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Andreina Acquarone

RICORDI D'INFANZIA, GIOVINEZZA E GUERRA

DI ALBINO CHIOLI

dedicati alla nostra nipotina Eleonora

   

Da sinistra la nipotina Eleonora Chioli, la nonna scrittrice Andreina Acquarone e il nonno Albino Chioli

Da sinistra: la nipotina Eleonora, a cui sono dedicati questi ricordi - Andreina Acquarone, la nonna scrittrice - il nonno Albino Chioli, che dopo averlo vissuto ha narrato tutto quanto è qui riportato 

   

Sommario

Introduzione della nonna Le prostitute nel campo
Infanzia del nonno L'ex carcerato
Il nonno e Sant'Antonio Nel 1942
La febbre delle pere In Iugoslavia
Il mancato falò di Natale Il capitano Gamerra
Il carattere del nonno Una battaglia mancata ed il ritorno in Italia
Il cibo del nonno A Riglione di Pisa
I lavori del nonno Morte eroica del comandante Gamerra
Le serate mondane del nonno Una gran confusione e l'inizio della prigionia
Il nonno e gli animali Diciassette giorni d'inferno
L'adolescenza In Polonia
La casa stregata del Cavallo Grigio Nello zuccherificio di Unislaw
A Cambiano Il sergente maggiore e le barbabietole
La bisnonna torna alla casa di Balme A spaccare pietre
A Torino Il nonno fa l'elettricista
Il nonno gerente e i tacchini della bisnonna La fine di un incubo
Il servizio militare e la partenza per la guerra Il ritorno a casa
Il fronte francese L'incontro con la bisnonna
Personaggi odiosi Il dopoguerra
Un bello spavento Conclusione della nonna
Di nuovo gerente e di nuovo richiamato  

   

Introduzione della nonna

Carissima Eleonora, è soprattutto per te che qui racconterò come tuo nonno Albino ha vissuto la sua infanzia e la sua giovinezza, perché tu un giorno possa leggerla ai tuoi figli, ai tuoi nipotini e magari - te lo auguro - anche ai tuoi pronipoti. Desidero inoltre fare in modo che, oltre a ricordarlo con la tua memoria infantile, tu abbia ulteriori strumenti, anche quando non ci saremo più, per capire come il papà del tuo papà era in realtà.

 

Infanzia del nonno

Nonno Albino nacque in una piccola frazione del comune di Robella d'Asti chiamata Balme, nel lontano 22 febbraio 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale.

 

Robella d'Asti in Piemonte 

(dall'Atlante stradale d'Italia del Touring Club Italiano, 1988) 

 

Cartina che identifica la posizione di Robella d'Asti in Piemonte

 

Prima di lui erano nate tre figlie femmine e quando venne al mondo lui suo padre Guido si prese una solenne sbornia, per la contentezza di avere avuto finalmente un figlio maschio.

Poco tempo dopo il tuo bisnonno partì per la guerra '15-'18.

 

 

Nonno Albino (terzo da sinistra) con la sua mamma Delfina e le sorelle più anziane durante la prima guerra mondiale

 

Nonno Albino (terzo da sinistra) con la sua mamma Delfina e le sorelle più anziane durante la prima guerra mondiale

 

Nel 1916, durante una sua licenza la bisnonna concepì un secondo figlio maschio e nel 1920 l'ultimogenita.

Il bisnonno Guido Giulio Chioli durante la prima guerra mondiale

Il bisnonno Guido Giulio Chioli durante la prima guerra mondiale

 

Erano molto poveri e vivevano in una piccola e angusta casetta dove al pianterreno vi era la stalla, con tre capre e una mucca, che però non era di loro proprietà, ma era stata comprata da un'altra persona che l'aveva poi affidata loro col patto di dividere a metà il ricavato della vendita del vitellino che la mucca avrebbe partorito.

Al piano superiore vi erano la cucina con il focolare, l'armadio, un tavolo e qualche sedia, uno scaffale e il letto dei genitori. Poi vi era una stanza col pavimento in terra battuta e una finestra che al posto dei vetri aveva dei fogli di carta.

L'arredamento era composto da una vecchia cassapanca che fungeva da letto, un letto matrimoniale in cui dormivano in cinque, finché perlomeno i bambini furono piccoli, perché in seguito fu aggiunto un altro letto. I materassi erano imbottiti di foglie secche, che scricchiolavano ad ogni minimo movimento. Completava il tutto un vecchio armadio.

Di lato alla casa vi era una piccola aia che fu in seguito trasformata in orto. Dietro alla casa c’era un portico e più avanti la vigna, che all'epoca serviva anche come orto.

A quei tempi non c'era ancora l'acqua corrente, l’acqua potabile perciò veniva fornita da un pozzo situato in un'altra proprietà. Però quando vi era siccità dovevano andare a prendere l'acqua necessaria fino in fondo alla valle.

Solo più tardi il nonno e suo fratello, quando ebbero 15-16 anni, scavarono un pozzo sotto casa tutto per loro.

Non esisteva neppure la luce elettrica, quindi usavano una lampada a petrolio, il cui consumo veniva ridotto al massimo per economia.

Purtroppo quando il bisnonno Guido tornò dalla guerra, stette bene ancora per soli quattro anni, poi si ammalò gravemente di cuore e non poté più lavorare. 

Un po' alla volta diventò anche cieco.

Non poterono mai conoscere il motivo di questa cecità, perché non avevano denaro per pagare il medico né tanto meno le eventuali medicine, allora non vi era infatti ancora la mutua.

Questa invalidità durò 12 anni e poi il bisnonno morì, aveva 50 anni.

Il bisnonno Guido Giulio Chioli negli ultimi anni

Il bisnonno Guido Giulio Chioli negli ultimi anni

La tua bisnonna Delfina dové quindi sobbarcarsi sulle spalle tutte le responsabilità e per lei fu assai duro.

Io la conobbi molto bene, e lei stessa mi raccontò che quando nonno era ancora piccolissimo e lei l'allattava, fu colpita da un'infezione al seno, per cui dové smettere l'allattamento e siccome il piccolo cercava di continuo il latte della mamma, questa dovette svezzarlo, affidandolo alle cure della figlia "maggiore" che aveva all'epoca circa 7 anni.

Anche se imposta dalle circostanze, questa fu comunque la prima rinuncia del nonno.

Egli racconta che appena fu in grado di reggersi sulle gambine iniziò a lavorare: raccoglieva i legnetti per il fuoco, l'erba per i conigli, e diverse cosette di questo genere.

A sei anni cominciò a portare le capre al pascolo.

La sua mamma era fiera di lui, infatti mi disse che nonno, benché fosse il più povero fra i bambini del posto, in compenso era bello e il più in gamba di tutti.

 

Il nonno e Sant’Antonio

Il nonno mi ha detto più volte che nella sua lunga vita qualche "santo" deve averlo protetto, e propende senz'altro per Sant'Antonio.

Difatti quando aveva all'incirca tre anni, un giorno, all'insaputa dei suoi, riuscì ad arrampicarsi su di un ciliegio e poi, appollaiato su un ramo si mise a imitare il verso del cuculo:

cucu cucu

finché stanco non si addormentò sulla pianta, con grave rischio di cadere e di farsi molto male. Fu però visto dalla mamma, che chiamò il papà, il quale riuscì ad andarlo a prendere senza alcun danno.

Un'altra volta infilò una mano in un buco senza sospettare che lì dentro ci fosse un nido di calabroni, la cui puntura può essere anche letale.

Infatti fu punto e subito il suo corpo si ricoprì di bolle, gli mancava il respiro, si sentiva soffocare. Per fortuna, o per merito di Sant'Antonio, chi può mai saperlo, un'anziana donna gli fece bere molto latte, che evidentemente funse da antidoto perché il nonno, man mano che mandava giù il latte, si sentiva rivivere, finché si rimise completamente.

 

La febbre delle pere

Nonno però era anche birichino.

Una volta che era indisposto e aveva la febbre, sua madre lo fece rimanere a letto, mentre lei scese di sotto per svolgere i suoi lavori.

Dopo un po', un suo vicino le disse che aveva visto Albino su un pero di sua proprietà mentre ne raccoglieva i frutti.

La bisnonna ribatté che si era sbagliato perché suo figlio era a letto con la febbre ma, vista l'insistenza del vicino, salì per verificare e trovò il letto vuoto.

Nonno il giorno precedente aveva visto quelle belle e succose pere e nonostante l'indisposizione non aveva saputo resistere alla tentazione.

Naturalmente fu sgridato, sia per l'imprudenza sia perché le pere non erano sue.

 

Il mancato falò di Natale

La sorella di nonno mi ha raccontato come in un’altra occasione Albino con i suoi amichetti raccogliessero alla vigilia di Natale un bel mucchio di legna per accendere un falò, come era d'uso per quella notte.

In un prato avevano preparato una catasta di legna sormontata da bacche di ginepro, affinché queste, accendendosi, scoppiettassero come castagnole.

Erano tutti eccitati all'idea e non vedevano l'ora di accendere il fuoco.

A mezzanotte dunque si avviarono verso il prato, ma trovarono che la loro bella catasta era già stata data alle fiamme da un gruppo di giovani più grandi.

Fu una vera cattiveria da parte di costoro, perché tutti sapevano che la legna era stata preparata dai bambini per divertirsi un po' nella notte di Natale.

Nonno ci restò così male e si arrabbiò talmente, che decise di appiccare il fuoco alla casa di uno di loro.

Naturalmente fu dissuaso e tutto finì lì, ma a distanza di quasi ottant'anni, il nonno si ricorda ancora molto bene il dolore e la delusione patiti. Il Natale era in genere per lui un giorno come un altro, i regali che riceveva - se così si possono chiamare - erano due mele e qualche noce, e per lui quella bravata dei ragazzi più grandi fu come la fine di uno splendido sogno che doveva finalmente realizzare un Natale diverso.

 

Il carattere del nonno

Il nonno però aveva un bel carattere, era sempre allegro e ben voluto dalla famiglia.

Per la verità, io ho sempre avuto la netta sensazione che egli fosse il prediletto di tutti.

Il 15 agosto, festa dell’Assunta patrona di Robella, il paese si vestiva a festa e tutti andavano a vedere il ballo a palchetto allestito sulla piazzetta principale.

Una volta, in questa occasione, il padrino del nonno gli regalò alcune lire, e nonno allora andò di corsa a comprare un grosso melone, che per lui era una vera ghiottoneria, e lo portò a casa per dividerlo fra tutti.

Nel periodo in cui frequentava le elementari, contemporaneamente nonno andava a pascolare le capre.

Insieme alla capre vi era pure un grosso caprone puzzolente, per cui quando il nonno arrivava a scuola i compagni andavano a sedersi lontano da lui per via dell'odore che i suoi vestiti emanavano.

In casa sua sia l'acqua che gli indumenti erano scarsi, perciò non avevano la possibilità di lavarsi e cambiarsi a sufficienza.

In generale però, all'epoca, l'igiene personale era molto scarsa, specie nei piccoli paesi, sia per la scarsità dell'acqua, sia per la mancanza di qualsiasi comodità.

Il nonno non amava molto studiare ed andare a scuola, ma io sono persuasa che la responsabilità di questo sia soprattutto in primo luogo della maestra e poi del maestro, perché si curavano assai di più degli alunni che in seguito avrebbero dovuto continuare gli studi.

Agli altri bastava saper fare i conti, leggere e scrivere più o meno correttamente.

In quei tempi, la disparità di trattamento fra poveri e ricchi era molto più evidente di oggi, soprattutto nei piccoli borghi.

I momenti più belli che il nonno ricordi sono quelli di quando andavano a trovare i suoi nonni a Cervoto, paesino natale della bisnonna Delfina, una frazione di Verrua Savoia dove vivevano pure Amedeo e Felicita, fratello e sorella di Delfina.

La bisnonna Delfina bambina

La bisnonna Delfina bambina

Questi parenti non erano ricchi, però stavano assai meglio di loro, per cui quando nonno e compagnia andavano a trovarli, la zia regalava loro del pane fresco, della frutta che essi non avevano e poi, quando ammazzavano il maiale, un po’ di lardo e di salsiccia, le orecchie del suino e ossa per fare il brodo.

Al nonno quel poco pareva tanto perché a casa sua non c’era niente.

Ogni domenica andavano tutti quanti a messa e il parroco a volte regalava loro delle pastigliette che estraeva dai profondi tasconi della sua tonaca, soltanto però se erano stati attenti durante la funzione e dopo aver fatto ai ragazzi un sermoncino.

Allora il parroco era una vera autorità, insieme al medico e al maestro e soprattutto alla contessa padrona del castello, che era situato sul punto più alto di Robella, così che dalla specola posta su una torre i castellani potevano controllare le loro terre e i loro contadini

Al castello si poteva se non altro sempre trovare il brodo per gli ammalati poveri e il ghiaccio per chi aveva la febbre alta.

 

Il cibo del nonno

Il nonno racconta che il pranzo e la cena erano sempre a base di polenta, fagioli e pane.

Le poche uova delle altrettanto poche galline venivano vendute per poter comprare l’olio, lo zucchero, il sale ed il petrolio.

Il latte della mucca e delle capre, a parte qualche scodella per i più piccoli, era destinato al vitellino ed alle caprette, per poterle poi vendere.

Accanto a loro abitava una donna più o meno dell’età della bisnonna. Viveva in una casa accogliente in cui non mancava nulla, e molte volte diceva alla bisnonna – per ignoranza o per cattiveria - che lei del latte non avrebbe mai potuto fare a meno. Di certo era una donna priva di sensibilità, perché non si ferisce così chi ha appena il minimo indispensabile per non morire di fame, per di più con sei figli ai quali il latte avrebbe fatto molto bene. Qualche volta la bisnonna, per cambiare un po’, faceva le tagliatelle con acqua e farina. Povera donna, nonostante tutta la sua buona volontà, non poteva fare più di così, lei stessa me lo disse una volta, e io le ho creduto e pure i suoi figli l’hanno sempre saputo.

Nonno Albino era anche un po’ goloso, come anche gli altri del resto, per cui la bisnonna teneva la scatola con lo zucchero in alto sullo scaffale. Il nonno però trovò il modo di arrivarci e di mangiarsi lo zucchero senza togliere il coperchio, imparando ad aspirarlo con le labbra. Non ricorda se mai la sua mamma se ne accorgesse. Sembra poca cosa, un po’ di zucchero per un bambino, tuttavia anche questo doveva essere razionato per durare più a lungo. 

Ogni venti o trenta giorni la bisnonna faceva il pane, e per farlo cuocere doveva portarlo fino a Robella da un bottegaio che aveva il forno a legna.

Costui si faceva pagare con un chilo e mezzo circa di pane e tre fastelli di legna, che gli servivano per il funzionamento del forno. Da Balme a Robella c’erano circa due o tre chilometri in salita, e sia la legna che il pane dovevano essere portati lassù a piedi, sia d’estate che d’inverno, anche se c’era la neve, a meno che qualcuno, passando con carro e cavallo per la strada, non desse loro una mano.

Il pane veniva poi conservato in una cesta appesa la soffitto perché prendesse aria, ma nonostante questa precauzione il pane dopo un po’ si copriva di muffa e diventava duro, per cui prima di mangiarlo gli si toglieva la muffa con uno spazzolino e lo si spaccava schiacciandolo fra il muro e la porta, oppure lo si bagnava nell’acqua per ammorbidirlo.

Durante la festa del paese nonno e suo fratello andavano anche ad aiutare la loro mamma a lavare i piatti nelle trattorie dei dintorni per guadagnare qualche lira, anche se prima si recavano alle funzioni religiose per non essere redarguiti dal severo parroco.

Tutti o quasi tutti frequentavano allora la chiesa, sia per non incappare nei rimproveri del suddetto parroco, sia perché penso che la gente fosse più religiosa di adesso. Per certuni del resto l’unica speranza era credere in Dio.

Il nonno non possedeva neanche un giocattolo, ma un giorno suo padre gli regalò un fischietto trovato da qualche parte. Fu per lui una vera festa e lo conservò come un tesoro.

Una volta lui e i suoi amici trovarono da qualche parte delle bucce d’arancia lasciate da un gitante e chiesero ad altri che cosa fossero, perché non le avevano mai viste prima. Conoscevano solo pere, mele, prugne e qualche altra specie di frutta tra le più comuni. Solo al castello vi erano piante di cachi, ma queste erano intoccabili.

Un’altra volta Sant’Antonio vegliò su di lui, perché cadde da un albero senza farsi niente. Il ramo sui cui stava infatti si piegò e lui finì dritto in una pozzanghera, infangandosi tutto ma senza farsi alcun male.

Era tutto bagnato e faceva piuttosto freddo, quindi lui e i suoi amici decisero di accendere un fuoco sul prato per asciugarsi i vestiti. Nonno si spogliò completamente, pose gli abiti accanto al fuoco e poi per scaldarsi si mise a correre in cerchio attorno alle fiamme. Comunque la marachella fu scoperta, perché qualcuno lo vide, ma non ci furono conseguenze.

Quando il bisnonno stava ancora bene, andò un giorno col nonno a lavorare in un campo.

All’ora di pranzo erano affamati e assetati, perché faceva molto caldo. Dopo poco arrivò la bisnonna per portare loro da mangiare. Aveva pensato di fare per una volta uno strappo alla regola ed aveva cucinato una bella frittata con uova e verdura. Quando però aprirono l’involto, ahimè, scoprirono che la succulenta frittata era piena di formiche ben cotte e certo arrostite a dovere, tuttavia poco appetitose. La povera bisnonna non ci vedeva molto bene, l’angolo dove c’era il camino era buio e il fondo della padella era scuro, per cui quando lei vi aveva gettato dentro il necessario per la frittata non si era accorta che sul fondo si erano annidate le formiche.

Naturalmente buttarono via la frittata, e il lauto pasto si ridusse a pane ed acqua. La poveretta se ne tornò a casa tutta mortificata. Aveva voluto far loro una sorpresa, ma non certo quella.

 

I lavori del nonno

A mano a mano che nonno cresceva, i lavori diventavano più pesanti, per esempio doveva irrorare la vigna e le piante da frutto con il verderame, poiché allora gli antiparassitari odierni non esistevano ancora.

Portare sulle spalle quel pesante contenitore pieno di quel liquido bluastro era una fatica per un ragazzo così giovane, perciò ci fu qualcuno che avvertì la mamma dicendole che quel peso sulle spalle poteva compromettere la sua crescita ed il suo sviluppo osseo. Ma necessità non vuol legge, e per fortuna quelle previsioni non si avverarono.

Certamente, fosse stato suo padre in salute, tutto sarebbe stato meno difficile.

Da adolescenti, il nonno e suo fratello andavano spesso a svolgere lavoretti di vario genere, talvolta molto pericolosi, come salire su alberi di alto fusto per sfrondarli dei rami in sovrappiù affinché potessero crescere meglio. Quelli che li mandavano, non ci mandavano i figli propri per timore che cadessero giù, perché gli alberi erano molto alti. Ma il nonno ci andava volentieri, anzi, più erano alti meglio era per lui. Sarà stata incoscienza giovanile, ma forse quando era lassù gli sembrava di dominare il mondo circostante.

Non rifiutava mai nessun lavoro, per quanto pesante o sgradevole. Mi raccontò più di una volta che sovente andava da un'anziana vedova ad aiutarla in varie incombenze, e questa, oltre a dargli un magro compenso, gli preparava una minestra a base di malva, che ha sì proprietà curative, ma cuocendo produce un brodo scivoloso e assai poco appetitoso. Lei ne faceva uso per curarsi. Al nonno questa minestra non piaceva per niente, anzi ne era disgustato, e lo confidò alla bisnonna, la quale però gli spiegò che non doveva assolutamente rifiutare o criticare quella minestra, perché quando si è poveri bisogna accettare tutto senza protestare, per non essere considerati dei pretenziosi. E a questo proposito gli spiegò pure - la bisnonna Delfina era una donna molto saggia - che non sono i ricchi ad aiutare i poveri, bensì sono questi ultimi che aiutano i ricchi, i quali invece sfruttano la povertà altrui per arricchirsi sempre più.

Naturalmente non fu solo il nonno a fare tante rinunce e lavorare duro, ma così fece egualmente tutta la sua famiglia, salvo forse Angela, la secondogenita, che morì di tifo giovanissima.

 

Le serate mondane del nonno

Alla sera, quando il lavoro nei campi era finito e la cena consumata, era d'uso che i contadini si riunissero in qualche stalla per passare un po' di tempo tranquilli, al lume di una lampada a petrolio.

Gli uomini discutevano di questo o di quello, le donne facevano le calze ed i bambini ascoltavano le favole che qualche compiacente vecchietto raccontava loro.

La stalla del nonno era la più piccola di tutte, ma era sempre la più affollata, perché la famiglia del nonno era stimata da tutti per l'onestà e la voglia di lavorare ed era ospitale.

 

Il nonno e gli animali

Da bambino, nonno andava sempre a caccia di nidi, non tanto per il piacere di portare via quei poveri uccellini, quanto per procurare alla mamma qualcosa con cui fare un po' di sugo per la polenta. Il bisogno fa fare molte cose che normalmente non si farebbero. Infatti nonno Albino amava gli animali. 

Aveva addestrato una cagnetta di nome Lila a cercare i tartufi e, durante le stagioni in cui si potevano trovare questi costosi tuberi, il nonno, dopo una giornata di lavoro, andava di notte con Lila a cercare i tartufi per poi venderli.

In camera da letto avevano anche allestito un allevamento di bachi da seta, che nutrivano con foglie di gelso. Dopo circa quaranta giorni i bachi formavano i bozzoli da cui si ricava la seta, che venivano venduti ad un buon prezzo.

Un giorno il bisnonno Guido decise di allevare un capretto anziché venderlo subito, perché i prezzi erano saliti e pensava che si sarebbe potuto ricavare un guadagno maggiore. Ma quando arrivò il momento di venderlo i prezzi calarono di colpo per cui il bisnonno, per non rimetterci del tutto, decise di ucciderlo e di  venderlo a pezzi ai suoi vicini con i quali si era già messo d'accordo.

Nonno non aveva mai assistito all'uccisione di un capretto ma volle a tutti i costi essere presente e suo padre acconsentì, anzi, gli fece tenere il povero animale per le gambe, mentre questo belava, perché forse il suo istinto gli faceva capire di essere in pericolo. Il bisnonno comunque non lo fece soffrire, poiché lo uccise con un solo colpo ben assestato; nonno tuttavia restò sconvolto e, benché sempre affamato, non volle neppure assaggiarlo.

 

L'adolescenza

Dagli 11 ai 12 anni il nonno lavorò per un certo tempo per la nuora del sindaco che abitava in un'altra frazione. Si trasferì quindi a casa di questa signora, che lo mise a dormire in cucina sopra un divano. Il nonno non percepiva alcuna paga, era solo mantenuto, ma a casa sua anche il fatto di avere una bocca in meno da sfamare era un aiuto. 

Svolgeva incombenze di vario genere. Un pomeriggio il sindaco stesso gli ordinò di andare con lui a tagliare le canne. Era d'inverno e le canne erano coperte di brina, una fitta nebbia avvolgeva tutto, nessuno avrebbe fatto quel lavoro con un tempo simile, ma il sindaco era ubriaco e decise così.

Contemporaneamente la nuora dette al nonno un ordine diverso, ed allora lui obbedì a questa anziché al sindaco, che perciò lo licenziò in tronco.

Questo sindaco aveva due figli maschi, che erano caporioni fascisti e spesso si riunivano in casa con altri fascisti. Però costoro, quando di notte uscivano da lì, temevano sempre d'essere uccisi, per cui mandavano il nonno in perlustrazione, a vedere se fuori c'era qualcuno. Mettevano così a repentaglio la sua vita, perché se ci fosse stato un attentato, in piena notte chi poteva riconoscerlo?

A dodici anni nonno venne a Torino a lavorare in un bar di via Plana, vicino a piazza  Vittorio, per mantenersi. La paga e le mance le inviava a casa.

Fu messo a dormire in magazzino su una branda. Il suo lavoro consisteva nel lavare tazze e bicchieri, nel servire ai tavoli e salire e scendere dalla cantina alla sala. Cominciava verso le otto del mattino e terminava verso l'una o anche le due di notte.

I suoi padroni gli avevano promesso qualche ora di libertà al giovedì, ma poi non ne parlarono più e il nonno non osava chiedere il permesso di uscire. Un giorno però, dato che le sue scarpe erano logore e non resistevano proprio più, prese il coraggio a due mani e chiese di uscire per andare a comprarsene un altro paio. Il permesso gli fui concesso, e lui andò a trovare la sua sorella maggiore, che era a servizio in via Giacinto Collegno, per chiederle di accompagnarlo a comprarsi le scarpe.

Il giovedì successivo pensò di poter uscire di nuovo, ma stavolta il permesso gli fu negato, non solo, ma gli dissero che se si fosse comportato così l'avrebbero licenziato.

Erano proprio gente senza cuore. Nonno aveva solo dodici anni, lavorava circa sedici ore al giorno, ma fu obbligato a passare in quel bar 24 ore su 24, senza mai un'ora di svago.

E più tardi, poiché il lavoro diminuì per mancanza di clienti, fu comunque mandato via. Tornò allora a casa con il timore di venire mal considerato perché aveva perso il lavoro, ma questo naturalmente non successe, poiché tutti sapevano quanto fosse volonteroso e scrupoloso.

Verso i 15 anni gli fu chiesto di andare a lavorare nelle strade provinciali, a pulire i fossati, che erano sovente intasati di terra e detriti a causa delle piogge e dei temporali. E doveva pure spargere ghiaia sulle strade con una pala. Era un lavoro pesante, da eseguirsi secondo le stagioni, col freddo o sotto il sole cocente.

In autunno invece andava a tagliare il riso nelle risaie del vercellese, ed alla sera, dopo aver lavorato tutto il giorno, per guadagnare un po' di più, aiutava anche a spostare i sacchi di riso dalle trebbiatrice all'essiccatore, naturalmente portandoli sulle spalle, per un paio d'ore ogni sera.

La paga giornaliera consisteva in 18 kg di riso, oppure nell'equivalente in denaro. Nonno preferiva il riso, perché poi ne rivendeva una parte, guadagnandoci così un altro piccolo extra.

A quei tempi, in quella situazione di estrema povertà, non vi era scelta per il lavoro: prendere o lasciare.

 

La casa stregata del Cavallo Grigio

Il bisnonno Guido, benché infermo, era pur sempre il capofamiglia, ed a lui spettavano le decisioni importanti, anche perché i figli erano ancora minorenni, dato che all'epoca la maggiore età si raggiungeva solo col compimento dei 21 anni.

Ad un certo punto dovette decidersi a comprare un'altra casa, perché la loro minacciava di crollare.

In casa non vi erano risparmi e quindi bisognò vendere un campo, dal quale si ricavarono 7.000 lire. La maestra del paese ed un contadino del posto gli prestarono a tempo indeterminato ciascuno 2.000 lire ad un interesse del 5%. Con le 11.000 lire così ottenute il bisnonno comprò una casetta che nessun altro aveva voluto comprare perché si diceva fosse invasa dalle "streghe". Lui però non tenne conto di queste dicerie e poté così averla a un buon prezzo.

Si trovava vicino alla strada provinciale, in una località che prendeva il nome dalla vicina trattoria del Cavallo Grigio (ël Caval Gris).

La storia delle streghe è curiosa. Molti asserivano di aver visto o sentito in quella casa porte che si aprivano da sole, suppellettili che volavano per aria e cose di questo genere. Però nessuno della famiglia del nonno vide o sentì mai nulla. E di streghe neppure l'ombra.

In seguito si sparse la voce - pare almeno in parte fondata - che un tale, per far tornare a casa la moglie che dopo averlo lasciato viveva in quella casa con la madre, avesse pagato un altro tale che forse possedeva strane facoltà - quelle che oggi chiameremmo paranormali - perché facesse spaventare la moglie a tal punto da farla tornare con lui. Ottenuto lo scopo, le "streghe" sparirono per sempre.

A questo proposito è noto che un tempo nei paesi si sentivano spesso raccontare storie paurose di streghe (strie, masche) e si parlava comunemente di persone che "facevano la fisica". Di fenomeni paranormali nessuno aveva mai sentito parlare.

Gli interessi da pagare per la casa implicarono per tutti ulteriori economie e fatiche. Nonno ricorda per esempio bene l'inverno del 1928 che passò per così dire alla storia per il gran freddo. Il termometro segnò infatti fino a 28 gradi sotto zero. Dietro richiesta di un vicino, proprio in quell'inverno nonno accettò di andare con lui a Moncalvo, che dista da Robella circa 20 km , per aiutarlo a trasportare un carico di paglia e fieno. Partirono un mattino alle 4,30 con due carri tirati da due cavalli. Il freddo era tanto tremendo che gelò persino il vino che si erano portati dietro, e il vino di solito non gela perché è alcolico.

Giunsero a Moncalvo verso mezzogiorno e, dopo aver mangiato una minestra di pasta e fagioli, scaricarono i carri e verso le 16,30 ripartirono verso casa, dove arrivarono verso mezzanotte, gelati come non mai.

Questi viaggi si ripeterono varie volte quell'inverno e a volte, quando invece della paglia portavano legna, dovevano andare a piedi, perché sui carri non ci stavano.

Le due sorelle più grandi, all'età di 14-15 anni erano già a servizio a Torino dove, dopo aver imparato a svolgere bene il proprio lavoro, percepivano un salario di cento lire al mese più il mantenimento. Entrambe mandavano a casa tutta la paga per aiutare la famiglia e pagare gli interessi del prestito.

Durante gli otto o dieci giorni di ferie tornavano al paese per la mietitura e lavoravano nei campi dalla mattina alla sera, rischiando anche di prendersi un'insolazione perché non erano più abituate al caldo sole estivo della campagna.

L'ultimo anno in cui il nonno restò al paese fu un vero disastro. Lui e suo fratello avevano preso a mezzadria due campi e una vigna molto produttivi perché in buona posizione, per la qual cosa avrebbero dovuto fruttare molto bene. Il ricavato del raccolto sarebbe stato diviso a metà con il proprietario delle terre.

Sennonché tutta la zona fu colpita da una grande siccità e quasi tutto andò perduto. Dopo tanto lavoro, tante estenuanti fatiche, restarono a mani vuote.

E fu in seguito a ciò che il nonno decise di dare un'altra svolta alla sua vita.

 

A Cambiano

Genio, un amico d'infanzia del nonno, lavorava già da tempo come macellatore in un mattatoio di Cambiano, paese vicino a Torino. Il nonno, seguendo il suo esempio, ci andò anche lui.

Questo mattatoio riforniva di carne molte macellerie, per cui si doveva lavorare anche di notte, macellando, sventrando e scuoiando i vitelli, di modo da averli pronti al mattino.

A nonno non piaceva certo uccidere tutte quelle povere bestie, ma dovette abituarsi per amore o per forza.

Erano in numero variabile, a seconda che si trattasse di un periodo in cui c'era più o meno lavoro.

Dormivano tutti in due o tre stanze, in una casa proprio lì davanti. I pasti venivano consumati a casa di una contadina che si era assunto quell'impegno dietro compenso.

Costei aveva un bambino, e per lavarlo usava una certa catinella. Genio, più osservatore del nonno, si era accorto che la donna usava la stessa catinella anche per condire la loro pastasciutta. Probabilmente, poiché erano in tanti, non possedeva un altro recipiente abbastanza grosso. Certamente lo avrà lavato, almeno si spera, tuttavia la cosa non era certo piacevole, specialmente per Genio, che era più schizzinoso del nonno, il quale 

ad ogni modo non rammenta se qualcuno mai protestò.

Quando poteva, il nonno portava a casa alla mamma delle ossa per fare il brodo e degli zampini. A volte invece andava a far visita alla sorella maggiore, che si era sposata ed aveva già una bambina.

A quei tempi il nonno aveva circa diciott'anni. Il fratello e la sorella minore erano ancora al paese ma anche loro in seguito si trasferirono a Torino.

La sorella andò a servizio in una famiglia mentre il fratello, tramite un conoscente del federale fascista di allora, poté avere da costui una raccomandazione per essere assunto come manovale in un cantiere edile che lavorava al rifacimento di via Roma a Torino.

Nel frattempo, nel giro di un paio di anni il nonno era stato nominato capo mattatoio ed il suo stipendio era aumentato fino a 400 lire al mese, che era assai più di quanto non prendesse un operaio.

Da lì iniziò a risparmiare, mettendo da parte lira su lira.

 

La bisnonna torna alla casa di Balme

Il bisnonno Guido non c'era più, era morto nel sonno all'età di cinquant'anni. Poveretto, aveva avuto anche lui una vita non facile, anzi, decisamente difficile. L'unica sua fortuna fu quella di aver avuto una buona moglie e dei bravi figli. Durante dodici anni di invalidità e di cecità le sue uniche distrazioni furono qualche sigaro e qualche bicchiere del suo scarso vino.

La bisnonna ormai sola poteva adesso far fronte alle sue modeste spese per cui tornò nella casetta di Balme, che era stata riattata alla meglio da un uomo che ci aveva abitato per un certo periodo senza pagare alcun affitto ma col patto che avrebbe rimesso la casa a posto.

Dopo quattro anni di mattatoio il nonno chiese al suo padrone di poter andare ad imparare a fare il macellaio in una macelleria, e questi, che possedeva una catena di 18 botteghe a Torino, acconsentì. Il nonno dovette dunque trasferirsi in città, e così si chiuse un capitolo della sua vita e ne iniziò un altro.

 

A Torino

Non avendo mai lavorato in negozio, fu mandato come apprendista dapprima in una macelleria di Porta Palazzo e dopo qualche tempo in un'altra di via Vibò.

Il nonno ce la mise tutta per imparare il mestiere, perché a Cambiano aveva solo imparato a sventrare e scuoiare i vitelli. In negozio era del tutto diverso, si doveva saper selezionare le diverse parti, conoscerne la nomenclatura, imparare a pesare e fare i conti. Allora poi non esistevano bilance che fanno tutto come oggi. Si doveva imparare a fare i roast-beef, ad allestire le vetrine, a trattare con i clienti accontentandoli senza rimetterci, e non ultimo a comprare i vitelli, a conoscerli e all'occorrenza a contrattarne il prezzo. 

Per trasportare la carne dal mattatoio di corso Inghilterra nei vari negozi di sua proprietà il principale aveva un solo camion ed un motofurgoncino, ma spesso non riusciva con essi a far fronte a tutte le consegne per cui, con qualsiasi tempo e stagione, si doveva usare anche un carretto a mano.

Varie volte il nonno lo tirò da corso Inghilterra fino a Porta Palazzo e spesso fino in piazza Madama Cristina, dove c'era un'altra bottega, per poi andarlo a riprendere in tram il giorno successivo prima di andare a lavorare.

 

Il nonno gerente e i tacchini della bisnonna

Per un po' rimase in via Vibò, poi si trasferì di nuovo nel negozio di Porta Palazzo, ma stavolta come gerente. Era riuscito, con la sua tenacia, ad imparare in poco tempo il mestiere.

Gli mancava solo l'esperienza, e questa se la fece a mano a mano spostandosi da un negozio all'altro in varie zone della città.

Si spostava perché ogni tanto arrivava la cartolina di precetto e doveva andare sotto le armi. Infatti si stava allora combattendo in Etiopia per la "conquista dell'impero" ed i soldati dovevano essere addestrati e preparati per un'eventuale partenza per il continente africano. Il nonno alla fine per fortuna non dové partire, ma le cartoline di precetto andavano e venivano a periodi intermittenti, e con loro lui, ed è per questo che il suo datore di lavoro lo sistemava ogni volta in un posto diverso, dove era possibile. Quest'uomo duro, autoritario, poco propenso all'indulgenza e che diceva spesso che sopra di lui non c'era che Dio, sapeva in effetti riconoscere la validità dei suoi dipendenti, per cui il nonno con lui aveva sempre un posto di lavoro assicurato.

La povera bisnonna Delfina, che da ragazza era stata a servizio da un generale, pensando di poter evitare che suo figlio venisse mandato in guerra, si toglieva di bocca quanto poteva per poter mandare a questo generale polli e tacchini, ma quando lei lo pregò di far qualcosa in favore del nonno, quello le rispose che era un onore andare al fronte per servire la patria. Il suo onore tuttavia non gli aveva impedito di mangiarsi i tacchini della bisnonna, della quale ben conosceva le condizioni.

 

Il servizio militare e la partenza per la guerra

Nonno Albino aveva 18 anni quando fu sottoposto alla visita medica militare ad Asti e riconosciuto abile. Poiché però il padre era invalido, fu esentato dal servizio militare come abile di 3° grado. Dové tuttavia fare le esercitazioni di addestramento a Torino, nello stadio che c'era dove c'è ora il Politecnico. Queste esercitazioni si svolgevano di solito la domenica, ma chi come il nonno era impegnato in tale giorno, le faceva il lunedì mattina.

Quando iniziò la guerra d'Africa, fu comunque chiamato sotto le armi, perché le ragioni di esenzione del tempo di pace non valevano più in tempo di guerra.

Fu mandato a Venaria per essere destinato ad una delle varie batterie di gruppo. Della scelta fu incaricato un capitano della maggiorità. Ora, molti di quei giovani non sapevano né leggere né scrivere, e quando il nonno esibì l'attestato delle elementari fu proposto come "soldato scelto", fregiato di un nastrino rosso sul braccio e destinato alla batteria di comando OCI, preposta alle operazioni di collegamento del 1° gruppo del 5° reggimento di artiglieria ippotrainata "Superga".

Quando poi il 10-6-1940 scoppiò la seconda guerra mondiale, il nonno fu richiamato e mandato a Venaria col suo reggimento, che fu poi dislocato a Venaus in Val di Susa. Molti furono assegnati alle scuderie per badare ai cavalli, ma il nonno, come soldato scelto fu promosso "conducente" dei cavalli che erano adibiti a trainare i pezzi d'artiglieria da un posto all'altro.

 

Fotografia militare di nonno Albino quand'era a Venaria 

Fotografia militare di nonno Albino quand'era a Venaria

 

Il fronte francese

Al nonno fu presto impartito l'ordine di andare con la sua pariglia di cavalli ad un'altra batteria che doveva trasportare i pezzi sul fronte occidentale, ovvero al Moncenisio.

Verso l'alba giunsero a destinazione, ma furono subito avvistati dai francesi, che li          illuminarono con potenti fari. Allora il comandante, temendo una sparatoria, ordinò ai conducenti di staccare in fretta e furia i pezzi dai cavalli e di tornare indietro immediatamente. Così fecero, e il nonno si ricongiunse alla sua batteria. 

Credo che anche in questo caso Sant'Antonio c'entri qualcosa perché non si capisce per quale ragione i francesi, nonostante l'avvistamento, non sparassero un colpo su di loro che, allo scoperto, erano un così facile bersaglio.

Dopo pochi giorni dovettero ripristinare un ponte fatto saltare dai francesi sul fiume Arc, furono quindi trasferiti a Sollières dove si accamparono e restarono fino al settembre 1940. Rientrarono poi a Condove in Val di Susa, perché i cavalli non reggevano il freddo della notte, e in quei tempi di guerra gli animali erano più importanti degli uomini.

Al nonno fu allora concesso un congedo limitato.

Si venne in seguito a sapere che per stanare i francesi asserragliati in un forte in Savoia, la milizia fascista aveva sabotato le condutture dell'acqua, obbligando così i nemici ad uscire fuori, dove li stavano aspettando. In tal modo occuparono il forte, ma poi cessarono le ostilità perché la Francia si era arresa ai tedeschi che, aggirando la linea Maginot costruita dai francesi proprio per impedire la loro invasione, l'avevano invasa passando dal Belgio.

 

Personaggi odiosi

Durante la sua permanenza in Val di Susa, il nonno ricorda di aver assistito a fatti molto sgradevoli.

Successe che un mattino il comandante scoprì un soldato mentre stava espletando i suoi bisogni dietro una tenda, dove non era permesso, ed allora per punirlo l'obbligò  a raccogliere le proprie feci con le mani e a spalmarsele sul viso. Poi lo fece girare per tutto l'accampamento in queste condizioni. In seguito a ciò, tuttavia, questo capitano fu trasferito, perché non aveva il diritto di applicare una punizione del genere.

Un altro fatto, che fu forse in parte comico ma di certo anche spiacevole, accadde presso una batteria di alpini che era accampata da quelle parti. Il nonno non vi assistette di persona, ma gli fu raccontato in seguito. 

Il comandante di quella batteria era una di quelle persone che solo perché indossano una divisa e hanno un grado si credono dei semidei.  Era odiato da tutti, per la cattiveria e l'abuso di potere, tanto che un giorno qualcuno pensò di vendicarsi delle sue angherie.

Ora, costui aveva l'abitudine di andare al gabinetto ogni mattina alla stessa ora. Tale gabinetto non consisteva in una latrina vera e propria, bensì era stata allestita in un prato una baracca per tale uso. Di traverso, ad una certa altezza da terra,  era stata posta un'asse con un buco in mezzo, e bisognava salire lì sopra ogniqualvolta se ne aveva la necessità.

Orbene, un mattino quest'asse fu segata, ma lasciata al suo posto come se fosse intera, appena ricoperta con un po' di terra, nella speranza che il comandante sarebbe andato lì all'ora solita. Tuttavia quel giorno, a fare le spese di quello scherzo, invece del comandante fu il cappellano, che andò  a finire dritto sugli escrementi.

È presumibile che in quel frangente non avrebbe porto l'altra guancia.

Non si seppe mai chi fosse stato l'autore di quel tiro, ma per punizione furono ritirati tutti i permessi e le licenze, così che nessuno poteva più lasciare il campo. Tutti i soldati allora se ne andarono per protesta ma, giunti alla stazione ferroviaria di Torino, trovarono i carabinieri che, preavvisati e con le armi in pugno, li costrinsero a rientrare al campo. Non si sa come andò a finire, ma il fatto era noto a tutti ed in cuor loro tutti erano solidali con quegli alpini.

Capitò anche che, durante uno spostamento a cavallo, un capitano non di carriera, non più tanto giovane e abbastanza corpulento, non potesse reggersi bene in sella, perché vittima di un'irritazione al fondoschiena. In quell'occasione, davanti a  tutti i suoi uomini, un suo superiore, ufficiale di carriera, lo redarguì aspramente dicendogli che sembrava un sacco di patate. Il pover'uomo ci restò molto male e cercò di stare in sella come meglio poteva, destando tuttavia la compassione dei suoi soldati.

Un altro spiacevole episodio accadde in un'altra batteria dopo che per quattro giorni non era stato possibile per qualche ragione abbeverare i cavalli. Quando finalmente queste povere bestie videro l'acqua, cercarono di sfuggire ai loro conducenti, uno dei quali non riuscì a trattenere il suo cavallo, troppo assetato per ubbidirgli.

Al vedere questo, un sergente iniziò a frustare i conducenti, e colpì questo poveretto ad un occhio, tanto che dovette andare in infermeria a farsi medicare. L'ufficiale medico allora chiese spiegazioni al sergente che l'aveva colpito, il quale per giustificarsi rispose che quel soldato era un pelandrone, il che non era vero affatto. Non si sa come andò a finire.

In un altro caso, un soldato rubò una scatoletta di carne ad un suo compagno e fu scoperto, per cui il capitano lo fece legare ad un palo della luce e poi, per spaventarlo, gli sparò alcuni colpi di pistola senza intenzione di colpirlo. Il poveretto tuttavia svenne dalla paura, dopodiché fu slegato e trasportato sotto una tenda. Ora, certo costui non avrebbe dovuto rubare la scatoletta, ma la punizione fu alquanto esagerata.

 

Un bello spavento

Il nonno mi raccontò che durante il periodo in cui si trovava al Moncenisio, si prese un bello spavento. Successe che, pur sapendo che non ci si poteva allontanare dal campo, decise comunque di andare a spedire una cartolina alla famiglia, in un momento in cui non aveva alcuna mansione da svolgere, anche pensando che, poiché il luogo dove doveva andare era vicinissimo, se la sarebbe sbrigata alla svelta. Però proprio mentre era via lo cercarono per mandarlo a portare il rancio agli addetti ai pezzi, che si trovavano in una zona pericolosa. Non trovandolo, lo sostituirono con un altro.

Quando, dopo poco, tornò, fu condotto davanti al sergente maggiore, che gli piantò il suo pistolone sulla pancia gridandogli che se quel soldato che era andato al suo posto non avesse più fatto ritorno, avrebbe ammazzato anche lui.

Il nonno cercò di giustificarsi, ma non gli permisero di dire neppure una parola. Fortunatamente il suo sostituto tornò sano e salvo e tutto finì senza conseguenze.

 

Di nuovo gerente e di nuovo richiamato

Ottenuto il congedo limitato, tornò a casa e fu mandato come gerente in una macelleria di corso Orbassano. Dopo un po' di tempo però fu di nuovo richiamato, perché nell'ottobre 1940 era iniziata la campagna di Grecia, e il nonno doveva partire con il suo gruppo. 

Proprio alla vigilia della partenza, tuttavia, si fece vivo Sant'Antonio. Il nonno fu colpito da un forte attacco di angina e da febbre, così che il medico non lo lasciò partire. Fu un vero miracolo per lui: la maggior parte dei suoi commilitoni non tornarono più.

Una volta guarito, entrò a far parte della 1a batteria, sotto il comando del capitano Gamerra. Questa batteria non era più ippotrainata, bensì someggiata, cioè al posto dei cavalli c'erano i muli, più resistenti. Fu mandata ad Aversa presso Napoli, come supporto di difesa nell'eventualità di uno sbarco americano.

Il nonno, che era stato promosso caporale, fu incaricato di controllare gli uomini addetti alla pulizia dei muli. Il tenente l'avvisò che, se non si fosse fatto ubbidire e se il lavoro di brusca e striglia non fosse stato svolto a dovere, avrebbe dovuto provvedere lui stesso di persona. Il nonno obiettò che non si sentiva in grado di comandare a tutti quegli uomini, per cui il tenente gli assegnò solo due o tre soldati.

Più avanti, gli fu affidata la gerenza dello spaccio militare. Il nonno temeva di non saperlo gestire, perché non era il suo genere, però imparò presto e, da bravo commerciante qual era, riuscì anche a raggranellare un gruzzoletto, che teneva sempre su di sé per timore che gli fosse rubato.

 

Le prostitute nel campo

Dopo il silenzio, quando era tutto buio, le prostitute cominciavano a gironzolare attorno al campo e si davano da fare per adescare i soldati e guadagnarsi la "parcella". Il comandante aveva avvisato i suoi uomini di non avere rapporti con queste donne perché avrebbero potuto contrarre delle malattie veneree anche gravi, ma questi ragazzi, giovani ed esuberanti, non tennero alcun conto della raccomandazione, per cui ogni mattina dovevano sottoporsi a visita medica. Solo i più prudenti, come il nonno, se ne tennero lontani.

Il capitano, per mettere fine a tutto ciò, istituì una ronda attorno al campo col preciso ordine di non fare avvicinare le donne e non lasciare uscire i soldati. Secondo il nonno, però, le guardie fecero comunella con gli altri soldati, chiudevano un occhio e ognuno faceva i comodi suoi, ronda compresa.

Infine uno di questi giovani contrasse la sifilide, che allora non era ancora curabile. Piangeva, perché era sposato da poco ed avrebbe dovuto confessare alla sua giovane moglie la sua malattia, che era molto contagiosa.

 

L'ex carcerato

Il nonno si ricorda di un ex carcerato assai prepotente, che non voleva in alcun modo sottostare alla disciplina militare, per cui un giorno fu ammanettato e rinchiuso in una tenda con una guardia armata.

Nel tentativo di togliersi le manette si ferì abbastanza gravemente ai polsi, ed in quella circostanza minacciò il comandante che appena fosse stato liberato lo avrebbe ucciso. A quel punto, per evitare guai, fu trasferito altrove. Considerando che, soprattutto in tempo di guerra, la legge militare non ammette insubordinazioni o minacce, è probabile che fosse in seguito severamente punito.

 

Nel 1942

Nel 1942 il nonno, già rientrato dal napoletano, si ammalò di bronchite e fu ricoverato per una quindicina di giorni all'ospedale militare. Ottenne poi 40 giorni di licenza per rimettersi del tutto. In seguito rientrò a Venaria nel suo reggimento ed essendo caporale gli affidarono tre o quattro uomini che, sotto la sua responsabilità, dovevano recarsi alla stazione per andare in Iugoslavia.

Il nonno però, prima di partire, pensò di fare una capatina a casa per salutare i suoi e riportare la bicicletta che gli era servita per andare su e giù da Torino a Venaria. Lasciò quindi i suoi compagni davanti alla stazione di Porta Nuova, raccomandando loro di aspettarlo al di fuori, per non incappare nella ronda, ma quelli non ubbidirono e così furono fermati dalla ronda e dovettero dire la verità.

Quando il nonno tornò, trovò i suoi uomini insieme ad un ufficiale che lo redarguì aspramente e poi lo fece accompagnare da due carabinieri e rinchiudere in prigione per il motivo che aveva abbandonato i soldati che gli erano stati affidati.

La prigione della stazione era una stanzetta arredata con un tavolaccio, sul quale passò la notte con grande contentezza, perché pensò che così non sarebbe più partito per la Iugoslavia, in cuor suo ringraziando Sant'Antonio. Il quale santo però quella volta si turò le orecchie, perché dopo un paio d'ore fu scarcerato e fatto partire con il primo treno.

 

In Iugoslavia

Scesero dal treno a Fiume, per aspettare il traghetto che li avrebbe trasportati a Spalato in Iugoslavia.

Giunti che furono, sostarono e vollero rimettersi un po' in ordine, per cui andarono da un barbiere del posto dove, per tema che tagliasse loro la gola col rasoio, si fecero fare la barba uno alla volta, mentre gli altri montavano la guardia. Erano stati avvertiti che esisteva tale cruenta possibilità, in quanto ormai si trovavano in territorio nemico, dove ci si doveva difendere dai partigiani del comunista slavo Tito.

Il nonno ed i suoi compagni raggiunsero poi il comando italiano di tappa, dove furono fatti salire su un'autocarretta e mandati ad unirsi al 3° gruppo del reggimento Superga nella zona dove questo già si trovava per svolgere azioni di rastrellamento. 

Dovevano, in collaborazione con altre forze armate dislocate in varie parti del territorio slavo, accerchiare i ribelli, che nessuno sapeva però con esattezza dove si trovassero. Non conoscevano nemmeno la strada da percorrere, perché i civili eliminavano tutte le indicazioni segnaletiche, oppure le spostavano per fuorviarli.

Ogni tanto prelevavano qualche civile che li guidasse, ma costoro, anche se apparentemente ubbidivano, facevano far loro lunghi giri per confonderli e far loro perdere tempo. 

La zona era assai pericolosa, ad ogni istante in quei boschi, in quelle montagne sconosciute e impervie, potevano incorrere in qualche agguato, .

Il nonno ricorda anche che ci furono soldati italiani che, fatti prigionieri dai "ribelli", furono segati in due con delle seghe elettriche. Lui per fortuna non li vide, ma è convinto che sia veramente accaduto. 

 

Il capitano Gamerra

I muli vennero nutriti con il foraggio trovato nei campi. Erano sempre in marcia, e non c'erano altre possibilità. Inoltre in tal modo il comandante Gamerra risparmiò le 700.000 lire che sarebbero dovute servire per comprare il foraggio. 

Questo denaro egli in seguito lo versò nella cassa del reggimento, mentre avrebbe potuto tenerselo, tanto nessuno avrebbe potuto controllare dove, come e quando i muli erano stati nutriti. In tempo di guerra infatti tutto è lecito ed incerto, tutto rappresenta un'incognita, e nessuno di quei soldati era in grado di dire dove erano passati. 

Tuttavia, come era sua abitudine, il capitano Gamerra si comportò con onestà. Non solo, ma essendo egli fornito di un bel cavallo, non lo montò mai, preferendo andare a piedi anche lui come i suoi soldati.

Il nonno lo ricorda pertanto come un uomo severo ma giusto, ligio al dovere, integerrimo, intransigente prima di tutto con se stesso, un uomo che sapeva comandare ma all'occorrenza anche capire. Per esempio, quando aveva saputo che il nonno aveva abbandonato i suoi uomini alla stazione per fare una visita ai suoi familiari, gli aveva chiesto spiegazioni, ma poi aveva lasciato correre.

 

Una battaglia mancata ed il ritorno in Italia

Camminarono a lungo, e dopo tanto camminare alla fine tutti avevano i piedi gonfi e pieni di vesciche. Passarono una notte al riparo nella boscaglia, mentre la fanteria, più avanti di loro, fu impegnata in una guerriglia contro i partigiani. Il mattino seguente furono informati che questi erano riusciti a sfuggire all'accerchiamento ed erano poi scomparsi.

Dopo tanta fatica - avevano percorso 900 chilometri a piedi - in fondo non conclusero nulla. E allora si rimisero in cammino per tornare in Italia.

Marciarono lungo la ferrovia per trovare una stazione, ma quando il treno arrivò dovettero lasciare la precedenza ai bersaglieri, il cui colonnello portava la cassa del reggimento. Anche in quell'occasione Sant'Antonio s'era ricordato del nonno, infatti dopo pochi metri il treno saltò in aria perché i partigiani avevano minato i binari.

Attesero dunque l'arrivo di un altro treno e stavolta ci salirono su, e con loro anche Sant'Antonio, perché dopo un lungo percorso sentirono un grosso boato  e videro un gran polverone dietro di loro: era saltato in aria proprio il binario su cui erano appena passati. Così per l'ennesima volta il nonno la fece franca.

Tornati in patria si recarono subito a Venaria dove furono ancora una volta preparati e addestrati, in quanto il loro reggimento cambiava mezzi di trasporto per la terza volta: non più muli, non era più someggiato, ora era semovente, cioè motorizzato. 

E fu allora che il nonno imparò a guidare.

 

A Riglione di Pisa

Nel 1943 la batteria fu trasferita a Riglione di Pisa per difesa nel caso di un possibile sbarco degli alleati, che già occupavano l'Italia meridionale.

Si accantonarono in un deposito di tabacco in disuso.

Un giorno che faceva un gran caldo, il loro comandante Gamerra - che nel frattempo era stato promosso maggiore - pensò di procurare un po' di svago ai suoi uomini, trasgredendo al regolamento che non permetteva di allontanarsi dalla postazione.

Li condusse sulla spiaggia, verso sera, quando era deserta, e permise  loro di fare un bagno in mare.

Siccome il nonno non sapeva nuotare, si immerse nell'acqua ma andando avanti solo fin dove poteva toccare con i piedi.. Ma essendo inesperto, non aveva fatto i conti con l'alta marea, per cui a un certo punto si trovò sommerso dall'acqua e si mise ad annaspare. Ancora oggi dice che in quel momento imparò a nuotare, perché si ritrovò sulla riva. O fu forse Sant'Antonio?

Un suo compagno finì invece in una buca e rischiò proprio di annegare, ma per fortuna riuscirono a salvarlo.

Il maggiore si rese allora conto del pericolo a cui aveva esposto i suoi uomini , quindi li riunì alla svelta e tornarono all'accantonamento.

Dopo qualche giorno giunse l'ordine di trasferimento temporaneo a San Rossore, dove c'era la tenuta estiva dei Savoia.

Si attendarono e il nonno, in quanto caporale, fu addetto al controllo delle cucine. Ma i cuochi non fecero nemmeno in tempo a preparare il rancio che subito giunse un nuovo ordine, per cui in fretta e furia dovettero andare a Livorno. Il nonno però restò lì con i cuochi per terminare di cucinare.

Il maggiore invece, con tutti i suoi uomini, giunse alle porte di Livorno, dove fu fermato da un posto di blocco tedesco, che intimò loro di fermarsi.

Bisogna precisare che i tedeschi nostri alleati erano già al corrente dell'armistizio firmato dal maresciallo d'Italia Pietro Badoglio, mentre gli italiani ancora lo ignoravano. L'armistizio fu infatti reso pubblico solo dopo che fu portato in salvo l'allora re d'Italia Vittorio Emanuele III. Mussolini infatti era caduto il 25 luglio del 1943 e l'armistizio fu firmato il 3 settembre, ma reso pubblico solo l'8 settembre. 

I tedeschi, conoscendo la situazione cinque giorni prima di noi, da nostri alleati subito diventarono nostri nemici, considerandoci traditori, la qual cosa non era poi del tutto falsa. Poterono inoltre prepararsi adeguatamente prima ancora che noi sapessimo alcunché. 

 

Morte eroica del comandante Gamerra

Ordunque, quando alle porte di Livorno i tedeschi intimarono l'alt alle nostre truppe, il maggiore Gamerra obiettò che lui aveva ricevuto l'ordine di entrare in città, per cui chiese di potersi consultare con i suoi ufficiali.

Per tutta risposta i tedeschi spararono loro addosso. Alcuni caddero, ma il maggiore, benché ferito, rimase in piedi. I tedeschi gli intimarono di arrendersi, ma lui rifiutò, ed allora venne ucciso.

Per questo suo atto di coraggio e di fedeltà agli ordini ricevuti, alla fine del conflitto fu insignito della medaglia d'oro alla memoria, mentre a Pisa fu dato il suo nome ad una caserma ed a Venaria, dove risiedeva la sua famiglia, fu eretto un monumento in suo onore.

Il nonno non assistette alla sua morte, perché era rimasto a San Rossore in attesa che i cuochi finissero di cucinare il rancio, per poi portarlo a Livorno e lì distribuirlo ai soldati, secondo gli ordini.

Nessuno era al corrente di quanto era accaduto, per cui quando i cuochi tornarono indietro dicendo di non aver trovato nessuno, l'ufficiale addetto ai rifornimenti li rimandò indietro, stavolta accompagnati da un caporale, cioè dal nonno, per verificare che cosa stesse succedendo.

Strada facendo però incrociarono i camion con i morti, i feriti ed i loro compagni superstiti, e quindi tornarono indietro, non più però a San Rossore, bensì a Riglione, perché i tedeschi, dopo aver ucciso il comandante e disarmato i soldati, intimarono loro di recarsi a Riglione nel loro accantonamento e di aspettarli lì, poiché l'indomani i tedeschi stessi sarebbero andati a requisire i camion e le autocarrette italiani.

Tutti ubbidirono, non potendo fare altro dopo essere stati disarmati ed aver assistito alla morte del comandante.

Giunti a Riglione, non trovarono più alcun ufficiale, ma pernottarono comunque nel loro accantonamento.

L'indomani un cuoco ed un sergente pensarono di andare a fare la spesa a Pisa ma, giunti alla sussistenza, la trovarono occupata dai tedeschi, tanto che alla svelta tornarono a Riglione ed avvisarono gli altri che qualcosa non andava neppure a Pisa. Neanche allora infatti seppero dell'armistizio.

 

Una gran confusione e l'inizio della prigionia

Il nonno racconta che erano giorni di grande confusione, che nessun ufficiale era più presente per dar loro degli ordini, per cui ognuno cercò di tornare a casa con mezzi di fortuna.

Il nonno ed alcuni altri salirono su un treno proveniente non si sa da dove, già pieno di militari nelle loro stesse condizioni.

Giunsero ad Alessandria l'8 o il 9 settembre del '43, ma alla stazione trovarono un'amara sorpresa. Ad attenderli c'erano infatti le truppe tedesche, che li fecero scendere tutti sotto la minaccia delle armi, li fecero incolonnare e li portarono senza farli né bere né mangiare alla "Cittadella", una caserma di Alessandria, dove passarono la notte.

Alle prime luci dell'alba furono condotti di nuovo alla stazione, dove furono rinchiusi in carri merci e fatti partire per ignota destinazione. 

Erano talmente stretti che quasi nemmeno potevano sedersi. E si trattava di sedere sul pavimento, perché non c'erano sedili di sorta. Erano assetati, affamati e disperati, non sapendo quale sarebbe stata la loro sorte, e se sarebbero mai tornati a casa.

Nei pressi di Padova il nonno riuscì a buttare fuori del vagone una sua foto su cui aveva scritto il nome, l'indirizzo di casa e alcune parole con cui diceva che era vivo ma non sapeva dove lo stavano portando. Fece questo sperando che qualcuno la trovasse e la recapitasse alla sua famiglia, e fu effettivamente così, perché venne raccolta da una ragazza che la spedì ai suoi.

Alla sera giunsero a Bolzano, dove furono sfamati con una brodaglia a base di patate da sbucciare.

 

Diciassette giorni d'inferno

Quel viaggio, durato 17 giorni, fu un vero inferno. Molti di quei ragazzi cadevano senza più rialzarsi, e venivano portati via a braccia dai tedeschi. Non si capiva neanche se erano realmente morti o se venivano abbandonati in qualche posto a morire come cani.

Quando il treno, per dare la precedenza a quelli militari, si fermava in qualche stazione, se avanzava qualcosa del rancio dei soldati tedeschi questi avanzi venivano distribuiti loro, se no stavano a digiuno.

Durante il viaggio, chi avesse necessità di espletare i suoi bisogni doveva usare la bustina, il fazzoletto oppure il coperchio della gavetta.

Ci si può immaginare l'odore, insieme a tutto il resto. O forse non si può affatto.

Un giorno, proprio per questo bisogno, furono fatti scendere in aperta campagna e sotto la minaccia delle armi dovettero tirarsi giù i pantaloni sotto gli occhi di tutti. Quante umiliazioni, oltre alle privazioni, dovettero subire.

Il nonno dice spesso che le guerre non si devono fare, ma che se si fanno non si possono vincere con la pietà. Io credo tuttavia che vi siano esseri che nella guerra trovano il terreno adatto per dare sfogo ad una propria innata crudeltà, al sadismo ed agli istinti più turpi ed immondi. E per giunta - ed è la cosa più triste - spesso costoro, quando tornano vincitori, sono acclamati come eroi insieme a coloro che non si sono macchiati mai di simili colpe. 

 

In Polonia

Finalmente quel terribile viaggio finì. Erano giunti a Thorn (oggi Torun) in Polonia. furono fatti scendere, condotti e rinchiusi in un campo di concentramento dove già si trovavano tanti altri prigionieri delle più diverse nazionalità. Meglio degli altri erano trattati gli internati americani, inglesi e francesi, anche perché ricevendo regolarmente i pacchi della Croce Rossa potevano scambiare cioccolata e sigarette con altre cose. I russi invece, non avendo aderito alla Convenzione di Ginevra, non ricevevano nulla ed erano piuttosto maltrattati.

Il nonno e tanti altri furono sistemati in baracche di legno munite di letti a castello. Non riuscendo quasi più a reggersi sulle gambe, era per loro assai difficile salirvi sopra. Nonno comunque riuscì a sdraiarsi in basso.

Benché fossero stremati e totalmente privi di forze, non fui dato loro nulla né da mangiare né da bere fino al giorno seguente.

All'indomani furono inquadrati e condotti in prossimità delle cucine, sorvegliati a vista dalle guardie tedesche che tenevano i fucili con le baionette innestate.

Le cucine si trovavano a circa 500 metri di distanza e per raggiungerle dovettero camminare su un terreno ricoperto da un alto strato di terra sabbiosa. Non riuscivano quasi a camminare, le loro gambe malferme affondavano nella terra e barcollavano come ubriachi, cadendo ad ogni momento.

Giunti che furono alle cucine, fu distribuita loro una specie di zuppa con patate, anche queste da sbucciare. Purtroppo la zuppa non fu sufficiente per tutti e parecchi restarono a digiuno. Il nonno comunque per fortuna riuscì a mangiare.

Mentre erano lì assistettero ad una scena terribile.

Dall'altra parte della strada un camion stava ribaltando un carico di patate, alcune delle quali rotolarono verso di loro. Essi erano in fila e non potevano muoversi, ma uno di loro uscì dalla fila per raccogliere qualche patata.

La guardia gli intimò l'alt in tedesco, ma il giovane non capì, o forse la fame fu più forte della paura, e non ubbidì. Tuttavia, quando vide il tedesco andargli incontro con la baionetta innestata tentò di scappare, ma finì contro un reticolato, al quale si aggrappò, solo per essere poi infilzato dalla baionetta e cadere ucciso sul colpo.

In quel momento il nonno pensò che forse, prima o poi, avrebbero fatto tutti la stessa fine.

Restarono in quel campo per circa 15 giorni ed il nonno, avendo un fisico robusto già abituato alle privazioni, riuscì a sopravvivere, mentre diversi altri invece non ce la fecero.

Parecchie volte vide portare fuori dalle baracche dei morti che poi venivano sepolti sotto la sabbia in uno spazio apposito.

Un mattino i prigionieri italiani furono radunati in uno spiazzo. Davanti a loro vi erano mitragliatrici puntate e dietro ad esse dei soldati tedeschi, mentre dietro di essi si ergeva una specie di palco improvvisato occupato da ufficiali tedeschi e da un ufficiale italiano vestito da fascista.

A lato del palco vi erano invece gli ufficiali dell'esercito italiano che erano anch'essi prigionieri.

Nel vedere tutta quella mitraglia puntata su di loro, il nonno ed i suoi compagni pensarono fosse giunta la loro ultima ora, ma dal palco l'ufficiale fascista si rivolse loro chiedendo chi volesse tornare in Italia per combattere a fianco dei tedeschi contro le forze alleate. Nel sentire questa proposta, gli ufficiali italiani prigionieri gridarono che se avessero accettato non sarebbero stati agli ordini degli ufficiali italiani bensì a quelli dei tedeschi. Se i soldati italiani non erano al corrente di nulla, è invece evidente che i loro superiori erano informati.

Erano in circa 300 i giovani allineati davanti a quelle mitragliatrici, ma solo uno accettò, gli altri erano tutti disposti a farsi ammazzare.

Per fortuna questo non accadde, e poterono quindi tornare alle loro baracche. Ed è probabile che anche quella volta Sant'Antonio ci abbia messo la mano.

Trascorsi alcuni giorni, fu chiesto loro se volevano andare a lavorare e il nonno, benché temesse di essere mandato in miniera, accettò, perché il lavoro gli avrebbe permesso di passare il tempo e di non pensare troppo alla famiglia, della quale non aveva più avuto notizie.

In seguito, una sola volta ricevette da casa un pacco, già aperto, nel quale trovò soltanto un sacchetto di farina, perché evidentemente qualcuno aveva già fatto man bassa di tutto.

Hitler non aveva voluto che la Croce Rossa mandasse pacchi agli italiani perché, diceva, a questi ci avrebbero pensato loro. Una bella scusa per poterli punire della loro defezione, o  di quello che, per meglio dire, considerava il loro "tradimento".

In fatto di corrispondenza, il nonno non ricevé nulla per circa sei mesi, anche perché fu spesso spostato da un luogo all'altro. Le lettere che spediva lui a casa erano in pratica delle doppie cartoline che gli venivano fornite dai tedeschi. Lui scriveva usandone una metà, e quando i suoi le ricevevano rispondevano usandone l'altra metà, per cui tutti potevano leggerle ed eventualmente censurarle.

Riuscirono comunque a scambiarsi notizie per circa un anno, ad eccezione degli ultimi sei mesi.

 

Nello zuccherificio di Unislaw

Il nonno ed una cinquantina di altri uomini - russi, polacchi, rumeni eccetera - furono poi mandati a lavorare in un'altra località della Polonia, Unislaw, in una fabbrica di zucchero.

Vennero composti gruppi di 2-3 uomini per ogni nazionalità, ognuno con la scorta di un tedesco armato.

Era quasi sera quando arrivarono, e subito furono condotti in un pagliaio dove fu consegnata ad ognuno una federa di spesso cotonaccio perché la riempissero di paglia. Questi divennero così i loro pagliericci, che furono sistemati in un deposito in disuso dello zuccherificio.

Più tardi furono finalmente sfamati per davvero nelle cucine, dove poterono mangiare a volontà una zuppa di miglio, per la prima volta dopo tanto tempo. Mangiarono talmente tanto da non riuscire più nemmeno a slacciarsi le scarpe.

Insieme con loro mangiarono pure tutti i civili polacchi che lavoravano nella fabbrica, senza alcuna disparità di trattamento. Il nonno in effetti mi ha detto spesso che i polacchi sono brava gente.

Quella sera furono nutriti con tanta abbondanza probabilmente perché destarono la compassione di quelle brave persone, ma in seguito ad ognuno fu data la propria razione ed una fetta di pane, perché tutto era razionato per chiunque. In compenso si potevano nutrire liberamente di zucchero.

All'indomani del loro arrivo, furono portati tutti in un campo a raccogliere cavoli e carote, ed anche lì i contadini offrirono loro una zuppa di cavoli e patate con pezzi di pollame.

 

Il sergente maggiore e le barbabietole

Un giorno in cui c'era un grande camion di barbabietole da scaricare, un sergente maggiore italiano si rifiutò di collaborare, perché secondo la Convenzione di Ginevra gli ufficiali ed i sottufficiali prigionieri erano esentati da qualsiasi lavoro manuale e dovevano solo svolgere mansioni di controllo sui loro uomini.

Al rifiuto di questo sergente maggiore, una guardia gli si avvicinò e lo colpì ripetutamente alla schiena con il calcio del fucile, obbligandolo a scaricare. 

E successe che in seguito questo sergente, che evidentemente non aveva mai lavorato prima in vita sua,  disse che avrebbe dovuto ringraziare quella guardia che l'aveva "domato", perché quando fosse tornato a casa nessun lavoro gli avrebbe più fatto paura. Secondo il nonno,  in effetti, la dura disciplina forma il carattere ed insegna ad affrontare la vita in tutta la sua complessità.

 

A spaccare pietre

Dopo qualche giorno tornarono allo zuccherificio ed il nonno ebbe il compito di spaccare pietre per ricavarne della calce.

Lavorava all'aperto ed il termometro segnava più di 30 gradi sotto zero. Per scaldarsi un po' i piedi se li avvolgeva in pezzi di sacchi di iuta.

Nel maneggiare la pesante mazza, ed anche per via dell'intenso freddo, il nonno si consumò la punta delle dita. Tuttavia in quello zuccherificio poté per la prima volta dopo tanto tempo farsi una doccia.

Naturalmente la fabbrica era sempre tenuta sotto controllo dalle SS tedesche.

Dopo qualche tempo di quel duro lavoro, il direttore tedesco della fabbrica, che era un ingegnere civile, chiese al nonno se voleva andare a lavorare all'interno dello zuccherificio. Il nonno naturalmente subito accettò.

È probabile che quest'uomo si fosse impietosito del nonno, perché, dopo averlo fatto salire con lui al piano superiore, gli offrì di nascosto due mele ed una pagnotta. Infatti non si deve fare di tutt'erba un fascio, c'è il buono e c'è il cattivo dappertutto. 

Il nonno fu poi affiancato ad una ex guardia polacca addetta alla manutenzione dei macchinari, che gli faceva svolgere lavoretti di vario genere.

In quel periodo il loro principale nutrimento fu per la maggior parte proprio lo zucchero, poiché le patate che per il loro nutrimento erano state richieste ed erano arrivate su un camion furono scaricate malamente sicché si ammaccarono tutte e dopo poco marcirono, né fu possibile rimpiazzarle, perché si erano avariate per incompetenza e per noncuranza.

Finita la lavorazione  stagionale dello zucchero, il solito ingegnere che aveva preso a benvolere il nonno gli chiese se voleva rimanere lì o se preferiva andar via con gli altri.

Il nonno restò e fu adibito alla pulizia dei macchinari.

 

Il nonno fa l'elettricista

Dopo circa tre mesi, finito il suo lavoro, fu mandato a ripristinare le linee elettriche nelle stazioni ferroviarie lesionate negli innumerevoli bombardamenti che si abbatterono su tutte le città tedesche, molte delle quali furono rase al suolo.

Il nonno non rammenta più con sicurezza la successione cronologica di tutte queste sue vicende, tuttavia i fatti che ricorda sono autentici in ogni dettaglio.

Questi lavori di ripristino si svolgevano per la maggior parte tra Augsburg, Stoccarda e Monaco. Lui e i suoi compagni si spostavano continuamente e molto spesso si trovarono in grave pericolo sotto i bombardamenti. Il nonno pensava che molto difficilmente ne sarebbe uscito vivo, d'altronde tutti erano ormai rassegnati alla propria sorte. Ci si abitua anche al pericolo, a vedere centinaia di morti e tanta gente orribilmente ferita.

In un'occasione, mentre si trovava ad Augsburg, fu mandato per un certo periodo in una scuola per imparare un po' di tedesco, poter capire meglio le spiegazioni inerenti al suo lavoro e conoscere i nomi dei diversi attrezzi. 

Le lezioni si tenevano in un'aula, dove l'unico insegnante era un tedesco che parlava solo la propria lingua mentre gli alunni erano di parecchie nazionalità, per cui era piuttosto difficile e complicato capirsi. Si usavano i gesti e si mostravano i vari arnesi. Ma il nonno dice che l'unica cosa che gli interessava realmente era di tornare a casa e che quindi non cercò mai di imparare più di tanto, anche se volente o nolente qualcosa imparò.

Terminato questo breve corso, tornò a lavorare con gli altri.

Un giorno, mentre si trovava su un palo dell'alta tensione per fare alcune riparazioni, per poco non fu fulminato. Non si era accorto di un corto circuito, ma per fortuna la guardia tedesca che stava di sotto se ne rese conto e l'avvisò appena in tempo, così che il nonno si salvò. 

Ancora una volta Sant'Antonio lo aveva protetto.

E lo protesse ancora in un'altra occasione.

Nevicava, tutti i tralicci erano coperti di neve, tutti bagnati perciò molto pericolosi. Ma il nonno dové per forza salire su uno di essi per ripararlo.

Vi erano cavi grossi come un braccio, ed una tensione di 40.000 volt. Sarebbe bastato un attimo per essere incenerito. Questo palo per giunta era anche alto 30-40 metri e il nonno

vi si arrampicò con  un paio di zoccoli ai piedi ed un'alta cintura alla vita, a cui era attaccata una catena che doveva essere agganciata sulla sommità del palo. Tutto comunque finì bene.

Si spostavano in treno da un posto all'altro, i viaggi a volte erano lunghi, passarono anche per il Belgio e per l'Olanda, invasi dai tedeschi fin dall'inizio della guerra.

In quel periodo la loro "casa" era il treno dove dormivano e mangiavano. Era un treno assai lungo, e conteneva gli uffici e tutto ciò che poteva essere utile allo svolgimento dei loro compiti. Vi erano pure le cucine, come del resto c'erano anche nelle varie stazioni, dove funzionavano di continuo per preparare il rancio per tutti i soldati e, all'occorrenza, anche per loro.

Il nonno racconta che in queste mense tra soldati e ufficiali tedeschi non c'era disparità di trattamento, tutti facevano la fila e tutti mangiavano lo stesso rancio, al contrario di quanto succedeva tra gli italiani, i cui ufficiali - naturalmente quando erano liberi - avevano una mensa a parte e mangiavano meglio dei loro uomini.

Faceva sempre molto freddo e durante uno dei tanti spostamenti capitarono in un lager per passarvi la notte. In quelle baracche faceva caldo e, pieni di freddo com'erano, pensarono che per quella notte almeno avrebbero dormito tranquilli al calduccio, ma appena si stesero sui pagliericci furono assaliti da miriadi di cimici fameliche.

Di colpo saltarono tutti giù, e l'agognata notte di riposo al caldo risultò essere una notte d'inferno.

Fra tanti ricordi frammentari, il nonno ricorda che in prossimità del Natale si erano messi d'accordo con la cuoca perché la razione giornaliera fosse diminuita di quel tanto che permettesse loro di poter fare almeno in quell'occasione un pasto un po' più abbondante.

In un'altra circostanza, il nonno era così affamato che dette la caccia ad un topo nell'intenzione di farselo cuocere, ma restò a mani vuote perché il topo fu più furbo di lui. Dove si dimostra che la vera fame fa fare cose che normalmente uno neppure se le sogna.

Il nonno mi ha anche detto molte volte che tanti dei suoi compagni, specialmente i più giovani, morirono perché non usavano il minimo buonsenso, spesso davano via le loro razioni di pane per una sigaretta, oppure mangiavano senza neppure lavarla qualsiasi cosa trovassero nell'immondizia. Mangiavano persino i fondi dei surrogati di caffè buttati via dai tedeschi. Invece i più ragionevoli lavavano tutto e tutto facevano bollire sulle stufe, che erano sempre accese perché se no sarebbero certo morti di freddo. 

Spesso, secondo il nonno, questi ragazzi senza cervello che agivano così irresponsabilmente verso se stessi erano proprio quelli che erano partiti come volontari credendo di conquistare il mondo, senza neppure immaginare come siano invece in realtà la guerra e la prigionia.

Certo per gli ebrei e gli internati politici fu, come si sa, assai peggio.

Il nonno ricorda che diverse volte dovettero lavorare nei pressi di Dachau, il famigerato lager di eliminazione, e che parecchie volte vide gli ebrei - anche donne - con la stella di David sul petto ed una o due croci sulla schiena, segno che equivaleva ad una condanna a morte.

Quando vi erano mine o bombe da disinnescare, mandavano a farlo proprio questi poveretti, che dovevano usare le mani per trovare e disinnescare gli ordigni, e che erano comunque sempre in compagnia di una guardia armata. Il nonno un giorno vide lui stesso uno di questi ebrei saltare in aria insieme alla sua guardia.

Passati i primi sei mesi, i tedeschi presero ad informare gli internati italiani mediante un giornaletto scritto in italiano, che naturalmente riportava le notizie italiane a modo e vantaggio loro. Seppero così che dopo la caduta del fascismo era stata fondata la repubblica di Salò con a capo Benito Mussolini, il quale era stato liberato dai tedeschi e si trovava al sicuro in Germania. Naturalmente la verità non era così semplice. In realtà nella repubblica di Salò il capo non era Mussolini, ma ormai comandavano i tedeschi, che si valevano del suo nome per ragioni propagandistiche, mentre imperversava la lotta fratricida tra gli italiani e serpeggiava la paura tra la popolazione, che era chiusa tra due fuochi.

 

"La Voce della Patria", giornaletto propagandistico tedesco

Il giornaletto propagandistico tedesco

 

La fine di un incubo

Un giorno il nonno si trovava insieme ai suoi compagni sul confine belga per ripristinare un ponte che era stato bombardato, quando ad un certo punto si accorse che tutti i tedeschi erano scomparsi.

Capirono che stava succedendo qualcosa, anche perché udivano tuonare i cannoni in lontananza.

Non sapendo che fare, si avviarono tutti insieme per tornare al proprio vagone e trascorrervi la notte.

Al mattino poi si avvidero che tutti i treni, anziché andare nelle varie direzioni solite, tornavano tutti indietro carichi di soldati, di feriti e di donne ausiliarie. Intuirono dunque che i tedeschi erano in fuga.

Quindi si avviarono a piedi verso Augsburg, dove passarono al notte in un rifugio antiaereo.

Il mattino successivo uni di essi uscì per primo dal rifugio e vide un soldato negro, per cui furono certi che erano arrivati gli americani, dato che nella Germania nazista era inconcepibile che potessero esserci dei soldati di colore.

Furono naturalmente presi dalla gioia e dall'entusiasmo di poter finalmente tornare a casa dopo tanta paura e tante privazioni. 

S'incamminarono verso la stazione senza sapere che strada scegliere. Lì trovarono dei vagoni tedeschi abbandonati pieni di vettovaglie, e molti di loro li presero d'assalto, mentre il nonno e tanti altri, più prudentemente non parteciparono. Quelli tuttavia, dopo essersi appropriati di ogni ben di Dio, lo divisero generosamente con loro, anche perché ve n'era in abbondanza. Il nonno si mangiò tutto il contenuto di una scatola piena di prosciutto in gelatina. Si ricorda ancora che andava giù come se fosse acqua.

 

Mappa delle campagne di guerra e dei luoghi di prigionia di nonno Albino

Campagne di guerra e prigionia di nonno Albino

 

Il ritorno a casa

Infine furono fatti salire su parecchi camion americani e portati tutti alla cittadina tedesca di Ulm, dove furono ospitati in un lager adibito a centro di accoglienza appositamente per questi reduci. Qui furono nutriti ed assistiti per circa 40 giorni, dopodiché altri camion li riportarono in Italia.

Partirono alle 10 del mattino ed arrivarono a Milano verso mezzanotte. Passarono la notte in un centro d'assistenza, ma il mattino seguente ognuno di loro partì con mezzi di fortuna per la propria destinazione.

Il nonno chiese un passaggio all'autista di un camion che andava a Torino per trasportare ciliege. Questo camion era privo di sponde, e le strade erano tutte disastrate e sconnesse, per cui il nonno venne sballottato ben bene, rischiando anche di cadere giù.

Poi finalmente raggiunsero Torino, dove scese a Porta Palazzo. Per la prima volta in vita sua allora il nonno salì gratis su un tram, perché il bigliettaio riconobbe in lui un reduce e non gli fece pagare il biglietto.

Il nonno però non era sereno, perché non sapeva ancora se la sua famiglia era salva e se la sua casa era ancora in piedi. Strada facendo aveva visto tante macerie, tante case distrutte dai bombardamenti, e il timore lo attanagliava alla gola.

Quando finalmente si trovò sulla piazza dove sorgeva la sua casa e la vide intatta gli si aprì il cuore.

La prima persona che l'avvistò fu una vicina di casa, che lo scorse dal balcone e andò subito a chiamare la sorella maggiore del nonno.

Posso solo immaginare la gioia e l'emozione di quell'incontro, dopo tante pene, tante incertezze sulla loro reciproca sorte.

Se abbia mai avuto Sant'Antonio un ruolo in tutte queste vicende, e quale,  non si potrà veramente mai discernere, è tuttavia bello e consolante pensarci. Il nonno conserva una statuetta di Sant'Antonio, e io o lui un giorno la daremo a te, Eleonora, perché tu a tua volta la conservi in ricordo di tuo nonno Albino.

 

L'incontro con la bisnonna

La mamma del nonno viveva ancora a Balme, ormai da sola. Per timore che l'emozione potesse farle male, fu dapprima informata che suo figlio era vivo e che presto l'avrebbe rivisto, ma il nonno era già lì dietro la casa, in attesa che la bisnonna fosse preparata.

Poco dopo la vide corrergli incontro a braccia tese, e si abbracciarono, al tempo stesso ridendo e piangendo. Povera donna, chissà quante lacrime avrà versato pensando a suo figlio, quanta paura avrà avuto di non rivederlo mai più, quante preghiere avrà rivolto a Dio e a Sant'Antonio.

La bisnonna Delfina nel 1949

 La bisnonna Delfina nel 1949

Simili emozioni si possono comprendere veramente solo se le si sono vissute in prima persona. Tutte queste peripezie mi furono raccontate, oltre che dal nonno, anche dalla bisnonna e dalle mie cognate, e ogni volta immancabilmente tutte si commuovevano, anche se era passato più di mezzo secolo.

 

Il dopoguerra

Il nonno era riuscito prima della guerra a risparmiare 30.000 lire, una bella cifra per l'epoca, tanto più per lui che era sempre stato povero in canna. Aveva potuto mettere insieme quel bel gruzzolo con tante rinunce e tanto lavoro, ed avrebbe voluto rilevare con esso una bottega, lavorando senza più dipendere da nessuno. Questo era sempre stato il suo sogno, ma essendo sempre sotto le armi, con la guerra in corso ed i bombardamenti, non aveva avuto il coraggio di rilevarla ed aveva invece versato tutta la somma su un libretto bancario al portatore, che affidò ai suoi.

Mentre era militare però il denaro perse valore, per cui incaricò il fratello di investire i suoi risparmi in qualche modo, e questi gli comprò una credenza, un tavolo e qualche sedia.

Si noti che il negozio che il nonno avrebbe voluto rilevare valeva prima della guerra 5.000 lire, mentre dopo ne valeva 700.000. 

Il valore di sei negozi gli si era dunque trasformato nel valore di qualche mobile, per cui il nonno, tornato dalla prigionia, dovette ricominciare tutto daccapo. questo fu per lui un brutto colpo, perché tutto quanto aveva fatto fino allora era risultato infruttuoso.

Per fortuna il suo principale, come al solito, gli diede in gerenza una macelleria, che era questa volta in via Balme ed aveva molti clienti. Inoltre il nonno ci sapeva fare con la gente, era paziente, di belle maniere e svolgeva bene il suo lavoro.

Dopo un po' fu trasferito in un'altra macelleria, in via Bellezia nel centro storico di Torino.

Essendo vicina a Porta Palazzo ed alla Pretura, al Tribunale, al Municipio, vi passava molta gente e c'era molto lavoro, tanto che si dovevano distribuire dei tagliandini numerati ai clienti che facevano la coda fuori del negozio. Oltre al nonno, che era gerente, vi erano a volte fino a sei garzoni e due cassiere. L'orario era lungo perché non c'era alcun limite, si poteva aprire e chiudere bottega a qualsiasi ora, compresa la domenica.

Infine tutto questo lavoro fruttò ottimi guadagni al nonno, che presto fu in grado di rilevare il suo agognato negozio, che era per l'appunto quello che valeva allora 700.000 lire.

Il suo sogno si era finalmente avverato. A trentaquattro anni aveva un suo negozio, una macelleria che era stata fondata nel 1829 (la data era incisa sul pavimento di marmo), sita in via Bellezia 10 angolo via San Domenico 6. Il nonno fu l'ultimo macellaio che vi lavorò, perché quando nel 1981 andò in pensione, i locali vennero destinati ad altro uso. 

 

Andreina Acquarone nel dicembre del 1947

Albino Chioli nel maggio del 1948

Andreina Acquarone nel dicembre del 1947

Albino Chioli nel maggio del 1948

 

Conclusione della nonna

Ecco, Eleonora, questa è stata la prima parte della vita di un uomo, tuo nonno Albino, che ha diviso con me la seconda, che non è ancora finita, di modo che può confermare di persona tutto ciò che qui è scritto.

Auspico che tu abbia ereditato da lui la fermezza di carattere, la buona volontà, la tenacia e la determinazione che sono sue evidenti qualità, innate ma anche coltivate al meglio. Spero inoltre che tu abbia ereditato anche la saggezza e la compassione della tua bisnonna Delfina, che io ho avuto il bene e la fortuna di conoscere.

[Agosto 2000]

   


Post scriptum: Albino Chioli è passato a miglior vita il 4/1/2006, a 91 anni. Pace alla sua anima.

 

   

 

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