l'hanno scritto sul volto, qualcosa di loro le fa subito scoprire. Ma Anita non era così.

Una volta la vidi entrare in chiesa, e lei stessa poi un giorno mi disse che ogni volta che passava davanti a una chiesa vi entrava per dire una preghiera.

   

   

 

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