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Andreina Acquarone
IN RICORDO DI MIA SUOCERA
DALLA NASCITA ALLA FINE
DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
La famiglia d’origine di mia suocera
La nascita di mio marito Albino
Fine della guerra e nascita di Elsa
Malattia e morte di mio suocero
Il termine “suocera” è di solito usato come sinonimo di impicciona, o di madre gelosa del proprio figlio, specialmente nei confronti della nuora.
Codesto modo di considerare la suocera è molto diffuso, lo sappiamo tutti; ma, come sempre, non si può fare di tutt’erba un fascio, perché a volte si tratta solo di un senso di timore da parte di nuore e generi, i quali, più che constatare, temono che la suocera voglia imporre la propria volontà o presenza.
È altresì vero che suocere e nuore non sono tutte uguali né nel male né nel bene.
Io voglio ricordare mia suocera anche per sfatare questa sgradevole e spesso ingiusta notorietà.
Sono ormai anziana e sono stata di volta in volta una figlia (per quanto non allevata dai propri genitori), una moglie, una nuora, una madre, una suocera ed anche una nonna, per cui sono passata attraverso tutte le fasi della vita di una donna; ritengo perciò di poter dire la mia a tale proposito.
* * *
La famiglia d’origine di mia suocera
Mi sposai a vent’anni nel 1949, e mio marito Albino aveva quattordici anni più di me; pertanto conobbi mia suocera già non più giovane, aveva superato la sessantina, ed era vedova da parecchi anni.
Si chiamava Maria Delfina Zavattero e proveniva da una famiglia contadina di Cervoto, piccola frazione di Verrua Savoia in provincia di Torino. Una località fra i boschi, non lontana dal fiume Po e dalle risaie del vercellese, dove zanzare e moscerini avevano residenza stabile.
Sua madre, Teresa Augusta fu Giuseppe, aveva due fratelli, Pasquale e Andrea, e tre sorelle, Francesca, Angela e Luigia. Quest’ultima era suora a Borgomanero ed aveva assunto il nome di Suor Colombina. Francesca era vedova di Ginevro Alberto e Angela aveva sposato Biagio Ferrero. Dalla loro unione erano nate due figlie, che però morirono, per cui presero con loro un ragazzo di pochi anni senza genitori, proveniente da un’istituzione benefica di Torino, il cui nome era Guido Giulio Raimondo Chioli. Questo ragazzo divenne quindi un “cugino acquisito” di mia suocera. Il padre di mia suocera si chiamava Pietro Zavattero fu Amedeo. Non so se avesse fratelli o sorelle.
Mio marito si ricorda bene di sua nonna materna Teresa, e mi disse che la ricordava come una donna dall’apparenza placida e tranquilla, spesso seduta, ma che a quanto pare sapeva tenere bene le redini della famiglia, perché suo marito Pietro era un po’ troppo prodigo verso le necessità del parroco, a cui non lasciava mancare la legna, il vino e varie altre cose.
Pietro era un uomo buono e molto pio che, pur lavorando nei campi da mattina a sera, non scordava mai di inginocchiarsi sulla nuda terra per pregare e ringraziare Dio di ciò che gli aveva dato.
Ricorda sempre mio marito che il nonno soleva dire: “La tranquilità e la pas a son metà vive” (“Tranquillità e pace son metà vivere”), e che quando i suoi nipotini andavano a trovarlo egli, se stava pranzando, offriva loro il suo piatto ed usciva dalla stanza.
Forse era troppo generoso col parroco ma di certo era davvero un buon cristiano, come ce ne sono pochi, e come in un certo modo si nasce, non si diventa.
Mia suocera aveva anche due sorelle più giovani, Ida e Felicita, e due fratelli, Amedeo e Francesco. Quest’ultimo, dopo essere emigrato in America, non dette più notizie di sé - forse non poté - e si persero le sue tracce.
Ida si era sposata e trasferita in un paesino non lontano ed ebbe quattro figli.
Felicita invece si sposò a sedici anni ed ebbe tre figli, ma restò vedova a ventinove.
Il fratello Amedeo non si sposò, e fece da padre ai tre nipoti, prendendosi anche cura della terra e di tutto il resto.
La famiglia d’origine di mia suocera non era certo ricca, ma tutti quanti si diedero da fare aiutandosi l’un l’altro, perché era una famiglia unita dall’affetto e da una comune solidarietà.
A parte i genitori, morti da tempo, io potei conoscere la famiglia di mia suocera e mi levo tanto di cappello quando penso a loro, alla loro dedizione, al loro altruismo. Buon sangue non mente.
Mia suocera andò a scuola, anche se non so per quanto tempo, quindi sapeva leggere e scrivere, ma aiutava soprattutto in casa e durante l’adolescenza andò a lavorare nelle risaie per portare a casa qualche soldo in più.
Mi raccontò lei stessa che una volta vi fu una grande alluvione del Po, e che l’acqua limacciosa aveva coperto il ponte che collegava Crescentino con la strada che conduceva a Cervoto. Era un giorno di festa e lei voleva andare a casa a trovare i suoi, ma la piena del fiume glielo impediva. L’unico modo per attraversarlo era usare una barca, ed ella allora si armò di coraggio ed insieme ad alcuni pescatori si avventurò sopra le acque tumultuose, col pericolo che la barca si rovesciasse trascinandoli tutti sott’acqua, ma per fortuna tutto andò bene e lei poté andarsene a casa. Aveva all’epoca circa dodici anni.
Andò pure a servizio: il lavoro per lei e per i suoi non costituiva certo un problema, ma logicamente comportava molta fatica e molti sacrifici.
Quando Delfina ebbe circa diciott’anni e quel suo quasi cugino acquisito ne ebbe ventidue, si conobbero e si innamorarono. Erano entrambi molto giovani e fu loro consigliato di aspettare un po’, ma Guido - il mio futuro suocero - disse “O Delfina o nessun’altra”.
Ora, io non conosco tutti i particolari, perché li ho appresi un po’ di qui e un po’ di là, ma in linea di massima credo di essere nel giusto: Delfina e Guido si sposarono a Cervoto il 5 gennaio 1907. La sposa, molto carina, dagli occhi scuri e dai capelli ricci e lunghi, vestiva un abito lungo nero di lana e seta, con le maniche a sbuffo al di sopra del gomito e con polsini chiusi da una fila di bottoncini. In testa, un velo nero.
Era infatti d’uso, da quelle parti - che tristezza! - vestire le spose di nero.
Angela e Biagio, coloro che si erano presi cura di Guido fin da ragazzo, possedevano in quel di Robella d’Asti una modesta casetta ed alcuni campi.
Dopo le nozze gli sposini si trasferirono subito in casa di Biagio, dove Angela aveva preparato un bel tacchino per festeggiarli. Sennonché nel pomeriggio si mise a piovere ed essi, insieme a tutti gli altri, dovettero andare nel prato a tagliare il fieno perché non si guastasse - e questa fu la conclusione della loro festa di nozze.
Voglio ora menzionare un fatto, col beneficio del dubbio però, perché mia cognata Elsa che me l’ha riferito non se ne ricorda esattamente il motivo. Il fatto è questo: Guido mio suocero non essendo stato adottato ma solo avuto in affidamento necessitava di un permesso speciale di non so quale ente di Asti per poter consumare il matrimonio con la sua legittima sposa, per cui il mattino seguente al matrimonio Guido dovette andare a farselo rilasciare.
Io non so se il matrimonio fu comunque consumato nella notte, ma ne sono quasi sicura, perché insomma la tentazione era piuttosto forte.
Mi pare un po’ strana, persino inverosimile, tale procedura ma, se era proprio così, ciò dimostra in quanta poca considerazione fossero tenuti questi poveri ragazzi la cui unica colpa era quella di non avere avuto genitori che si prendessero cura di loro.
Mi fa venire in mente gli schiavi di un tempo, proprietà dei loro padroni, in questo caso lo Stato.
Espletate tutte le formalità, i due sposi restarono dunque con Angela e Biagio nella casetta della frazione Balme, nel comune di Robella. Si volevano bene e se si pensa che Guido non aveva mai avuto una famiglia sua, si può meglio capire l’episodio che ora racconterò.
Una volta Angela sorprese Guido mentre accendeva la lucerna ad olio in piena notte. Stupita, gli chiese il perché e lui le rispose: “È per guardarla, è così bella” - riferendosi a sua moglie.
Un uomo povero con tanti problemi, ma con l’anima di un poeta.
All’epoca, nelle campagne le ragazze dovevano saper fare la pasta per il pane, le tagliatelle e così via, ma mia suocera non aveva ancora imparato, per cui quando Angela la pregò di impastare la farina per fare il pane, Delfina si mise a piangere, perché non aveva osato confessarle che non ne era capace, ma Angela fu comprensiva e la rassicurò dicendole che nessuno nasce maestro, tutti devono imparare, e poi le insegnò, e lei imparò molto bene.
Oggi che quasi nessuna donna sa fare una sfoglia per due tagliatelle è quasi impossibile capire come a quei tempi ciò fosse tanto importante da provare vergogna se non lo si sapeva fare. Ma da allora è trascorso un secolo, e in un secolo tutto può cambiare.
Mi viene in mente un altro episodio, di cui non rammento né il dove né il quando. Delfina andò una volta a servizio in una famiglia, e un giorno le ordinarono di pulire per bene un parquet di legno incerato. Lei non aveva mai visto parquet di legno, neppure sapeva che esistessero, per cui si dette da fare con tutta la sua buona volontà, spruzzò ben bene d’acqua il pavimento e poi lo scopò con cura come faceva a casa sua, si può facilmente immaginare con che risultato. Ma per sua fortuna la padrona fu molto comprensiva, capì la sua inesperienza e le spiegò come rimediare.
Questi furono piccoli incidenti, ma mia suocera era molto sensibile ai rimproveri, per cui si dette da fare per imparare bene tutti i lavori. Una volta mi disse che avrebbe anche voluto imparare a fare la maglia e a cucire bene come me, ma che ormai era troppo tardi, era troppo vecchia e ci vedeva poco. Le risposi che il merito non era mio, ma che avevo imparato perché ne avevo avuto la possibilità.
Nel 1908 mise al mondo la sua primogenita Ida, nel 1910 la seconda, Teresa, e nel 1912 la terza, alla quale fu imposto il nome di Angela e che morì a vent'anni di tifo.
Non conosco con precisione l’ordine cronologico delle vicende che seguiranno, i tempi possono pertanto essere sbagliati, ma i fatti sono veri perché mi furono raccontati da mia suocera stessa, da mio marito e da mia cognata Elsa.
Tra il 1908 e il 1912 Delfina, che era una buona nutrice con tanto latte ed aveva bisogno di guadagnare, dette a balia la piccola Angela, affidò le altre due figlie alla buona Angela ed andò lei stessa come balia presso una famiglia di Torino che necessitava di una donna che fosse in grado di allattare la piccola figlioletta, dal momento che la mamma non aveva latte. Mia suocera aveva accettato a malincuore, pensando che per farlo doveva togliere il latte alla bambina sua, ma necessità non vuol legge, ed ella partì alla volta di Torino.
In quella famiglia la trattavano bene, era ben nutrita, e anche dopo lo svezzamento della piccola le chiesero di restare ancora, vista la sua serietà e le cure che aveva dedicato alla bimba. Lei accettò, non so per quanto tempo ancora; ma quel denaro per lei e la sua famiglia era estremamente necessario.
Però la piccola Angela data a balia non era tenuta bene né tenuta pulita, per cui non appena se ne resero conto andarono a prenderla e Delfina tornò a casa.
La vecchia Angela, già vedova da anni, morì nel 1912.
Suo marito Biagio nel 1893 aveva redatto un testamento a favore della moglie, ma col patto che Guido continuasse a stare con lei, la quale a sua volta doveva provvedere a Guido. Ma lei morì senza far testamento, e fu allora che tutte le sue sorelle e i suoi fratelli rinunziarono alla loro piccola parte di eredità a favore di Guido, anche perché egli aveva sposato Delfina, loro nipote legittima. Da parte di tutti fu comunque un atto generoso, infrequente quando si tratta d’interesse.
La nascita di mio marito Albino
Nel 1914 nacque Albino mio marito, il primo e tanto desiderato maschio.
Mio suocero per la felicità si prese una bella sbronza, infatti all’epoca, fra la povera gente, per festeggiare un avvenimento importante, non vi era di meglio che bere qualche bicchiere in più.
Mia suocera, povera donna, credo sia rimasta in casa a cullare il suo piccino, come facevano tutte le mamme del tempo.
Nel maggio 1915 scoppiò la prima guerra mondiale e mio suocero, benché capofamiglia e padre di quattro figli, fu richiamato e dovette partire per il fronte. Gli altri che erano nelle sue condizioni restarono a casa, ma nel caso suo intervenne di nuovo “suo padre lo Stato” per cui come al solito Guido, essendo figlio dello Stato, dovette partire.
Come già ho fatto notare prima, lo Stato non fu certo un buon padre per i suoi figli. Essi venivano mandati a morire per il solo fatto che non avevano genitori che li avrebbero pianti. Ma Guido aveva quattro figli e una moglie.
Voglio proprio sperare che queste leggi siano state abrogate, altrimenti ci sarebbe proprio da piangere di vergogna…
La povera Delfina, ormai sola con i suoi quattro figli, dovette arrabattarsi come meglio poteva, lavorando da mane a sera nei campi e nell’orto, e andando a lavare i piatti nelle trattorie dei dintorni, lasciando alla primogenita di circa sette anni l’incarico di badare ai fratellini. Credo peraltro che la famiglia d’origine le venisse in aiuto fornendole qualche provvista.
Nel paese erano stimati da tutti per l’onestà e la buona volontà, ma tutto finiva lì, perché a chi non ha niente nessuno dà niente, anzi, come diceva mia suocera, non sono i ricchi che aiutano i poveri ma i poveri che aiutano i ricchi. Infatti i ricchi, specialmente i grandi ricchi, lo sono diventati sfruttando i poveri (vedi per esempio la schiavitù), contrariamente a coloro che nella vita sono riusciti a conquistarsi un piccolo posto al sole lavorando duramente, con rinunce, sacrifici ed economie.
Durante una licenza di Guido, mia suocera restò incinta per la quinta volta, e se non erro fu proprio in questa occasione che il medico del paese, che la conosceva ed era al corrente delle sue precarie condizioni economiche, le propose di abortire, dicendole che lui l’avrebbe aiutata in tal senso.
Questo me lo raccontò proprio lei, aggiungendo che rifiutò e che non si era mai pentita di questa decisione. Nel 1916 nacque dunque il figlio Pietro.
Una volta quasi tutte le famiglie mettevano al mondo tanti figli, specie i più poveri, perché non esisteva informazione di sorta e parlarne con la madre o la suocera era tabù e poi non è che queste, io credo, fossero molto più informate.
Molte donne allora abortivano di nascosto e molte morivano di infezione, soprattutto perché lo facevano con l'aiuto di qualche donna del paese senza l'aiuto di un medico.
C'era infatti il fattore religioso; la Chiesa ha sempre condannato l'aborto, e ricordo che il parroco di Robella, quando faceva la predica in chiesa, ammoniva le donne dicendo loro che "ògni ninin, sò cavagnin" ovvero che "ogni bambino nasce con il suo cestino". In realtà i piccoli pargoletti nascono sempre con le mani vuote ma con tanto appetito.
Inoltre, a dir proprio la verità, per quei poveri giovani senza alcuno svago né mezzi per procurarsene, fare l'amore era l'unico modo di evadere dalle difficoltà della vita quotidiana.
Naturalmente però il numero elevato di figli non semplificava certo il loro ménage giornaliero, anzi, si doveva mandarli a lavorare fin da bambini, anche se a quel tempo nessuno ci faceva caso.
Io stessa, pur essendo sola, iniziai a lavorare a 12 anni non ancora compiuti, otto ore al giorno, per imparare a fare la sarta.
Fine della guerra e nascita di Elsa
Finita la guerra, mio suocero per fortuna ritornò a casa sano e salvo e riprese a lavorare, e Albino ricorda che spesso accompagnava il papà nei campi per aiutarlo come poteva. E non solo lui, ma pure tutti gli altri figli aiutavano come potevano.
Essendo tutti quanti volonterosi venivano richiesti da ogni parte quando c'era bisogno, ed essi non rifiutavano mai alcun genere di lavoro, anche se era pesante o sgradito o poco compensato.
Nel 1920 infine nacque l'ultimogenita, Elsa.
Malattia e morte di mio suocero
Mio suocero dopo il conflitto lavorò ancora duramente per circa quattro anni, poi si ammalò di cuore, quindi non poté più lavorare e poco alla volta diventò pure cieco. Restò invalido per 12 anni e morì nel 1934, nel sonno, a 50 anni d'età.
Non so molto di lui, mi fu detto che era un uomo buono, rispettoso, e un infaticabile lavoratore.
Mi sono spesso chiesta se, a parte probabilmente sua moglie, vi sia mai stato qualcuno che si sia interessato veramente di sapere qualcosa di più su di lui, come egli avesse vissuto la sua infanzia in istituto, senza genitori, come fu trattato, che cosa pensava dentro di sé, tutta la sua vicenda insomma, e cosa sentiva verso quella madre e quel padre sconosciuti.
Penso che la sua fosse stata un'infanzia difficile, senza affetto, senza nessuno che si prendesse cura di lui come "individuo". Penso inoltre che l'adolescenza, benché passata insieme a Biagio ed Angela, i quali gli volevano bene, fosse comunque il periodo in cui dovette rendersi più conto di come venissero considerati i ragazzi come lui.
All'epoca vi erano molti pregiudizi in proposito, che forse peraltro vi sono ancora adesso, benché nascosti dietro un'apparenza spregiudicata.
Dai suoi figli non ho appreso di più. Del resto i figli non sono le persone più idonee ed imparziali nei confronti dei genitori, perché di solito hanno la tendenza a cogliere solo i lati negativi dei genitori, o quelli che non concordano con i loro modi d'essere e di vedere.
Pur non avendolo conosciuto, a me quell'uomo ha sempre fatto pena.
La sua vita non fu lunga, morì all'età in cui quasi tutti gli altri sono ancora nel fiore degli anni. Certamente fu felice quando sposò la donna che amava, fu felice di avere finalmente una famiglia tutta sua, ma visse anche tanta povertà, una guerra lunga e dolorosa, un lutto, tanto lavoro ed innumerevoli problemi, e poi tutti quegli anni di immobilità e cecità.
Chi potrebbe mai sapere con certezza quello che lui soffrì allora dentro di sé, rendendosi conto della sua vita ormai inutile, anche se probabilmente nascose tutto sotto un'apparenza rassegnata?
E poi quella pena che dovette sentire continua, perché un abbandono da parte di una madre non si dimentica mai, e poi tutte le domande senza risposta, e la consapevolezza di essere considerato diverso dagli altri, le umiliazioni subite, il tutto celato in fondo al cuore per tutta la vita, e nessuno che questo potesse vedere o sentire, neppure la moglie devota, e tanto meno i suoi figli.
Nonostante tutto, però, egli era sempre il capofamiglia, per cui dovette decidere di comprare un'altra casetta in quanto la sua era diventata pericolante. A questo scopo vendette un campo e si fece fare un prestito, con i relativi interessi.
La vecchia casa fu data in affitto ad un muratore che aveva promesso, anziché di pagare il canone, di rimetterla a nuovo. In effetti la sistemò, ma solo in parte, quel tanto che bastava affinché non crollasse.
Quando suo marito morì, dunque, mia suocera, con i due figli più giovani si ritrovò non solo a dover sbarcare il lunario ma anche a pagare gli interessi della casa.
Le due figlie maggiori erano andate a servizio lontano da casa per poter contribuire con il loro salario alle necessità della famiglia.
Albino era venuto anche lui a lavorare a Torino, e così fecero più tardi anche il fratello e la sorella minori.
Mia suocera, rimasta sola, si trasferì di nuovo nella vecchia casa, badando all'orto, alla vigna; insomma, come sempre, faceva quello che poteva per non pesare sulle spalle dei figli.
Nel 1940 iniziò per l'Italia la seconda guerra mondiale e mio marito dovette andare sotto le armi anche se era stato riconosciuto di 3° grado per cui non avrebbe dovuto fare il militare; ma certe regole non sono valide in tempo di guerra, pertanto partì.
Subito dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, Albino fu rastrellato dai tedeschi e deportato in Germania, dove restò fino alla fine della guerra.
Si può immaginare la pena di quella povera donna di sua madre, specie negli ultimi sei mesi in cui non ebbe più alcuna notizia del figlio. Non sapeva se era vivo o morto, se stava bene e dove si trovava.
Quando poi, finita la guerra, tornò a casa sano e salvo, si può ben capire come lei lo accolse. Ritrovò la serenità, era la fine di un incubo, non solo per lei ma per tutta la famiglia.
Poveretta! Mia suocera nella sua lunga vita non ebbe mai un attimo di pace, di tranquillità, oppressa com'era da tante responsabilità e traversie. Soltanto nei suoi ultimi anni poté vivere un po' tranquilla.
Non poté mai dare ai suoi figli nulla di quanto avrebbe voluto, ed anch'essi furono vittime di quella povertà assoluta, senza svago alcuno, senza poter studiare con tranquillità, perché anche durante il periodo della scuola dovevano andare al pascolo ed aiutare in famiglia come meglio potevano, ed anche fuori casa, per poche lire, perché molti, sapendo del loro grande bisogno di lavorare, ne approfittavano, ben sapendo che non potevano concedersi il lusso di rifiutare.
Le due figlie maggiori si sposarono a Torino prima della seconda guerra mondiale, gli altri tre dopo il conflitto, a poca distanza l'uno dall'altro.
Mi viene in mente che nel 1929 o nel 1930, quando si sposò la figlia Ida, sua madre dové farsi prestare 150 lire onde poterle far fare un guardaroba, cioè un armadio, come dote, secondo l'uso di quei tempi. Un debito che comunque pagò, un po' alla volta.
Qui finisce la prima parte della vita di mia suocera, che parla anche della sua famiglia e di mio suocero. Ho fatto del mio meglio, basandomi su tutte le notizie che ho potuto avere nel corso della mia vita con Albino.
[2002]
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