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CHE FARE? RAGIONAMENTI SUL SENTIERO E SULLA MORTE
Franco Landriscina & Dario Chioli
Franco Landriscina, 12/10/2009
In questo momento, io mi sto ponendo un po' affannosamente il problema che fu già di Lenin, quando intitolò un suo libretto Che fare?
Questa settimana, ad esempio, vado a vedere una scuola di Qigong.
Però è difficile trovare il giusto mezzo fra tecnica e spiritualità, tu pratichi qualche forma di meditazione e/o fai parte di qualche gruppo?
Dario Chioli, 12/10/2009
Capisco bene il problema sotteso alla domanda «Che fare?»
La risposta naturalmente dipende dalla propria storia personale.
La mia storia parte dall'ispirazione poetica e attraversa lo studio di molte tradizioni. Tutto ciò che ho fatto però l'ho fatto per conto mio, aprendomi al Cielo, o tramite persone e situazioni che potrei definire upaguru cioè guru occasionali inconsapevoli. Ho frequentato gente che apparteneva a questa o quella scuola, specialmente ai gruppi di Gurdjieff, ma non ho mai aderito a niente. La mia opinione sui gruppi – suscettibile di modificarsi in presenza di prove contrarie – è che in genere valgono solo come rassicurazione sociale o raccolta di informazioni.
Ho amici che praticano o hanno praticato o anche insegnano discipline orientali, ho avuto contatti con gente che si occupa di alchimia, molti hanno praticato yoga, molti che conosco meditano col vipassana o altre forme meditative. In realtà però attualmente io frequento pochissime persone, non per scelta ma perché constato che quasi nessuno è interessato alla ricerca per se stessa, per quasi tutti coloro che si danno a qualche pratica questa è una forma di socializzazione o di rassicurazione. Vorrebbero vivere in eterno come sono adesso, hanno paura di ogni trasformazione. I peggiori sono spesso proprio gli esoteristi, che spacciano il proprio tradizionalismo per un valore, mentre non è che attaccamento al proprio organismo psicosomatico e al proprio ambiente sociale.
Uno deve guardare la morte in faccia, e rapportarsi a questo, e trarre da questo l'equilibrio e la pace interiore. Se invece vuole rapportarsi al proprio benessere, o alla propria tranquillità psichica, è destinato all'insuccesso. O accetta la propria impermanenza, o è impermanente. Solo il danzatore del vuoto suona il tamburo, gli altri son mossi dal vento e vagano qua e là...
Mi pare che appena si procede di un passo sul sentiero della raffinazione del gusto spirituale, il panorama umano si diradi enormemente, e poco più in là non ci sia quasi più nessuno: questo è quel che mi pare di vedere, non posso farci niente, ma il cammino però procede.
Questo tuttavia è anche origine di un profondo senso di libertà.
Dovendo descrivere la mia via, potrei forse definirla una sorta di jñânayoga, o di qabbalà, o di sufismo. Al di là della forma verbale, ognuna di queste visioni del mondo unisce la mente al vuoto, dilata lo spazio tra i pensieri e vi trova ciò che la gente ordinaria non sa vedere. Tutto ciò ha una corrispondenza pratica nota in tutte le vie: la conoscenza è legata a filo doppio all'unicità dell'intento. Non si perseguono due vie, non si adorano Dio e Mammona, l'amante segreta non è compatibile con un'altra amante segreta.
Alla fine tutto si riversa in un canto, ma la voce deve seguire il pensiero, e il pensiero deve aderire al segreto con tutto se stesso.
Franco Landriscina, 13/10/2009
Sono molto colpito dalla somiglianza fra le tue opinioni e le mie sul tema dei gruppi e delle persone e mi rispecchio molto nelle tue parole. Anch'io ho conosciuto tante persone che mi hanno dato qualcosa, ma poi ad un certo punto mi sono ritrovato da solo, anche perché mi sono trovato in momenti difficili e ho verificato che in quei momenti tutte le grandi amicizie "mistico-spirituali" svaniscono come neve al sole.
Anch'io credo che la morte sia uno snodo importante della propria comprensione del mondo; spero che sia come quelle maestre severe che avevamo a scuola, che alla fine dell'anno si rivelavano fondamentalmente buone e improvvisamente capivi quanto avevano fatto per te, e di come le tue paure fossero ingiustificate. Del resto le antiche religioni si occupavano primariamente di questo argomento, che oggi sembra invece passato in secondo piano rispetto ad un non meglio precisato bisogno di "benessere spirituale".
Mi sembra che sul tema della morte si possano storicamente distinguere due approcci: nel primo il modello da seguire è quello dell'eroe che superando prove di varia natura conquista l'immortalità. È questo l'approccio dei miti greci o babilonesi, dove alle altre anime, che non sono eroi, non rimane che una vita da ombre nell'Ade o magari nulla. In tempi a noi più recenti, penso a Evola o Gurdijeff. Nel secondo approccio, il modello è quello del santo o mistico, che deve semplicemente (si fa per dire) lasciare andare tutti gli attaccamenti terreni e accettare il ritorno alla Sorgente del suo essere. È questo tipico del cristianesimo, con l'aggiunta che da un certo momento in poi anche le persone comuni possono sperare in una buona sorte post-terrena attraverso la fede. L'atteggiamento diventa qui quello di un bambino che si lascia con piena fiducia scivolare nelle braccia della madre Terra, a sua volta intermediaria verso il Cielo. Fra l'altro, anche tutti coloro che hanno lavorato su un uso spirituale, non solo sciamanico, degli psichedelici, hanno insistito su questo aspetto del lettin' go come fattore determinante dell'esito dell'esperienza. Magari, quando puoi, mi piacerebbe un tuo commento riguardo questi due approcci al post-mortem (ad esempio, se nel primo caso quello che si ricerca sia la trascendenza o un prolungamento di una forma egoica su altri piani).
Dario Chioli, 15/10/2009
Volendo provare a risponderti sull'atteggiamento verso la morte, partirei dalla considerazione che l'essere umano si atteggia in questo o quel modo a seconda della sua storia personale e di quali ritiene essere i propri fini. Io auspico e propendo a credere che tali fini immaginati non corrispondano mai alla realtà.
Cito da una mia nota sulla reincarnazione dell'ultimo libro che ho curato: *
Ma forse più di tutti fu chiaro il Socrate di Platone quando nel Fedone (114d), dopo aver esposto i destini ultraterreni dell'anima commentava: «Vero è che il sostenere che le cose vadano propriamente come io ho esposto, non si conviene a uomo savio; ma che o questo o alcuna cosa simile abbia a essere delle nostre anime e delle abitazioni loro, ciò, da poi ch'è chiaro l'anima essere immortale, mi par bene che si convenga; e mette conto arrischiarsi a crederlo, perché bello è il rischio; e da altra parte bisogna con queste credenze che noi quasi facciamo l'incantagione a noi medesimi, per istare tranquilli. Ecco perché è un pezzo ora che tiro in lungo questa favola» (trad. di Francesco Acri). Ci dice dunque Socrate che non sempre si crede il vero, ma talvolta l'utile, quando la favola sostituisce il vero laddove la nostra ragione al vero non può arrivare. E lo sostituisce in modo tale che incanta la nostra mente e la conduce, per sempre maggior raffinamento, fino alla capacità di comprendere. Il mito cioè assorbe in sé le facoltà dell'anima e contribuisce ad espanderle fin dove la mente ordinaria non può giungere; è pertanto vero non tanto astrattamente (se mai esista una verità astratta) quanto pragmaticamente, nella misura in cui per suo mezzo la facoltà di percepire il vero s'intensifica. **
Ne dedurrei in ultima analisi che l'atteggiamento "eroico" può scaturire da due situazioni: o dall'uomo che compensa le proprie frustrazioni con la fantasia, o da chi davvero sperimenti le difficoltà della comprensione sulla via del conoscere. Per il primo, non c'è nulla da dire, è solo teatro di adolescenti; per il secondo, può ben darsi che gli serva proprio l'intima sensazione della solitudine eroica per procedere. Tutto ciò comunque non può comunicargli nulla di reale sul sentiero degli altri.
È possibile che il destino ultraterreno possa essere modificato col modo di vivere e con la fatica di migliorarsi e di vedersi come si è; ma non è credibile che un uomo più o meno comune distingua con precisione il destino ultraterreno degli altri esseri. Dubito poi che lo possa chiunque altro; a me pare che gli esseri tutti siano talmente complessi da non essere credibile una loro completa conoscenza (è facile dire ego, ma penetrarne la natura senza semplicismi è ben difficile). Ognuno per se stesso affronta prove infinite, e la sua vita è la massima prova sopportabile. È dal teatro autoreferenziale di ciascuno che viene l'impressione che questa o quella via sia più nobile delle altre. In realtà ogni essere è probabilmente un segreto irripetibile, una manifestazione unica.
Quanto al lasciare tutti gli attaccamenti, è più facile a dirsi che a farsi. Credo anzi che chi vi riuscisse del tutto morirebbe subito, perché gli attaccamenti fanno tutt'uno coi suoi meccanismi vitali. Tendo a credere perciò che anche in questo caso si tratti di belle ambientazioni immaginative che da un lato possono corrispondere ad un vero percorso di liberazione (il saggio si libera dalle schiavitù, come si libera l'eroe dai nemici), ma d'altro canto possono corrispondere al desiderio di crearsi una sorta di ambientazione permanente nel seno stesso dell'impermanenza della propria vita, tentativo questo ovviamente destinato al fallimento.
Insomma, pare che pochi o punto sopportino di andare verso l'ignoto, e perciò costruiscano castelli in aria. A me consta che ogni passo nell'ignoto sia incommensurabilmente più denso di ciò che si è potuto mai immaginare, ma probabilmente dell'immaginare non si può fare a meno. Giova forse rendersi conto che l'immaginato cela in sé l'immaginale, come il corpo cela l'anima, come la cosa il simbolo. Che nulla è reale quando ferma il processo, ma che tutto può venire utile sul cammino se lo si usa e poi abbandona al momento giusto.
Quel che, a mo' di mito socratico, può forse affermarsi, è che il gusto va raffinato, che l'esperienza va intensificata, che l'amore va raccolto e coltivato. Tutto ciò ha come effetto (non ne è la causa) di divenire più buoni, perché il male è sofferenza e non essere, dispersione e superficialità.
Vale poi sempre l'invito castanediano: la morte come consigliera. O come disse Tagore (citato da Shrî Anirvân secondo Lizelle Reymond):
Se durante la vita la morte è cara al mio cuore,
la morte mi darà vita eterna... ***
* Swâmî Vivekânanda, Gli Aforismi sullo Yoga di Patañjali. Traduzione, note introduttive e note al testo di Dario Chioli, Libreria Editrice Psiche, Torino, 2009.
** Platone, Il Fedone ovvero della immortalità dell’anima, traduzione di Francesco Acri, introduzione e note di Enza Carrara, La Nuova Italia, Firenze, 1945.
*** Lizelle Reymond, La vie vie dans la vie. Pratique de la philosophie du sâmkhya d’après l’enseignement de Shrî Anirvân, 1969, trad. it. di Roberta Cervetti e Enio Del Negro: La Vita nella vita. Pratica della filosofia del sâmkhya secondo l'insegnamento di Shrî Anirvân, Libreria Editrice Psiche, Torino, 2009.
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