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DIALOGO SULLE DIFFICOLTÀ DEL CAMMINO SPIRITUALE

Franco Orlandi & Dario Chioli

   

   

Franco Orlandi, 15/11/2007

Ogni tanto rileggo qua e là il suo libro Percorsi nella qabbalà. Una domanda mi sorge insistentemente: come fare a superare o trasformare, non farsi dominare insomma, dalle scorze, le nefaste qelippòth? Mi sono chiesto se è sufficiente avere un intento solido unita ad una preghiera sentita ed espressa con sincerità nel proprio cuore. Le dico questo perché combatto con la mia paura e con le catene della mente (quella che giudica, divide, analizza, imperversa coi suoi soliloqui, che mi fa perdere come in un labirinto) da tanti anni ed ho sempre rivolto alla luce le mie aspirazioni più profonde. Un cammino lentissimo e faticoso di cui non sono tanto soddisfatto.

Forse ci sono pratiche interiori di sostegno nella qabbalà che possano aiutarmi di fronte a questi gusci così pesanti e apparentemente invalicabili?

   

Dario Chioli, 15/11/2007

Il problema che lei pone è indubbiamente d'interesse generale, e naturalmente la soluzione è di grande importanza.

Io direi così: non è possibile liberarsi tutto d'un colpo delle qelippòth, cioè di nevrosi, idee fisse, coazioni a ripetere, piccoli o grandi deserti e aridità. No, non è proprio possibile liberarsene subito, ma non è nemmeno importante.

C'è qui un segreto: non potersene liberare deve indurre compassione per noi stessi, per il caos che ci portiamo appresso, e dalla compassione per noi stessi dobbiamo trarre compassione per gli altri, per il caos che si portano appresso loro.

Non potremo infatti mai procedere come se fossimo soli. Questo è un aspetto che perlopiù si trascura, ma assai a torto. Anche se non si vede nessuno, però in noi è l'umanità tutta che cammina, tutti abbiamo ereditato cose molto simili, e operiamo gli uni sugli altri, sia da vicino che da lontano.

La ricetta che propone lei – intento, preghiera e sincerità – è indubbiamente valida. Aggiunga solo la compassione, l'amore. In realtà suppongo che lei già lo faccia, ma la invito a considerare che è necessario prendere alla lettera il detto secondo cui Dio è amore. In questo caso l'aspetto letterale e quello più segreto sono tutt'uno: contempli il suo proprio amore, ovunque esso si manifesti; lo contempli bene, perché proprio tale amore è Dio. È proprio quella cosa che ci invade, che ci riempie di nostalgia e aspirazioni, ad essere Dio. Dio non è lontano: è presente come amore e come compassione. Tutto il resto viene dopo. Naturalmente amore e compassione non devono essere per noi solo parole o pensieri, ma atteggiamenti che si concretano nella esperienza pratica.

C'è anche un'altra cosa importantissima: come si vede nell'amore, in realtà Dio non è benessere. È assai di più, ma la sua ricerca genera spesso sofferenza. Un errore funesto ma frequentissimo è quello di confondere l'esperienza religiosa con uno stato di rilassamento. Non c'è nulla di più parziale: l'esperienza del divino spesso agita, opprime, fa combattere.

È importante creare in sé un luogo sacro, a cui ogni tanto si possa accedere, ma non pretenda di legarlo troppo a certe forme. Conscio che Dio parla tutte le lingue e altre ancora non inventate, ci vada ogni volta che si sente disincantato dal mondo, con qualunque veste si ritrovi ad indossare in quel momento.

Ecco: il disincanto del mondo ci può condurre all'incanto di Dio.

Che lei non sia soddisfatto poi è normale; e chi può esserlo, dei poveri mortali?

Di pratiche specifiche trovo utile la preghiera, soprattutto quella che blocca le parole prima che nascano, perché troppo pesanti, e lo studio dei sacri testi quando se ne ha voglia. Ma soprattutto è utile avere quel posto sacro in sé; tutto il resto è secondario. Ci vuole la dimora di Dio in sé.

Quando non funzionano né la preghiera né lo studio, allora ci si può ritrarre in sé come le tartarughe, a cercare Dio nel vuoto e nel deserto interiore. E si tenga presente che Dio non ci condanna mai, nonostante tutto. Siamo noi a condannarci e a dannarci, per il nostro sguardo limitato. Non si abbia dunque paura mai di Dio, se si tratta di andare a Lui; si dovrebbe averne invece ad allontanarsene... Dirigersi a Lui, comunque sia, è sempre meglio che fuggirne.

Nella qabbalà troverà molte cose, non tutte adatte a tutti; così pure nel sufismo, o nel tantra; così pure nell'ascetica cristiana. Ma le forme tradizionali sono mezzi, talvolta isole di riposo. Quello che cammina dev'essere lei.

Il segreto è essere nel passo che si fa. Quello già fatto è svanito, quello che verrà non è ancora. Nel passo che si sta facendo viene articolato uno degli infiniti nomi di Dio.

Se lo si pronuncia bene, si cammina nel mondo della verità. Se lo si pronuncia male, ci si inoltra tra i fantasmi qelippotici.

Non c'è problema a capire: qelippòth sono quasi tutte le cose che ci vengono proposte, mentre il Nome di Dio è articolato dal cuore. Se il cuore non parla, il passo non è reale. Se parla, non si pone il problema.

Ma se poi niente parla? se nulla ci consola? se tutto ci pesa?

Ebbene, anche questo è un Nome di Dio, forse terribile, forse duro, ma è il Nome che distrugge le qelippòth delle nostre false concezioni di Dio. Accettiamolo e facciamo qualcosa di utile nel mentre che opera. Quando avrà operato, subentrerà qualcosa di meno terribile, o forse a questa terribilità ci saremo abituati, avremo identificato l'amore abissale che c'è sotto, la potenza del Nulla che la abita (`Ayin, Nulla, è uno dei Nomi).

Si potrebbe dire chissà quanto, chissà se utilmente. Spero che quanto ho qui detto le serva a qualcosa, altrimenti compatisca i miei limiti.

   

Franco Orlandi, 22/11/2007

La ringrazio ancora del consiglio che mi ha dato: considerare la compassione e l'amore nella mia vita. Della prima posso dire che riesco a viverla, a sentirla; non così del secondo, l'amore.

Mi è difficile intendere cosa sia l'amore e tanto meno l'amore di Dio. Non glielo so dire; non riesco quindi a contemplarlo.

Le dico che vivo una condizione di indigenza interiore, paradossale; ho nostalgia per qualcosa che non so definire; sono meravigliato, spesso in modo angosciato, di trovarmi in questa rappresentazione che è la vita. Mi cattura l'ansia di libertà, viva e intensa. Sono commosso, talora, di sentire dentro di me tutto quello che sento, di vedere tutto quello che vedo.

Faccio a pugni dentro di me, perché ho molta paura dell'«altra parte» che è in Dio, che è Dio e che in modo così spaventoso, efferato, prepotente si manifesta intorno a noi. Quanta sofferenza, quanta disperazione!

Avverto questa paura, dentro alle cellule del mio corpo, pulsare e deprimermi. Ciò mi spaventa, e così la ricerca dell'amore di Dio si indebolisce quasi fino a sparire di fronte al mio sentire e al mio intelletto.

L'amore di Dio mi è difficile comprenderlo, a meno che non mi avvicini a Lui pensando che stia compiendo attraverso me, con me, nella carne, la propria alchimia.

L'amore di Dio è quell'attenzione, quella consapevolezza di sé, per compiere il sacrificio di autopurificazione dell'«altra parte» nella luce, in sé e per sé?

«Dio è l'offrire, Dio è l'offerta, offerta a Dio nel fuoco di Dio. In Dio solo sarà assorbito chi si immerge nell'azione di Dio».

Questo mantra indù da anni risuona nelle mie membra. In questo senso posso ancora intendere l'amore come accettazione incondizionata della parte oscura, pazienza massima e trasformazione nella luce. È questo l'amore?

Ma cosa è successo in seno a Dio stesso ? Le confesso che il capitolo più difficile nei suoi Percorsi è stato quello su “L'origine del mondo e le qelippòth". Ma forse non c'è nulla da capire perché la cosa improrogabile da svolgere è l'azione; azione esteriore, sì, ma soprattutto interiore, per uscire da questo marasma oscuro. Ma anche per questa azione io decido ben poco nei modi e nei tempi!

Un altro problema è intendere la voce del cuore come Nome articolato di Dio, perché, immagino, bisogna lasciare a casa la mente ed i suoi ragionamenti. Questa cosa per me è faticosissima perché ancora prima di qualunque sentire e intendere la voce del cuore, la mente ha già emesso sentenza e scrutato nei labirinti delle possibilità. Una grande qelippà per me!

Da anni cerco di stare nel passo che si fa, come mi suggerisce; aderire a questa realtà, nella corporeità, in cui ci sono tutti i sensi di Dio. Questo è proprio un segreto da tener presente come dice lei. E non è affatto semplice.

La Speranza: poter dire con Kabir:

«Pur vivendo in schiavitù, mi sono liberato…
Ho raggiunto l'Irraggiungibile e il colore dell'amore illumina il mio cuore».

   

Dario Chioli, 25/11/2007

Lei dice che riesce a vivere e sentire la compassione ma non l'amore. Ora, intanto la compassione, se vera e non forzata, è già un bel traguardo, che sfugge ai più. Se, consci della nostra povertà, compatiamo l'altrui, è già molto. Si potrebbe dire che la compassione verso gli altri richiama a sua volta compassione verso di noi. La cosa è evidentissima dalle sue parole, infatti questa compassione di ritorno che le perviene lei la descrive: come nostalgia, come ansia di libertà, come commozione.

È molto semplice, è quella la strada corretta. Lei deve soffrire aggrappandosi a questa nostalgia, perché è questa l'occasione che le viene offerta.

Una fiaba orientale narra di un principe che s'innamora di una principessa al solo vederne il ritratto. Non l'ha mai vista di persona, ma parte per il mondo alla sua ricerca. Nessuno gli garantisce nulla, nessuno ne sa niente, ma lui non può fare diversamente. Ecco, la strada verso l'amore è così: nessuno ne sa niente salvo quelli che la percorrono, che non sempre però hanno volontà o modo di parlarne ai loro consimili.

In realtà non è né necessario né utile che lei abbia una chiara idea di Dio.

In primo luogo perché non è possibile, in quanto Dio eccede di gran lunga le capacità della nostra mente e della nostra emozione; in secondo luogo perché può essere, e perlopiù è, assai fuorviante, in quanto ci si leghi a una formula e si rinunci alla cosa paghi delle parole

Sono dell'opinione che molti di coloro che amano Dio neppure lo sappiano. Insisterò infatti senza tregua nell'asserire l'identità tra Dio e amore, ma non nel senso che l'amore sia come una strada verso Dio, no: è proprio l'amore in sé ad essere l'automanifestazione di Dio. Amando, siamo immersi in Lui. Ora, è certo difficile amare, ma ci si arriva per la strada, a lei ben nota, della nostalgia e della compassione.

Inoltre fatico a credere che lei non abbia amato mai nessuno, avrà amato sua madre, suo padre, qualche amico o parente, anche se magari tutto ciò appartiene al passato. Fatico anche a credere che si possa avere compassione e nostalgia senza amore. Forse lei vuole afferrare l'amore, mentre l'amore è sfuggente; vuole identificarlo a qualcosa, mentre l'amore è infinito; vuole chiuderlo in sé, mentre l'amore non ha limiti.

E qui c'è il punto delle qelippòth, ovvero dei gusci, dei blocchi etico-emotivi.

Cos'è che ci fa vittime di una qelippà? La chiusura, la paura di uscire. Quindi: il voler costringere in una gabbia l'amore.

Le qelippòth non vanno affrontate direttamente; sono costituite dagli eccessi e dagli errori nella gestione della nostra luce. Chiudere la luce in un luogo della nostra mente invece che seguirla ovunque voglia portarci: così si trasforma la luce in ricordo di luce, in ombra di luce, in abitudine verbale, in nessuna luce...

Quanto alla paura, ebbene non c'è paura più forte di quella della morte. Ed ogni paura ha la stessa causa: l'ignoranza dei fini. Identificarsi col solo corpo porta a respingere come la peggior iattura qualunque cosa abbia a che vedere con una sua messa da parte.

Sono solo quella nostalgia e quella compassione che lei descrive che possono portare oltre. La paura bisogna sopportarla, magari guardarla in faccia, come un parente seccante: spesse volte così facendo sparisce.

Ma non è questa la cosa veramente importante: la cosa veramente importante è farsi guidare dalla propria nobiltà interiore (la nostalgia) ai fini di riconoscere e ricostituire piano piano il regno alternativo della propria libertà, che è tutt'uno con l'amore ovvero con Dio. Però, come ci apprendono le fiabe della nostra infanzia, il viaggio è lungo e periglioso. Per chi si mantiene fedele alla propria intima nobiltà, ad onta dei propri difetti e delle proprie occasionali volgarità, la strada è sicura. Per chi tale nobiltà abbandona o si perde d'animo in quanto l'ha barattata con vantaggi meschini, la strada è invece alquanto ingannevole, può trasformarsi in un vicolo cieco. Tuttavia tutto può sempre essere reindirizzato, questo è il senso tradizionale del pentimento.

Lei chiede cos'è successo in seno a Dio stesso. Si chieda dunque cos'è successo in seno al suo stesso amore. A quanti fantasmi l'ha donato, o perché così l'hanno condizionata o perché così ha scelto lei. Si chieda quanti castelli in aria ha costruito, e quanti dolori e richieste altrui ha trascurato. Dopodiché, dopo essersi impietosamente analizzato, riconosca quel che è, ma non ci si leghi affatto, perché, come dire, sapere è già partire...

Quanto al Nome di Dio, è chiaro che articolarlo non è pronunciare una parola. Il senso dei Nomi divini è di portare al Regno di cui sono indici: il suo Nome divino lei lo pronuncia dunque ogniqualvolta sente quella nostalgia, quella compassione. Non si faccia ingannare dai formalismi e dai rituali: la preghiera del cuore non è quasi mai pronunciata con la bocca, attiene al quarto stato della parola, direbbero gli indù, quello informale. Dev'essere tutto l'essere che prega, e questo accade sia nella nostalgia che nella compassione.

Riguardo alle preghiere formulate, il mantra indù che lei cita (che non conoscevo) è perfetto. Evoca una visione non mentale, di grande potenza, di fronte a cui le qelippòth non hanno consistenza. Ogniqualvolta se ne possa fare uso in modo non abitudinario, senza sforzo, sarà utile. La bellissima frase di Kabir (non conoscevo neppure questa) è una luce splendente: «pur vivendo in schiavitù, mi sono liberato». Cosa potrebbe meglio descrivere il nostro stato? Ecco, tutto quanto ci è noto, mentalmente e psicologicamente, costituisce la nostra schiavitù; e solo l'Ignoto, il fulgido splendente Ignoto che traluce sotto la nostra nostalgia costituisce la nostra libertà.

   

Franco Orlandi, 19/12/2007

Ho letto L'ascesa al monte dei melograni. Il Cantico spirituale di san Juan l'ho trovato difficile per il ricco simbolismo e per i riferimenti ai vari gradini che l'anima percorre nel suo avvicinamento al divino. L'ho scoperto più arduo e complesso del Cantico dei Cantici di cui ho finalmente trovato la versione di Ceronetti.

In questa poesia riesco a vedere, a percepire il significato più profondo dietro la "tensione" degli sposi. Tuttavia alcuni passi, come quelli, arditi,del capitolo quinto

«il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio e un fremito mi ha sconvolta. Mi sono alzata per aprire al mio diletto e le mie mani stillavano mirra, fluiva mirra dalle mie dita sulla maniglia del chiavistello»

faccio difficoltà ad interpretarli sul piano spirituale; così le chiedo un breve commento, e così pure del versetto iniziale:

«Mi baci con i baci della sua bocca»

A chi si rivolge la sposa? In Ceronetti è risolto in modo più comprensibile (con «tua»). Avverto che la mia mente è devastante di fronte al cuore che vorrebbe respirare senza troppa analiticità ed in pienezza l'atmosfera spirituale del Cantico.

Comunque trovo singolare che il Cantico sia definito santissimo da rabbì Aqivà e che la Chiesa l'abbia trascurato tanto. Si può dire che si sia perso tutto l'insegnamento di questa poesia? È così anche nel mondo ebraico ?

Un’ultima domanda: può dirmi qualcosa del concetto del karmayoga? Su retta azione e non-azione le confesso che da tanto tempo cerco una visione più chiara.

   

Dario Chioli, 20/12/2007

Quanto al Cantico spirituale, debbo dirle che credo che l'interpretazione simbologica, risalente a san Juan stesso, sia in realtà una elaborazione in gran parte successiva. Sono abbastanza convinto che san Juan scrivesse il suo Cantico di getto, come sempre accade in poesia, usando sì simboli, ma in quanto la poesia usa i simboli, sempre, anche quando nessuno li spiega.

Successivamente il teologo mistico seppe identificare altri livelli della parola e ci diede capolavori di analisi teosofica.

Nessun dubbio che il Cantico dei Cantici stia un bel gradino più su. Non per svilire san Juan, che è probabilmente il più grande poeta cristiano, ma Shir ha-Shirim è un'altra cosa, è un testo sacro.

L'esplicita sensualità di certi suoi passi è stata velata sia dagli ebrei che, più ancora, dai cristiani. Il perché suppongo sia da ricercare nella moralità un po' bigotta e ipocrita che sempre finisce per sostituire la libertà delle origini. Non c'è infatti ragione per svilire il sesso, né c'è per togliergli la valenza simbolica. Se l'uomo vive il sesso meschinamente, non è colpa del sesso, ma dell'uomo decadente. Inoltre il simbolo non è un'allegoria: è un'identità a cui si accede da due livelli.

Pertanto io non separerei la dimensione spirituale da quella erotica, ma anzi ne cercherei l'identità: se lo spirito è raffinato e la sessualità anche, infine possono coincidere. Ma il discorso qui si fa spinoso, e so che la maggior parte degli interpreti arriccerebbe il naso.

A me la cosa, vista per esempio attraverso la prospettiva tantrica, sembra chiara. Il disaccordo c'è dove le cose vengono prese per scontate; non c'è dove se ne vive il novum. Niente di più simile all'aspirazione mistica dell'innamoramento. Ma se l'innamoramento non è proprio quello, e se la tensione mistica non è proprio quella, allora le due cose fanno attrito.

Cos'è che manca nell'innamoramento? Manca la consuetudine, tutto è una scoperta, ogni cosa è necessaria. L'innamorato non riflette sulle sue emozioni, perché ne è integralmente preso.

Quanto al secondo versetto del Cantico dei Cantici, è vero che la traduzione di Ceronetti è più comprensibile, solo che non è letterale. In realtà c'è proprio scritto prima «sua bocca» e poi «tuoi amori».

1 shîr hashshîrîm asher lishelomoh
2 yishshaqenî minneshîqôth pîhû kî-
tôvîm dodêkha miyyayîn

1 Cantico dei Cantici di Salomone:
2 Mi baci dei baci della sua bocca perché eccellenti [sono] i tuoi amori più del vino

Così traducono i Settanta, la Vulgata, Lutero, Ricciotti, Gianfranco Nolli, la Riveduta, Aldo Luzzatto. Insomma tutti tranne Ceronetti.

Cosa dunque può voler dire? Bella domanda. O si pensa, come qualcuno ha fatto, a una specie di teatro, dove parlano due persone diverse, oppure chi parla parla di due persone diverse. Ovvero chi parla prima parla come fantasticando e poi si rivolge direttamente al suo amante (forse è l'interpretazione meno forzata, l'amante è sia terreno che divino, come tutti gli amanti veri del resto).

Al momento comunque non mi è chiaro affatto (io del resto non sono un ebraista, ma uno che s'arrangia).

Quanto al karmayoga, direi che il senso ne è ben espresso nella Bhagavadgîtâ: bisogna operare per conformità alla propria natura, non per speranza di riuscita. C'è nel fare stesso che consegua a una imperiosa necessità un elemento di trasformazione potente. Non c'è del resto gran differenza tra azione e inazione: anche stando fermi si opera. Anche la stasi è azione, che può essere retta o non retta. Retto o non retto, si può dire solo a seconda che lo spirito domini e l'azione consegua all'impulso di verità, oppure no.

Giorno per giorno, momento per momento, la strada viene costruita e ricostruita. Mai una strada di passato, mai di futuro. Sempre una strada di presente.

La vita realmente spirituale non ha più diadi; il combattimento, l'opposizione, sono propri di chi cerca.

Non so se sono stato chiaro. Ne dubito. Per il Cantico ci penserò ancora, ma è ben oscuro. Se non hanno chiarito né i Settanta né san Girolamo, è improbabile che ci riesca io...

   

Franco Orlandi, 21/12/2007

Sull'interpretazione dei passi del capitolo quinto del Cantico, sono in piena e completa sintonia con la sua veduta. Il nostro continuo distinguere e separare i piani è una malattia da cui è difficile guarire. Per quanto riguarda il karmayoga è stato molto chiaro. Il problema è restituire l'azione allo Spirito in modo che sia Lui ad agire; in questo senso il mio intento continua...

   

 

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